Narcisismo giornalistico e silenzio dei terroristi
C’è un certo feticismo giornalistico nelle tante rievocazioni per il quarantennale del sequestro Moro cui abbiamo assistito in questi giorni in televisione. Mercoledì sera i palinsesti ne traboccavano. La7 ha proposto il secondo episodio di Atlantide con Andrea Purgatori che ha interpellato Valerio Morucci e Prospero Gallinari. Rainews24 ha trasmesso uno speciale di Ezio Mauro che intervistava Giovanni Moro, figlio del presidente Dc sequestrato il 16 marzo 1978, e Adriana Faranda, la «postina» del commando brigatista. Il Nove ha mandato in onda la prima puntata di Belve con Francesca Fagnani che ha interrogato, anche lei, la Faranda.
C’è un vago sottotesto in queste commemorazioni, figlio del narcisismo che avvelena la nostra professione, per cui il giornalismo degli anni di piombo, quello sì era vero, epico, tosto giornalismo. E, in fondo, scremata la retorica, può persino essere vero: ma a ogni generazione le proprie trincee…
Al narcisismo dei giornalisti, tuttavia, è imparagonabile quello dei terroristi, nefasti protagonisti di quella stagione. Su tutti Barbara Balzerani, ex brigatista né pentita né dissociata, primattrice della strage di Via Fani e della prigionia conclusa con l’assassinio dello statista, libera dal 2011, che qualche settimana fa, con irritante egocentrismo, ha arricciato il nasino su Facebook, annoiata: oddio sta per arrivare il quarantennale, «chi mi ospita oltre confine?». Le ha sanamente replicato Maria Fida Moro: «Che palle il quarantennale lo dico io, non i brigatisti. E non Barbara Balzerani. Loro dovrebbero solo starsene zitti. Se il suo desiderio di andare in una prestigiosa spa all’estero si dovesse realizzare», ha proseguito la figlia di Aldo Moro, «lei porterebbe con sé la sua coscienza…». Risposta definitiva, che suggerisce la terapia del silenzio.
Tutt’altro atteggiamento quello di Adriana Faranda, apparsa una donna sconfitta, nell’intervista alla Fagnani, che non le ha risparmiato le domande più acuminate. Barbara Balzerani dice di non ritenersi un’assassina perché quella era una guerra. E lei si giudica un’assassina? «È dura questa domanda. Dal punto di vista umano sì, so di aver contribuito all’uccisione di persone. Però è anche vero quello che dice la Balzerani: noi in quel momento ci sentivamo in guerra, al di là che questa cosa fosse reale o meno. E la guerra è spietata, la guerra è cinica, la guerra uccide». E ancora: come si sentiva quando leggeva le lettere private di Moro, quelle indirizzate ai suoi familiari? «Male», ammette Faranda, tra sospiri e morsi alle labbra. La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi? «No, qualche volta usciva fuori, ma spazio non poteva averne». Lei era presente alla telefonata in cui Valerio Morucci, contrario come lei all’uccisione di Moro, annunciaste alla famiglia che era stato ammazzato: come visse quel momento? «Annunciare la morte di qualcuno ai suoi cari è un momento terrificante, soprattutto quando non la si condivide». Fu quello il momento più terrificante dei 55 giorni del sequestro? «Non c’è un momento più terrificante, lo furono tutti». Chi pensa di aver deluso di più per le sue scelte? «Credo di aver deluso tutti. Ho fatto terra bruciata attorno, a 360 gradi». È ancora possibile per lei parlare di felicità? «Forse di serenità, una serenità compatibile, nei limiti del possibile». Ecco, la profonda autocritica, l’ammissione di colpa, il riconoscimento della sconfitta, sono le uniche espressioni che si possono ascoltare da queste persone.
Persone pure loro.