«In seminario capii che far ridere è una missione»

Buongiorno, parlo con il padre della patria Lino Banfi?

«Presente. Ultimamente mi chiamano Lino d’Italia o Lino nazionale. Se vuole, può chiamarmi Lino di Mameli».

Senza apostrofo?

«Con i puntini: Lino… di Mameli».

È uno dei pochi se non l’unico che può reggere titoli del genere. Chi ha una carriera come la sua?

«Mi conoscono quelli che vedevano i miei film con Edvige Fenech e quelli che si sono affezionati a nonno Libero. Una grande azienda di giocattoli che vuole fare una campagna promozionale si è accorta che, parlando di nonni, salto sempre fuori io, il nonno d’Italia».

Altro titolo che la inorgoglisce?

«Nonno d’Italia si può dire. Una volta, quando andavamo allo stadio a tifare la nazionale, dicevamo “Forza Italia”, poi è spuntato il partito… Adesso, parlando dell’inno, non si può più dire nemmeno Fratelli d’Italia. Però, se incontro Costanzo, gli dico: “Io e te siamo fratelli di taglia”. Extralarge».

Niente Forza Italia e niente Fratelli d’Italia: ha mollato il centrodestra?

«Resto sempre di idee liberali, ma ho sempre votato per la persona. In passato per Bettino Craxi, che ho conosciuto, come Walter Veltroni. Di recente mi è diventato simpatico Luigi Di Maio, ma forse non voterei per i 5 stelle. Non mi sono mai legato a un partito perché sono nonno Libero, altrimenti sarei nonno occupato».

Ha iniziato con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ed è arrivato a Checco Zalone. Qual è il segreto per far ridere?

«Non copiare da nessuno, imparare da tutti. Da ragazzo, quando facevo l’avanspettacolo, finita la mia recita, da dietro le quinte guardavo gli altri per definire il mio stile. Tutti imitavano Totò, Aldo Fabrizi o Tina Pica. C’erano i comici siciliani e napoletani, io scelsi di creare il mio linguaggio accentuando la pronuncia barese».

Come finì nel primo film con Mina, Celentano e Chet Baker?

«S’intitolava Urlatori alla sbarra, facevo la comparsa. Giravano a Sanremo e io ero militare ad Arma di Taggia: sergente Pasquale Zagaria, 89° battaglione. Si era sparsa la voce che c’era il set di un film con attori internazionali. Mi presentai alle 7 del mattino».

Ma se era militare?

«Sulla carta d’identità c’era scritto “artista di varietà”, perciò mi avevano delegato a organizzare gli spettacoli nelle caserme e la sera facevo tardi. Arrivai all’alba e mi presero».

Mina e Celentano?

«Li vedevo come due giganti, ma io avevo la calamita nella testa per Celentano».

Anche lui con sangue pugliese.

«Nato a Milano, ma di genitori foggiani».

Invece i suoi genitori la volevano prete.

«Noi eravamo ortolani, che era più di contadini. Mio padre aveva fatto la terza elementare anche se sembrava fosse laureato perché aveva studiato mentre era sotto le armi. Appena vedevano uno che aveva voglia di studiare come me, per loro era un genio. Perciò dovevo fare l’avvocato o il prete. Dicevano: se fa l’avvocato può diventare notaio, se fa il prete può diventare cardinale».

Pensavano in grande.

«Anche troppo. Mio padre e mio zio gareggiavano alle barzellette. Così, quando mio padre disse a tutta la tavolata quella stronzata del cardinale, lo zio Michele volle superarlo: “Perché cardinale?”, disse, “Pure Papa”, Pep in barese. Allora io mi alzai: “Queste risate che vi fate voi mi fregano a me, perché mi spedite in seminario”. Così fu».

E lì faceva troppo ridere o le piacevano troppo le donne?

«Diciamo che i due problemi si fusero. La guerra mi aveva ammazzato l’infanzia e il seminario mi uccideva l’adolescenza. Così diventai la peste del gruppo, anche se con 8 e 9 in pagella. Insegnavo ai compagni a fumare e a fare le cose dei ragazzini. Poi c’erano le recite, ma il rettore s’incazzava perché quando interpretavo Pietro o Giuda la gente rideva: “Questi sono ruoli che dovrebbero far pensare, invece quelli ridono”. “E che ne so… io leggo quello che avete scritto voi”».

Al talento non si comanda.

«In quarta ginnasio scoprirono che andavamo sul cornicione per spiare le finestre delle suore. Il rettore chiamò il vescovo di Andria, un frate con la barba: “Zagaria, perché piangi? Guarda che la tua vocazione non è fare il prete, ma far ridere le persone. È una cosa bellissima”».

L’episodio fondamentale dei suoi esordi?

«Era il 1968 e facevo l’attore di avanspettacolo all’Ambra Jovinelli, considerato un teatro minore. La mia fortuna fu che Enrico Montesano lasciò da un giorno all’altro il Puff di Lando Fiorini. Litigando il regista, Leone Mancini, gli disse: “È il Puff che fa i personaggi, non il contrario. Ti sostituiremo con il primo stronzo che troviamo all’Ambra Jovinelli”. Il primo stronzo fui io».

Si sentiva pronto?

«Manco per idea. Il Puff aveva un pubblico di gente ben vestita e ingioiellata. Fiorini mi chiamò sul palco per vedere la reazione… quasi non si ricordava il nome. Attraversai quel piccolo corridoio con mille pensieri, forse posso cancellare i miei debiti… Entrai: “Sto vedendo l’attenzione che avete su di me e mi guardete così. Ma da me che chezzo volete”. Cominciarono a ridere… “Scusate, io vengo da un teatro nobile, con un pubblico di puttene, ricchioni, gente tatuet… Invece voi siete gente così, avete gioielli finti…”. Più dicevo così, più applaudivano».

La sua stagione d’oro è stata quella della commedia sexy?

«Erano i film che andavano allora, prodotti dalla Medusa ancora non di Berlusconi, e dalla Dania cinematografica di Luciano e Sergio Martino. Dissi che ogni due o tre film con supplenti e liceali volevo partecipare ai film a episodi con Renato Pozzetto o Celentano. E così andò».

Il personaggio a cui è più legato è Oronzo Canà?

«Il mio ruolo su misura è stato Il commissario Lo Gatto di Dino Risi, grande maestro della commedia all’italiana. Sono affezionato anche all’ex detenuto in cerca di lavoro di Vieni avanti cretino, diretto da Luciano Salce, un film che usano come terapia per chi è soffre del morbo di Parkinson perché fa ridere e stimola i muscoli facciali».

Alla Mostra di Venezia del 2010 Quentin Tarantino si dichiarò suo fan: qual è stato il miglior complimento che ha ricevuto nella sua carriera?

«Quello fu un bel complimento. Al tavolo c’era anche Barbara Bouchet, con la quale avevo girato Spaghetti a mezzanotte. Tarantino disse che avevo una bella faccia e che si sarebbe ricordato di me. Ma non parlavo inglese… Il complimento più bello l’ho ricevuto da Mario Monicelli, con il quale non ho mai lavorato. Eravamo in attesa di essere ricevuti da papa Wojtyla a una di quelle udienze con gli artisti: “Ti devo dire una cosa: tu sei Banfi”. Che chezzo vuol dire, pensavo. “Sei come Alberto Sordi. Gli altri, al ciak del regista diventano attori. Tu no, sei sempre Banfi”. Un complimento bellissimo».

Che cosa ne è stato del movimento Nolinc, Nonni liberi incazzeti?

«È lì, in agguato, pronto a muoversi al bisogno. 1500 ragazzi di San Patrignano mi hanno eletto come loro nonno. Ho fatto uno spot gratuito per il 5 per mille alla comunità, essere chiamato da loro mi ha tolto dieci anni di vita».

Qual è il suo ruolo come ambasciatore Unesco?

«Non ci siamo ancora trovati. Invece, ho incontrato il presidente della commissione Franco Bernabè. Però ho chiesto che non mi chiamino membro, ma ambasciatore. Come ambasciatore dell’Unicef».

Come venne l’idea di proporla a Luigi Di Maio?

«Ci incontrammo a un’inaugurazione della Confcooperative. Restò sorpreso che sapessi dialogare con la gente. Anche Craxi una volta mi propose di fare il senatore. “Per far ridere?”, chiesi. “E noi che cosa facciamo?”, mi replicò».

Perché recentemente ha detto che vorrebbe ricevere un premio?

«I film comici non vengono mai premiati se non, a volte, dagli incassi. A Venezia e a Cannes non esistono. In provincia di Foggia c’è un paese che si chiama Canne della battaglia, pronuncia locale Cann. Se qualcuno creasse il Festival di Cann, al posto della Palma potrebbe consegnare l’Ulivo d’oro».

Perché la comicità è cinema di serie B?

«È una domanda che si fa anche il mio amico fratellino Checco Zalone. Quando si parla della commedia all’italiana nessuno ricorda mai i miei film diretti da Dino Risi, Steno, Luciano Salce…».

Alcuni giornalisti hanno confessato che andavano a vederli di nascosto.

«Meglio tardi che mai».

Se oggi si facesse una commedia sexy come quelle degli anni Ottanta come reagirebbero i media?

«Farebbero una pernacchia sui social. Viste oggi sembrano pellicole da oratorio. La cosa più spinta era guardare dal buco della serratura la Fenech o la Bouchet che facevano tre quattro docce a film: più pulite di così. Loro, però, erano naturali, a differenza delle attrici di oggi».

Ha visto il Festival di Sanremo, cosa le è piaciuto e cosa no?

«Amadeus è bravissimo, ma non capisco perché su dieci canzoni otto sono rap. Per quelli della mia età e della mia sordità è difficile capirle. Pippo Baudo e la sua commissione mischiavano il melodico, il rock, il pop».

Ha un’idea per un film o un programma tv?

«Sto lavorando a un film con Cesare Furesi, un regista che soffre di una malattia penalizzante che ho conosciuto di recente. Ha diretto l’ultimo film di Carlo Delle Piane. È una persona piena di energia, un ex sportivo, che sa usare la macchina da presa con grande sensibilità».

Qual è la cosa più cara della sua vita?

«Mia moglie».

Come sta?

«Grazie all’aiuto del professor Vincenzo Di Lazzaro, un grande neurologo, stiamo riuscendo a rallentare la malattia di cui soffre. Vedendo questi progressi mi sento come un bambino felice vicino alla donna che ho sposato 57 anni fa, dopo dieci di fidanzamento».

 

La Verità, 9 febbraio 2020