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«Racconto il mestiere di vivere con le parole»

Come si diventa uno tra i più apprezzati scrittori italiani essendo figli di genitori con la quinta elementare? «Mia madre era guardarobiera negli alberghi, mio padre controllore delle merci allo scarico del porto. Non avevano studiato, causa povertà. Ma erano entrambi persone curiose, lettori di giornali. I libri, invece, sono arrivati grazie alle nonne, una maestra elementare e una sarta, gran lettrice. A fine giornata girava una sedia al contrario, vi si inginocchiava poggiando i gomiti sul tavolo davanti al libro. E, in quella posizione, rubava un’ora di lettura prima di andare a dormire». Veneziano di nascita, cinquantaquattro anni, vincitore del Premio Strega nel 2009 con Stabat mater, autore teatrale, fondatore del sito Nazione indiana e poi di Il primo amore, Tiziano Scarpa è uno dei più versatili autori della sua generazione. Da poco ha pubblicato il suo sesto romanzo, Il cipiglio del gufo (Einaudi), ambientato a Venezia, che ha per protagonisti un famoso radiocronista a rischio Alzheimer, un ex professore che vuole salvare il figlio hikikomori, un giovane superdotato che vorrebbe farsi mantenere da anziane facoltose.

Da una nonna gran lettrice e dei genitori curiosi a diventare scrittori ne deve passare di acqua…

«A tredici anni ho cominciato a leggere Herman Hesse, Henry Miller, Thomas Mann perché vi trovavo quelle cose che gli adulti tacevano a noi adolescenti. Mi sono appassionato e ho fatto i primi tentativi. Poi mi sono iscritto a Lettere… Un recente libro di Federico Fubini intitolato La maestra e la camorrista, sottotitolo Perché in Italia resti quel che nasci, documenta che la condizione sociale rimane quella di partenza per generazioni. Se la mia storia è l’eccezione che conferma la regola dipende dalla forza della letteratura».

La copertina dell'ultimo romanzo di Tiziano Scarpa

La copertina dell’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa

In che senso?

«Nel senso che non prevede albi di categoria, esami di Stato, selezioni ufficiali e concorsi come quasi tutte le professioni. Nessuno ha mai chiesto ad Agatha Christie se fosse stata investigatrice prima d’iniziare a scrivere gialli. Uno scrittore non rappresenta una testata o una rete televisiva, non scrive perché è autorizzato da qualcuno. Semplicemente esprime il suo pensiero e il suo talento. Questo può incrinare le gabbie nelle quali la società moderna ha ingessato le differenze di classe».

Le leggo due sue definizioni di Venezia: «È un armadio tarlato che puzza di naftalina pieno di bambole di stoffa putrefatta»; «È un temporary shop per temporary citizens». Qual è quella giusta?

«La prima è il pensiero di Carletto Zen, il giovanotto del romanzo. Non è detto che io concordi con i miei personaggi. Milan Kundera la chiama ironia romanzesca».

E la seconda definizione?

«In quella mi riconosco. In tutti i centri storici assistiamo a un continuo avvicendarsi di commercializzazioni temporanee. Inoltre, si sta affermando una nuova cittadinanza, composta di turisti, che sono cittadini temporanei. Che, secondo Marco D’Eramo, sono un quarto dell’umanità».

Perciò non c’è bisogno di vendere Venezia?

«Già adesso non è in mano nostre. Mi ha molto colpito il dato pubblicato dal Gruppo 25 aprile secondo cui il 99% dei bar e ristoranti di San Marco è di proprietà di cinesi, albanesi e mediorientali. Le tante fondazioni russe, francesi, americane, sono un arricchimento. Il marchio della città è un fattore moltiplicatorio. Damien Hirst avrebbe potuto fare la sua esposizione a Shangai, a Dubai a Miami, invece ha scelto Venezia. I grandi marchi internazionali hanno le loro sedi di rappresentanza a New York, Londra, Parigi e Venezia. Gli stranieri sembrano aver capito prima di noi la forza di questa città».

Non ne siamo abbastanza consapevoli?

«Non la conosciamo abbastanza. Me ne sono reso conto tornandoci a vivere dodici anni fa. Scrivendo Stabat mater mi sono accorto che nessuno conosceva la storia dell’Orfanotrofio della Pietà, dove insegnò Antonio Vivaldi e nacquero Le quattro stagioni. Una storia straordinaria, che ci svelava il welfare del XVIII° secolo. Nell’orfanotrofio vivevano ragazzi e ragazze abbandonati alla nascita. I ragazzi lavoravano alla costruzione delle navi, le ragazze cucinavano e cucivano, mentre le più dotate suonavano e cantavano, nascoste dietro le grate. Gli ospiti che assistevano a quei concerti dimostravano il loro apprezzamento con la beneficenza che serviva a mantenere l’orfanotrofio».

La Chiesa della Pietà a Venezia, vicino all'ex orfanotrofio poi divenuto ospedale

La Chiesa della Pietà dell’ex orfanotrofio frequentato da Vivaldi, poi divenuto ospedale

Com’è cambiata la sua vita di scrittore dopo il Premio Strega?

«Stabat mater aveva già avuto cinque edizioni. Il Premio Strega ne decuplicò le vendite e lo fece entrare nelle case. Con i guadagni dei diritti d’autore per alcuni anni ho potuto concentrarmi sulla scrittura, riducendo le collaborazioni e le letture sceniche. In Italia quella dello scrittore non è considerata una professione a tutti gli effetti».

Ho letto che Il cipiglio del gufo l’ha scritto durante una residenza in Alta Baviera.

«Ospite dell’Internationales Künstlerhaus di Villa Concordia a Bamberg. Ogni anno, insieme a sei tedeschi, vengono invitati altrettanti scrittori e artisti di un’altra nazionalità. Nel 2016 toccò all’Italia. È una convivenza, uno scambio culturale. Si percepisce un contenuto ma gradito mensile. Si partecipa a qualche conferenza. Io ne ho approfittato per far uscire il mio romanzo dal bozzolo nel quale lo incubavo da tempo. Nei Paesi anglosassoni c’è considerazione e rispetto per il tempo creativo. Da noi c’è molto volontariato».

In un articolo su Il del Sole 24 Ore Marco Rossari ha scritto di aver accettato di dirigere il Circolo dei lettori di un paese dell’hinterland milanese per la consistenza del compenso assegnatogli.

«Per fortuna non ci sono solo prestazioni gratuite. Ma senza il volontariato tante attività non esisterebbero. Mi riferisco alle presentazioni di libri, alle partecipazioni a giurie, alle letture dei classici nelle scuole. È un’attività che alimenta la vita culturale del Paese. I festival di letteratura funzionano perché costano poco».

Lei è tra i fondatori dei siti Nazione indiana e Il Primo amore. Che bilancio fa dell’attività letteraria online?

«Nazione indiana nacque nel 2003. All’inizio serviva per seguire gli interventi di molti di noi sulle testate locali. Poi è cresciuto ulteriormente. Il Primo amore è un sito collettivo molto vitale, che comprende la rivista cartacea e organizza convegni e cammini estivi. Quest’estate partiremo dal Salento, sbarcheremo in Grecia e arriveremo ad Atene. Quando vogliamo dire qualcosa, pubblicare una recensione o un intervento, abbiamo un posto dove esprimerci senza bisogno di chiedere spazi a quotidiani o altre testate».

Vi stimola questa dimensione collettiva: avete anche un vostro salotto veneziano…

«Più che un salotto è una pizzeria. Con me ci sono Romolo Bugaro, Roberto Ferrucci, Diogo Mainardi, Mauro Covacich. È il bisogno di stare con chi condivide gli astratti furori dell’arte alfabetica».

Lo scrittore è un animale solitario o sociale?

«Di fronte al foglio bianco sei solo. La lingua che usiamo oggi è nata 2.500 o 3.000 anni fa. Quando cerchi le parole intavoli un dialogo con i morti. Non faccio leggere nemmeno a mia moglie le mie pagine. Poi quando l’opera prende forma ci può essere un confronto con chi mi fido e stimo».

Come le sono venuti questi tre personaggi? In ognuno di loro c’è qualcosa di lei, forse soprattutto nel radiocronista che in un diario si rivolge alle parole.

«È un personaggio che mi sono appuntato parecchi anni fa. Immaginavo qualcuno che vive con le parole e comincia a perderne l’uso. Mi sono chiesto: chi sono i funzionari della nostra epoca, coloro che tengono in piedi il mondo com’è oggi? I presentatori, i dj, gli editorialisti, i telecronisti. La parlantina, la performance verbale, determina il successo di politici e ospiti dei talk show. Pensiamo a Paolo Bonolis, Vittorio Sgarbi, Fabio Caressa. I calciatori durano 15 anni al massimo. I radiocronisti resistono trenta quarant’anni. Maurizio Costanzo, Pippo Baudo, Fabio Fazio hanno cominciato a vent’anni e vanno avanti fino a 90».

Maurizio Costanzo. Per Scarpa «presentatori, dj, telecronisti sono i funzionari di oggi»

Maurizio Costanzo. Per Tiziano Scarpa «presentatori, dj e telecronisti sono i funzionari di oggi»

Il suo radiocronista «si esprimeva a piccoli cenni, grugniti sommessi, ma di fatto restava sovranamente taciturno». Lei si diverte scrivendo?

«Certo. Scrivo anche per scoprire i miei personaggi. La scrittura non è riprodurre un evento mentale già accaduto. È un processo che avviene e si propaga».

Che rapporto ha con la politica?

«Non mi è mai capitato d’impegnarmi in un partito. A volte penso che i sondaggi siano rappresentazioni dell’anima: il 30% di me si riconosce con quelli, il 25% con quegli altri. Come frazioni della singola persona».

Che cos’è per lei la speranza?

«L’ho ritrovata in una persona come Marco Cappato, uno che ha rischiato di suo. È quello che una volta si diceva un esempio».

Per il merito della battaglia o per la disponibilità al rischio personale?

«Per entrambe le cose. Mi spiego: ci sono persone e opere che fanno avanzare la convivenza civile. Un film come Divorzio all’italiana mostrò che la legge sul delitto d’onore era anacronistica e che invece serviva quella sul divorzio».

Oggi viviamo in una società dove se un figlio è indesiderato si può abortire e, al contrario, se lo vogliamo ce lo possiamo fabbricare. Voglio, posso, faccio: l’arbitrio è l’alfa e l’omega della legislazione moderna?

«Lo si può chiamare arbitrio, ma lo si può chiamare anche responsabilità. Un tempo queste scelte erano governate dalle cosiddette agenzie morali, la Chiesa e i partiti. Rovesciando la medaglia ci accorgiamo che la libertà individuale può generare angoscia. Avere una Chiesa che guida forse toglie un po’ di libertà, ma non lascia soli. L’autonomia non è solo un fatto di frivolezza, di prender le cose alla leggera».

Ma può essere un fatto di egoismo: scelgo a mio piacimento tra bianco e nero, come fossi dio.

«Come se ognuno fosse il legislatore di sé stesso. Ma dare in appalto la coscienza non può essere la soluzione».

 

La Verità, 25 febbraio 2018