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«La radio libera davvero è quella dei vescovi»

Quando arrivo a InBlu Radio a Milano, lo studio dove Eugenio Finardi registra La musica è ribelle è inondato dalle note della Mahavishnu Orchestra. Si dà il caso che il vinile del live di Between the notinghness & eternity sia stato uno dei miei primi acquisti nel lontano 1973 e, quasi inascoltabile causa fruscio da usura, sia stato rimpiazzato dalla versione in cd, tratta dalla jam session fortunosamente ritrovata, di cui ora sta parlando Finardi. La lunga digressione è per dire l’affinità musicale che mi lega all’irregolare di oggi: milanese, classe 1952, tre figli di cui una affetta dalla sindrome di Down, autore ispirato di una serie di canzoni generazionali, alcune delle quali ripropone il sabato sera sull’emittente della Conferenza episcopale italiana.

«Se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più perché libera la mente»: se l’aspettava di fare il dj nella radio dei vescovi italiani?

«Assolutamente no. Ma il tempo ha una grande ironia e devo dire che questa è l’unica emittente che mi ha concesso totale libertà. La cosa non mi stupisce. La figura di papa Francesco è forse quella che oggi sento idealmente più vicina. Nel 2012, un anno prima della sua nomina, una mia canzone intitolata Nuovo umanesimo toccava i temi dell’etica del lavoro e del rispetto dell’uomo che ricorrono nel suo pontificato. Dico tutto questo da non credente».

Ma non da anticlericale.

«Non lo sono. Ho sempre cercato una dimensione spirituale, senza la quale credo che una vita non possa dirsi compiuta. In questo mi aiuta l’amore per la musica, compresa quella sacra. Dallo Stabat Mater di Pergolesi e da tutta l’opera di Bach promana un bisogno del divino che appartiene a tutti gli uomini».

Tuttavia, sorprende trovarla qui: si è proposto ad altre emittenti?

«La prima proposta mi era arrivata da Radio Italia, ma non è andata in porto. In passato ho lavorato per la Radio della Svizzera italiana, a Radio Milano centrale. Tuttora collaboro con Radio2 Rai a un programma che si chiama Me Anziano You TuberS dove scelgo due pezzi a trasmissione e stop. Con la dittatura della playlist, nessuno mi concede la libertà che ho trovato qui».

Eugenio Finardi nello studio di InBlu Radio, emittente della Conferenza episcopale italiana

Eugenio Finardi nello studio di InBlu Radio, emittente della Conferenza episcopale italiana

A proposito di Youtube, ha senso la radio nell’epoca di internet e dello streaming?

«La radio è il media più prezioso e, a suo modo, poetico. È la voce umana a fare la differenza. Oggi si va di playlist, ma è una formula autoreferenziale, narcisistica. Ogni mia scaletta ha un tema preciso e la musica serve per raccontare storie».

Esempio?

«Prima della puntata sulla fusion ne ho fatta una sui The Swampers, una band di studio di Muscle Shoals, cittadina dell’Alabama dove incidevano i grandi del soul: Aretha Franklin, Wilson Pickett, Etta James. La storia interessante è che erano bianchi, perciò, dopo la musica insieme pranzavano separati».

La radio aiuta la narrazione, si direbbe oggi.

«Libera la mente, innesca l’immaginazione. Il mio scopo è allargare gli orizzonti di chi ascolta. Far capire che la musica è un linguaggio assoluto, legato alla matematica, alla fonica newtoniana. Musicisti che non si capiscono a parole possono suonare facilmente insieme. La musica non ha barriere. Trump può erigere il muro tra America e Messico, ma il tex-mex e, più in generale, la musica latina, sono generi affermati e popolari».

Tra poco saranno cinquant’anni dal 1968. Che cosa si aspetta?

«Di fare molte interviste. Spero ci si ricordi di un’epoca in cui c’erano tante cose che valevano più del denaro. In realtà il Sessantotto è un ventennio, iniziato con le lotte contro la segregazione dei neri. “I have a dream” di Martin Luther King è del 1963. Poi ci sono stati i movimenti delle donne e per la liberazione dal colonialismo. Quell’epoca si è chiusa con Ronald Reagan, Margaret Tatcher e l’affermazione del liberismo. Che, come tutti gli ismi, è una perversione di un’idea giusta, in questo caso quella liberale».

Ideali che sono diventati ideologia, causa di violenza e distruzione.

«Al culmine di quei movimenti, nel ’76, l’anno di Musica ribelle, quando il cambiamento sembrava vicino, sono arrivate le P38 e l’eroina».

Come se lo spiega?

«Nell’uomo c’è qualcosa che tende a corrompere e inquinare. Spiritualità, rispetto, grazia hanno il loro contrario nell’egoismo e nella violenza. Tendiamo al bene, ma restiamo soggiogati dal male».

Come già diceva San Paolo. Voi cantautori dovete fare autocritica?

«Sì, per l’ingenuità, un limite non da poco. Tuttavia, con Extraterrestre sono stato tra i primi ad accorgermi di certe perversioni. Ricordo che mi vergognavo di guadagnare troppi soldi».

Come nacque Extraterrestre?

«Era il momento del riflusso. Molti se ne andavano in India, qualcuno in barca a vela, altri si rifugiavano nelle droghe. Extraterrestre era un’immagine per dire che puoi andare dovunque, ma se non cambi dentro non cresci. Anche il successo è un’illusione».

Tornando al Sessantotto, c’è qualcosa che non rifarebbe o non direbbe?

«In realtà, no. L’unica canzone che non ricanterei è Giai Phong, tratta da un testo di Tiziano Terzani, che inneggiava alla liberazione di Saigon. Qualche anno dopo scoprimmo che anche quella del Fronte di liberazione nazionale era diventata una dittatura militarista».

Musica ribelle si chiudeva con «se ci metteremo insieme a lottare per cambiare nessuno ci potrà fermare». Invece?

«Ci ha fermato la natura umana. Molti hanno scambiato la libertà con la possibilità di abbandonarsi alla violenza, alla prevaricazione, all’istinto. C’è stato il tradimento delle classi dirigenti. La borghesia ha perso il senso di responsabilità. Mio padre, dirigente d’azienda nato nel 1909, sentiva la responsabilità verso le classi più disagiate. L’altro giorno ho saputo di una grande agenzia che organizza vacanze opulente su uno yacht in compagnia di escort, professionisti del sesso, droga libera, cibo fino a scoppiare: il denaro può tutto, è la nuova idolatria».

Lei è anche autore di canzoni d’amore: Non è nel cuore, Patrizia, Un amore diverso… Ha capito da dove viene «la forza dell’amore»?

«È qualcosa che abbiamo dentro, la nostra parte migliore che troppe volte si corrompe. Più che canzoni d’amore ho scritto canzoni sull’amore. Patrizia è dedicata a una donna amata, Amore diverso alla mia prima figlia. L’amore per i figli è quasi doloroso tanto è forte e puro. Come lo è l’amore da vecchi, quando non lo si fa più. Ma lo si vive ugualmente, magari pensando che cosa sarà dell’altro quando tu non ci sarai più».

«Non può esistere l’affetto senza un minimo di rispetto»: è un pensiero più rivoluzionario per i ragazzi di trent’anni fa o per quelli contemporanei?

«È rivoluzionario per i ragazzi di tutte le epoche».

«L’amore è fatto di gioia ma anche di noia»: è non accettare questo che rende solubili tanti matrimoni?

«Anch’io ho divorziato, non per mia volontà. Non so se esiste l’amore eterno. Mi affascina l’idea di un sentimento che duri 50 o 60 anni, ma non è da tutti. Piuttosto, vedo che i ragazzi di oggi si sposano molto tardi. Non ci si impegna fino a 38 anni e poi non si riesce ad avere figli».

«Ti amo perché sei una donna, ma anche un vero uomo, un amico, un socio forte, un maggiordomo, ma ti piaci in uno solo: quello di donna con vicino il suo uomo»: che cosa pensa della confusione dei sessi di questi anni?

«Credo che le donne siano sempre più forti e gli uomini debbano accettare la propria fragilità. La mia compagna è una donna con un carattere deciso, economicamente indipendente. Ho tre figli e ho visto all’asilo bambini che erano già palesemente bambine e bambine che erano già maschi. Come padre di una ragazza disabile non credo esista una normalità astratta. Certo, si parla troppo di omosessualità. Per un anno non abbiamo fatto che parlare di stepchild adoption, dividendo il Paese con un dibattito che riguardava 40 bambini. Intanto la gente non ha lavoro, tanti bambini vivono nella povertà, nei campi ci sono gli schiavi».

Su Youtube dopo la sua Patrizia è spuntata Anna e Marco di Lucio Dalla. Tra i cantautori a chi vorrebbe rubare una canzone e quale?

«Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle, scritta due anni prima. Quando chiesi a Lucio se c’era un nesso mi rispose che erano “uno stereotipo, l’incarnazione di una generazione”. Un brano lo ruberei a Franco Battiato: Centro di gravità permanente o Gli uccelli».

Eugenio Finardi con Lucio Dalla: «Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle»

Eugenio Finardi con Lucio Dalla: «Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle»

Viene da sua madre, cantante lirica, la passione per tutta la musica?

«Sono nato dentro uno strumento musicale. Non so in che momento della gravidanza si sviluppi l’udito nel feto, ma la prima cosa che ho sentito è certamente la voce di mia madre cantare».

Che cosa vuol dire essere padre di una ragazza down?

«All’inizio è stato uno shock. Da astrazione poetica il “mettersi a lottare” di Musica ribelle è diventato impegno quotidiano».

Quanti anni ha e come vive Elettra?

«Ha 35 anni. Da quando ne ha 19 vive in una casa famiglia vicino a me. Percependo la fatica dell’essere “normale”, fu lei a chiedere di andare a stare con altre persone disabili. Elettra è stata una grande sofferenza, ma anche una responsabilità e uno stimolo. Mi ha portato a pensare all’essenza delle cose. Senza di lei forse avrei fatto una vita più superficiale. Pranziamo insieme ogni settimana, è un rito. È una donna piena di iniziative».

Svaniti i sogni di rivoluzione, oggi in che cosa spera?

«Pensando all’ambiente, al futuro del pianeta, al nostro egoismo, non sono ottimista. Inoltre, non sono religioso, non credo alla vita eterna e sto invecchiando. Spero che riusciamo a preservare la bellezza che abbiamo attorno. A vivere con grazia a carità. Lo so, sono concetti cristiani».

La Verità, 3 dicembre 2017