«Insegno a scrivere con l’aiuto di Brian Eno»

Giulio Mozzi è nato a Camisano Vicentino nel 1960 e vive a Padova. Dopo il liceo, grazie a un corso per dattilografi, è entrato in Confartigianato. Nel 1989 si è fatto assumere come magazziniere alla Libreria internazionale Cortina. Dal 1993 ha iniziato a tenere corsi di scrittura creativa. In quello stesso anno ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti. Nel 1996 La felicità terrena è finalista al premio Strega. Dal 1997 la scrittura e «attività collegate» diventano la sua professione. È stato consulente di importanti case editrici, da Theoria a Einaudi, attualmente lo è di Marsilio. Ha fondato Vibrisselibri, bollettino di letture e scritture online, creato la Bottega di narrazione e scoperto o consacrato alcuni tra i maggiori talenti narrativi degli ultimi anni (tra loro Tullio Avoledo, Leonardo Colombati, Vitaliano Trevisan). Su YouTube si trovano sue lezioni e bizzarri video come Tutta la verità su Giulio Mozzi, 90 secondi in cui scorrono avvertenze e titoli di coda senza che si veda un’immagine o si legga una nota biografica.

Siccome a volte risponde con un’altra domanda, intervistarlo è un gioco enigmistico, una caccia al tesoro con tante retromarce. Come lo è la lettura di Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, sagace saggio, appena pubblicato da Sonzogno, sull’arte della narrazione, e composto da 200 massime stampate in grassetto sulla pagina di destra e brevemente spiegate su quella di sinistra.

Perché il suo libro non ha le pagine numerate?

«Perché sarebbe stato brutto da vedere. Il suo modello non sono altri libri, ma un mazzo di carte».

Com’è nata l’idea?

«Un giorno, sul treno diretto a Venezia per andare in Marsilio, riflettevo sul fatto che per le mie lezioni uso le Strategie oblique di Brian Eno e Il piccolo libro delle risposte di Carol Bolt. Sono curiosi manuali i cui suggerimenti, anche se non immediatamente utili, fanno pensare. Perché non fare qualcosa del genere per la letteratura di narrazione? mi son detto. In casa editrice Patricia Chendi mi ha subito incoraggiato. La sera a casa, in un’unica sessione di lavoro, ho buttato giù 170 pagine di massime».

Senza sbirciare le Strategie oblique?

«Tutt’altro. Per coerenza, ho pescato dal mazzo e mi è uscita questa carta: “Preparazione lenta… esecuzione veloce”. La mia preparazione sono 25 anni di scuola di scrittura e le massime sono uscite in poche ore. Quanto più sono “vuote”, tanto più sono versatili. Il segreto è nel fatto che il lettore si accosta con atteggiamento confidente a un gioco che mette in moto l’immaginazione».

L’Oracolo manuale serve per incoraggiare o per dissuadere alla scrittura?

«Serve per mettere alla prova. Poi è il lettore, potenziale scrittore, a decidere».

Non sono troppi gli scrittori o aspiranti tali in circolazione?

«Qual è il criterio per determinarlo? L’incremento nel numero dei lettori e degli scriventi è una conseguenza dell’alfabetizzazione universale. Se qualcuno pensa che sia un male sono problemi suoi».

Ci sono quasi più scrittori che lettori in Italia.

«Li ha contati? Se no, è una supposizione priva di sostanza».

Ha sostanza il fatto che pile di libri restino intonsi negli scaffali e che l’Italia abbia un indice di lettura tra i più bassi d’Europa?

«Sono problemi dell’industria editoriale non degli scrittori».

Quanti vivono davvero di scrittura?

«Non conosco le dichiarazioni dei redditi dei miei colleghi. Tanti vivono di attività connesse, io per primo. Non è scritto da nessuna parte che la scrittura debba essere una professione di cui campare. Ha senso che lo sia per i giallisti, gli autori di noir o di fantascienza, per altri generi ce l’ha di meno».

Le scuole creano scrittori d’allevamento?

«Bisognerebbe prendere un po’ di libri scritti da persone passate per le scuole e vedere se è davvero così».

Secondo lei?

«Non lo so perché è un lavoro che non ho fatto. Si dovrebbero considerare i libri scritti, non solo quelli pubblicati, perché su questi interviene il lavoro degli editori».

Ho condiviso un tweet che diceva: «Sono l’unica persona che conosco che non ha scritto un libro e non si è fatta un tatuaggio»: meglio un brutto libro scritto in meno e un bel libro letto in più?

«Il fatto che ci siano i divorziati non significa che sia insensato innamorarsi. Quanta gente ogni giorno cucina per sé, per la famiglia, per gli ospiti senza essere uno chef? Togliamo alla scrittura l’aurea che l’avvolge, è una cosa normale come cucinare o fare due chiacchiere al bar. Dopo di che ogni scritto avrà la circolazione che si merita. L’industria deve selezionare e pubblicare opere belle o di successo per pagare gli stipendi. Meglio ancora se sono sia belle che di successo».

Come le venne l’idea di creare una scuola di scrittura nel 1993?

«Me lo chiesero quelli del circolo Arci Lanterna magica, non ci avevo pensato io. Sono il rampollo di una famiglia colta, ho sempre parlato italiano e scritto bene. A scuola la principale differenza tra chi scriveva bene e chi male era il reddito, ma gli insegnanti dicevano che la scrittura è un dono, c’è chi ce l’ha e chi no».

Invece, non è un dono?

«Sì, della cultura di famiglia e del reddito. Sono figlio di biologi, non di letterati. Siccome la scuola ha abdicato a questo compito, bisognava che qualcuno se lo assumesse. Da quando ho iniziato a insegnare le cose sono cambiate e anche la scuola è tornata a preoccuparsi della scrittura».

Quanto sono determinanti le radici e il posto in cui si nasce?

«Mi ricordo bambino, seduto sul tappeto del salotto di casa a Sottomarina di Chioggia. I miei genitori leggevano il Corriere della Sera, Epoca e Grazia, mio fratello maggiore il Corriere dei piccoli, mia sorella Michelino e io Miao. La televisione arrivò tardi, ascoltavamo molta musica e la mia aspirazione era crescere per cominciare a leggere Michelino, poi il Corriere dei piccoli…».

Come scopre talenti letterari?

«Le racconto un aneddoto. Il 30 aprile 1988 lavoravo ancora in Confartigianato ed ero a Roma per un convegno. Un pomeriggio libero entro in una libreria e m’incuriosisce un libriccino di poesia: l’autrice è romana ed è nata nel 1970, perciò ha pubblicato quei versi a 17 anni. Vado alla Sip per consultare la guida telefonica trovando che in città solo otto persone hanno il suo cognome. Dopo un’ora sto bevendo il caffè offerto dalla madre. Lei rincasa poco dopo, è stata dalla parrucchiera per prepararsi al diciottesimo compleanno per il quale la zia le ha regalato quella pubblicazione da un editore a pagamento. All’inizio è diffidente davanti a un estraneo piombato in casa… Ma da lì comincia un rapporto epistolare che dura tuttora, migliaia di lettere. Lei è Laura Pugno, poetessa e scrittrice entrata nella cinquina del Campiello e direttrice dell’Istituto di cultura italiana di Madrid. Queste vicende mi appagano».

Perché?

«Perché quando leggo qualcosa di bello mi appassiono e cerco di stabilire un rapporto. Non mi sono mai particolarmente emozionato per la pubblicazione dei miei libri, ma la prima volta che ne ho preso in mano uno che avevo patrocinato mi sono fatto un pianto».

Cosa intendeva dire quando, intervistato da Pangea, ha confessato che la sua migliore qualità «è aver smesso di scrivere»?

«I giocatori d’azzardo più abili sono quelli che sanno fermarsi al momento giusto. Negli anni precedenti avevo pubblicato molti racconti e mi sembrava di aver finito. Così mi sono cimentato con altri generi».

Come in 10 buoni motivi per essere cattolici?

«Sì. Dopo una conversazione con una persona che, pur professandosi cattolica praticante, sosteneva che la Chiesa non annunciava la resurrezione della carne, con Valter Binaghi – già autore di Re nudo, convertito e grande amico – abbiamo deciso di scrivere questo libello. Avevamo realizzato che il cristianesimo è la religione più sconosciuta d’Italia».

Coraggiosi, chissà che reazioni.

«Un po’ di rumore e qualche discussione con Michela Murgia».

I romanzi che restano nascono da una tecnica o da esperienze forti, conflitti, solitudini, ossessioni?

«Rispondo a una domanda che non mi ha fatto: la tecnica è insegnabile e può essere oggetto di un’attività didattica, tutto il resto è educabile e può essere oggetto di una pedagogia».

La pedagogia c’entra con l’essere, la didattica con l’esercizio.

«Il lettore di romanzi dà credito a una storia che sa essere inventata. L’autore di romanzi dà credito a una storia che inventa o almeno trasfigura».

Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell’italiano?

«Ogni lingua evolve. La natura sintetica della lingua italiana è stata stabilita attraverso atti di governo. Mentre constatiamo che c’è un’osmosi interessante tra italiano e dialetto, la capacità di assorbire le lingue di chi viene in Italia – romeni, albanesi, asiatici – è piuttosto ridotta».

In compenso, grazie alla tecnologia e alla pubblicità, ormai parliamo tutti l’italenglish.

«Che nell’italiano entrino parole di altre lingue non è né un bene né un male, ma un dato di fatto. Poi c’è il gusto personale, per il quale io stesso tendo a sfrondare – francesismo – certi neologismi di uso comune e di scarsa efficacia. Ma non si possono fare leggi per impedire l’uso di parole straniere. Alessandro Manzoni parlava in milanese e in francese, ma la lingua in cui scriveva era un’altra. Possiamo accusarlo di aver contribuito alla distruzione del lombardo perché scriveva in una lingua inventata da lui con influssi di fiorentino?».

Quali sono gli ultimi grandi romanzi italiani?

«Direi Il quinto evangelio di Mario Pomilio, da poco ripubblicato, Tanto gentile e tanto onesta di Gaia Servadio, primo romanzo postmoderno scritto in Italia, e La messa dell’uomo disarmato di Luisito Bianchi, romanzo resistenziale teologico di 800 pagine. Li prediligo per l’innovazione formale e per la potenza della storia. Sono estranei al canone novecentesco, ma questo non è un problema mio».

 

La Verità, 28 aprile 2019