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«Il conformismo made in Usa ci sta ingabbiando»

Ho dormito poco», confida Anna Galiena quando, protetta da grandi occhiali da sole, compare nel giardino del Teatro Olimpico di Vicenza. Qui è in scena con due spettacoli: La signora Dalloway, tratto dal romanzo di Virginia Woolf, regia di Giancarlo Marinelli, anche direttore artistico del 73° ciclo dei classici del teatro, e Noi. Dialoghi shakespeariani di cui, oltre alla traduzione e all’adattamento, firma regia e interpretazione. Come possano riposare tranquilli attori e attrici dopo le «prime» è in effetti un piccolo mistero. «Io mi aiuto con la meditazione», confida ancora Galiena, «ma non sempre ci riesco». Attrice poliedrica di teatro, cinema e televisione, negli Stati Uniti membro dell’Actors studio di Elia Kazan, protagonista in Francia e in Italia per i migliori registi, nel monologo tratto dal Bardo si sdoppia al femminile e al maschile su amore, morte, potere, lussuria, gelosia. Negli aristocratici panni di Clarissa Dalloway è, invece, il perno della giornata londinese che culminerà nella festa funestata dal suicidio di Septimus, tormentato reduce di guerra.

Come ci si prepara a due spettacoli nello stesso cartellone?

«Si passa tutto il tempo in compagnia delle proprie battute. Per La signora Dalloway ho lavorato principalmente in gruppo. Per Shakespeare che aveva molto testo mi mettevo distesa a terra su un tappetino, ogni battuta una postura. Muovere il corpo serve a memorizzare e toglie la tensione dello stare in piedi, davanti a un tavolo».

L’ha imparato all’Actors studio?

«L’ho frequentato tre anni, fino al 1983. Io e Francesca De Sapio, che ora è una fantastica insegnante, eravamo gli unici membri italiani e potevamo frequentare i corsi, non solo da osservatori. Dal 1989 un’altra gestione ha eliminato la selezione».

A New York è rimasta fino al 1984…

«Quando sono tornata a Roma, dove ho avuto un secondo shock culturale».

Il primo qual era stato?

«Arrivata in America avevo scoperto che non c’era il dibattito. Non si parlava, si faceva. Ero abituata ai grandi discorsoni per rifare il mondo. Invece lì non c’era passato, non c’era cultura, c’erano individualismo e tante persone sole nei caffè».

Però si faceva.

«E si faceva veramente senza metterti ostacoli. Non mi hanno mai chiesto da dove venivo o chi mi spingeva. C’era una pubblicazione con l’agenda settimanale dei provini. La consultavi, ti presentavi, salivi sul palco e se andavi bene ti prendevano. La competizione era sfrenata. Tornata a Roma ho trovato un ambiente fatto di clan, in cui tutti parlavano e si lamentavano».

Di cosa?

«Del fatto che non si teneva conto del curriculum, per esempio. Manager e produttori mi dicevano di lasciar perdere le cose americane. Squadravano il fisico, chiedevano se ero fidanzata, mi invitavano a cena. Un paio di volte ero lì lì per usare le mani».

Motivo?

«Un produttore che non c’è più mi aveva convocato per discutere di una sceneggiatura. Come sono entrata, ha chiuso a chiave l’ufficio. “E no!”, l’ho riaperto… E siccome di là c’era la segretaria si è calmato».

Basta dire di no?

«In una certa maniera».

Però era scossa?

«Mi dicevano: “Qui funziona così, devi appartenere a una scuderia, a un produttore, a un politico… Oppure devi avere una famiglia ricca che ti manda alle feste finché incontri qualcuno”. Io ero seguita da Fausto Ferzetti, un bravo agente, ma stavo già pensando di andarmene di nuovo. Invece accadde che, per un film per la tv, un’attrice svedese aveva dato forfait all’ultimo momento e siccome nel curriculum le misure corrispondevano, mi proposero di tentare. Si girava fuori Roma, presi il trenino e mi presentai alla prova costumi».

E il copione?

«Era semplice. Andai senza tante prove, unica istruzione di un cameraman: “Aò regazzi’, mica stai a teatro, devi guarda ’a machina”. Dopo quella volta presero a chiamarmi. Certi funzionari che avevano le loro protette s’interrogavano: “Ma questa chi c’ha dietro?”».

Funzionava così… La seconda molestia?

«Di un altro produttore, anche lui non c’è più. L’avevo incontrato a New York a un piccolo festival… Mi convoca e come entro si alza e, diciamo, mi abbraccia. Sono scappata urlando».

Ha avuto una carriera più lenta?

«Le scorciatoie non m’interessavano. Se valgo qualcosa voglio che sia riconosciuto. C’è chi la coscienza non ce l’ha… Per educazione e scelte personali, io ce l’ho in abbondanza».

Come giudica le denunce dilazionate?

«L’abuso di potere esiste in tanti campi, non solo nel cinema o nel teatro. Le denunce ben vengano anche postume. Parlarne subito non è facile, si può essere ancora turbate, ci si vergogna…».

Anche se nel frattempo si sono girati un po’ di film con quel produttore?

«Il do ut des smonta la denuncia».

Perché c’è voluto il regista francese Patrice Leconte per consacrarla con Il marito della parrucchiera?

«Dopo tre anni in Italia non ero contenta. O appartenevi al giro di amicizie giuste e ai salotti chic oppure stentavi. Ormai avevo deciso di tornare a New York dove avevo ancora il mio appartamentino, ma Ferzetti mi mandò da Yves Boisset che stava per girare La fata carabina tratto da Daniel Pennac. Non sapevo il francese, imparai qualche frase di circostanza, ma al provino, con mia sorpresa aprirono il curriculum: “Lei ha lavorato con Kazan!”. Cominciammo a parlare di teatro… E trascorsi l’estate con le cuffie nelle orecchie per imparare il francese».

Poi?

«Arrivarono altre offerte e Leconte vide una mia foto nell’ufficio di un direttore del casting e mi volle incontrare. Dopo Il marito della parrucchiera in Italia tutti i film tra i 20 e i 40 anni li offrivano a me».

Ma…

«Cominciai a dire dei no. Non tutte le parti erano per me. Rifiutai Arriva la bufera di Daniele Luchetti, con il quale poi girai La scuola. Feci Il grande cocomero di Francesca Archibugi, Senza pelle di Alessandro D’Alatri. In Francia declinai La regina Margot di Patrice Chéreau, che non mi chiamò più».

I francesi sono più permalosi?

«E più presuntuosi. L’isola felice non c’è».

La lista dei registi importanti è lunga, con chi si è trovata meglio?

«Con Leconte c’era un’intesa perfetta sul set. Feci un corso di parrucchiera di tre settimane dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio. C’era cura del dettaglio, un’attenzione al mestiere che avevo visto solo negli Usa. In Italia si privilegia la dizione pensando sia quella a trasmettere le emozioni».

Invece conta anche la corporeità?

«Siamo corpo, mente, emozioni, non puro spirito. I registi italiani curano le intonazioni, quelli americani forse eccedono nel senso inverso».

Come andò sul set di Senso ’45 di Tinto Brass?

«All’inizio la sceneggiatura era bellissima, ambientata nella Venezia di fine guerra. Avevo letto la novella di Camillo Boito e ricordavo il film di Luchino Visconti, molto romantico. Brass mi conquistò facendomi vedere le sue prime opere, Il disco volante, La vacanza con Vanessa Redgrave, dove nessuno si spogliava. Poco alla volta, la sua ossessione per l’erotismo prese il sopravvento. Accettai il nudo, non le inquadrature ginecologiche. Usò delle comparse per la corsa in spiaggia girata a Ostia anziché al Lido. Anche la scena dell’orgia fu modificata al montaggio, fino a sconfinare nella pornografia».

Il rapporto si incrinò?

«Purtroppo sì. Non feci nessuna pubblicità, partecipai appena alla conferenza stampa. I critici dissero che sarebbe stato un bel film senza quei dieci minuti di eccessi».

Tra cinema, teatro e televisione qual è il linguaggio che predilige?

«A quattro anni le suore mi misero su un palcoscenico».

Le suore?

«Eravamo cinque fratelli, per la donna che ci seguiva mentre i miei genitori erano al lavoro l’asilo delle suore era il più comodo. Ero bionda e riccia, ma con una parrucca castana diventai una Madonna perfetta. Che parlava spagnolo, perché erano suore spagnole. Mi piacque molto».

Quando si avvicinò al cinema?

«Alla New York university fondata da Martin Scorsese, dove finanziavano un cortometraggio di 20 minuti. Il regista mi aveva visto a teatro e mi propose di essere la protagonista».

Tra cinema e teatro?

«Se dovessi sceglierei davanti a una pistola opterei per il palcoscenico».

La Signora Dalloway è una metafora del presente, apparenza glamour e sostanza nichilista se non disperata?

«Ha ragione Marinelli, è un testo molto attuale. La tegola che ci è arrivata addosso con la pandemia è servita a ridimensionarci. A chiederci che cosa vale davvero e che cosa invece è superfluo. In una società consumistica e sempre connessa, in realtà c’è pochissimo ascolto dell’altro».

Ogni personaggio della Wolf rappresenta un mondo.

«L’ideologia, l’edonismo… Questa situazione inedita ci invita a chiederci dove sono io e dov’è l’altro».

Nel mondo dello spettacolo gli stereotipi politicamente corretti tipo il premio neutro gender del Festival di Berlino stanno diventando esasperanti?

«È tutto uno slittamento della mentalità americana che ho visto 45 anni fa. E non solo per le battaglie femministe».

La guerra dei sessi è la strada migliore per la parità alle donne?

«In Italia e in Europa uomini e donne si sono sempre cercati, vivono insieme, si abbracciano – un po’ meno con il Covid. In America i sessi sono più separati, a volte antagonisti. Però, siccome non si può farne a meno, ci si unisce, ci si sposa. Ma è come se fossero compromessi temporanei. C’è solitudine, separatezza».

Concorda con Carlo Verdone che ha detto che il politicamente corretto frena la creatività perché ogni gag deve superare l’esame delle minoranze?

«In America negli anni Settanta le battute sugli ebrei o sui neri si dicevano sottovoce, ma spesso erano loro stessi i primi a riderne. Poi la faccenda è peggiorata e nell’84 son venuta via. Ora anche qui rischiamo di costruirci un’altra gabbia».

È questo il pericolo?

«Sì, ma noi resistiamo. Gli uomini di buona volontà continuano a lavorare, a scrivere, a rischiare. Come si dice a Napoli: “Scherzando Pulcinella dice o’ vero”».

 

La Verità, 3 ottobre 2020