«L’ictus di Daniela ci ha fatti rinnamorare»
Volto sorridente, capello morbido, occhi cerulei che incantano il pubblico femminile, Mimì Augello è il poliziotto più invidiato da quello maschile perché le indagini del Commissario Montalbano non gli precludono una vivace frequentazione del gentil sesso. Cesare Bocci, però, non è solo un investigatore playboy: tra i due episodi di una stagione e quelli della successiva, fa cinema, teatro, altra tv e si dedica alla compagna Daniela Spada e alla figlia Mia. Ora, al sabato sera su Tv2000, conduce Segreti – I misteri della storia, collana di biografie di grandi personaggi che ne svelano qualche tratto inedito. Anche lui ha una storia tosta e poco nota da raccontare. Lo incontro a Roma, nella scuola di cucina aperta da Daniela.
Cosa ci fa Mimì Augello nella tv dei vescovi?
«Più che propormi io sono loro ad avermi accettato. Il programma è un’idea di Fabio Andriola e Alessandra Gigante subito accolta dal direttore Paolo Ruffini. Insieme hanno pensato a un volto riconoscibile per lo studio e sono arrivati a me. Su Rai 3 avevo già condotto Il giallo e il nero che si occupava di grandi delitti irrisolti».
Qui si parla di storia.
«La storia mi è sempre piaciuta anche se non sono un divoratore di trattati. M’incuriosisce indagare nella vita delle persone. Segreti – I misteri della storia è una serie di biografie oltre le nozioni e le etichette che ci hanno consegnato i testi scolastici, il cinema e la pubblicistica. A volte si scoprono lati inediti di personalità che abbiamo catalogato in modo sbrigativo».
Per esempio?
«Per me è stata una scoperta apprendere che, dietro i suoi occhialetti, Camillo Benso conte di Cavour era un giocatore d’azzardo al quale piacevano le donnine e che in casa non riusciva a gestire un centesimo perché comandava il fratello. Oppure che la principessa Sissi, la romantica Elisabetta di Baviera interpretata da Romy Schneider, era prigioniera di ossessioni al punto da dormire ricoperta di carne cruda per nutrire la pelle con le sue proteine. Insomma, ci sono la storia ufficiale e la storia più minuta, ma più vera».
Lo stesso schema si può applicare anche a lei: il pubblico la conosce per quella parte nel Commissario Montalbano, mentre la sua vita è stata segnata dall’ictus post parto della sua compagna.
«L’abbiamo raccontato nel libro Pesce d’aprile – Lo scherzo del destino che ci ha reso più forti (Sperling & Kupfer, ndr). Era la prima domenica a casa dopo che Dany aveva partorito Mia, quando un fortissimo dolore le attraversò la testa: un embolo era arrivato fino al cervelletto. Al risveglio dal coma, dopo venti giorni, non mi riconobbe né ricordava di essere diventata mamma».
Bisognava ricominciare da zero.
«C’era una montagna da scalare. Era appena nata nostra figlia e dovevamo imparare a fare i genitori, ma adesso dovevamo imparare a farlo con questo handicap. Con l’aiuto di amici e persone care non ci siamo arresi. Una volta cadevo io, un’altra si scoraggiava lei, ma siamo andati avanti. Poco alla volta la nostra vita è ricominciata e ora, con tutte le fatiche, siamo felici. Ci siamo innamorati per la seconda volta».
Dove avete trovato il punto di resistenza?
«Dany dice che l’ha aiutata l’incoscienza. Uscita dall’ospedale ci ha messo un po’ per rendersi conto del suo stato di salute e delle sue limitazioni. Pensi al rapporto con una bimba di poche settimane: non poteva allattarla, soccorrerla, dedicarsi a lei. Nel libro scrive: “Sono una delle poche madri che ha imparato a camminare dopo sua figlia”».
La fede aiuta in questi casi?
«Dany è credente».
Nel dormiveglia in ospedale bisbigliava la messa in latino.
«La memoria è come un puzzle, questi infortuni hanno l’effetto di buttare all’aria il mosaico e ogni tanto una tessera ricade, ma non dove si trovava prima. Così, mentre si pensa che riguardi un fatto recente, magari risale a qualche decennio prima, come nel caso della messa in latino che Dany aveva ascoltato, bambina, dalle suore».
Dicevamo della fede…
«Lei è stata aiutata… Io mi ritengo cristiano nel modo di relazionarmi agli altri. Gli stessi pazienti sono persone prima che malati. Questo ci ha spinto a batterci per il rispetto della dignità e delle condizioni negli ospedali. E ci ha convinto a raccontare tutta la storia, per metterla a disposizione di altri che possono trovarsi in situazioni analoghe».
Come ha influito questa esperienza nella sua professione?
«Anche se la voglia di affermarmi ce l’avevo come tutti, essere figlio di gente di campagna mi ha sempre fatto tenere i piedi per terra. Ricordo che quando mi richiamarono per una serie volevo rifiutare: “Sei l’unico che lavora in famiglia, vai che io in qualche modo me la cavo”, sentenziò Dany. Quando mi trovai in camerino avvertii una calma improvvisa, niente a che vedere con la solita ansia da prestazione. Da queste cose o vieni sopraffatto o cresci e affronti le sfide successive con più realismo».
La sua carriera sarà segnata da Mimì Augello?
«È un personaggio che mi accompagna da vent’anni, nella serie più longeva d’Italia, in grado di ottenere ascolti che nessun’altra fiction ha mai fatto. Non posso che essere grato ai produttori e al regista Alberto Sironi. Proprio poco fa un passante si è congratulato per la parte del principe Raimondo Lanza di Trabia in Volare, la miniserie su Domenico Modugno. Anche Adesso tocca a me su Paolo Borsellino mi ha dato molta soddisfazione. Poi c’è il teatro, che mi fa uscire dagli schermi, piccolo e grande».
Permaloso, scansafatiche, spiazzato dagli eventi: quanto ha Augello del suo carattere?
«Permaloso lo è di più Montalbano. Scansafatiche no, ho sempre fatto lavori manuali. Spiazzato dagli eventi… diciamo che sono un po’ distratto».
Che rapporto avete sul set?
«Ormai siamo fratelli. Sironi, un lombardo che sa raccontare la Sicilia alla grande tanto che i siciliani lo adorano, ha scelto dall’inizio questo gruppo di attori. Quando è un po’ che non ci vediamo cominciamo a fremere e a mandarci messaggi. La Sicilia poi è fantastica da tutti i punti di vista, compreso quello del cibo».
Perciò Montalbano va molto al ristorante?
«Sì, e cazzia Augello perché metterebbe il parmigiano sugli spaghetti alle vongole. Girammo quella scena un mattino alle nove: “Dobbiamo mangiare sul serio la pasta a quest’ora?”, ci lamentammo. “Certo che dovete mangiarla”, sbraitò il regista. Cominciammo controvoglia, ma poi il sole, il mare, una forchettata dopo l’altra, facemmo pure il bis».
Andrea Camilleri?
«Quando comincia a raccontare resti a bocca aperta. Dopo un episodio incentrato su un traffico di organi di bambini con una discussione tra me e Luca, ci raggiunse a pranzo. Io lo salutai e lui borbottò: “Ieri sera tu hai fatto piangere me e mia moglie”; una frase che conservo come un complimento».
Figlio di una famiglia contadina, come le è venuto di fare l’attore?
«Mio padre era veterinario e negli anni Settanta, quando le campagne si spopolavano, comprò un terreno. I miei amici se la spassavano e io stavo su quel terreno. Che odiavo, ma che m’insegnò molte cose. A 22 anni, un amico invitò al cineforum dell’università Saverio Marconi che aveva aperto una scuola di recitazione. A Tolentino eravamo tutti attori. Mia madre, maestra della scuola, preparava i costumi, le storie, io stesso ero già salito sul palco. Finalmente m’iscrissi alla scuola di Marconi. Eravamo quattro ragazzi squattrinati, ma fondammo la Compagnia della Rancia e recitammo nei primi musical: Arlecchino innamorato, La piccola bottega degli orrori, A chorus line…».
Suo padre come prese l’idea di fare l’attore?
«Come magni? mi chiese in marchigiano. Tornavo a casa tardissimo e lo trovavo a fare le parole crociate. Non poteva dirmi che era fiero di me, ma ritagliava le recensioni del Resto del carlino. Per una prima a Tolentino gli prenotai un posto. La notte lo trovai con le solite parole crociate e gli chiesi un giudizio. La musica era un po’ alta, la scenografia insomma… “E io, papà?”. “Tu sei molto bravo, ma in quella scena così, in quell’altra colà”: una recensione in piena regola».
Pur di recitare ha fatto l’attaccatore di numeri civici.
«Era stata decisa la revisione toponomastica del paese, un amico vinse l’appalto e mi chiamò: staccavamo i vecchi numeri e attaccavamo i nuovi andando porta a porta, conoscevamo tutti. Ho fatto il cameriere, il fabbro, l’imbianchino, il noleggiatore d’auto, il tecnico delle luci ai concerti di Ron, Mietta, Biagio Antonacci. Ho conosciuto Frank Sinatra al concerto di Pompei. Da capotecnico ero l’unico autorizzato a stare sul palco. Quando lo vidi entrare non mi trattenni e cominciai ad applaudire: una cazzata… Mi sorrise dietro il bicchiere di whisky».
Che cosa le piace e cosa no della nostra televisione?
«Mi piacerebbe che, come nei paesi anglosassoni, ci fosse più servizio pubblico. Se c’è un argomento importante vorrei che venisse trattato comunque, senza inseguire l’audience».
E dell’Italia di oggi?
«Non mi piace la distanza dalla politica che si è creata negli ultimi anni. Non mi piacciono l’anarchia, gli inciuci elettorali, la vittoria basata sull’attacco personale anziché sul programma. Non mi piace che i giovani non riescano a entrare nelle decisioni riguardanti il loro futuro. Che di fronte alle ingiustizie sul lavoro prevalga la rassegnazione del tirare a campare. E non mi piace che l’Italia sia fuori dai Mondiali».
E qualcosa che le piace e la fa essere ottimista sul futuro?
«Mia ora è adolescente e con lei mi accorgo che i giovani cominciano a farsi delle domande. C’è un piccolo risveglio, anche determinato dal Movimento 5 stelle che ha dato una scossa a tutto l’ambiente, a prescindere dal fatto di approvare i loro contenuti. L’abolizione dei vitalizi però era giusta, peccato».
La Verità, 7 gennaio 2018