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«Studiare i condannati mi migliora umanamente»

L’applauso più lungo e scrosciante è stato per lei. Alla presentazione dei palinsesti della Rai a Milano c’erano Fabio Fazio e Alberto Angela ed era stato evocato anche Paolo Limiti, mancato il giorno prima. Ma quando Daria Bignardi ha annunciato che Storie maledette di Franca Leosini tornerà in autunno, è partita l’ovazione. Ora, nella redazione a due passi da Castel Sant’Angelo, tra armadi e scrivanie stipate di faldoni, la dark lady della televisione italiana mi accoglie in un total white portato con l’eleganza tipica dei nobili napoletani.

Quell’ovazione l’ha sorpresa?

«Non me l’aspettavo. È stata un’esplosione di affetto che mi ha gratificata e commossa. C’erano i big della televisione e i giornalisti specializzati: un omaggio che risarcisce di tanto lavoro».

Crede sia da collegare al fatto che su Facebook aveva chiesto al pubblico di starle vicino a causa del rinvio del programma?

«Direi che sono due realtà diverse. Quel giorno c’erano le rappresentanze più qualificate del nostro mestiere. L’ho preso come un riconoscimento della qualità del programma. Che però è apprezzato in modo trasversale sia dalla gente comune che dal pubblico colto. Matteo Garrone ne ha tratto ispirazione per i suoi primi film, L’imbalsamatore e Primo amore».

Franca Leosini, al momento dell'ovazione alla presentazione dei palinsesti Rai

Franca Leosini, al momento dell’ovazione alla presentazione dei palinsesti Rai

È seguito anche dai giovani.

«Dai leosiners, che organizzano gruppi di ascolto. Quando dai un buon prodotto i ragazzi lo seguono, non hanno bisogno delle bollicine».

Perché la stagione della primavera 2017 è slittata?

«In primo luogo, perché ritengo che il suo momento sia l’autunno o l’inverno. Sono grata a Daria Bignardi che ha accettato questa mia preferenza. E poi perché ci sono stati inconvenienti tecnici, non dipendenti da me. Come un detenuto che rimane in isolamento e non è intervistabile. Le molte proteste mi hanno lusingato».

Quanti casi tratterà?

«Spero quattro. Ma sono top secret. Per rispetto delle persone coinvolte e per scaramanzia».

Perché Storie maledette è un cult dal 1994?

«Credo che in ogni caso ciascuno riconosca una parte di sé. È un programma che sveglia i nostri fantasmi. Il pubblico aumenta ogni anno».

Perché la incuriosiscono i protagonisti della cronaca nera?

«Ho fatto mia la regola di Raymond Chandler: non è tanto importante scoprire l’autore del delitto quanto capire il percorso psicologico che ha portato a commetterlo. Spesso mi occupo di casi sconosciuti, che hanno ugualmente grandi riscontri. Scelgo le storie in base alle tematiche».

Per esempio?

«Ricordo una puntata intitolata L’amante giovane che ebbe molto successo. L’amante più giovane di 26 anni era lui, non lei. Un possidente terriero aveva convinto Adele Mongelli, madre di quattro figli, a lasciare il marito. Trascorsi due anni, una sera dopo aver fatto l’amore, le disse che era l’ultima volta perché nel frattempo si era trovato la fidanzata: “Tu sei troppo vecchia per me”. Lei uscì dalla camera, tornò con un coltello da cucina e lo ammazzò con 39 coltellate. Di solito erano le donne a essere amanti giovani, in genere non di metalmeccanici. Adesso seguiamo con curiosità la storia di Emmanuel e Brigitte Macron».

Un’altra tematica?

«Un certo tipo di delitti che si consumano al nord più che al sud. Come quelli contro i genitori, che hanno spesso matrice nel denaro. Ricorda Pietro Maso? A Napoli, dove domina la camorra e c’è la paranza dei bambini che inneggiano a ’u kalash, i genitori sono sacri. Anche i delitti sulle donne sono più frequenti al nord, dove la donna è economicamente indipendente. Al sud ci sono meno violenze perché le donne sono più pazienti e hanno più consuetudine col dolore».

Perché non parla di femminicidio?

«Trovo volgare identificare la donna con la femmina. La donna è una persona».

Il femminicidio è un delitto più grave dell’omicidio?

«È sempre un omicidio».

Il discorso è delicato.

«Molto: la donna è un soggetto debole. Approfittarne è vigliaccheria. Ma la giustizia dovrebbe provare a essere oggettiva. Quando intervistai Pino Pelosi in carcere mi disse che se avesse ucciso il signor Rossi anziché Pasolini sarebbe stato già fuori. Rigettai quell’argomento, dicendo che sempre di omicidio si sarebbe trattato e che la pena avrebbe dovuto essere identica».

Sceglie le storie in base a certi risvolti sentimentali, anche torbidi?

«Non cerco il torbido, ma la passione. Storie maledette piace perché vi scorrono i sentimenti che sono il cuore pulsante delle nostre vite. Nei rapporti tra coniugi, tra figli e genitori, tra amanti. Escludo le rivalità professionali e i professionisti del crimine».

Come si prepara?

«Studiando gli atti del processo dalla prima all’ultima carta. La psicologia del condannato, quella di familiari e amici, l’ambiente circostante. I delitti non sono mai casi isolati».

Quante volte incontra i protagonisti?

«Solo una prima dell’intervista, magari per sei o sette ore. Vado a rubargli l’anima per poi restituirgliela. Analizzo linguaggio, gestualità, postura. Instauro un rapporto di empatia per aiutarli a scendere nel loro passato davanti alle telecamere».

L’intervista è un flusso unico?

«Assolutamente. Rompere la tensione vaporizzerebbe il colloquio e ridurrebbe la possibilità d’illuminare qualche brandello di verità. Per lo stesso motivo non anticipo le domande. Ed è sempre “buona la prima”: se le ripetessi finirebbero per recitare».

Qualcuno si è negato?

«Un magistrato di Cassazione era innamorato di una collega, a sua volta moglie di un funzionario di Cassazione. In un rigurgito di coscienza, la donna chiese d’interrompere la relazione. Allora lui architettò il piano per eliminare il marito. Lo ammazzò, lo seppellì in una fossa che aveva già scavato e partecipò attivamente alle ricerche. Finché un amico si ricordò di un bizzarro discorso… Prese solo 22 anni. All’inizio aveva accettato, poi non se la sentì».

In trasmissione sfoglia un librone, ma non lo legge.

«Solfeggio il testo come fosse uno spartito. La prosa è musica» (Mostra un dossier sottolineato con pennarelli diversi, accenti, pause indicate da un tratto obliquo).

I tanti aggettivi servono a romanzare?

«La mia è una struttura narrativa, non un’intervista».

A Luca Varani ha citato la poetessa polacca Wisława Szymborska.

«Un’eccezione. Più facile che ricorra a qualche espressione colorita, inventata sul momento. Come “picchiata come una cotoletta” o “la cicogna è un animale sbadato” che sono diventate virali».

Si prefigge di far riaprire i processi, di correggere le sentenze?

«I miei cardini sono capire, dubitare, raccontare. Aver fatto riaprire dei processi m’inorgoglisce. Come accadde con Massimo Pisano, uno degli amanti diabolici del Viminale, che ritenevo innocente. E come mi auguro accada per Rudi Guede, condannato per l’uccisione di Meredith Kercher nonostante ci sia la prova che non ha toccato il coltello. E condannato in concorso con due persone che, con una sentenza degna di uno Stato di diritto, sono state assolte».

Rudi Guede a «Storie maledette»

Rudi Guede a «Storie maledette»

Ha rapporti epistolari con delinquenti, assassini, ergastolani…

«Quella cassa è piena di lettere. Queste invece sono le ultime, di persone che ho già intervistato con le quali continuiamo a scriverci. Altri si propongono, ma dico molti no. Scrivo a mano: quando l’ho fatto al computer si sono adombrati, lamentando un rapporto distaccato».

Le è mai capitato di pensare che avrebbe potuto agire come uno di loro?

«Grazie a Dio ho un sistema nervoso molto solido. Ho avuto la fortuna di nascere nella culla giusta, che vuol dire molto, e so gestire le circostanze più avverse. Però dico sempre che ognuno può cadere nel vuoto di una maledetta storia. Siamo solo più fortunati».

Perché vogliono venire nella sua trasmissione?

«Perché aiuta una certa presa di coscienza. E poi produce un restauro d’immagine rispetto a come sono stati dipinti sui media nelle fasi del processo».

Qualcuno di loro l’ha colpita di più?

«Farei torto agli altri se ne scegliessi uno. Posso dire che il collezionista di anoressiche ha lasciato un segno profondo. Per la sua storia che non ha avuto precedenti e, per fortuna, nemmeno succedanei. E per come si presentò: con capelli e barba rasati a metà».

Che cos’ha tratto dalla frequentazione di queste persone?

«Il più grande mistero del mondo è la mente dell’uomo. Ricevo più di quanto do. Imparo ad attraversare la soglia del dolore, vedo le strade sulle quali si può scivolare, capisco che cosa può cambiare la traiettoria di una vita. Andare oltre la geografia dei propri pensieri è un’esperienza che arricchisce».

Ha visto passare tanti direttori di rete: con chi si è trovata meglio?

«Tutti hanno sempre rispettato il mio lavoro. Anche la decisione di non trasmettere repliche. Riproporre meccanicamente quel dramma sarebbe irrispettoso».

Cosa aspetta a raccogliere tutto in un libro?

«Non c’è un solo grande editore che non me l’abbia proposto, facendomi ponti d’oro. Ma i libri li scrivo già per la tv. La scrittura è solitudine, concentrazione. Due cose al meglio non le so fare».

La corteggiano anche registi e sceneggiatori?

«Mi hanno proposto fiction, cinema, teatro. Ma sono gelosa della mia credibilità: conquistarla è laborioso, perderla facile».

La sua famiglia vive a Napoli…

«Mio marito mi raggiunge appena può».

Tempo libero?

«Lavoro tanto. Ho una casetta a Capri che vedo 15 giorni l’anno. Per il resto leggo molto e vado a teatro».

Agatha Christie o Maigret?

«Un mix. Il mio spirito è più vicino ad Agatha Christie, però anche le curiosità di Maigret sonnecchiano in me».

Montalbano o il commissario Cattani?

«Non perdo un Montalbano».

In vacanza con?

«Mio marito a Capri. Per troppo poco tempo».

Franca Leosini ha qualche ossessione?

«Di non avere abbastanza tempo per coprire tutto quello che vorrei fare».

 

La Verità, 16 luglio 2017

 

Leosini e Annibali, due donne contro?

L’attrazione fatale dei giornalisti di razza è, generalmente, tuffarsi nelle situazioni impervie. È qualcosa d’istintivo, di paragonabile alla tentazione di maneggiare la bomba a mano ancora inesplosa. Franca Leosini, la lady omicidi della televisione, ha fatto di questa attrazione la sua mission. Da quattordici anni il suo programma su Raitre s’intitola Storie maledette ed è tutto chiaro. Lei è diventata un’icona, un mito del popolo del web, un cult dell’intellighenzia come pure dello spettatore comune con la passionaccia per la cronaca nera. “Vado a incontrare persone che sono come me e come lei – ha detto a Silvia Fumarola di Repubblica – ma che sono cadute nel vuoto di una maledetta storia”. I buchi neri dell’anima. I gorghi della psiche. Un raptus improvviso che esplode dopo essersi coagulato nel profondo. Un atto violento che affiora da un’ossessione. Una vendetta causata da una lunga repressione. Niente professionisti del crimine, assassini seriali, capiclan. “Persone che non rifarebbero più quello che hanno fatto”, sottolinea.

In questo ciclo di incontri appena concluso e per la prima volta in prima serata, Leosini ha intervistato Rudy Guede, lo studente ivoriano condannato a sedici anni per la partecipazione all’omicidio di Meredith Kercher, accusa che rigetta in toto; Celeste Saieva,  la “mantide religiosa siciliana” condannata a trent’anni per l’omicidio del marito, Michele Cangialosi, per il quale si proclama innocente; Luca Varani, che deve scontare vent’anni per aver fatto sfregiare con l’acido l’amante Lucia Annibali. Soprattutto quest’ultima intervista (titolo: Quando l’acido ti sfregia l’anima) ha suscitato parecchie polemiche, sulla scorta delle dichiarazioni del procuratore di Teramo Manfredi Palumbo, che ha giudicato inopportuna la sua messa in onda. Varani, in effetti, non aveva finora risposto alle domande dei magistrati, mentre lo ha fatto a quelle di Leosini, dando così la stura a interrogazioni parlamentari e reprimende varie.

Ovviamente, con sommo disappunto dei censori, l’intervista è andata regolarmente in onda, con tutta la sua carica evocativa e i suoi contenuti da acquisire agli atti processuali. Leosini è stata ipnotica e suadente, come al solito. Forse una certa gratificazione per la fama conquistata anche sui social traspare nella lunghezza di quelle che, più che domande, sono lunghi raccordi narrativi davanti ai quali l’intervistato riesce a dire poche cose. La conduttrice paragona il suo programma a una “seduta di analisi”, in cui “rubo l’anima per poi restituirla”. È la funzione psico-sociale di Storie maledette (“La lettura del Paese attraverso i delitti è interessante…”, ha spiegato sempre a Repubblica). Noi telespettatori seguiamo questa seduta per una certa attrazione morbosa e per l’abilità dell’analista. Ma anche, con un inevitabile effetto collaterale catartico, per sgravarci la coscienza dei nostri turbamenti, generalmente più soft di quelli rappresentati.

Al termine della lunga intervista, frutto come tutte di una preparazione maniacale, Varani ha detto che “se un giorno Lucia potrà perdonarmi, potrebbe fare bene anche a lei. E certamente la sua richiesta arriverà alla vittima. La quale in un articolo sul Corriere della Sera, ha spiegato le ragioni del suo rifiuto a vedere il programma:  “Da tempo, ormai, le mie orecchie sono diventate sorde alle parole di quell’uomo… Io c’ero mentre vivevo nel terrore, ed ero lì le volte in cui sarei potuta morire… Non ho bisogno che qualcuno mi racconti com’è andata, o che mi spieghi che cosa ho provato in quei momenti”.

Difficile che la mission del giornalismo collimi con la sensibilità delle vittime, se vive. Però la richiesta di perdono di Varani c’è.