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Arbore: «Non è una tv ad Alto gradimento»

Come una madeleine di gioventù, se ancora oggi, trascorso mezzo secolo, rimbalzano nell’aria le note del rock and roll che annunciava Alto gradimento, una scarica di euforia si propaga a tutto il corpo. Il programma che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni condussero dal 7 luglio 1970 al 2 ottobre 1976 su Radio2 è stata la più dirompente, anticonformista ed eversiva trasmissione dei nostri migliori anni. Perciò, per estensione nient’affatto iperbolica, la più bella di ogni tempo e luogo. Eccoci al telefono con Arbore dalla sua casa romana, lo studio di Striminzitic show, il programma che conduce con Gegè Telesforo nella notte di Rai2.

Quale fu la scintilla di Alto gradimento fra lei e Boncompagni?

Lo vuole sapere? Ero appena stato caciato da Per voi giovani che avevo inventato io. Il direttore della radio, Giuseppe Antonelli, allargò le braccia, affranto: «È stata una scelta politica».

Di chi?

Dei cattocomunisti che allora sembravano dover dominare.

Nomi?

Non posso, alcuni sono morti.

La scintilla?

Boncompagni veniva da Chiamate Roma 3131, ideato da Luciano Rispoli. Per la prima volta, il telefono era a disposizione del pubblico, ma presto era diventata una radio del dolore…

Le rispettive cacciate vi accomunarono?

Dissi a Gianni: «Tu vieni dalla radio del dolore e io sono stato mandato via, ma il direttore ha promesso di aiutarmi». Così pensammo a un programma di risate. In quegli anni di ideologie e terrorismo ridere era vietato. Perciò, andammo da Antonelli e gli proponemmo Musica e puttanate.

E lui?

«Con questo titolo non può passare, inventatevene un altro».  Siccome io prediligo i titoli negativi, tipo Indietro tutta o Meno siamo meglio stiamo, pensai Basso gradimento, che Gianni corresse con Alto. C’erano Giorgio Bracardi e Mario Marenco, fuoriclasse assoluti. Il programma esplose.

Se dovesse sintetizzare con un episodio quella follia?

Ricorderei il colonnello Buttiglione, che diventò subito un simbolo. Il fatto è che Buttiglione esisteva davvero e non ne poteva più di essere apostrofato per strada. Ci chiamò il ministero dell’Interno per chiederci di modificare lo scherzo. Così nacque il generale Damigiani.

Un altro ricordo?

Andai dai segretari di partito per chiedere la licenza di sfottò: furbamente me la concessero tutti.

Nella sigla finale di Indietro tutta, con sapido doppiosenso cantava «vengo dopo il Tg»: ora Striminzitic show viene dopo che cosa?

Purtroppo viene durante. Ho constatato che la seconda serata è defunta in quanto la prima, cominciando tardi e prolungandosi per far lievitare lo share, salta direttamente alla terza. Qualche sera fa ho perso l’inizio di Striminzitic per vedere come finiva Fuga da Alcatraz.

E quando ha girato su Rai2 Telesforo e Arbore erano già avanti.

Esatto, ma mi consolo perché il nostro show è seguito dagli «arborigeni» ed è molto apprezzato sui social.

Il meglio arriva late?

Come in America, dove ci sono i Late night show. Senza snobismi, è un tipo di televisione che conta sul pubblico più acculturato perché non si deve svegliare alle 5 di mattina. L’importante è che non sia too late, troppo tardi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini dice che vuole ripristinare la seconda serata.

Speriamo, ma se non si mettono d’accordo tutti, Rai, Mediaset, La7 eccetera, non se ne farà niente. Senza presunzione, la seconda serata l’abbiamo inventata nel 1985 io e Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai2. Alle 23 c’era il monoscopio, non a caso il programma s’intitolò Quelli della notte.

La seconda serata era la palestra dei nuovi autori.

Infatti, sono scomparsi. La carenza di oggi è proprio l’assenza di autori e talenti per la tv leggera.

Salini vuole anche ridurre l’influenza degli agenti esterni.

È una bella battaglia perché loro conoscono molto bene il cosiddetto prodotto.

Colgo una certa ironia.

Appartengo alla generazione che parlava di programmi più che di prodotti. Gli autori erano Antonello Falqui, Enzo Trapani, Corrado, Pippo Baudo… Ora si rincorrono i format stranieri.

Pochi autori bravi, agenti influenti e società di produzione esterne sono i lati della tv di oggi: la Rai è uno scheletro?

Se ci si affida alle produzioni esterne è difficile recuperare quelle interne. Anche perché, di grandi tecnici Rai ne sono rimasti pochi. E quei pochi se ne vanno, com’è accaduto con Eleonora Andreatta, per tanti anni capo della fiction. I veri inventori di programmi sono rari. L’intrattenimento è il genere che si è meno rinnovato e il pubblico ricorda ancora Raffaella Carrà, Mina e i grandi show della tv senza tempo. Il contrario della fast tv di oggi.

Per questo in Striminzitic show estrae dal suo archivio chicche da far invidia alle Teche Rai?

Non ho voluto se non qualche piccola citazione di Indietro tutta e Quelli della notte. In tanti anni ho creato parecchi format, perciò posso pescare dal repertorio meno sfruttato. Poi ci sono i filmati fatti con telecamere e telecamerine che mi sono sempre portato dietro quando m’invitavano come ospite o in certe incursioni stradaiole. Infine, c’è internet: con un click passi da un blues d’annata a Walter Chiari. È una miniera di cui solo Roberto D’Agostino ha colto le potenzialità.

Lei è stato il primo a raccogliere la provocazione di Pupi Avati a fare del lockdown un’occasione teleculturale: è un’intesa tra amanti di jazz?

Io e Pupi siamo amici, certo. Entrambi abbiamo constatato che i millennials non conoscono il nostro cinema migliore. Quello del neorealismo e della grande commedia che ebbe successo in tutto il mondo perché era pieno di idee.

Ci vorrebbe un Per voi giovani del cinema?

Se pensa che non conoscono Miracolo a Milano, La grande guerra, Umberto D., Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi… Adesso per fortuna Cine 34 qualcosa ripropone.

Ha guardato molta tv durante il lockdown?

Moltissima. A Natale avevo avuto la bronco polmonite perciò sono entrato in clausura in anticipo. Ne ho approfittato per ordinare l’archivio e l’angolo della casa da dove con Gegè trasmettiamo lo show con due sole telecamere. Noi che abbiamo visto la guerra e il dopoguerra non ci scoraggiamo, ma quando leggo certi paragoni…

Cosa pensa?

Che allora c’erano il buio, la fame, il freddo, non c’era il riscaldamento. E manco la radio.

Chi le piacerebbe riportare in televisione?

Adriano Celentano, il protagonista dello spettacolo del Novecento e anche del Duemila.

L’ha visto su Canale 5? Anche lui ha bisogno di autori?

Sì, ma è sempre originale. Credo sia giusto si faccia conoscere dai giovani come artista, cantante, attore. Lui e Mina sono i più grandi, lui ha fatto anche film che andrebbero riletti, come Joan Lui

Puntualmente stroncato dalla critica.

Ma pieno di novità. E l’altro, Juppy Du: andrebbe studiato a scuola. Prisencolinensinanciusol è stato il primo rap al mondo.

Ha riproposto un Benigni ballerino sulle note di un brano di Elvis Presley. Le piace il Benigni esegeta e pedagogo?

Roberto ha arricchito il suo umorismo istintivo con la ricerca culturale. A me piaceva molto Tuttobenigni. È un talento straordinario, come abbiamo visto al cinema anche insieme a Massimo Troisi. Gli auguro di trovare un altro film di grande successo che ci faccia sorridere e pensare.

Chi può reggere il confronto con lui?

Forse Checco Zalone, passato anche lui dal cabaret al cinema.

Tra i giovani vede qualcuno che si avvicini a Marenco, Bracardi, Riccardo Pazzaglia, Nino Frassica, D’Agostino, Maurizio Ferrini?

Che improvvisi come loro no. Noi eravamo jazzisti della parola, oggi prevale il pop. Quella razza di improvvisatori è in estinzione.

È vero che era l’incubo di Baudo?

Sono malignità di Antonio Ricci. Siamo diversissimi, ma siamo amici e «conterroeni».

Lei era socialista e lui democristiano.

Simpatizzavo. Anche Craxi aveva simpatia per me. Una volta mi fermò e mi disse: «Non ho capito se mi vuoi bene o mi sfotti».

E lei si guardò dal risolvere il dubbio?

Votavo repubblicano, ma nella stagione della Milano da bere, con Craxi che era appassionato d’arte e di canzoni c’era un rapporto di cordialità.

Il presidente Mattarella è riuscito a procurarsi un televisore funzionante per vedere il suo show o è rimasto ostaggio di protocolli e gare d’appalto?

(Ride) Ha ancora il televisore di Pertini. È amabilissimo il presidente nell’accettare le nostre facezie…

Che cosa le dice il fatto che il portavoce di Palazzo Chigi sia un ex concorrente del Grande fratello?

Abbiamo visto tanti talenti cresciuti nei villaggi turistici, non mi pronuncio.

Tra migliaia di gadget possiede una statuetta di Abramo Lincoln: cosa pensa della profanazione del suo monumento a Washington come manifestazione di antirazzismo?

Sono profondamente antirazzista. Però profanare i monumenti, come quello di Montanelli che mi onorava della sua amicizia, o altri, è una deformazione di opinioni politiche momentanee che disapprovo.

Panorama, 1 luglio 2020

Dagospia on the road, outlet del villaggio globale

Vent’anni on the road, auguri Dagospia. Auguri e grazie per il divertimento e il lavoro, lo sberleffo e il servizio, lo spirito sulfureo e l’archivio. Il sito diretto da Roberto D’Agostino compie due decenni di vita e stappa lo champagne di una giovinezza sempre promettente. Un ventennio vissuto pericolosamente, ma con un grande avvenire davanti. Man mano che passano gli anni si fortifica e si allarga, irrobustisce la corteccia e ramifica su nuovi territori, lo sport, il food, tutto lo scibile. Vitale e vitalista, collettore senza tabù, preclusioni e pregiudizi, se non appena quella sacrosanta diffidenza verso i piedistalli dei moralisti e le cattedre dei pedagoghi. Assemblatore, catalizzatore, girone infernale di vizi e stravizi, devozione e pornosoft, sociologia e tifo ultrà, rock babilonia e diatribe teologiche, Rocco Siffredi e risiko di nomine. Da qualche tempo meno cafonal e più pensiero sottile. Soprattutto, più anticipazioni, quasi sempre confermate, «come Dago anticipato…». Sulle nomine alla Rai e nelle altre aziende partecipate, sui voti di sfiducia annunciati e non confermati, sulle richieste di prestiti dei colossi industriali controllati all’estero. Anche senza la gola profonda Francesco Cossiga, D’Agostino e la sua redazione (Giorgio Rutelli, Francesco Persili, Federica Macagnone, Riccardo Panzetta, Alessandro Berrettoni) se la cavano alla grande. Notizie e opinioni insieme. Come La versione di Mughini e L’America fatta a Maglie by Maria Giovanna. Gossip meno di un tempo, e sagaci rubriche di servizio (La quarantena dei Giusti: Guida tv per reclusi).

Fu Barbara Palombelli a fine anni Novanta a suggerire a D’Agostino in cerca dell’idea la strada del Web. Negli anni il portale è divenuto sismografo del palazzo, cannocchiale di scenari, sonda sociale, vetrina estetica, portineria del villaggio globale. Formule e linguaggi confluiti nello spin off televisivo Dago in the Sky. Se ne sono accorti anche all’estero se, giusto un anno fa, la University Italia Society ha chiamato il mefistofelico fondatore a sdottoreggiare a Oxford, e il prestigioso Politico.eu, la testata online più letta a Washington e a Bruxelles, ha dedicato un servizio a questo «disgraziato sito» definendolo «una lettura obbligata per le élite».

Blog ruspante con refusi incorporati e senza le leccature da new web design, se D’Agostino sbaglia qualcosa lo fa per eccesso mai per difetto. Come nel caso dell’estenuante tormentone sul matrimonio di Pamela Prati. Ma in politica niente innamoramenti: né per Matteo Renzi, né per Matteo Salvini e nemmeno per lo statista Giuseppe Conte che solo sei mesi fa qualcuno pronosticava a vele spiegate sul Quirinale. Ne ha viste troppe Dago dalla terrazza dell’attico con vista su Castel sant’Angelo da una parte e su Piazza Navona dall’altra. Laboratorio, atelier, museo d’arte, factory postmoderna: chi ci è stato e ha visto il trionfo del kitsch e il bazar del trash, le bambole gonfiabili vicino ai simboli religiosi, capisce questo calderone dove si rifinisce l’opinione degli opinionisti che lo usano come cassetta degli attrezzi, bussola nel palazzo, concentrato di fluidi e umori, retrobottega del potere, bettola postribolare dove pescare il calembour illuminante. Insomma, Dagospia è insieme outlet delle firme, centro commerciale e mercato per intenditori. Ci puoi trovare l’analisi sofisticata, lo spiffero vaticano, il tweet malandrino. Avanguardia dello spirito italiano: più vicino al cinismo antimoralista di Alberto Sordi e al gusto del paradosso di Alberto Arbasino che al bontonismo ideologizzato di Fabio Fazio e Roberto Saviano.

Cento di questi giorni, Dago.

 

La Verità, 23 maggio 2020

D’Agostino: «Le strade che portano a Conte»

La crisi italiana, l’elevazione di Giuseppe Conte a statista, la riabilitazione del nostro Paese. Sono novità derivate tutte dal contesto internazionale. «Me lo fece capire una volta Francesco Cossiga», racconta Roberto D’Agostino, fondatore proprietario e direttore di Dagospia, il sito di anticipazioni, inchieste e scenari che Politico.eu, la testata online di analisi politica più compulsata a Washington e Bruxelles, ritiene «una lettura obbligata per le élite». «Cossiga mi disse che contano gli equilibri internazionali. E che dobbiamo ricordarci di essere un Paese sconfitto della Seconda guerra mondiale. All’estero non si dimentica tanto in fretta. Invece la nostra stampa non sa guardare fuori dai confini. Alberto Arbasino suggeriva ironicamente di fare una gita oltre Chiasso. Magari potremmo riuscire a capire perché, nel giro di tre giorni, dal rischio di essere come la Grecia, improvvisamente siamo diventati la nuova Svizzera».

Con le dita cerchiate da anelli, i tatuaggi che ricoprono gran parte del corpo, la barba mefistofelica sebbene si dichiari credente, il sulfureo blogger autore dell’imprescindibile Dago in the Sky ora viene invitato a parlare nelle università, non solo italiane. Panorama gli ha chiesto di essere lo storyteller della crisi appena conclusa.

Quanto durerà il Conte bis?

«Quanto decideranno i poteri internazionali che lo hanno voluto. In Italia pochi hanno notato un fatto rilevante. Il 23 agosto scorso, davanti ai colleghi delle banche centrali, Jerome Powell, presidente della Federal reserve, portando le prove del rallentamento dell’economia globale, dopo aver citato la recessione in Germania, le difficoltà della Cina, le tensioni a Hong Kong e il rischio di una hard Brexit, ha parlato della dissoluzione del governo italiano. Perché, mi sono chiesto, con quello che accade in Iran e la guerra dei dazi, il più potente banchiere del mondo parla della crisi del governo italiano?».

E come si è risposto?

«Mi sono risposto che il caso italiano ha un’influenza notevole nello scacchiere globale con i suoi precari equilibri. La nostra stampa però, sempre ripiegata sui due Mattei, Di Maio e Zingaretti, non se n’è accorta. Ma il mondo non è su Rete4 e su La7».

Tutti hanno voluto Conte, Angela Merkel, Emmanuel Macron, Donald Trump: se l’aspettava?

«Anche Bill Gates».

Persino lui. E poi gli euroburocrati, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, le borse, la sinistra post-blairiana, i gesuiti, la Cei, la Cgil, senza parlare di Renzi e Beppe Grillo…

«Già, abbiamo trovato una sorta di Garibaldi che si chiama Giuseppe Conte».

Un salvatore, uno statista.

«Risulta un gigante perché si contrappone a uno che faceva il dj al Papeete di Milano Marittima. Negli ultimi tempi Salvini le ha sbagliate tutte».

Spicca per contrasto. Ma le sue doti personali quali sono?

«Conte non nasce per caso. La prima spia mi si è accesa quando da avvocato del popolo, formula inventata da Rocco Casalino, ha voluto tenersi le deleghe sui servizi segreti. Come mai? Perché voleva mantenere il collegamento con il Deep state e le burocrazie? La seconda spia si è illuminata quando ho visto che frequentava il cardinale Achille Silvestrini, pace all’anima sua, il segretario di Stato Pietro Parolin, ed è stato ricevuto in pompa magna da Bergoglio che invece non ha mai voluto vedere Salvini nonostante le richieste. E qui c’è un’altra scelta sbagliata del Capitone, come lo chiamo io: schierarsi con la curia romana in guerra con il Papa».

Anche il rapporto con Mattarella si dice sia contato parecchio.

«Fino a un certo punto Mattarella non sapeva nulla di Conte. Al Quirinale ha molta influenza Ugo Zampetti, colui che ha svezzato Di Maio quando, ignaro di tutto, è diventato presidente della Camera. Tra i due è sbocciato un gran rapporto. Già dopo il voto del 2018 Zampetti spingeva per il governo giallorosso. Era tutto fatto. Poi Maria Elena Boschi, sulla quale c’era il veto del M5s per le inchieste su Banca Etruria, s’impuntò: voleva esserci anche lei. E Renzi, ospite di Fabio Fazio, disse che mai si sarebbe alleato con i grillini».

Tutto per la Boschi?

«Certo, ha indotto Renzi a stracciare un accordo fatto. Voleva diventare ministro. Con Gentiloni aveva ottenuto la segreteria della presidenza del Consiglio alla quale ambiva anche nel governo Renzi. Solo che quella volta fu la moglie Agnese a opporsi. E lei accettò il ministero per i Rapporti con il Parlamento».

Tornando a Mattarella e Conte?

«È la filiera dei figli a spiegare al Capo dello Stato chi è questo sconosciuto avvocato e a garantire per lui. Suo figlio, Bernardo Giorgio Mattarella, docente di diritto amministrativo alla Luiss, e il figlio di Napolitano, Giulio, professore della stessa materia a Roma Tre, con il suo socio, il potente avvocato Andrea Zoppini. Oltre che dal Vaticano e dai figli professori, Conte è spinto dal mondo forense con il suo coté massonico. Il suo maestro Guido Alpa, nello studio del quale ha iniziato la carriera, sta ovunque. All’università di Firenze, dove insegna, Conte conosce anche la Boschi».

Ancora lei?

«Lavora nello studio dell’avvocato Tombari e fa da tramite per un incontro a tre: Alpa, Conte e Renzi. Ma il futuro premier non s’innamora dell’avvocaticchio. Allora, fallito il tentativo di entrare nel giglio magico, Conte incontra Alfonso Bonafede, anche lui con studio a Firenze, che lo porta da Di Maio. Il resto è storia dell’ultimo anno. Un avvocato anonimo, perciò manipolabile, diventa il possibile successore di Mattarella al Quirinale, come l’altro giorno ha ipotizzato un articolo della Stampa».

Sembra la trama di un film: tutto grazie solo ad alcune buone relazioni?

«E, come dice suo padre, a una straordinaria ambizione che trasforma “Giuseppi” in un abile tessitore di rapporti internazionali, il vero trampolino. A cosa sono serviti i viaggi in Europa e al G7? Agendo da regista del voto in favore di Ursula von der Leyen, l’avatar della Merkel, Conte ha superato l’esame di affidabilità. È diventato organico all’establishment. Ricordiamoci cos’era il movimento di Grillo un anno fa sull’euro e sull’Europa. Il voto pro-Ursula è stato il motivo dello scontro finale fra il M5s e la Lega».

Che invece ha sempre sottovalutato i rapporti con Bruxelles?

«Basta dire che non si era accorta che gli altri partiti sovranisti erano nel raggruppamento del Ppe della Merkel. Salvini invece è andato ad allearsi con Marine Le Pen, la spina nel fianco di Macron. A quel punto le perplessità si sono moltiplicate: questo Masaniello con il rosario minaccia di scassare l’euro. Missione compiuta: appena Salvini cade, lo spread rincula e la borsa decolla».

E adesso inizia la «ricompensa»?

«Certo. Non si parla più dei 40 miliardi necessari per l’aumento dell’Iva e la legge di bilancio. L’Italia che sembrava come la Grecia, diventa la nuova Svizzera. Ora che l’uomo nero non c’è più si può arrivare al 3% di rapporto Pil/deficit e magari anche oltre, come ha detto Von der Leyen, nel caso si facciano investimenti verdi».

Morale della favola?

«Non si può avere la siringa piena e la moglie drogata. L’Europa è come un club, un minimo di regole devi rispettarle. Altrimenti puoi solo uscire, come ha fatto la Gran Bretagna. Non puoi stare un po’ con la Russia, un po’ con l’America, un po’ con la Cina e fare la Via della seta. Le superpotenze non perdonano. Quando Putin ha incontrato a Roma Conte, Di Maio e Salvini chiedendo impegno contro le sanzioni gli è stato risposto di alleggerire la posizione sulla Crimea. Due giorni dopo è uscita la storia dell’hotel Metropol di Mosca e dei finanziamenti russi alla Lega».

Non sarà una lettura troppo complottarda?

«Ma no, i complotti escono dopo, soprattutto se cominci a fare i giochini tra Putin e Trump. Com’è possibile che il presidente americano sponsorizzi il governo più a sinistra della storia italiana? Sovranista grande mangia sovranista piccolo. La storia del Metropol è stata ferma cinque mesi prima di spuntare da un sito americano. Possibile che i servizi segreti, quelli su cui aveva le deleghe Conte non avvisino Salvini? Vuol dire che li aveva contro, era uno zombie che camminava. Siamo sempre lì, il Deep state è decisivo. Citofonare a Berlusconi: anche lui era anomalo, nemico dell’establishment e gliel’hanno fatta pagare. Lo hanno chiamato e gli hanno detto: con lo spread a 500 le tue aziende vanno al macero. E lui è andato a casa».

Così sono stati addomesticati anche i propositi e le promesse di Nicola Zingaretti di puntare al voto?

«La promessa c’era stata, ma le pressioni sono state più forti. Sarà arrivata la telefonata dell’ambasciatore americano o la spinta di qualche alto prelato».

Il Pd torna in campo, ma perde la faccia andando al governo ancora senza passare dalle elezioni.

«E chissà quando ci si ripasserà. Adesso devono tagliare 345 parlamentari, poi fare il referendum e la nuova legge elettorale. Si voterà nel 2022, con un nuovo Capo dello Stato».

Che sarà Romano Prodi?

«Non credo, troppo filocinese».

Il M5s che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno è rimasto inscatolato?

«Il M5s è diventato il tonno, il movimento è diventato partito. Quella era la propaganda di Grillo. Ricordiamoci che Gianroberto Casaleggio andava alle convention di Cernobbio».

Conte è una figura doubleface? Quando ha detto che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo ha omesso di dire che si riferiva a sé stesso?

«Già, non ha finito la dichiarazione. Ma, tutto sommato, forse sarà un buon anno anche per noi. Meno tensioni, meno incubo migranti, meno social sobillatori».

Di sicuro più tasse. Grillo che propone ministri tecnici di alto profilo dà ragione a Salvini che vede nel Conte bis la riedizione del governo Monti deciso a Bruxelles?

«Dopo i Vaffa è arrivato il nuovo Coniglio mannaro di forlaniana memoria. È entrato in scena il giorno delle dimissioni al Senato. Casaleggio voleva conquistare il potere attraverso Grillo. Ma quando prendi il 33% devi metterti in una prospettiva governativa. Conte dà questa prospettiva. L’errore di Salvini è stato puntare sull’uomo solo al comando. È sempre andata così: Berlusconi, Renzi, adesso lui. La politica è fatta di relazioni. A Roma ci si “attovaglia” per fare le strategie. Magari la si pensa in modo diverso, ma a tavola si fanno le parti. E ce n’è un po’ per tutti».

 

Panorama, 4 settembre 2019

«La canzone napoletana? Materia per l’Unesco»

Vuole prima vedere la casa o fare l’intervista?». «Assolutamente prima la casa». Renzo Arbore abita in un attico a un quarto d’ora di taxi da Viale Mazzini, ma Guarda… stupisci (modesta e scombiccherata lezione sulla canzone umoristica napoletana), il programma dei record di Rai 2, va in onda dal Centro di produzione di Napoli. Anzi, esattamente da un’aula universitaria idealmente intitolata a Totò. Ma di questo parleremo tra poco. La casa, dunque. Inesauribile museo del kitsch e dell’effimero. Alberi di Natale stracarichi di addobbi, carillon, luminarie, statuette sue con e senza clarinetto, radio d’epoca di tutte le forge, targhe di Copacabana intestate a lui, presepi, un suo ritratto-installazione luminosa di Marco Lodola, orologi con pappagallini che ti fanno il verso, gazebi, bar tropicali, la bambolina della dea Yemanja di Bahia, ninnoli incomprensibili, statuine di jazzisti, di pin up, una finta finestra davanti al golfo di Napoli, il papiro della Laurea honoris causa post mortem a Totò («nella Lectio magistralis lo dipinsi come il Grande consolatore del dopoguerra»).

Mentre al telefono amici, colleghi, dirigenti Rai applaudono al boom di ascolti della sera prima (14.5% di share, la media di Rai 2 è del 6%), la visita prosegue al piano superiore, «che io chiamo pomposamente gli Studios, perché qui abbiamo registrato sketch, programmi e programmini». Ecco il divano rosso, poi adottato da Parla con me, realizzato da Alida Cappellini e Giovanni Licheri, scenografi e designer dei programmi tv e dell’abitazione arboriana. La collezione di vinili e di cd, una libreria, scrivanie, pianoforti, cuscini commemorativi dei film, Stanlio e Ollio in porcellana, strumenti vari, armadi stipati con i gilet di Quelli della notte e la divisa da ammiraglio di Indietro tutta!, la stanza delle madonne dipinte, scolpite o in plastica. «Mancano parecchie cose che ho usato per la mostra di due anni fa al Testaccio», si duole Arbore. «La collezione di juke box, flipper e pianoforti antichi invece è in un’altra casa, dove mio nipote ha allestito uno studio discografico. Lo so, la fantasia può diventare patologica. Ma quando vedo qualcosa che mi attira mi dico che non posso non averlo».

È più kitsch casa sua o quella di Roberto D’Agostino?

«Roberto è un grandissimo rivale. Però lui possiede opere d’arte, io ho tante stronzate».

Cos’è questa smania di accumulo?

«Malgrado sia nato in una famiglia benestante, mio padre ci educava all’austerità e io non possedevo giocattoli. Ora, da adulto, me li posso comprare. Questo è il mio giocattolume, un regno di gioco e affetti. Camuffo questi acquisti inconsulti con il fatto che non ho vizi costosi, gioco, alcol, donne…».

Da qui non si può non avere una visione scanzonata della vita?

«La più grande soddisfazione me la diede Vittorio Gassman quando un giorno venne a trovarmi: “Se dovesse tornarmi la depressione”, disse, “devi promettermi che mi ospiterai perché in questa casa non si può essere depressi”. Sono nato con la positività di mio padre che, da dentista, curava il sorriso dei pazienti raccontando le barzellette: quando si aprivano alla risata gli staccava il dente. I medici che stanno in mezzo ai dolori della gente amano l’allegria».

Perché, con tutti quelli che ci sono stati, ha pensato di dedicare un programma alla canzone napoletana?

«I compositori napoletani da metà Ottocento fino a Pino Daniele hanno scritto pagine sublimi, imparagonabili per melodiosità e per poeticità dei testi a qualsiasi altra produzione musicale, non solo italiana».

Addirittura?

«Certamente. Bisogna adoperarsi perché l’Unesco la elegga patrimonio dell’umanità. Se ne conoscono una trentina… sono centinaia. S’incazzeranno certi sedicenti storici, ma sono canzoni scritte da poeti, avvocati, professori. Tutte persone di estrazione borghese, salvo qualche rara eccezione, come Salvatore Gambardella che era calzolaio. Poi fu interpretata da intellettuali finissimi: Nino Taranto, Roberto Murolo, Renato Carosone. Oggi è apprezzata dai musicofili di tutto il mondo. Riccardo Muti si toglie il cappello davanti a Marechiare. Molti dei nostri intellettuali invece l’hanno snobbata per motivi ideologici».

Perché la consideravano troppo popolare?

«Il fatto è che molti critici di cultura veterocomunista disprezzavano queste canzoni che erano farina della borghesia. Autori come Ernesto Murolo, il padre di Roberto, Libero Bovio, Edoardo Nicolardi, E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, che ha scritto anche La canzone del Piave oltre a Tammurriata nera e tante altre. Per questo motivo, quei critici ritenevano che queste canzoni che gli americani chiamerebbero evergreen, fossero da punire. Calò un silenzio tombale».

Lei ne è diventato ambasciatore anche all’estero.

«Da 27 anni mantengo questa casa con i proventi dei 1500 concerti tenuti con L’Orchestra italiana in tutto il mondo. Per sdoganare ’O sole mio ci è voluta una pazienza straordinaria. Ora è più popolare di Summertime di George Gershwin e di Let it be dei Beatles. Con Ray Charles ne abbiamo fatto una versione meravigliosa».

Ha definito Guarda… stupisci un programma antico perché dall’antico si può trarre qualcosa di buono mentre dal vecchio no?

«È così. Io vengo dal jazz e bisogna sapere che persino il rap di oggi deriva dal blues. Se non conosci l’antico e non mastichi il blues, non puoi fare bene il rock e nemmeno il rap. È una regola».

Con lei, Nino Frassica e Andrea Delogu ci sono i giovani: un programma intergenerazionale?

«Io e Ugo Porcelli ci siamo chiesti: possibile che i ragazzi di oggi che sono sempre connessi con il cellulare non sappiano chi è Alberto Sordi? Non dico Aldo Fabrizi… Non hanno visto i capolavori del nostro cinema, la tv artistica – io la definisco così – degli anni Sessanta e Settanta. Quella di Antonello Falqui e Enzo Trapani, poi Massimo Troisi e il trio Lopez Solenghi e Marchesini. Era una tv piena di sketch indimenticabili, scritti da autori che emulavano la fantasia dei grandi sceneggiatori del cinema, Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego, Sergio Donati».

Avrete fatto una selezione mirata dei ragazzi, perché in gran parte oggi si accalcano nelle discoteche di Sfera Ebbasta…

«Come primo e vecchio dj ho sempre distinto due pubblici: quello di Lucio Battisti e quello di Pupo, lo dico con grande simpatia… Alla mia età mi spiace constatare che in maggioranza i giovani sono interessati al gossip, alla volgarità, alla battuta corriva».

Apposta parla di educational show: c’è spazio per educare al bello?

«Naturalmente educational show è una provocazione. Questo programma è nato all’università Federico II, quando ho mostrato agli studenti brani dell’Altra domenica e fatto ascoltare Bandiera gialla e vedevo che questi ragazzi scoprivano mondi ignoti».

Cosa può dare la canzone napoletana al tempo degli haters?

«Agli haters dobbiamo opporre la cultura del sorriso, l’umorismo della nostra musica, la goliardia sapiente. La canzone napoletana dev’essere insegnata nei conservatori perché ha la stessa nobiltà del melodramma. Ma qui serve anche l’impegno della politica. Esportiamo nel mondo la moda, la Ferrari, la gastronomia, il design, l’unica cosa che non esportiamo è la canzone di qualità che può diffondere anche la nostra splendida lingua. Il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli dovrebbe farci un pensiero».

Lei è foggiano, ma canta Napoli, Modugno è barese, ma lo si considera siciliano. È un destino dei pugliesi?

«La tradizione napoletana è più forte. La mia famiglia benestante svernava a Napoli dopo il raccolto del Tavoliere perché il clima è più dolce. Mio padre si è laureato e ha iniziato a fare il dentista a Napoli. Mia madre è una Cafiero di origini napoletane. Così, io mi sono iscritto all’università di Napoli. Studiavo giurisprudenza e suonavo con gli americani, Murolo e Sergio Bruni fino a notte fonda».

Fabio Fazio l’ha chiamato padre della televisione italiana.

«Più che padre, considerata l’età, sono il nonno. La nonnità deriva da quello che ho fatto: tre format radiofonici come Bandiera gialla, Per voi giovani e Alto gradimento e 16 televisivi, da L’altra domenica a Speciale per voi, da Meno siamo meglio stiamo a Cari amici vicini e lontani che ha celebrato la radio in tv».

Quindi il monumento le è piaciuto?

«Il monumento ci può stare perché sulla Verità tale Celli Pier Luigi, il peggior direttore generale che la Rai abbia avuto, ha sparlato di me. L’unico fallimento della mia carriera è stata la direzione artistica di Rai International, un’idea straordinaria guidata dall’ottimo Roberto Morrione, che quel signore è riuscito inopinatamente a far chiudere non rinnovandoci il contratto e dandomi del venale. Un’accusa che ritengo la più lontana e infamante della mia personalità. Per questo abbiamo creato l’associazione Roberto Morrione e oggi tutti rimpiangono quella stagione come la migliore di Rai International».

Un mio ex compagno di scuola mi ha ricordato che alla fine delle lezioni andavamo a casa mia ad ascoltare Alto gradimento

«Nella storia della radio, Alto gradimento è stata la seconda trasmissione più seguita dopo I quattro moschettieri. La terza è stata Viva Radio 2 di Fiorello».

Che lei considera un suo erede, più di Fazio, Piero Chiambretti e Giorgio Faletti?

«Lo considero un po’ un figlioccio. Lui stesso lo dice, ricordando quando parodiava le mie canzoni nei villaggi turistici. Anche Chiambretti ha preso qualcosa. Faletti no, ha una storia autonoma, era un talento eclettico, faceva Vito Catozzo, ha scritto la meravigliosa Minchia, signor tenente, grandi thriller…».

Breve lista dei talenti scoperti con Gianni Boncompagni: Roberto Benigni, Andy Luotto, Michel Pergolani, Luciano De Crescenzo, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini, Massimo Catalano, Marisa Laurito, Francesco Paolantoni, Maria Grazia Cucinotta, Mario Marenco, Giorgio Bracardi, Maurizio Ferrini, Ilaria D’Amico, Roberto D’Agostino…

«Ilaria D’Amico la avvicinai per strada proponendole un provino proprio per Rai International. Pensai subito che potesse sfondare. Facemmo La Giostra del goal, trasmettendo le partite in diretta fuori dall’Italia. Lei conduceva e divenne esperta di calcio».

De Crescenzo?

«Rappresenta la Napoli aristocratica di Raffaele La Capria. Un ingegnere elettronico, il primo a usare il computer in Italia. Lo conobbi perché avevamo la stessa fidanzata a nostra insaputa. Lei mi diceva: “Sono amica di De Crescenzo”, e a lui: “Sono amica di Arbore”. Quando c’incontrammo tutti e tre capimmo che non era amicizia».

Troisi?

«Paladino di una Napoli di grande tradizione. Un erede di Eduardo e un grande amico».

Benigni?

«Un folletto intelligentissimo che dimostra come ci si può fare da sé. Anche Mariangela Melato e Gabriella Ferri si sono fatte da sé. Persone di estrazione proletaria che si sono acculturate lasciando il segno nella cultura italiana».

Dimentico qualcuno?

«Il Mago Forest era il maghetto di Indietro tutta. Poi le sorelle Bandiera, il primo trio di comici en travesti ma di grande eleganza. Il più forte di tutti però era Mario Marenco: una vena umoristica così surreale e moderna io e Gianni non l’abbiamo mai più trovata».

Che fine ha fatto Gegé Telesforo?

«È uno dei migliori cantanti jazz europei. Fa un piccolo programma su Rai 5, la grande televisione non segue il jazz».

D’Agostino come lo trovò?

«Era uno dei ragazzi di Bandiera gialla. Informatissimo, andava nei night a pescare mode e tendenze. Aveva curiosità per le cose che bisognava sapere, come dimostra il successo di Dagospia. Dago in the Sky è il programma più d’avanguardia della televisione italiana».

Il suo partner ufficiale è lo straordinario Nino Frassica: rischia forse d’inflazionarsi?

«Qualche volta glielo dico anch’io».

Pazzaglia?

«Un intellettuale borbonico, autore delle più belle canzoni di Domenico Modugno. Un compagno d’armi con il quale abbiamo fatto Cari amici vicini e lontani sui 60 anni della radio. Pensando a lui mi riprometto di campare fino al 2024 per festeggiare il secolo della radio».

Che l’ha svezzato.

«Eravamo la generazione beat, quella apprezzata da Edmondo Berselli, protagonista della vera rivoluzione prima del Sessantotto. Con Bandiera gialla e Per voi giovani si scoprirono i giovani. Fino al 1964 si parlava solo di ragazzi, le riviste erano L’Intrepido, Il Monello, Il Corriere dei ragazzi. Poi nacquero Big, Giovani e Ciao 2001. C’erano Barbara Palombelli, Dario Salvatori, Renato Zero, Loredana Bertè, Clemente Mimun. Avevamo rubato l’etichetta beat a Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti. Creammo i cappelloni, i chitarroni, un modo di ballare, c’era Patty Pravo. Pochi giorni fa ho rivisto Shel Shapiro e Maurizio Vandelli…».

Poi arrivò la contestazione e in quell’atmosfera cupa sceglieste come sigla Rock around the clock che aveva l’argento vivo…

«Fu voluto, ovviamente. Il nostro successo venne dal fatto che facevamo divertire in un momento in cui il sorriso era criminalizzato. I contestatori dicevano: “Una risata vi seppellirà”. Sono rimasti sotto loro. Da filoamericano non potevo simpatizzare per i maoisti cinesi o i comunisti filosovietici perché i miei amici jazzisti erano già stati in Russia e mi raccontavano la tristezza di là».

Mai litigato con Boncompagni?

«Mai. Eravamo diversi, ma ben assortiti».

Lui era cinico?

«Ma molto intelligente e intraprendente, mentre io ero timidissimo. Mi ha tirato fuori da quel guscio di timidezza».

Era nichilista?

«Era comunista. Lo erano tutti tranne il sottoscritto e il mio amico Gerardo Gargiulo, gli unici liberali. Indossavamo i jeans che si compravano ai mercati americani. Poi suonavo all’Uso (United States Organizations) un club che assisteva i militari americani. Per Tu vuo’ fa’ l’americano Carosone s’ispirò a noi».

Le registrazioni di Alto gradimento sono state ritrovate?

«Una parte le ha Radio Rai, qualcuna qualche appassionato. Faccio un appello ai collezionisti che ne possedessero delle registrazioni di scrivere al suo giornale, così potremmo recuperare una pagina importante della storia della radio».

Perché il jazz e la canzone napoletana?

«Quand’ero bambino a Foggia di sera gli americani suonavano Glen Miller al Circolo ufficiali di fronte casa. Invece di giorno, mentre ricostruivano le case bombardate, i muratori cantavano le canzoni napoletane».

Cosa guarda in televisione?

«I talk show. Lo faccio per esaudire il pasqualismo di Totò. Un energumeno lo riempiva di ceffoni “Pasquale beccati questo; e quest’altro”, per vedere fino a che punto resisteva. Lui non reagiva: “Mica sono Pasquale”. Guardo i talk show per vedere fin dove vogliono arrivare i politici. I talk show sono televisione per eccellenza. E poi in me c’è una passione politica nascosta».

Possiamo circostanziare?

«Anche in questo sono filo americano. In camera da letto ho il busto di Abramo Lincoln e ho apprezzato John Fitzgerald Kennedy. Ho cercato il più americano dei partiti italiani senza riuscire mai a trovarlo».

Quindi non vota?

«Votavo per quelli che mi sembravano più vicini, poi ho abbandonato. Cerco il partito dell’affidabilità, quello che ti vende l’auto usata giusta. In America l’affidabilità è tutto, i politici che non tradiscono le promesse fatte agli elettori. Altro che Bill Clinton. Da giovane leggevo tutti i giornali di partito da La Discussione a La Voce repubblicana fino a Rinascita».

È rassegnato?

«Ho poca fiducia. Esportiamo il made in Italy, ma la politica e la questione sociale no perché sono il vero tallone d’Achille».

Il cambiamento delle ultime elezioni?

«Sto a guardare, ma fatico a vedere personalità che possano avvicinarsi al mio punto di vista da artista. Poi sono lincolniano… Mi piacerebbe trovare qualcuno che dice qualcosa che va contro i suoi interessi».

In un’isola deserta con soli tre dischi.

«West and blues di Louis Armstrong, Era de maggio di Roberto Murolo, Titanic di Francesco De Gregori».

Chi sono i maestri del venerato maestro Renzo Arbore?

«Armstrong, Totò, Murolo, Ray Charles, Riccardo Pazzaglia, Charlie Parker, Federico Fellini».

Il più grande di tutti?

«Louis Armstrong, che ha inventato la musica del nostro tempo».

Tra gli italiani?

«Enzo Jannacci per la fantasia straordinaria. Ha scritto Vincenzina e la fabbrica Vengo anch’io! No, tu no, Il palo dell’ortica».

Cosa farà a Natale?

«Me lo godo con la famiglia. Anche se non c’è più Mariangela… Con lei sono diventato credente».

Cosa intende dire?

«Che spero e credo che lei ci sia ancora. Quando si pensa alle persone care è importante credere in un’altra vita. Questo grandissimo dolore mi ha avvicinato a un sentimento religioso. La lotta che ha condotto contro quella malattia ingiusta… tutte le malattie lo sono. Ma io voglio sperare. Ecco: sono uno sperante».

 

La Verità, 16 dicembre 2018

Perché Palombelli vince il primo round con Gruber

Durerà tutta la stagione il duello tra le regine del talk show. E ci sarà dunque modo di aggiornarsi strada facendo. Per ora va registrato il successo alla prima uscita di Barbara Palombelli su Lilli Gruber: 5.2% di share (1,2 milioni di telespettatori) per Stasera Italia e 4.9% (1,1 milioni) per Otto e mezzo. Sui numeri dell’audience alchimie e programmazione dei canali concorrenti influiscono in modo diverso. Per esempio: il match della Nazionale con il Portogallo avrà portato via più telespettatori al programma di La7 o a quello di Rete 4 che ha un pubblico in prevalenza femminile? E l’assenza di break pubblicitari (se si eccettua quello di 30 secondi alle 21) quanto avrà favorito il talk della rete Mediaset? Ecco perché non vale la pena enfatizzare il risultato del primo duello. Le due sacerdotesse dell’access prime time continueranno a fronteggiarsi, diverse e speculari per stile giornalistico, antropologia ed estetica. Lilli: altoatesina e spigolosa, in uno studio asettico; Barbara: romana, senza più il microfono gelato, in un contesto un po’ incipriato. Lilli più seguita al nord, da un pubblico maturo e acculturato, di solito in maggioranza maschile (quello identificato con la doppia A dalle società di rilevamento); Barbara apprezzata in modo uniforme, ma con picchi nel centro Italia, da un pubblico più femminile e con livello d’istruzione basico.

Per ciò che si è visto nel primo round la differenza evidente è stata di vivacità e dinamismo. Rispetto alla lunga intervista con Alessandro Di Battista di Gruber, il talk di Palombelli è parso più dentro le notizie della giornata, affrontate con linguaggio semplice e diretto, non solo per la presenza di Pierluigi Bersani, Alessandro Sallusti e Ferruccio De Bortoli. La conduttrice di Otto e mezzo ha interrogato l’esponente grillino in Guatemala con l’idea di fargli prendere le distanze dal governo o almeno da Luigi Di Maio, alleato di Salvini che causa i controlli dell’Onu per razzismo e rispetto al quale il M5s è subalterno. Un’intervista molto politica, che persegue la strategia della divisione tra i partner di governo.

Più vivace il salotto di Rete 4, partito sull’ispezione dell’Onu e proseguito con il dibattito sulla chiusura domenicale dei negozi, temi introdotti da servizi ad hoc, come quello sul traffico di migranti a due passi dalla Stazione Termini di Roma. Nella seconda parte, con Vittorio Sgarbi e Roberto D’Agostino si sono affrontati temi più leggeri, cominciando dallo storico schiaffo in diretta del 1991, per finire con le pagelle ai politici. Stasera Italia è parso un talk show di approfondimento completo.

L’emozionante esperienza visiva di Dago in the Sky

S’intitolava «Homo robot» la prima puntata di Dago in the Sky, il programma di Roberto D’Agostino e Anna Cerofolini che per il terzo anno riflette su tendenze e avanguardie innescate dalla rivoluzione tecnologica (Sky Arte, martedì, ore 21.15). Più ancora delle stagioni precedenti quella appena iniziata è un’esperienza visiva, un viaggio estetico, un percorso visionario. Lo schermo non è più sezionato geometricamente in rettangoli e quadrati, ma le immagini sono fluide, evolvono, si sdoppiano, riflettono, accoppiano. Attraverso l’uso digitale della tv si va alla ricerca di un «Rinascimento hi-tech» capace di archiviare il «Medioevo analogico del secolo scorso». Su un angolo dello schermo, spunta e si rifrange il volto parlante di D’Agostino che segna i passaggi della riflessione o quello degli ospiti convocati per approfondirne alcuni segmenti specifici.

Oggi il sentimento più diffuso non è il timore del futuro, ma di ciò che avverrà domani mattina. Che ne sarà del lavoro con l’avvento dei robot? L’intelligenza artificiale cambierà anche il sesso? E influirà anche sull’identità degli esseri umani? Già oggi i computer ci battono a scacchi, fanno la pizza, guidano le auto. Ma «preparatevi», avverte D’Agostino, nella prossima società cibernetica «le macchine saranno più intelligenti degli esseri umani». La tecnologia è l’ideologia del ventunesimo secolo, solo che non ha come obiettivo il governo degli Stati, ma la creazione di un paradiso a misura dei robot più che degli esseri umani. Questo potrà passare per il governo dei cervelli, la sorveglianza delle menti, l’incanalamento delle pulsioni. Secondo Maurizio Molinari, la prima rivoluzione riguarderà il lavoro, l’automazione creerà disoccupazione e il tempo libero da residuale diventerà principale. Ma al momento nessuno sa come prenderla. Il punto di svolta sarà quando i robot avranno capacità creativa e inventiva. Per la master inventor Floriana Ferrara è un errore difendersi dalla tecnologia che è, invece, una grande opportunità. Grandi scrittori e registi del passato avevano immaginato che l’intelligenza artificiale avrebbe potuto influire sull’identità dell’essere. Quella che trent’anni fa era fantascienza ora è realtà. Ce n’è abbastanza per dividersi tra apocalittici e integrati. Scherzando, Albert Einstein osservava: «Il futuro non mi piace perché arriva troppo presto».

Nelle prossime puntate Dago in the Sky si occuperà di occulto, tendenze artistiche, celebrità digitali, vite stupefacenti, potere dei farmaci…

La Verità, 9 novembre 2017

D’Agostino: «Dove nasce la mia psichedelia televisiva»

Si apre la porta e davanti ai Bronzi di Riace in legno a grandezza naturale capisci subito di essere capitato in un altro mondo. «Prenda quella scala a chiocciola». Un budello in salita, ma è una discesa nelle viscere del kitsch. Bambole gonfiabili e crocifissi. Falli e statue del presepio. Foto di pornostar ed ex voto. Oggettistica varia, fruste, quadri di Padre Pio, raccolte di vinili, statuine, flipper, teschi, organi genitali, scarpe colorate incollate al soffitto, giornali, pupazzi fetish, installazioni, neon alla rinfusa. Un postribolo post moderno. Un set cinematografico. Un bazar del trash e dell’ultrapop. Un hangar di memorabilie che potrebbe appagare gli scenografi di Wes Anderson e Tim Burton. Invece è la casa di Roberto D’Agostino, alias Dagospia, alias Dago in the Sky. Da una parte il Tevere e Castel sant’Angelo, dall’altra Piazza Navona. Tutto si tiene, tutto si connette e tutto s’incrocia nelle stanze di questo attico brulicante di citazioni della pop art, del riflusso anni ’80, del vintage, della video arte. Tutto alimenta la sua psichedelia televisiva. Ogni tanto Dago caccia un urlo: «Mettiamo la mostra di Letizia Battaglia, ma cambiamo la foto…». Da un’altra stanza qualcono risponde ed esegue. «Maurì, vieni qui… Vedi questo programma? Si chiama Linkpulse. Mi dà la reazione in tempo reale ai contenuti, quello che tira e quello che va di meno. Avevo messo in apertura Nanni Moretti, ma ’sta cosa di Brugnaro, il sindaco di Venezia che sbrocca con un ragazzo, funziona di più. E io cambio. Riccardoooo». Riccardo Panzetta, Francesco Parsili e Giorgio Rutelli compongono la redazione di Dagospia, poi ci sono altri collaboratori segreti più gli esterni che mandano i post. Dago in the Sky invece è il programma culto del momento, dieci serate di 30 minuti in onda al venerdì su Sky Arte, realizzato in queste stanze a costo zero o quasi, insieme con il direttore della rete Roberto Pisoni, la società di produzione Magnolia e la coautrice Anna Cerofolini. In coda ai titoli di coda si legge: «Tutto il materiale è preso da internet».

Roberto D'Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Roberto D’Agostino con la moglie Anna Beatrice Federici nella loro casa sul Lungotevere

Un piacere per gli occhi. Come ti è venuto in mente?

«Mi ero stancato della tv dei telemorenti. Ma anche di criticare e basta. Il critico televisivo è diventato un becchino. Invece, siamo in pieno Rinascimento. La scoperta di internet è come la scoperta della stampa di Gutenberg. Prima il sapere era di pochi e le immagini nelle chiese servivano a dire al popolo chi erano i padroni. Con la stampa e la lettura il sapere è a disposizione di tutti».

È così rivoluzionaria internet?

«Ha messo fine alla casta dell’informazione. Finite le gerarchie, le riunioni di redazione, tutto quel piccolo mondo antico. Con lo smartphone abbiamo un computer in tasca con cui possiamo fare tutto. Un pastore della Nuova Zelanda ha le stesse possibilità di un ricercatore di New York. Uno che ha filmato una cosa interessante per strada e me la manda va dritto in rete».

Tutto destrutturato e fluido. Però ci sono meno controlli.

«È una jungla, ma la rete ha gli anticorpi e fa la selezione. Lo stesso processo sta avvenendo in televisione».

Tu parli di telemorenti, ma la tv generalista è dura a morire.

«Resistono i grandi eventi e le disgrazie. Allora la tv diventa messa cantata. Oppure le partite di calcio, se sei tifoso le vivi in tempo reale. Per il resto non c’è più il palinsesto fisso: registro e guardo quando voglio. Ci sono tg a tutte le ore, siamo dentro un continuo photo call. La tv è il monitor, i contenuti sono fluidi. La stessa cosa sta accadendo in politica…».

Squilla il cellulare. «Sì, mi dica… D’accordo, me lo mandi e lo pubblico… Vedi: era il portavoce di Brugnaro, il sindaco di Venezia. Mi manda il video dove si vede la reazione del ragazzo. Tutto avviene in tempo reale. Tra poco questo video è in rete, i giornali sono troppo lenti. Per questo il distico del programma è la frase del saggio di Guerre stellari: “Il futuro è”».

Un'immagine della puntata sul cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Un’immagine della puntata dedicata al cibo: «Il cuoco è diventato chef, il cibo food»

Quando è cominciato il futuro?

«Internet è arrivata nel 1989, come la caduta del Muro di Berlino. Dieci anni dopo ho fondato Dagospia. Mi dicevano che ero pazzo».

Rispetto alla rete anche la televisione è più lenta o più brutta?

«La tv non è bella o brutta: non serve. La cosa peggiore che puoi dire a una persona non è: ti licenzio perché lavori male, ma perché non servi più. Tutto sta cambiando velocemente. Ti ho mostrato quel programma che misura gli indici di interesse: non sono io che lavoro e do la linea, sono le macchine che lavorano. Io mi adeguo. Scelgo gli articoli in base al mio gusto e all’attualità, se un pezzo è scritto bene ma non è attuale non lo metto. Guarda Trump. La globalizzazione…».

Trump ha vinto senza televisione, anzi perdendo i confronti. La democrazia orizzontale di internet sembra favorire i populismi. Non sarà sopravvalutata la globalizzazione?

«ma no, guardati attorno. La rete taglia le caste. Trump aveva tutti contro, giornali e televisioni. Come Grillo e Farage: sono senza tv e con i poteri forti contro. Eppure… Internet cambia il modo di far politica. Spero che Trump porti una trasformazione come quella di Reagan, che inaugurò la belle epoque degli anni ’80. Dopo dieci anni in vetta, per la sinistra è dura accettare la sconfitta. La casta se ne stava bella comoda a Capalbio, a giocare all’avanguardia che dà la linea alle masse… Un bel trauma».

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Il logo del programma di Sky Arte: «Tutto il materiale è preso da Internet»

Come nasce Dago in the Sky?

«È la prima volta che faccio una cosa con il mio nome. Ho sempre fatto l’ospite. Mi sono chiesto che politica c’è dopo internet? Che arte c’è, che cibo c’è. La globalizzazione cambia la narrazione, come si vede nelle serie, in Narcos o House of Cards. Questa installazione di Nam June Paik, l’inventore della video arte, è degli anni ’80 e ancora oggi è ultra moderna. Noi siamo fermi a Carlo Conti e Fabio Fazio».

Fai psichedelia televisiva.

«Uso il linguaggio di internet e trasformo lo schermo rendendolo simile al display dello smartphone, con tante immagini che si muovono in contemporanea. Mio figlio che è ingegnere e lavora a Londra, ogni anno deve sostenere, come tutti i suoi colleghi, un esame per dimostrare il grado di aggiornamento. Anche noi dobbiamo aggiornarci a ciò che sta succedendo nella politica, nella moda, nella religione. Faccio tutto qui».

 

Roberto d'Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Roberto d’Agostino nella sua casa: «Dago in the Sky» nasce in queste stanze a costi bassissimi

Avanguardia a basso costo?

«Bassissimo. Viene una troupe per girare i miei lanci e le interviste agli ospiti. Ma io e gli ospiti non parliamo mai tra noi, per rispetto del telespettatore. Vorrei che questo programma fosse contemporaneo anche fra due o tre anni».

Impostazione fredda e professionale, tranne nel passaggio sul «bulletto di Rignano»…

«Sì, mi è scappato…».

C’è il blogger intenazionale e colto di Sky Arte, c’è quello di Dagospia con la sua morbosità postribolare e c’è l’ospite dei talk che si schiera. Qual è il vero Roberto D’Agostino?

«Sono sempre lo stesso, ma uso linguaggi diversi. Come diceva Andy Warhol, “è la cornice che fa il quadro”. Quando andavo a Quelli della notte avevo letto su un libriccino americano la tecnica del tormentone. M’inventai l’edonismo reaganiano: aspettavo solo il momento di tirarlo fuori. Era come “Allegria!” di Mike Bongiorno. Il pubblico della tv ti ricorda per queste cose: devi dare il titolo e il sommario, stop. La spiega la fai da un’altra parte. Lì, da Arbore, non ho mai spiegato cos’era l’edonismo reaganiano. Una volta chiesi a Moravia che divertimento c’era a passare le giornate a leggere certi libroni quando fuori c’era sesso droga e rock ’n’ roll. Mi rispose che la cultura serve solo a spendere bene i soldi, a saper abbinare una poltrona con una lampada».

Tornando alla tv, è tutta una questione di contesti e linguaggi?

«Fiorello che va in onda al mattino è effervescente perché deve dare la carica. David Letterman aveva uno show dopo le 23 e usava lo swing per tenere sveglio il pubblico. Adegui il linguaggio alla situazione. In questo mondo siamo tutti un po’ Fregoli. Solo Sgarbi è sempre Sgarbi in tutti i posti dove va. Però quando è venuto a Dago in the Sky non ho avuto bisogno di spiegargli che non volevo il turpiloquio. Se vado in chiesa mi comporto in modo diverso da quando vado in discoteca».

A proposito, qui ci sono madonne e pornostar…

«Sono i due lati della mia esistenza. Sono cattolico e credente, ma anche preso dal richiamo dell’eros. Questa roba è un diario visivo delle mie emozioni, non c’è niente di casuale».

Credente e praticante?

«Credente che va in chiesa, non a messa…».

Il tuo libro di culto?

«Detti e contraddetti di Karl Kraus, un autore austriaco, fondatore tra l’altro di Die Fackel («La Fiaccola»), una rivista satirica antenata di Dagospia».

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D'Agostino

Karl Kraus, autore di «Detti e contraddetti», libro di culto di Roberto D’Agostino

Ti è piaciuto The Young Pope?

«È piaciuto molto a mia moglie. Io non l’ho visto tutto. Come La grande bellezza, mi pare che quello di Sorrentino sia soprattutto un grande gioco visivo».

Che cosa succederà il 4 dicembre?

«Credo vincerà l’antirenzismo del No».

E poi?

«Poi niente. Sarà uno schiaffo utile per riportare Renzi con i piedi per terra e fargli capire che il mondo non finisce a Rignano sull’Arno».

 

La Verità, 27 novembre 2016