«Paolo VI e Donato Bilancia mi dissero…»
Si accomodi lì, è il posto dei pazienti», sorride Vittorino Andreoli. «Pronto per essere analizzato», annuisco. Lo studio del professore veronese, psichiatra di fama internazionale e autore di perizie sui casi di cronaca nera che hanno segnato gli ultimi trent’anni di storia, è nel bellissimo salone di una dimora del Cinquecento. Ci sono una grande scrivania, un inginocchiatoio, stucchi e affreschi. «Non è casa mia, io amo la campagna», precisa. «Questo è uno dei due palazzi veneziani rimasti di quella che fu una dominazione tremenda. Qui hanno comandato austriaci, francesi e la Serenissima, la peggiore. I veronesi non amano i veneziani. Della ventina di leoni di San Marco che arredavano piazze e monumenti, poco alla volta ne è rimasto uno solo perché si faceva a gara per toglierli. Sa come sono i veronesi…».
No, mi fa l’identikit?
«Gran lavoratori, molto centrati su di sé, poco amanti della cultura. Parlo anche di me, s’intende. I veneziani invece non lavorano. Veneziani gran signori, vicentini magna gati, veronesi tuti mati».
Da psichiatra ha giocato in casa.
«Noi veronesi siamo così. Amavamo re Teodorico che se ne stava nella sua rocca e, racconta la leggenda, morì rincorrendo un cervo d’oro. Delirava, ma i veronesi lo adoravano malgrado fosse barbaro, invasore e pazzoide. La pearà, una salsa particolare che accompagna il bollito, è diventata il piatto veronese per definizione perché era il suo preferito».
Insisto: l’indole dei locali c’entra con la sua professione?
«Mettiamola così: conosco la lingua madre e questo aiuta. Faccio il mio lavoro con il dialetto. Nel raptus non si dice: “Guarda, c’è il demonio che ti mangia”, ma: “Varda, gh’è el demonio che te magna”. Ho lavorato anche negli Stati Uniti, ma i matti veronesi sono i miei preferiti. Come uno che predilige le donne modenesi».
Settantasette anni, statura, chioma e sopracciglia da scienziato istrione, frequente ospite di salotti tv sul disastro antropologico contemporaneo, prolifico saggista e autore di narrativa, nell’ultimo libro intitolato Il silenzio delle pietre (Rizzoli), Andreoli racconta di un uomo che nel 2028 fugge dalla sua città e si ritira nel Sutherland, alta Scozia, territorio con «un abitante per chilometro quadrato, la più bassa concentrazione umana di tutto il pianeta, deserto compreso».
Siamo in via XX settembre 35, lo stesso indirizzo del protagonista del romanzo. È mai stato a Inverkirkaig?
«15 anni fa ho fatto sistemare da un architetto una casa di pescatori davanti a una baia sull’Oceano. Adesso ci vado meno perché è troppo isolata, ma ho sempre amato la Scozia. Per un anno ho studiato a Cambridge e quando potevo scappavo lassù. Ci ho trascorso molte estati. Anche se lì, come si dice, le stagioni le puoi vivere tutte in un giorno».
Ci andava per immergersi nella natura?
«Per ridurre la paura dell’uomo. Penso che chiunque voglia fuggire dalla città immagini un posto così».
Quindi è un libro con parti autobiografiche?
«Ci sono esperienze, sentimenti, pensieri personali».
Anche sul rapporto con la sua città?
«Ho un ottimo rapporto con Verona. Mi muovo, vado all’estero, ma ho sempre voglia di tornarci. La città non va abbandonata, ma ripensata allo scopo di renderla vivibile per tutti».
A fine anni Novanta poteva farlo candidandosi come sindaco.
«Alcuni cittadini avevano fatto il mio nome. La gente mi vuole bene. Non me ne vogliono giornalisti e professionisti».
Perché uno psichiatra scrive romanzi, in parte autobiografici?
«Lo psichiatra non è un fisico che studia le particelle in modo distaccato, con i suoi pazienti si mette in gioco. Scrivere romanzi è l’unico modo per esprimere i miei sentimenti, per immedesimarmi».
La storia del suo personaggio senza nome contiene un dilemma antropologico: meglio la vita nella metropoli o nella natura?
«Il mio personaggio è stanco del mondo metropolitano, pensa a un mondo che si è fermato al quinto giorno del libro della Genesi».
Dicevamo del dilemma antropologico.
«Se è per questo ci sono tutti i dualismi: silenzio e rumore, isolamento e ressa, solitudine e compagnia, animali e uomo».
Scrive che forse sarebbe stato meglio si fosse occupato di zoologia anziché di psichiatria. Le prime 80 pagine sono descrizioni di uccelli marini.
«Li osservo senza pretese scientifiche. All’inizio, sembra che la natura sia l’eden, invece poco alla volta il protagonista scopre che anche gli uccelli sono pericolosi, come nel film di Alfred Hitchcock. Anche in riva all’oceano c’è bisogno dell’uomo. Questo è l’approdo dello psichiatra: senza l’altro, l’io non esiste».
Lei ha seguito i casi più tragici della storia criminale recente, da Pietro Maso a Donato Bilancia a Luigi Chiatti. Che cosa ne ha tratto?
«Quando iniziai a fare lo psichiatra si pensava che il matto fosse una summa di devianze: irrazionalità, immoralità, impulsività, rapporto alterato col reale. Io mi son sempre chiesto: che cos’ha di umano questa persona? Cosa c’è di positivo nella follia? Lo schizofrenico veronese Carlo Zinelli, mio paziente, è diventato un grande pittore: al Guggenheim di Venezia per vedere le sue opere ho pagato un biglietto d’ingresso. Donato Bilancia è stato il più grande criminale del Novecento italiano. Ha commesso 17 omicidi in sei mesi. Un giorno mi disse: “Ci sono due persone che godono della mia massima stima. La prima è chi mi ha insegnato a rubare, la seconda è lei”. Ho sempre rispettato l’uomo nel paziente. Lo vedevo ogni giorno, mi aveva raccontato tutto. “Che cosa posso raccontarle che non le abbia già detto? Non le ho mai parlato di quelli a cui è andata bene”. Capisce il grado di fiducia?».
Crede nell’esistenza del demonio?
«Nel 1972 scrissi un libro intitolato Demonologia e schizofrenia. Il cardinale di Milano Giovanni Colombo mi telefonò per chiedermi se ero disposto a incontrare Palo VI. Lo vidi due volte. La prima mi chiese se avessi mai avuto un paziente il cui comportamento fosse collegabile alla possessione. Risposi che mi ero imbattuto nei limiti della conoscenza, ma mai avevo pensato alla necessità di un’entità esterna all’uomo. Per noi il male è nell’uomo e nella società. Mi chiese ancora se la psichiatria avesse mai rilevato casi di possessione. Mi presi del tempo. Quando ci rivedemmo dopo un mese gli dissi che i dubbi della psichiatria non riguardano il trascendente, bensì la funzionalità dell’uomo da solo e in mezzo agli altri uomini. Mentre, prendendomi sotto braccio mi accompagnò alla porta, continuava a ripetere: “Il male c’è, professore; il male c’è”. Qualche tempo dopo scrisse la famosa lettera sull’esistenza del maligno e “il fumo di Satana entrato nella Chiesa”».
La società del 2028 che descrive nel romanzo è un mondo in cui la trasgressione è il principale strumento di successo e chi è stanco di vivere si può ammazzare. Pensa che tutto precipiterà così rapidamente o è fantascienza?
«Tutto fuorché fantascienza. Estremizzo fatti che già accadono. Se avessi traslato il racconto di un secolo sarebbe stata fantascienza. In dieci anni il declino può diventare precipizio. Se non cambierà qualcosa, in un decennio l’uomo pulsionale che agisce in base ai sensi – voglio, mi piace, lo prendo – avrà vinto».
Qual è la causa di questa deriva?
«Con Tangentopoli scoprimmo che un gruppo di persone usava il denaro per appropriarsi di tutto, potere, vantaggi, donne. Nel mio studio vennero a chiedere aiuto politici e ministri. Non dormivano, vivevano nel terrore. Sembrava che si dovessero correggere le abitudini di una fetta di popolazione. Invece, la corruzione è diventata di massa. Una volta gli avvisi di garanzia spaventavano. Oggi sono relativizzati. Si dice che bisogna essere flessibili, adeguarsi. È la banalità della corruzione. Il verbo rubare è stato cancellato».
Da psichiatra cosa pensa delle baby gang e di ciò che avviene nelle nostre scuole?
«Non ci sono più educazione e principio di autorità. Non c’è più differenza tra bene e male. I genitori ricorrono al Tar perché il figlio ha preso nove anziché dieci. Un alunno di 17 anni sfregia l’insegnante con un coltello perché vuole interrogarlo. Educare è insegnare a vivere. Purtroppo non vedo i maestri. La risposta alle baby gang è mandare 100 militari in più a Napoli?».
La soluzione?
«Leggi che rispondano ai principi, i quali appartengono alla natura dell’uomo. La consapevolezza della propria fragilità, che è una conquista perché ci fa capire di aver bisogno dell’altro, il rispetto della donna che può diventare madre, l’amore e il dono di sé».
Da dove cominciare?
«Mi sono attribuito l’ambizione di completare la massima socratica: “Conosci te stesso”. Aggiungerei: per vivere meglio con l’altro».
Che consiglio darebbe ai politici in vista delle elezioni?
«Di farsi aiutare – da soli non ce la fanno – a scoprire se il loro impegno è motivato dalla ricerca di una gratificazione dell’ego, o da un reale servizio alla comunità. Politico deriva da polis, città: siamo sempre lì. Purtroppo, non vedo nessuno con questo spirito».
Perciò non andrà a votare?
«Non glielo dico. Amo la democrazia, non quella mascherata delle sette».
Ha mai pensato di entrare in politica?
«Mi è stato proposto in due occasioni molto importanti, ma ho declinato. Il mio sogno sarebbe andare 15 giorni a Palazzo Chigi o a Montecitorio. Ma non mi vogliono».
Per analizzare i politici?
«Per curarli. Sono maghi nel fregare la fiducia delle persone. Con l’occhio clinico vedo subito quando qualcuno recita. Il potere è una malattia sociale gravissima, si crede di curarla aumentandolo».
Crede in Dio?
«Se non credo in Dio devo credere al caso. Nel nostro cervello ci sono 85 miliardi di cellule organizzate in una rete a cui si legano idee, parole, gesti, fantasia, desideri. Come si fa a non credere che esista un Creatore? Più difficile è credere in un Dio che regola la morale. Molti miei amici lo hanno incontrato, io spero visiti anche me».
La Verità, 4 febbraio 2017