Tamaro: «Perché ho rinunciato a entrare in politica»

Una fiaba ai tempi di Instagram. Una grande allegoria con riferimenti religiosi nell’èra dei social network e della connessione h 24. S’intitola La tigre e l’acrobata (La Nave di Teseo, pagine 184, euro 16) il ventitreesimo libro di Susanna Tamaro. Una chiacchierata con lei, sul libro e non solo, aiuta a rimettere in ordine le gerarchie. Soprattutto, a rimettere al centro la persona, con le sue domande.

Perché una favola? C’è bisogno di trovare nuovi modi per comunicare attraversando il frastuono dei media?

«Sì, certo. Amo il linguaggio della fiaba fin da ragazza. È il linguaggio dei bambini e i racconti fiabeschi sono le scarpe con cui ho camminato a lungo. Oggi sento il bisogno di provare a riempire le parole vuote delle tante narrazioni da cui siamo circondati. Anche le fiction rischiano di impoverire le parole della letteratura. La fiaba è un genere classico, che usa gli archetipi dell’inconscio e permette di andare oltre la narrazione mondana».

È soddisfatta del risultato?

«Molto. È stato il libro più difficile da scrivere. Un libro complicato, che mi ha richiesto due anni di lavoro. In ventitrè libri questa è stata l’unica volta in cui mi sono interrotta non per qualche giorno. Per nove mesi sono stata senza scrivere, col libro aperto. Finché l’ho ripreso… Spero si legga d’un fiato».

Assolutamente, è una favola per adulti.

«Dai 14 ai 100 anni. Ha tanti lettori preadolescenti e anche più stagionati perché ha molti livelli di comprensione: ognuno percepisce il proprio».

La tigre è Susanna Tamaro?

«Lo ammetto, c’è molta autobiografia. Due anni fa quando tenevo una rubrica di aneddoti e racconti su Avvenire mi veniva spesso in mente l’immagine di una tigre. Finché ho deciso di metterla da parte, pensando che avrebbe potuto scaturirne qualcosa di nuovo. È un animale pregnante. C’è anche una poesia di Thomas Stearns Eliot – Gerontion – che parla di Cristo come tigre».

C’è anche un film di Benigni intitolato La tigre e la neve.

«È vero, me n’ero dimenticata. Anche quella è una specie di favola… Di recente avevo letto un libro di John Vaillant intitolato proprio La tigre (Einaudi), un reportage in Siberia».

I sentimenti dominanti nella prima parte della storia sono l’innocenza e un senso di estraneità al mondo. Anche qui molta autobiografia?

«Certo, la tigre vive un’incapacità a essere tigre fino in fondo. Fin da bambina mi sono sempre sentita estranea a ciò che avevo intorno. Guardavo le cose da fuori, m’interrogavo sul senso delle azioni. Come tante persone sensibili, massimamente gli artisti, mi ponevo le domande fondanti sull’esistenza. Questo atteggiamento può creare una distanza da ciò che ti circonda».

È un’estraneità anche nei confronti della società contemporanea?

«Mi sento molto fuori da questo tempo. Non riesco a capire, a seguire, c’è una velocità che rende difficili le cose. Credo che gran parte della mia generazione provi questa sensazione. Siamo nati quando non c’era ancora la tv nelle case. Ora è tutto veloce, anche un po’ fuori controllo».

Che rapporto ha con la tecnologia? È tutto oro quello che si connette?

«La tecnologia porta un mare di vantaggi in tutti i campi, chi può negarlo. Però ci vuole molta consapevolezza. Io non sono appassionata di elettronica, ma il tablet è una bacchetta magica moderna. A me piacciono gli animali: con il tablet la camera si riempie di giraffe, cammelli… Una tentazione e una distrazione irrefrenabili. Però la sera cominci a navigare e vai a letto nervosa, con un senso di vuoto perché ti sembra di non aver fatto niente. Serve un’autodisciplina, di tempo e di scopo. Usare la tecnologia per obiettivi precisi. Per i bambini il discorso è ancora più delicato».

Sono più indifesi.

«I bambini vanno protetti perché il cervello umano è una cosa plastica, che procede per fasi. Ogni funzione ha un tempo di apprendimento. C’è un’età in cui il bambino impara a parlare, poi a camminare, a leggere… Se lo riempi di nozioni e atti non necessari in quel momento, puoi ritardare l’apprendimento della funzione per cui è predisposto. Se gli insegni che con un click risolve il problema, azzeri il suo cervello, non lo alleni, non favorisci la creatività ».

Anche la frase «tra la libertà e il potere ho scelto la libertà» sembra aver a che fare con lei.

«È il motto della mia vita. Negli anni del grande successo avrei potuto fare qualsiasi cosa. Una volta una giornalista mi disse: “Finalmente ha raggiunto quello che tutti desiderano”. “Cioè?”, chiesi io. “Andare a cena con tutti i politici”. Giuro che non mi è mai venuto in mente nemmeno come desiderio; semmai come incubo».

Una scelta di potere quale sarebbe stata?

«Varie cose, oltre alla politica. Accettare contratti editoriali con molti zeri, programmi televisivi, entrare nel giro dei premi e dei circoli letterari».

Se n’è tenuta a debita distanza scegliendo di vivere in Umbria. Anche la tigre del libro non vede l’ora di evadere dal circo.

«Nel circo le tigri anziane le dicono: alla lunga ti adatterai, ti piacerà stare qui, ti piacerà il successo. Il circo è la metafora di un mondo con il quale ognuno deve fare i conti. Per lavoro, per sopravvivere, per convivenza civile. Situazioni nelle quali prevalgono quasi sempre logiche di potere. La vita mondana non fa per me. Uno scrittore deve lavorare molto, stare in solitudine, studiare. Ha tempi lenti che confliggono con quelli della modernità».

Anche la metropoli non fa per lei?

«A proposito di fiabe, c’è quella famosa di Esopo. Quando vado a Roma, mi sento come il topo di campagna che va in città e si trova sempre in affanno. Non ho più i riflessi adatti… E poi la campagna è una miniera per la scrittura che ha bisogno di immagini e metafore».

Lei è pessimista a riguardo della natura umana? Nel libro gli uomini non fanno una bella figura.

«Mediamente non la fanno. La natura umana è sempre stata terrificante. Adesso vediamo e ascoltiamo di più, ma questo ci fa sentire ancora più terrificanti. La post modernità ha demolito le basi della natura umana».

In che senso?

«Nel senso che si ritiene che solo il nostro desiderio ci crei e ci definisca».

Si riferisce alla teoria gender, in base alla quale la persona può stabilire il proprio genere di appartenenza?

«È un esempio. Si crede che tutto dipenda dalla cultura e poco o niente dalla natura. Penso che dobbiamo imparare a riconoscere ciò che siamo. Ciò che viene prima di noi. In una torta la cultura è come la glassa di cioccolata. Mentre la natura è tutto il resto, che sorregge la guarnizione. Oggi si tende a disconoscere anziché a riconoscere. Chi trascorre gran parte della vita dentro gli uffici nelle metropoli non è facilitato, perché perdendo il contatto con la natura dimentica quanto ne siamo parte, quanto ne siamo espressione. La distruzione della natura, la scomparsa della distinzione tra bene e male, l’arbitrio assoluto portano confusione nelle nostre vite».

Poi ci sono eventi come il terremoto. Lì in Umbria l’avrà sentito…

«Per fortuna ho Ia casa antisismica, ha oscillato parecchio ma è ben ingabbiata. Vivevo in Friuli e rimasi molto scioccata dal sisma del ’77. Quando mi sono costruita la casa qui la prima cosa a cui ho pensato è stata di farla antisismica. La terra che trema è interiormente destabilizzante perché dà la percezione della nostra precarietà. Siamo scossi dentro e, per tornare al discorso di prima, sperimentiamo in modo tragico che la natura è molto più potente della cultura».

Però continuiamo a rifiutare l’idea che l’uomo è un essere fragile, che dipende.

«Una certa cultura ha perversamente predicato il diritto alla felicità. Pensare che la vita sia una passeggiata è una falsità. La cultura contadina di qualche decennio fa ci insegnava che è fatta di scogli da affrontare e superare. Se ci si riesce».

Nel libro l’acrobata ridà la libertà alla tigre. Vede qualche acrobata nel nostro presente?

«L’acrobata rappresenta l’innocenza della grazia che libera dalle catene. Oggi non ne vedo molti in giro. Però c’è grande esigenza di trovarne. Qualche tempo fa ho letto un articolo che parlava dei nuovi eremiti delle montagne e della gente che ci va a parlare. Il frastuono generale rende impossibile far giungere parole liberatorie. Ma c’è enorme bisogno di parlare di cose fondanti, anche fuori dalle istituzioni preposte».

A un certo punto la tigre si convince che «bisogna essere in due per cambiare le cose».

«È la relazione che porta la salvezza. L’individuo da solo riproduce la propria ambiguità. Ricade schiavo del potere e della propria ambizione smisurata».

 

La Verità, 4 novembre 2016

 

 

 

 

 

 

 

Socci: «Ecco dove sbaglia papa Francesco»

Al Papa non ne perdona una. Antonio Socci è il più autorevole e documentato tra i critici di Francesco. Ce ne sono altri, più viscerali e politicizzati. Non passa settimana che Socci non faccia le pulci al Pontefice: sulla predicazione riguardante gli immigrati, sul rapporto con l’islam, su questioni dottrinali. Ci ha scritto due libri molto controversi. Il penultimo, intitolato Non è Francesco (Mondadori), è stato censurato dalle librerie Paoline che, pure, mettono in vetrina le pensate teologiche di Corrado Augias e Vito Mancuso. Un atteggiamento sideralmente lontano da quello di Bergoglio che, qualche mese fa, ha scritto una lettera autografa al giornalista e saggista toscano, dando sèguito all’invio dell’ultimo libro intitolato La profezia finale – Lettera a papa Francesco sulla Chiesa in tempo di guerra. «Ho cominciato a leggerlo», ha scritto Bergoglio, «e sono sicuro che tante delle cose riportate mi faranno molto bene. In realtà, anche le critiche ci aiutano a camminare sulla retta via del Signore…». Forte di questa risposta, Socci non si è fermato e ora è bersaglio dei bergogliani doc.

La lettera che papa Francesco ha scritto a Socci, rispondendo all'invio del suo libro

La lettera che papa Francesco ha scritto a Socci, rispondendo all’invio del suo libro

È un dibattito stucchevole: sembra che noi giornalisti vogliamo insegnare il catechismo al Papa, non crede?

«Il problema è se un Papa è fedele alla sua missione o no. Santa Caterina insegnava eccome ai papi del suo tempo. E in quegli anni non era ancora una santa e una mistica riconosciuta, ma una ragazza analfabeta, una popolana. Ogni battezzato ha il diritto/dovere di ricordare ai pastori l’insegnamento di sempre della Chiesa. La storia cristiana ha molti esempi di papi che hanno imparato dal loro gregge. A cominciare da Pietro che fu corretto pubblicamente da san Paolo. Tommaso d’Aquino scrisse che l’umiltà di san Pietro deve essere di esempio per tutti i suoi successori. Ratzinger, a proposito delle eresie del IV secolo, ha scritto: “Nella crisi ariana, in cui sembrò in certi momenti che l’intera gerarchia fosse caduta preda delle tendenze di mediazione arianizzanti, solo l’atteggiamento sicuro dei fedeli assicurò la vittoria della fede nicena”. Capisce?».

Capisco meno il suo continuare a criticare animosamente Bergoglio dopo che le ha scritto di suo pugno.

«Prima di tutto non ho nulla di personale contro il Papa. E nessuna animosità. Anzi, prego per lui ogni giorno con tutto il cuore, come ci ha chiesto fin dalla prima sera in cui si affacciò in piazza San Pietro e come mi ha chiesto personalmente nella lettera. Mentre ho l’impressione che non lo facciano coloro che ne fanno oggetto di culto. Per quanto posso, siccome mi ha scritto che le critiche gli servono, spero di rendermi utile così oltre che con le preghiere. Gli voglio bene e soffro per lui».

È ancora convinto che Francesco non sia il vero Papa perché la sua elezione è inficiata da un vizio procedurale?

«È una sciocchezza, non sono io a decidere chi è il Papa».

Lei ha scritto Non è Francesco.

«Il titolo si riferisce al parallelo tra lui e Francesco d’Assisi. In quel libro di oltre 300 pagine solo un capitolo di 15 pagine è dedicato alla questione del Conclave. Lì, da giornalista e in base alle notizie di Elisabetta Piqué, una collega argentina, biografa del Papa, ho evidenziato errori procedurali del Conclave su cui, peraltro, non ho ricevuto risposte esaurienti. Per mestiere un giornalista pone domande. Ad altri spettano le risposte. Detto questo, il Papa è colui che la Chiesa indica. Punto».

Il vizio procedurale è una scheda in più caduta per errore nell’urna durante una votazione subito ripetuta, senza obiezioni di nessuno dei cardinali presenti.

«Il Conclave ha una procedura ultra regolamentata e non è stata rispettata. Su questa faccenda, peraltro, Bergoglio non c’entra nulla, non è lui che ha gestito le operazioni di voto».

Papa Francesco e Ratzinger in uno dei tanti momenti di incontro in Vaticano

Papa Francesco e Ratzinger in uno dei tanti momenti di incontro in Vaticano

Perché sostiene che le dimissioni di Benedetto XVI non siano state spontanee?

«Ripeto: da giornalista riferisco i fatti e pongo domande. Benedetto iniziò il suo pontificato dicendo di pregare per lui perché non fuggisse “davanti ai lupi”. Poi ha avuto otto anni di pontificato in cui è stato sottoposto ad attacchi pesantissimi e alla fine ha rinunciato. Senza che fossero dichiarati i “gravi motivi” che sono previsti per tale decisione. E con una strana precipitazione per cui ha addirittura lasciato a metà, l’enciclica sulla fede, la più importante del suo pontificato, e anche l’Anno della fede. Perché? E perché ha scelto – unico nella storia – di restare Papa emerito, continuando a vestirsi da Papa, conservando il titolo e rimanendo dentro le mura di San Pietro? Possibile che si trovi normale che – per la prima volta in duemila anni – ci siano due papi?».

A me pare che Benedetto XVI conduca vita appartatissima.

«Infatti ha appena pubblicato un best-seller. Il fatto è che non sono mai stati chiariti i motivi della rinuncia. Per esempio, a proposito dell’essere rimasto papa emerito con l’abito papale ha risposto che, in quel momento, non erano disponibili altre vesti in Vaticano. Una risposta assurda da cui si capisce solo che non può parlare. Oppure, in Ultime conversazioni (Garzanti), l’ultimo libro, dice che si è dimesso a febbraio perché non si sentiva di affrontare il viaggio fino a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù del luglio 2013. La Chiesa ammette che ci si possa dimettere da Pontefice, ma per motivi gravissimi e la partecipazione alla Gmg non mi pare lo sia. Tra la Gmg e il papato mi pare ovvio che si rinunci alla prima, non al secondo. Insomma è tutto strano e misterioso. Il 21 maggio, in una conferenza, monsignor Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha parlato di uno “stato d’eccezione” e ha detto che ora Benedetto svolge un “pontificato d’eccezione”. Lo stesso Benedetto, nel suo ultimo discorso, spiegando la sua scelta, disse che il munus petrinum è per sempre e che la sua decisione riguarda solo “l’esercizio attivo” del ministero. Francesco stesso si rivolge a Benedetto chiamandolo Santo Padre e ha parlato di rinuncia al ministero attivo».

Ratzinger ha sempre pubblicamente sottolineato la sua adesione al magistero di Bergoglio.

«Ci sono espressioni di affetto personale, ma sull’adesione ai contenuti non mi pare sia così. Ci sono diversità importanti».

Per esempio?

«Per esempio sul tema della misericordia ha suggerito a Bergoglio di tornare all’impostazione teologica di Giovanni Paolo II. È un invito implicito a restare nell’alveo del magistero della Chiesa».

Ha altre obiezioni?

«Uno dei principali problemi dottrinali riguarda i sacramenti: il matrimonio, la confessione e soprattutto l’Eucarestia che è il pilastro della vita cristiana. L’Amoris laetitia è una bomba tirata nella cattedrale della dottrina cattolica. Si leggano le critiche di tre grandi intellettuali cattolici: Stanislaw Grygiel, amico di Giovanni Paolo II, Josef Seifert e Robert Spaeman, entrambi amici di Ratzinger».

Forse Bergoglio ha in mente un annuncio capace di fare i conti con l’uomo contemporaneo. Sua intenzione potrebbe essere sottolineare la centralità di Cristo più che l’ortodossia etica con la quale spesso s’identifica il cristianesimo?

«L’annuncio cristiano è uno. Gesù è al tempo stesso la Verità fatta carne e il Buon Pastore. E la Chiesa in duemila anni ha battezzato il mondo intero così. Non può esserci un altro Cristo che viene scoperto oggi, diverso da quello vero, quello di sempre».

Altre parti della predicazione di Bergoglio che non la convincono?

«Le sue dichiarazioni sull’immigrazione e sull’islam. Un conto è predicare la carità, un altro teorizzare l’abbattimento delle frontiere e un’immigrazione di massa indiscrimanta. Sia perché danneggerebbe i paesi di provenienza – come ripetono i vescovi africani – sia perché si rivelerebbe devastante per le società di destinazione. Quanto all’islam mi sconcerta un Papa che attacca continuamente la Chiesa cattolica e difende l’islam in tutte le sue espressioni».

Il suo disappunto verso Francesco è nato dopo l’intervista a Scalfari?

«Quella forse è stata la prima volta in cui ha esposto le sue bizzarre teorie. In precedenza l’avevo sostenuto in modo convinto. Mi piaceva la volontà di uscire dal paludamento di certi ambienti vaticani. Francesco aveva anche firmato l’enciclica di Benedetto XVI sulla fede (che poi non ha mai citato). Nell’estate 2013 c’era stata l’iniziativa diplomatica e pastorale che fermò la guerra americana in Siria. A me non fa problema nemmeno l’accento sui poveri. Ma bisogna parlarne come Madre Teresa di Calcutta e non come la Teologia della liberazione. Oltretutto papa Bergoglio non ha mai detto nulla contro la grande finanza che si mangia l’economia reale e condiziona gli stati. La Rerum novarum di Leone XIII e la dottrina sociale della Chiesa erano molto più coraggiosi».

La copia di «Repubblica» con l'intervista di Bergoglio a Scalfari, motivo di scandalo

La copia di «Repubblica» con l’intervista di Bergoglio a Scalfari, motivo di scandalo

Perché la svolta è stata l’intervista a Scalfari?

«Prima c’è stato il commissariamento dei Frati francescani dell’Immacolata: una decisione assurda. Era un ordine che viveva davvero la povertà evangelica e la preghiera, con tante vocazioni. Solo che non era cattoprogressista… L’intervista a Scalfari conteneva espressioni inaccettabili. Per esempio, dove il Papa sosteneva che ognuno deve perseguire la propria idea di Bene e di Male».

Scalfari trasformò in intervista un colloquio avvenuto senza registrazioni e senza prendere appunti.

«Il Vaticano non ha mai smentito quelle parole e anzi Bergoglio le ha ripubblicate in un libro a sua firma. Dire che ognuno deve perseguire la propria idea di Bene è relativismo. Anche gli estremisti musulmani perseguono la loro idea di Bene. Il Bene e il Male sono oggettivi. Pure l’espressione “non esiste un Dio cattolico” fu molto infelice. Anch’essa porta in pieno relativismo. E poi se non esiste un Dio cattolico mi chiedo se il Papa lo sia».

Le obiezioni a Bergoglio derivano dal fatto che dialoga con presunti nemici?

«Il problema non è dialogare. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II dialogavano con persone culturalmente molto lontane, ma restavano cattolici e annunciavano la verità».

Non è quello che Bergoglio fa con Scalfari?

«Proprio no. Ha pure sottolineato che lui non vuole convertire nessuno ed è contrario al proselitismo. Infatti, lì è il Papa che è apparso scalfariano».

Addirittura. Ma la fede non si trasmette attraverso la testimonianza?

«Appunto. La testimonianza significa testimoniare la verità, non fare nostra la menzogna della mentalità dominante. Nel vangelo Gesù invia i suoi a insegnare e a battezzare tutte le genti. Con la forza inerme della verità che è scomoda per il potere e può portare al martirio. Gesù è stato crocifisso, non si è limitato a essere buono. Per questo la storia cristiana è una storia di martiri».

Bergoglio è soprattutto un pastore: con l’Anno della misericordia ha voluto aprire agli immigrati, ai divorziati risposati, agli omosessuali.

«Lei mi ripropone quello che si sente ovunque: un fritto misto di banalità che non significano nulla. Che vuol dire “aprire a immigrati, divorziati e omosessuali”. Aprire cosa? La Chiesa da duemila anni è aperta a tutti gli uomini. Le critiche a Bergoglio sono anzitutto sulla fede, sulla dottrina cattolica. Ha gettato la Chiesa in una confusione immensa e l’ha umiliata davanti al mondo. Migliaia di missionari come Madre Teresa hanno portato la luce di Cristo fra i più diseredati ben prima che arrivasse Bergoglio e senza smarrire la fede cattolica».

Non crede ci sia un modo islamico d’intendere il cristianesimo? Come strumento per battaglie civili, come piattaforma dell’Occidente?

«A proposito di piattaforma dell’Occidente sarei molto lieto di un Vaticano che va contro l’agenda Obama. Ma purtroppo…».

Come inquadra l’incontro tra Bergoglio e il patriarca ortodosso di tutte le Russie Kirill a Cuba?

«Un grande evento e un bellissimo documento finale firmato da entrambi. Mi dispiace solo che, una volta risalito sull’aereo, il Papa se lo sia in parte rimangiato».

Il maggior dispiacere in questa vicenda è la divisione nella Chiesa pro e contro Bergoglio: concorda?

«No. Al centro della vita della Chiesa c’è Cristo, non Bergoglio. La tragedia è la perdita della fede cristiana di popoli interi. La Madonna a Fatima mostrò che la tragedia è vedere moltitudini che finiscono all’Inferno per sempre. La tragedia è che ai vertici della Chiesa non se ne curino, la tragedia – come ebbe a dire Paolo VI – è l’invasione di un “pensiero non cattolico” dentro la Chiesa che sta diventando dominante».

Sta dando dell’eretico al Papa?

«Ho solo citato Paolo VI. E voglio ricordare che la missione del Papa è custodire e difendere la vera fede cattolica, il depositum fidei, non stravolgerla. Perché il Papa è servo della verità, non padrone. La verità è un avvenimento accaduto duemila anni fa. Neanche il Papa ha il potere di cambiarla».

Come spiega il fatto che Francesco non s’inginocchi davanti al Santissimo?

«Non so dire, non lo ha mai spiegato».

Un’ultima domanda: come sta sua figlia Caterina?

«Lotta, per tornare piano piano alla sua vita. È per tutti noi una testimone luminosa e commovente del Salvatore».

 

La Verità, 26 ottobre 2016

 

 

Marina Terragni: «L’utero in affitto umilia le donne»

Una femminista contraria all’utero in affitto, proprio in quanto femminista. Marina Terragni, giornalista, saggista e conduttrice radiotelevisiva, ha una lunga militanza dalla parte delle donne e sui temi della maternità. Una militanza suffragata da studi di bioetica e dall’esperienza diretta di amici e amiche che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri (Gpa). E, nel tempo, hanno avuto problemi derivati da quella scelta. Disagi irrisolti. Soprattutto per il figlio nato dalla maternità surrogata, ma anche per i genitori, padri e madri, spesso due papà (due casi su dieci, secondo le statistiche). Perché non va dimenticato che, mentre per gli eterosessuali esiste anche l’adozione come opportunità per diventare genitori, per i gay ricorrere all’utero in affitto è considerata l’unica chance. Secondo alcune stime, in Italia un centinaio di bambini nascerebbero ogni anno da utero in affitto. Negli Stati Uniti, invece, secondo l’American Society for Reproductive Medicine, i bambini nati annualmente dalla Gpa sono 2000, con un incremento del 200 per cento annuo. In India le surrogazioni sarebbero 1500 all’anno. «Una pratica che si sta progressivamente diffondendo, grazie alla dittatura dei diritti. Invece», sottolinea Terragni, «mi sono convinta che la surrogacy è la più subdola espressione della cultura del patriarcato. È una forma sottile di strumentalizzazione della donna, un modo per sfruttarne l’attrezzatura gestatoria, congedandola appena terminata la prestazione». Si intitola, infatti, Temporary mother (Vanda epublishing) il pamphlet, documentatissimo, pubblicato nel giugno scorso. Poche dense pagine che la stampa di sinistra e le televisioni, tutte, hanno ignorato.

La copertina di «Temporary mother», il pamphlet di Marina Terragni sulla maternità surrogata

La copertina di «Temporary mother», il pamphlet della Terragni sulla maternità surrogata

Censura?

«Non posso non notare che, mentre il Corriere della Sera, Avvenire e Il Giornale hanno dato spazio a questo lavoro, La Repubblica, L’Espresso, il magazine femminile di Repubblica e Il Manifesto non hanno scritto una riga. Un omissis totale. Solo Radio popolare, l’emittente dove cominciai, ha fatto eccezione offrendo, su mia sollecitazione, lo spazio di Microfono aperto, durante il quale ho ricevuto numerose telefonate di donne che si sono dette rinfrancate e autorizzate a dire quello che pensavano, ma tenevano per loro. In Italia solo Stefano Fassina si è esposto. In Francia, per dire, Libération ha sposato la battaglia».

Come si spiega questo comportamento?

«La critica alla maternità surrogata è inaccettabile da chi è abituato a ragionare solo in termini di diritti, un diritto per ogni capello che abbiamo in testa. Sono rattristata dalla sinistra presentista, persa nel qui e ora perché priva di orizzonte. Se sei contro gli Ogm stai lottando per l’ambiente e la biodiversità, se invece chiedi uno stop alla Gpa sei un conservatore, tendenzialmente omofobico».

Nel dibattito a Strasburgo che pochi giorni fa ha portato alla bocciatura della maternità surrogata, però, si è distinta Eleonora Cimbro, un’eurodeputata del Pd.

«Ammesso che il Pd si possa considerare ancora sinistra, va detto che è parecchio lacerato. Quando proprio la Cimbro ha scritto su Facebook di essere contraria alla maternità surrogata, postando una foto mentre allattava, i compagni di partito hanno cominciato a contestarla e qualcuno ha scritto che quella foto era violenta. Quindi, ho pensato, tutte le maternità della nostra arte pittorica con la Madonna che allatta esposte nei nostri musei, sono immagini violente. Sono le perversioni dell’ideologia».

Nichi Vendola con il figlio Tobia in un momento di relax

Nichi Vendola con il figlio Tobia in un momento di relax

Più che altro sembra esasperazione dell’arbitrio. Perché ne è vittima soprattutto il mondo omosessuale?

«Perché gli eterosessuali sterili, che hanno l’alternativa dell’adozione, non rivendicano la surrogacy come una questione di vita o di morte. Dove l’adozione dei single è vietata, come in Italia, l’utero in affitto è ritenuto, a torto, l’unica possibilità di diventare papà per un omosessuale. La resistenza a queste pratiche viene classificata automaticamente come omofobia. Un’accusa che, per assurdo, hanno sperimentato anche gay appena dubbiosi come Aldo Busi o Domenico Dolce e Stefano Gabbana».

Quindi non tutto il mondo omosessuale è a favore della gestazione per altri.

«Le donne di Arcilesbica sono contrarie. Perché si considerano donne prima che lesbiche. Nelle Famiglie arcobaleno, molto vicine ai gay, la priorità è il loro essere omosessuali, con i diritti che ne conseguono. L’errore da cui tutto nasce è impostare il discorso sulla parità sessuale».

Ma la parità non è sempre stato un traguardo del movimento femminista?

«In fatto di procreazione la parità non esiste, c’è solo al momento del concepimento. Poi inizia la gravidanza. Persino Dio ha avuto bisogno di quella ragazza per compiere il suo disegno».

Decidendo quando e come si dà e si toglie la vita l’uomo si sostituisce a Dio. Da qui deriva la dittatura dei diritti.

«Giocare alla divinità è un libro di June Goodfield, uno studioso britannico, che già negli anni ’70 anticipava questi scenari. Ci creiamo i diritti che vogliamo. Siamo omosessuali, ma vogliamo anche essere genitori e avere bambini. Invece, se vuoi davvero un figlio puoi provare a condividere la genitorialità con una persona per la quale non provi attrazione sessuale. Non esiste un’esistenza senza croce. Ma se il tuo diritto è l’ultima parola vuoi tutto: il piacere sessuale, oggi assoluto e intoccabile, ma anche il figlio come ti pare. Senza rinunciare a nulla. È l’autodeterminazione assoluta. Perciò paghiamo una donna che lo porti in grembo per nove mesi, senza coinvolgersi troppo e sparendo dopo averlo consegnato».

Come se l’utero fosse un organo separato, una protesi impersonale che esclude emozioni e comunicazioni tra la donna e il feto. È la robotizzazione della maternità?

«La non troppo fantascientifica civiltà dei cyborg passa attraverso l’annullamento del ruolo della donna e della madre. La maternità è una prestazione temporanea che ha delle tariffe (tra i 120 e i 150.000 dollari in California e attorno ai 20.000 in India) decise dal mercato in base a varie esigenze. Il tutto disconoscendo completamente sia le conseguenze psicologiche della gestante sia, soprattutto, quelle della creatura».

L'utero in affitto è una protesi strumentale. Siamo alla robotizzazione della amternità

L’utero in affitto è una protesi strumentale. Siamo alla robotizzazione della maternità

In che modo l’arbitrio si serve del mercato?

«Lo vediamo ogni giorno: il capitalismo ha la capacità di riassorbire qualsiasi criticità trasformandola in fonte di profitto. Avviene anche nella procreazione. Mario Caballero, il capo della clinica di Sacramento in California di cui hanno usufruito Nichi Vendola e il suo compagno, ha creato uno staff di psicologhe che affianca le gestanti per aiutarle a non coinvolgersi affettivamente con il feto. Ripetendo continuamente: è solo business, è solo business…».

E se una donna si prestasse per generosità, gratuitamente?

«Ci credo poco. Sappiamo che cosa comporta per una donna una gravidanza? Quali conseguenze ha nel suo corpo e nella sua psiche? Se una donna si offrisse gratuitamente consiglierei al suo medico di base di sorvegliare più attentamente il suo equilibrio mentale».

Come se ne esce?

«L’unica via d’uscita è l’adozione, sulla quale c’è ancora molto da lavorare a livello legislativo, psicologico e assistenziale. Il punto di partenza però è culturale. E riguarda l’idea stessa della persona».

Si spieghi.

«L’antidoto al consumismo è la persona concepita come relazione, dentro una relazione. A differenza di ciò che sostiene la cultura illuminista, solo lo sguardo di un altro ti fa essere. Solo se vivi in relazione con l’altro, trovi dei limiti al tuo arbitrio. L’unità di misura dell’individuo è il due. La relazione materna è il luogo dove questa soggettività raggiunge la massima espressione, madre e figlio sono nello stesso corpo».

 

La Verità, 23 ottobre 2016

 

 

Sgarbi: «Ma l’Europa è vivace e propositiva»

Elisabetta Sgarbi è regista e scrittrice, ma soprattutto editrice. Dopo essere stata per anni direttrice editoriale di Bompiani, a fine 2015, dopo l’annuncio della vendita di Rcs libri ha fondato con altri autori La Nave di Teseo.

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi, che cosa pensa del servizio di acquisti online di Amazon? Perché in questo caso si vedono solo i lati positivi della globalizzazione?

«Ne penso benissimo, sono cliente di Amazon di Ibs e delle librerie tradizionali. Lo sono in veste di autore, editore, lettrice. Proprio per questo conosco bene i punti di forza dell’e-commerce: senza entrare negli aspetti più tecnici, basta pensare alla disponibilità di una piattaforma logistica comune a diversi paesi, e l’accesso a una vetrina virtuale di milioni di clienti. Le librerie online hanno un catalogo infinito e sono aperte 24 ore su 24, le librerie di quartiere hanno un assortimento più personale e forniscono il supporto del libraio, che è una figura insostituibile. Per questo credo fermamente che i due canali non siano alternativi, ma complementari, perché offrono servizi e opportunità diversi, e un buon lettore ha bisogno di entrambi».

Di fronte alla forza dei grandi marchi digitali non sono un po’ anacronistiche le nostre diatribe interne sulle fusioni editoriali?

«Non penso. Sono discussioni mosse da principi importanti, per entrambe le parti».

Perché in Europa non nasce e non si afferma un Bill Gates o un Mark Zuckerberg? Siamo limitati dal punto di vista del talento o della legislazione?

«Abbiamo avuto tanti Gates e Zuckerberg. Pensi ad Alberto Mantovani e a quello che il suo gruppo di ricerca ha fatto».

L’Europa sembra aver culturalmente abdicato. Si può dire che sia in atto una sorta di colonizzazione al contrario?

«Mi sembra una semplificazione. La situazione non è esattamente così, anzi, vedo in Europa i segni di una grande vivacità intellettuale. Non sono io a dirlo, ma citerò due autori pubblicati dalla Nave di Teseo. Nicola Porro, nel suo libro La disuguaglianza fa bene, ricorda il fondamentale contributo dato al pensiero economico dagli studiosi europei: dalla Scuola di Francoforte, agli austriaci, ai ricercatori italiani. L’ex ministro delle finanze greco Yanis Vaorufakis, di cui pubblicheremo il 27 ottobre il nuovo atteso libro, che pure è molto critico nei confronti delle istituzioni europee, è altrettanto fermo nel segnalare i pericoli di inseguire ciecamente le politiche economiche americane, rivalutando un’alternativa europea».

La Verità, 1 ottobre 2016

De Biase: «Non esser stati pionieri ci penalizza»

Luca De Biase è uno dei massimi esperti italiani di nuovi media, insegna allo Iulm e all’Università di Padova e dirige Nòva, l’inserto su innovazione e nuove tecnologie del Sole 24 ore.

Luca De Biase, uno dei massimi esperti di new media italiani

Luca De Biase, uno dei massimi esperti di new media italiani

Tra pochi giorni a Napoli verrà aperto il centro europeo per lo sviluppo delle app di Apple. È giustificata l’enfasi che circonda l’evento?

«Finora di questi centri ce ne sono due nel mondo. Indubbiamente, per Napoli, è una notizia che rincuora. La notizia va valutata nel contesto, perciò è naturale che venga molto enfatizzata. Inoltre credo che farà bene a chi frequenterà quella scuola».

Come si spiega il fatto che tutti i giganti della tecnologia digitale siano americani? C’è un ritardo preciso dell’Europa e a che cosa si deve?

«Le grandi compagnie sono Apple, Google, Amazon, Facebook e Microsoft perché hanno inventato l’industria digitale. Apple e Microsoft esistono da metà degli anni Settanta. Amazon c’è dal ’94. Non sono capitate lì per caso. Con lo smartphone Apple ha spostato l’asse del web dalla rete fissa alla mobile. Gli Americani sono avanti? Sì. Gli Europei sono indietro? Sì. In Cina vincono i cinesi, in Russia i russi, in Corea i coreani, in Europa gli Americani: perché? Primo motivo: gli Europei non fanno protezionismo nei confronti delle piattaforme americane. Secondo motivo: non siamo bravi come gli Americani, sia perché non abbiamo avuto un approccio pionieristico a questo mondo e sia perché quando certe piattaforme iniziano in Europa, come per esempio Skype, poi vengono attratte dal grande capitale americano. Il nostro campione europeo in questo momento è Spotify, importante ma non strategico».

Non sarà che i troppi antitrust finiscano per rendere più complicata l’innovazione e la crescita di marchi europei e italiani capaci di reggere la sfida della globalizzazione?

«Non abbiamo un atteggiamento protezionista delle nostre aziende. Però non è questa la nostra colpa principale, bensì il fatto che non facciamo aziende forti e che le banche non credono in questi business. La fusione fra 3 e Wind è stata condizionata alla cessione di pacchetti di quote. L’antitrust c’è anche in America, e guarderà dentro anche il tentativo di Google di acquisire Twitter. L’invenzione dello spacchettamento è americana. Non è l’antitrust il problema, ma il fatto che noi non siamo stati pionieri in questo campo. A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti hanno un sistema finanziario che sostiene quegli affari in modo formidabile».

La Verità, 1 ottobre 2016

Concentrazioni contro spacchettamenti, vince l’America

Spacchettamento: è uno dei vocaboli più alla moda nel milieu culturale di tendenza nel nostro Paese. Si contrappone al termine nemico: posizione dominante. O all’altra parolona tabù: concentrazione. Vade retro. Antitrust e authority vigilano, accigliate. Guai a favorire posizioni dominanti, concentrazioni, accorpamenti editoriali. Ordunque, in questi giorni si è realizzato l’auspicato spacchettamento: nella fusione in atto tra Mondadori e Rizzoli è stata scorporata la Bompiani che non poteva confluire anch’essa nella casa di Segrate. Ceduta alla Giunti per 16,5 milioni e quasi tutti contenti. Com’è noto, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi ha ulteriormente spacchettato, creando La Nave di Teseo, portandosi dietro buona parte degli autori. Anche Marsilio è uscita dalla concentrazione ed è rimasta ai suoi fondatori, la famiglia De Michelis. Il caso di Bompiani, però, è particolarmente significativo perché sul marchio aveva allungato le sue mire nientemeno che Amazon. Invece, spacchettamento è compiuto e almeno il pericolo di vedere una sigla tra le più prestigiose della narrativa confluire sotto l’ombrello del gigante del web è scongiurato. Sarebbe stata una beffa se la preoccupazione di evitare concentrazioni domestiche ne avesse favorita una internazionale a scàpito della nostra storia.

Il logo della casa editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione tra Mondadori e Rizzoli per decisione dell'Antitrust

Il logo dell’editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione Mondadori-Rizzoli per decisione dell’Antitrust

Perché, ormai, il rischio ricorrente è questo. Mentre noi spacchettiamo, i colossi digitali inglobano, assorbono, acquisiscono. Si allargano a tutti i settori, moltiplicano le piattaforme, estendono i territori del business. Per stare alle ultime manovre, Google sta provando a mettere le mani su Twitter, mentre Apple ha appena annunciato l’interesse per la McLaren, storica casa britannica produttrice di prototipi da competizione, ritenuta utile all’avanzamento del progetto di auto senza pilota. Qualche tempo fa, invece, il colosso di Cupertino aveva mosso i primi passi sul fronte televisivo, per la produzione di nuove serie, nell’intenzione dichiarata di far concorrenza alla solita Amazon che sul terreno della fiction era già sbarcata nel 2014.

La faccenda che fa pensare è la seguente. Queste notizie sono quasi universalmente accompagnate da «ooohhh» estasiati, da esclamazioni di meraviglia. I brand della new technology fanno moda, tendenza, contemporaneità. E, dunque, tutto ciò che viene da lì o passa da lì è, per definizione, bello, positivo, cool. Tra qualche giorno a Napoli Lisa Jackson, vice presidente Apple, inaugurerà il centro europeo per lo sviluppo delle app della Mela e, ovviamente, avrà al suo fianco il ministro per l’Università Stefania Giannini. Le cronache che annunciano l’evento trasudano enfasi. Per non parlare della fibrillazione che circonda la prossima visita a sorpresa, dopo quella del gennaio scorso, di Tim Cook, invece assente all’inaugurazione di cui sopra.

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

I guru dell’high-tech sono ormai di casa in Europa e in Italia, in particolare. Tutti ricordiamo l’accoglienza regale che ha accompagnato a fine agosto la visita di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ricevuto anche da papa Francesco. Qui non si tratta di disconoscere i vantaggi e l’enorme miglioramento della qualità della nostra vita determinato dalle innovazioni introdotte dall’era digitale. Né, tantomeno, al netto del rispetto delle leggi fiscali (la Ue ha appena chiesto ad Apple il rimborso di 13 miliardi di tasse non versate per accordi illegali con il governo irlandese), di frenare l’onda anomala della globalizzazione trincerandosi dietro antistorici protezionismi. O di ostacolare lo scambio d’informazioni e di know how tra le sponde dell’Atlantico. Il problema, semmai, è che più che di scambio, dobbiamo parlare di flusso a senso unico, ovvero dagli States all’Europa e non viceversa. Facendola breve, perché in Europa e in Italia non si affermano guru delle tecnologie digitali? Perché, nonostante gli scopritori del web fossero un belga e un britannico e, dunque, all’origine di questa soria ci fosse il Vecchio Continente, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Larry Page tanto per citare i soliti nomi, sono tutti americani? Perché un marchio come Nokia, che fino a qualche anno fa era tra i leader mondiali della telefonia, è desaparecido tra nuvole molto poco tecnologiche? Domande, solo per capire, e senza risposte preconfezionate. A naso, però, vien da dire che il ritardo europeo in materia non sia principalmente dovuto a limiti intellettuali o di talento creativo. Forse, la questione è più complessa. E potrebbe aver a che fare con l’assetto legislativo del Vecchio Continente. Con le sue griglie amministrative, gli antitrust e le authority che, a differenza dell’economia digitale d’Oltreoceano, vedono come tabù le joint venture e le fusioni editoriali, rendendoci inevitabilmente più lenti nei movimenti e più scettici rispetto alla possibilità di affermare un’idea, realizzare un progetto, lanciare una app. Così, non resta che rassegnarci e accogliere i Ceo di Apple e di Facebook come nuovi messia. E mentre sui giornali scriviamo la nostra avversione alle concentrazioni e teorizziamo gli spacchettamenti editoriali, con l’iphone ordiniamo su Amazon l’ultimo romanzo di Jonhatan Franzen o la biografia di Zuckerberg.

La Verità, 1 ottobre 2016

 

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.

Il vero motivo dell’esonero di Mihajlovic

Non ha resistito e l’ha esonerato. È stato più forte di lui. Mandare a casa Sinisa Mihajolovic a sei giornate dalla fine e con una finale di Coppa Italia da disputare è una decisione che Berlusconi ha preso contro tutto e tutti. Avrà ragione lui? Da tifoso me lo auguro, ma ci credo poco. Deciso che il tecnico serbo non sarebbe più stato l’allenatore del prossimo anno, ha scelto di testare Brocchi nel finale di stagione. Dopo Inzaghi e Seedorf, si rischia di bruciare il terzo coach alle prime armi in due anni.

  1. Un feeling mai nato. Troppa schiena dritta, Sinisa. Troppa lingua svelta. Il Presidente preferisce gente più condiscendente e disposta a farsi consigliare. Mihajlovic ascoltava e dialogava, ma alla fine decideva lui.
  2. Il gioco sgradito. Berlusconi predica da sempre il gioco d’attacco, spettacolare, la padronanza del campo. Peccato che per praticarlo servano i giocatori adatti. Al Milan non c’erano nè Iniesta nè David Silva nè Di Maria, ma Honda e Bacca tanto per fare due nomi, giocatori strutturalmente gregari. Come gragaria è un po’ tutta la squadra, se si fa eccezione per Balotelli. Pochi giorni fa Demetrio Albertini ha detto che nessuno del Milan di oggi avrebbe giocato nel suo.
  3. Il mercato degli ultimi anni. Se non vuoi spendere soldi per comprare i campioni, dopo aver venduto Thiago Silva e Ibrahimovic, e vuoi puntare tutto sui giovani italiani, forse dovevi cominciare a tenerti El Shaarawi. Se non hai i giocatori, almeno devi avere l’allenatore che pratichi il gioco prediletto. Anche se è di sinistra e non ama la cravatta. Do you know Sarri?
  4. La decisione controcorrente. Lo hanno consigliato di andare avanti con Mihajlovic, nell’ordine: Galliani, i giocatori al completo (con l’eccezione di Menez, Mexese Boateng, poco utilizzati), Sacchi e i tifosi (il sondaggio della Gazzetta dello Sport ha dato un inequivocabile 92 per cento contrario).
  5. Pigmalione. Berlusconi spera d’inventare dal nulla un grande allenatore come già gli riuscì con Sacchi e Capello, ma non con Inzaghi e Seedorf. Con Brocchi mantiene un filo diretto: può essere una forza e anche una debolezza (come con Seedorf). La verità è che, come diceva Biagi, “se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice”. Per fare la formazione del Milan le tette non servono, ma un allenatore più malleabile di Mihajlovic sì.
  6. Motivi extracalcio. Alla fine, considerato l’azzardo, potrebbero essere stati decisivi altri elementi, personali e imprenditoriali. Berlusconi è vicino agli ottant’anni. Pochi giorni fa Vivendi ha acquistato Premium, la pay tv di Mediaset e, in prospettiva, è possibile che il socio francese allarghi la sua influenza nel gruppo. La politica va come va. Il Milan resta l’ultimo giocattolo che diverte e, in futuro, potrebbe dare ancora soddisfazioni al Presidente. Che ha fatto la sua scommessa. Speriamo la vinca.

Cruyff, l’estetica visionaria divenne calcio totale

È dura non farsi prendere dalla nostalgia, meglio dichiararlo subito. È difficile non cedere al rimpianto del tempo andato ora che ad andarsene è Johan Cruyff, 68 anni, tumore ai polmoni. Qualche mese fa, aveva detto con la sfrontatezza che gli conoscevamo: “Sto battendo il cancro 2-0”. Ha perso la partita, restando in piedi. Se devo scegliere il più grande di sempre, scelgo lui. Non pretendo di convincere nessuno. Ognuno ha la propria personale classifica, Pelè, Maradona, Messi: perfetto. Difficilmente ci sarà un altro come Cruyff, tre Palloni d’oro.

La scelta del più grande identifica una stagione, un momento esistenziale, un concentrato di istanze e aspettative. Albeggiavano i Settanta, tra adolescenza e giovinezza si cominciava a intuire che roba poteva essere l’amore, e la voglia di cambiare il mondo aveva trovato una prima applicazione in quel meraviglioso pezzetto di realtà, sogni e gioco che si chiama calcio. Nelle strade e nelle università europee l’ideologia aveva preso i colori della violenza e del piombo. Ma sui prati di calcio s’affacciava una squadra di marziani di nome Aiax che praticava un gioco mai visto prima, presto ribattezzato calcio totale. Il leader era il numero 14, un ragazzo dotato di grande tecnica e velocità, due cose fino allora alternative. Corsa a testa alta, imprevedibile, palla incollata ai piedi, difensori saltati come lampioni, soprattutto capacità di anticipare, di vedere prima. Gol in acrobazia, d’esterno, allungato in orizzontale, quasi spalle alla porta. Gol con delizioso pallonetto. Dopo aver saltato mezza squadra da centrocampo fin dentro l’area. Di testa, in slalom. Dopo una veronica che manda a sedere il marcatore. E poi il passaggio filtrante, il pallone scodellato sul piede del compagno che deve solo spingerlo in rete, il rigore a due che ha ispirato anche Messi.

Sandro Ciotti lo chiamava il Profeta del gol. Un campionario di tecnica straordinaria, ma anche un leader al servizio della squadra, l’Aiax o l’Olanda allenate da Rinus Michels, composte di altri grandi giocatori. Cruyff è stato il primato dell’estetica senza dimenticare l’applicazione, l’affermazione della fantasia senza dimenticare la necessità del sacrificio. Una sintesi di spavalderia e consapevolezza, di schiettezza senza speculazioni. Giochiamo da protagonisti, mettiamo sul campo tutto quello che siamo. Calcio spensierato, atletico e ribelle perché rovesciava la filosofia fino allora vincente del catenaccio, difesa e contropiede, “primo, non prenderle”. Non a caso ha, a lungo, criticato il calcio all’italiana.

Nel 1969 il Milan di Rocco, Rivera e Prati, aveva riaffermato il suo primato: 4-1 all’Aiax nella finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora. Ma nel ’74, cresciuti gli interpreti e perfezionato il sistema, nella prima Supercoppa europea (Cruyff era già al Barcellona, c’era ancora Rivera ma non più Prati) il Milan ne beccò sei. Calcio totale, calcio democratico, ruoli sfumati e eclettismo di tutti i protagonisti, difensori (Krol e Surbieer) che erano ali aggiunte, centrocampisti (Neeskens e Van Hanegem) in grado di far gol, difendere e impostare il gioco. Pressing, difesa alta, tecnica del fuorigioco, aggressione multipla e contemporanea sul portatore di palla, reparti stretti, sovrapposizioni, gioco di prima: tutto nato allora. E rivisto quindici anni più tardi nel Milan di Sacchi, non a caso incardinato su tre olandesi, tra i quali Van Basten, il giocatore che più gli si è avvicinato. E poi nel suo Barcellona e in quello dei suoi successori, Guardiola in testa.

Pochi mesi dopo quel 6-0 al Milan dell’Aiax, l’Olanda di Michels ribattezzata Arancia meccanica, approdò alla finale mondiale con la Germania di Müller e Beckenbauer a Monaco di Baviera. Ovviamente, tifavo Olanda, mentre i realisti prevedevano la vittoria dei tedeschi. Subito dopo il calcio d’inizio gli olandesi  avviarono una serie di 17 passaggi consecutivi che si conclusero con l’incursione di Cruyff, atterrato in area. Calcio di rigore trasformato da Neeskens. Poco alla volta, però, la Germania si riorganizzò, ribaltò il risultato e conquistò l’allora Coppa Rimet. In fondo, le grandi utopie hanno sempre qualcosa d’incompiuto.

Ho postato oggi su Twitter che avrei voluto trascorrere il pomeriggio a guardare partite di Johan Cruyff. Così, in parte, ho fatto. Adesso, anche se c’è l’amichevole tra Italia e Spagna, vorrei trascorrere la sera vedendo un ritratto approfondito di Cruyff e dei suoi anni.

La piega della spiega presa dal neogiornalismo

È una questione di gradini, di autorevolezza. Di conoscenza più o meno approfondita della materia. Ma può anche essere una questione di spocchia. Di tirarsela un filo. Ci si apposta un po’ più su e si guarda il resto del mondo dall’alto. Almeno per quella materia lì, per quello spicchio di realtà, pur piccolo. Il virus, la moda, sta contagiando noi giornalisti. Ce ne sono tante, di mode passeggere che s’infiltrano nei nostri articoli, nei nostri post, titoli eccetera. L’ultima è questa qui di spiegare qualcosa a qualcuno. Chi spiega sta un gradino più in alto di chi legge. C’è qualcuno un po’ più ignorante che va istruito, va edotto, va introdotto ai segreti di qualcosa che noi conosciamo bene. I giornalisti diventano un po’ professori, insegnanti di qualcosa. Ci può anche stare, ma è meglio esser consapevoli di questa piega della spiega…

Un conto è un libro, qualcosa che richiede un impegno e ha un intento esplicitamente pedagogico e affettuoso, tipo Il vangelo spiegato a mio figlio: racconti insoliti prima della buonanotte (Marta Brancatisano), oppure Le pensioni spiegate a mia nonna (Giuliano Cazzola), o anche Internet spiegato a mia nonna (Francis Mizio). Qualche volta un certo paternalismo condito di ironia può funzionare. Ed è bene accetto se il discente stima il docente per la sua competenza, vedi “Le serie tv spiegate a Giuliano”, ciclo di articoli di Mariarosa Mancuso sul Foglio, con lieve sentore di autoreferenzialità. Sempre sullo stesso giornale, Ferrara verga “Renzi spiegato facile a D’Alema”, dove quel “facile” dal tono volutamente sarcastico avrà fatto arricciare il baffo dell’ex lider Maximo, maestro riconosciuto di sarcasmo. In altri casi l’intonazione è da secchioni, tipo “L’Isis spiegato bene (a Milano)”, che annuncia che “un pezzo di redazione del Post discute dello Stato islamico”. Spiegato bene, non male… Lo stile da nerd ha vinto, spopola anche tra i giornalisti, si contamina con un certo, mai sopito, intento moraleggiante. Che si ritrova anche in altre formule e in altri titoli che hanno dentro il “Cosa insegna” questa faccenda eccetera (autocitazione), oppure “Perché” una certa cosa funziona così o colà…

È la moda del nuovo giornalismo intellettuale con tendenza cattedrattica, in qualche caso pontificante. Giornalisti-professori, giornalisti-docenti, giornalisticheselatirano (qui comincerebbe un lungo paragrafo sui giornalisti-ospititelevisivi, ma prima o poi ci arriverò). Forse è anche l’esplosione delle nuove tecnologie e dei social media che ha prodotto questo salto di qualità. Per capirci, su Facebook e Twitter che oggi compie dieci anni sono tutti giornalisti. E siccome le notizie le danno tutti, anche chi non ha titoli, allora i giornalisti diventano columnist, docenti, insegnanti di qualcosa. Per carità, meglio il giornalismo secchione, e magari un po’ pedante, di quello approssimativo e superficiale. È sul tirarcela, su un certo sussiego, che conviene vigilare. Lo dico anche a me stesso: una volta il giornalismo s’incaricava soprattutto di dare notizie. E la sfida dovrebbe rimanere principalmente sul terreno dell’informazione.

Vedere Spotlight e Truth per tenerci con i piedi per terra…