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«I diritti Lgbtq funzionano nel mondo convenzionale»

S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di  Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori. È un’autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo) di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, i film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.

Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?

«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia».

Che cos’è per lei la libertà?

«Non andare controcorrente, perché vorrebbe dire lottare scientemente contro qualcosa o qualcuno. È seguire con una certa tranquillità i propri pensieri e le proprie convinzioni, senza guardarsi troppo in giro. La libertà te la fai tu, è dentro di te…».

Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?

«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più raffinato».

Se avendo lavorato solo dieci anni nel cinema le danno il David alla carriera vuol dire che ha seminato bene.

«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo molto felice per il nostro cinema e non certo per merito mio. C’erano tanti talenti con i quali lavorare era gratificante. Se avessi continuato oltre quei dieci anni, considerati i cambiamenti, sarebbe stato diverso. Forse per la forza della televisione e per l’importanza delle nuove piattaforme il cinema ha perso un po’ di fascino».

Suo nonno fondò la Mostra di Venezia, suo padre vinse l’Oscar con Ladri di biciclette, ma la vera amante del cinema fu lei: perché sua madre affidò a suo fratello la direzione della Euro International?

«Mio nonno fondò la Mostra perché voleva attrarre più turisti all’Hotel Excelsior e al Des Bains del Lido. Mio padre produsse Ladri di biciclette perché cedette al fascino di Vittorio De Sica. Quando la acquistarono mia madre e mia zia, la Euro era solo una società di distribuzione, avrebbero ugualmente potuto comprare un’azienda che produceva yogurt. L’unica vera appassionata di quest’arte ero io».

E come mai non le affidarono le redini dell’azienda?

«Io volevo fare dei film, non occuparmi dei conti e mia madre pensò a mio fratello Bino. Mi opposi perché non lo ritenevo adatto. Il cinema era un mondo pericoloso per un ragazzo così giovane. Infatti, dopo un po’ tutto esplose e io me ne andai».

Non prima di conquistare l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?

«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista».

Un vostro legale, Carlo Majno, parlando di suo nonno, «un incrocio tra Giulio Andreotti e John Ford», disse che la sua famiglia era «distaccata dalla realtà in modo esagerato»: un’alterigia che ha contagiato anche lei?

«Majno descriveva l’incapacità di mia madre di affrontare la quotidianità. Non credo ci sia alterigia in me, mi pare che il libro racconti la vita di una donna con i piedi per terra».

Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo», eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini…

«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori».

Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?

«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».

Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?

«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno».

Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.

«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me. Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente».

Nemmeno il Leone d’oro del 1967 a Bella di giorno convinse sua madre a darle pieni poteri?

«Credo che nemmeno seppe quello che era accaduto. L’espressione di Majno sul distacco di mia madre nacque proprio in quell’occasione».

Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?

«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui».

Oggi il cinema è più libero di allora?

«Allora c’era la censura e dovevamo tagliare delle scene, oggi non c’è. I registi sono davvero liberi se sono anche produttori. Poi molti lavorano con i fondi pubblici».

Prevalgono un certo conformismo e certi clan?

«Esatto. Negli anni Trenta c’era più libertà, la moglie di Franklin Delano Roosevelt frequentava un’amica. Oggi vedo più conformismo: questo non si può dire, questo non si può fare».

Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?

«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse».

Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?

«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia».

Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?

«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso».

E di Andy Warhol?

«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».

Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?

«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti».

A quale regista o produttore di oggi si sente affine?

«Forse ad Andrea Occhipinti e Domenico Procacci di Fandango».

Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?

«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».

Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?

«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni».

Non la pensano così i militanti del Metoo.

«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Anche gli amici sono ognuno diverso. Da ragazza c’era Franco Rossellini, poi mia grande amica è stata Jeanne Moreau e ancora Ljuba Rizzoli. Non conoscevo Sara D’Ascenzo che mi ha proposto il libro e così è diventata un’amica. Quando sei nel bisogno, gli amici sanno esserti vicino senza fartelo pesare. Sono anche quelli con i quali condividi le passioni».

Benedetta Gardona con cui convive è cattolica e devota…

«Lo era di più fino a quando una sua amica d’infanzia è morta di tumore, e questo le ha fatto un po’ perdere la fede».

Lei ne è mai stata sfiorata?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa non formale. Pensi che quando avevo 15 anni mia madre si accorse che non avevo ancora fatto la prima comunione. Ora che non sono in salute alcune domande me le pongo, ma non sono riuscita a darmi delle risposte».

L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora?

«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».

 

La Verità, 6 maggio 2023

«Al nostro calcio malato serve la cura Armstrong»

Sarebbe il leader perfetto del Paj, Partito anti Juventus. Che lui correggerebbe in Pcp, Partito calcio pulito. Un partito che ha un certo seguito tra le tifoserie, un po’ meno sui media ufficiali che, pur con mille, giuste prudenze, ci informano sull’inchiesta che la Procura di Torino ha aperto sui bilanci della Juventus football club. Gag a parte, Paolo Ziliani è il massimo fustigatore del malcostume (juventino) nel gioco più amato dagli italiani. Laureato in psicologia a Padova, inizia come giornalista al Guerin sportivo, passa al Giorno, dov’è autore di un’esilarante rubrica sui cronisti di Novantesimo minuto. Infine approda a Mediaset. Attualmente collabora con il Fatto quotidiano, vive buona parte dell’anno a Cascais, in Portogallo, e nel 2020 ha pubblicato Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli (Indiscreto), un libro che aveva previsto molte delle accuse di cui si legge in questi giorni.

Ziliani, lei è il giornalista sportivo meno stupito del mondo?

«Potrei rispondere di sì, per farmi bello, ma direi una bugia. Salvo pochi casi clinici, 99 giornalisti sportivi su 100 sanno perfettamente cos’è successo e cosa succede nel calcio italiano. Semplicemente, di norma preferiscono raccontare Alice nel paese delle meraviglie».

Che cosa aveva previsto di ciò che sta accadendo alla Juventus?

«Io non prevedevo: osservavo e scrivevo. Senza prove, perché non sono un magistrato e non posso intercettare, perquisire, mettere cimici. Ma faccio un esempio. Oggi i pm torinesi contestano alla Juventus la galassia di “club amici”, parola di Arrivabene, come Sampdoria, Sassuolo, Atalanta, Empoli, Udinese che colludono con la Juventus in giochi di mercato spericolati e altro. Bene. Nel luglio 2020 scrivevo per il Fatto quotidiano di Audero acquisto più costoso della storia della Samp, di Mandragora acquisto record per l’Udinese, di Sturaro per il Genoa, di Zaza per il Sassuolo, di Orsolini per il Bologna, di Cerri per il Cagliari. Tutti giovani pagati alla Juventus come fuoriclasse. Di pezzi-denuncia come questo ne ho scritti cento».

Tra plusvalenze fasulle, manovre occulta-stipendi e scritture private, come quella di Cristiano Ronaldo, quali sono i reati più gravi?

«Tutti. Quelli finanziari perché la Juventus, truccando sistematicamente i bilanci, ha falsato ogni stagione il principio dell’equa competizione. Agnelli comprava chi voleva, Higuain, Ronaldo, De Ligt, Vlahovic, mentre la concorrenza cedeva i campioni senza poterli sostituire; e i reati etici, imperdonabili. Per dire, Fabio Paratici faceva la campagna acquisti per la Juventus, ma condizionava anche quella di Atalanta, Sassuolo e altri club. Chiedo: c’è uno scudetto pulito nei nove vinti dalla Juventus dal 2012 al 2020?».

Il peccato originale di questa seconda inchiesta è stato l’acquisto fuori misura di CR7?

«Direi che l’operazione Ronaldo, che tra ammortamento e stipendio costava 81 milioni a stagione, ha portato tutti alla disperazione anche perché la squadra giocava male e naufragava regolarmente in Champions, il sogno a occhi aperti di Agnelli. Ma era scandaloso tutto, Alex Sandro che guadagna 6 milioni, Arthur che ne guadagna 7».

Come funziona la carta privata di Ronaldo, che adesso chiede il pagamento di quasi 20 milioni?

«Nel marzo 2020, in pieno Covid, la Juventus raccontò la balla dei giocatori che rinunciavano a quattro mensilità per un risparmio a bilancio di 90 milioni. Ma non era vero, tre stipendi sarebbero stati pagati poi a fari spenti, fuori bilancio. La manovra venne ripetuta anche l’anno dopo e quando Ronaldo nell’agosto 2021 se ne andò era creditore di 19,9 milioni. Della carta-Ronaldo hanno parlato con terrore alcuni dirigenti intercettati; ora il portoghese è venuto allo scoperto chiedendo il pagamento pattuito. Quello che ieri era il messia della Juventus, oggi potrebbe essere colui che le dà il colpo di grazia».

John Elkann sapeva, come scrive Dagospia, o ha fatto dimettere il Cda per evitare gli arresti al cugino Andrea Agnelli?

«Elkann sapeva e gli andava bene tutto, perché quelli della Real Casa pensano solo ai propri interessi. Ha però sottovalutato il delirio di onnipotenza che si è impossessato del cugino Andrea facendolo uscire di senno. Il senso d’impunità tipico di quella stirpe ha fatto il resto. Ora Andrea Agnelli è stato buttato a mare».

Cosa le fa pensare la citazione di Nietzsche usata dall’ex presidente: «E quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non potevano sentire la musica»?

«Siamo alla patologia; non per niente i magistrati parlano di “contesto criminale di allarmante gravità”. Con Agnelli sono avvenute cose immonde: la ’ndrangheta che gestisce la curva, il tifoso-collaboratore finito giù da un ponte in piena inchiesta, gli striscioni su Superga introdotti allo stadio, l’esame farsa di Luis Suárez, l’idea abortita della Superlega con tradimento dei 245 club dell’Eca da lui presieduta, l’orrido scandalo di oggi. Una danza macabra».

De Ligt e De Sciglio hanno confermato l’esistenza dell’accordo per il rinvio degli stipendi. De Sciglio potrà giocare ancora nella Juventus?

«Non glielo auguro. La tifoseria, quella che in piena Calciopoli ringraziava Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Roberto Bettega con lo striscione “Il fine giustifica i mezzi: grazie Triade”, ha già iniziato a linciarlo al grido di infame, sbirro e traditore. Spero che il ragazzo possa andarsene a giocare altrove, per il suo bene».

In Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli denuncia il comportamento compiacente dei media italiani. È iniziato con l’arrivo di CR7 in Italia o viene da più lontano?

«Comportamento compiacente è un eufemismo. Nel libro cito a piene mani, a centinaia, esercitazioni di adulazione e servilismo – capolavori nel genere – da far impallidire l’Istituto Luce. I media italiani nei tre anni di Ronaldo sono stati, come da sempre, disgustosi».

C’è connivenza anche da parte di altri organismi e istituzioni?

«Si potrebbe chiedersi se ci sono Paesi in cui scudetti e titoli sono ricordati col nome di un arbitro piuttosto che di un campione. Non ci sono. Noi abbiamo invece gli scudetti di Bergamo, Ceccarini, Tagliavento, Orsato, le Champions di Calvarese, le Supercoppe di Mazzoleni, sempre con la Juventus protagonista e beneficiata. Una combinazione che ha dell’incredibile».

Il 26 ottobre del 2021 lei ha postato una foto su Twitter con sua moglie e suo figlio e ha smesso di cinguettare fino a pochi giorni fa: cos’era successo?

«È una ferita grande: difficile parlarne. Diciamo che la parte marcia del mondo del calcio, dopo avermi portato in tribunale una dozzina di volte, allenatori, dirigenti, arbitri, giocatori, capi Ufficio Inchieste eccetera, ha pensato bene di scatenare sulla mia famiglia la più classica delle shitstorm, infamità che niente avevano a che fare con la mia sfera professionale. Barbarie pura».

Ora ha ripreso l’attività social perché è meno minacciato?

«L’ho ripresa perché oggi stanno emergendo le illegalità e gli scandali che per anni ho denunciato quasi in totale solitudine. Nelle carte di Torino non c’è nulla di cui non abbia scritto. Ora attendo l’esito dei processi fiducioso in quello penale, meno in quello sportivo della giustizia Fjgc, come l’ho ribattezzata dopo il caso Suarez, e ho riaperto il libro. Ultimo capitolo, poi lo chiuderò».

Che lei sappia, anche altri colleghi sono stati monitorati?

«Ho lavorato a Mediaset con Maurizio Pistocchi e lui è stato un altro bersaglio di questo calcio in cui i giornalisti liberi hanno vita difficile».

La sua crociata anti Juventus è una monomania?

«Nel 1983 lavoravo al Giorno di Milano una mia inchiesta, in coppia col collega Claudio Pea, sulla partita combinata Genoa-Inter 2-3, diede vita all’apertura di un’inchiesta penale a Genova, magistrato Roberto Fucigna, sulle scommesse clandestine fatte da tesserati sul pareggio poi saltato e a un’inchiesta sportiva. Per salvare dalla B per illecito Inter e Genoa la Figc introdusse per l’occasione la formula dell’assoluzione per insufficienza di prove non contemplata dall’ordinamento sportivo. L’Italia aveva appena vinto il Mundial ’82, ci ho scritto un libro – Non si fanno queste cose a 5 minuti dalla fine – mi permetto di dire: da leggere. Non ce l’ho con gli juventini, ma con i disonesti».

Se la Juventus è la punta dell’iceberg vuol dire che se si tocca la società torinese cade tutto il sistema?

«Se la Juventus viene punita, ma punita davvero, il sistema del calcio italiano rinasce. Oggi facciamo pena, per non dire schifo, al mondo».

Il fatto che ci siano altri club coinvolti è la conferma che il sistema calcio fatica a reggersi sulle proprie gambe?

«I club coinvolti sono quelli che gravitano nella galassia juventina. La fatica a reggersi sulle proprie gambe è solo di chi non è capace di amministrare i propri conti. Per esempio, oltre alla Juventus, il Barcellona, guarda caso due club che vogliono la Superlega. Il Bayern Monaco, al contrario, benissimo amministrato e vincente in Europa, chiude i bilanci in attivo da  29 anni».

Che cosa rischia la Juventus?

«Di andare fuori dall’Europa per un paio di anni. In quanto a noi, sarebbe importante radiare Agnelli e Paratici e far ripartire la Juventus dalla serie D. Se poi la famiglia Agnelli liberasse il club dalla sua morsa secolare, allora potremmo davvero parlare di rinascita del club».

Il modello di giustizia sportiva cui rifarsi sono i sette Tour de France tolti a Lance Armstrong perché vinti da dopato?

«Sì, ma non succederà».

Sapeva che Zdenek Zeman era tifoso juventino?

«Sì. E soprattutto che è un uomo onesto».

Lei vive molti mesi dell’anno a Cascais: com’è il mondiale del Portogallo visto dal Portogallo?

«È dai tempi di Eusebio che non c’era una fioritura di campioni come oggi. I portoghesi sono un popolo umile: i loro idoli giocano all’estero e ritrovarli insieme in nazionale a un mondiale per loro è una festa. Comunque vada».

E quello di Cristiano Ronaldo?

«Di Ronaldo si sono stufati anche qui. È sui giornali più per i suoi abusi edilizi e per le discutibili gesta extra calcio che altro».

Massimiliano Allegri può essere l’uomo della rinascita?

«Assolutamente no. Per lui è bravo chi vince e fesso chi perde. Con questi presupposti non si va da nessuna parte».

Molti tifosi bianconeri staranno patendo: cosa direbbe loro?

«Che all’origine di tutte le disavventure c’è il motto “Vincere è la sola cosa che conta”. Come direbbe Fantozzi, una cagata pazzesca».

 

La Verità, 10 dicembre 2022

«Ecco chi vince la Serie A e i miei giocatori preferiti»

Mario Sconcerti è il commentatore più autorevole di calcio. Lucido, imparziale, con una scrittura molto personale. Qualche settimana fa ha osservato sul Corriere della Sera: «Sul campionato sta ormai pesando l’esame inganno di Suarez. Il giocatore ha confermato la falsità del test, i professori anche. E allora? Sono passati tre mesi. Si può ancora fare finta di niente?». Di mesi ora ne sono passati cinque. Siamo colleghi, parliamo di sport, ci diamo del tu.

Come definiresti il calcio al tempo del Covid?

«È un calcio che ha perso brillantezza, fondamentalmente più lento. Non solo in Italia, dovunque».

Il motivo è l’assenza del pubblico?

«Certamente. Perché il pubblico partecipa, con il suo rumore, avverte i giocatori di cosa succede alle loro spalle, commenta la bravura del gesto».

Si spiegano così i tanti gol in Serie A?

«L’assenza del pubblico alleggerisce i giocatori e favorisce i maggiori errori delle difese. La crescita del numero dei gol è iniziata quando i punti per la vittoria sono diventati tre. Da otto anni superiamo stabilmente i mille gol a campionato. Per ritrovare più di mille gol bisogna risalire agli anni Cinquanta di Gunnar Nordahl».

Ora si è scalato un altro gradino?

«Il salto maggiore è stato subito dopo il lockdown e a inizio campionato. Adesso la media si è assestata, ma sempre su livelli molto alti».

Come spieghi la bagarre tra Antonio Conte e Andrea Agnelli?

«È chiaro che c’è un vissuto alle spalle».

Cioè?

«Le ruggini risalgono al quarto anno alla Juventus, dopo i tre scudetti vinti. Conte iniziò il ritiro estivo, ma poi disse che non se la sentiva di continuare e Agnelli fu costretto a cambiare allenatore. Una società non dimentica facilmente quando viene mollata in corso d’opera».

I temperamenti non aiutano?

«Né Agnelli né Conte sono personaggi facili. In questo caso penso che Conte sia stato provocato durante tutta la partita da qualcuno che stava alle sue spalle, dietro la panchina».

Conte ha chiesto più educazione, merce rara.

«Parole che si dicono a caldo. Nessuno sui campi di calcio è in grado di dare lezioni di educazione a qualcun altro».

Si è fatto tutto quello che si poteva in termini disciplinari?

«Se si poteva fare sarebbe stato fatto. Al massimo si sarebbe trattato di una squalifica di una giornata».

Da una rissa all’altra, ho letto che ti sei divertito a vedere quella tra Zlatan Ibrahimovic e Romelu Lukaku.

«Mi ha divertito lo scontro tra i due giocatori più grossi del campionato. Ero curioso di vedere come andava a finire, sapendo che non poteva succedere niente perché c’erano trenta persone intorno a fermarli».

C’è un’inchiesta della procura della Figc.

«È un’inchiesta d’ufficio, non si può dare quel tipo di spettacolo. Quando parliamo di calcio, dobbiamo ricordarci che si tratta di un’attività basata sui calci. Se qualcuno subisse per strada un intervento in scivolata sporgerebbe denuncia contro l’aggressore. I giocatori di calcio firmano una clausola compromissoria per la quale non possono fare causa per qualcosa che avviene sul terreno di gioco. Poi, ogni situazione ha i propri limiti. Mettersi rabbiosamente testa contro testa è un atto che deve finire lì».

Che cosa pensi del caso Suarez?

«Mi appare straordinario per due motivi. Il primo è la clamorosa ingenuità di campagna commessa dai professori dell’università di Perugia che hanno agito come tifosi. Un’ingenuità riconosciuta perché sono tutti rei confessi. La seconda stranezza è che siano passati sei mesi e nessuno abbia fatto un passo avanti. Mi sembra una vicenda più grossolana che seria, anche se c’è stato un protocollo forzato per diventare cittadini italiani».

Esistono i poteri forti nel calcio?

«Esistono, come da tutte le parti. Quando si identifica la Juventus con i poteri forti del calcio si scambia la sua abitudine a dettare la strada con una forma di potere».

Il confine è sottile.

«Non dobbiamo dimenticarci che la Juventus ha la stessa proprietà da cento anni. Se guardiamo gli altri poteri forti, Milan e Inter hanno cambiato tre presidenti nell’ultimo quinquennio. Cento anni di continuità nell’assetto societario significano continuità di rapporti, di esperienza, di capacità gestione di situazioni delicate. La Juventus ha un patrimonio che la rende oggettivamente più forte di chi continua a cambiare proprietà».

C’è troppo tifo nelle telecronache, nei talk show, nei commenti?

«Il calcio è cambiato quando le partite sono sbarcate in tv. Prima era praticamente clandestino perché tutti potevano vedere solo la propria squadra allo stadio. Più che il tifo è aumentata la competenza del pubblico. Adesso vedi calcio, lo impari e lo confronti, in più hai dei buoni maestri che te lo spiegano. Ora il tifoso sa quando è giusto che la sua squadra perda perché è competente».

Gianni Brera come racconterebbe le squadre multietniche di oggi?

«Per come l’ho conosciuto io, credo sarebbe in difficoltà. Non tanto perché pensava che fossimo noi i veri neri della situazione, in quanto nazione povera…».

Aveva un approccio geoculturale, se non vogliamo dire razziale, basato sulla superiorità atletica del centro e nord Europa…

«Oggi le sue profezie sono confermate, l’Europa è il centro del calcio nel mondo. Siamo i colonizzatori del calcio, abbiamo costretto i giocatori degli altri paesi a venire a imparare da noi. Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia e Italia hanno scolarizzato i giocatori a livello mondiale. Brera sarebbe in difficoltà per un altro motivo».

Quale?

«Penso alla discussione che c’è adesso: dici una cosa e qualcuno dall’altra parte dell’Italia ti contesta. Brera era abituato a parlare da solo, non c’era la rete, non c’erano i social. Oggi è più complicato rimanere autorevoli».

A volte mi perdo qualche tua metafora filosofica. Parlando di Juventus-Inter: «È stato un lungo lasciarsi senza darsi dolore, saltando i dubbi della partita».

«Era una partita segnata dal risultato dell’andata. Quello è il mio modo di scrivere, una scrittura spontanea che può piacere a volte di più a volte di meno. In quella frase c’è più slancio poetico che filosofico. Cerco parole, concetti, modi di ragionare dovunque, perché fuggo dalla gergalità del calcio. Alla fine sono contento di aver trovato un mio linguaggio».

Perché nel 2016 hai lasciato Sky per la Rai?

«Mi sembrava che alla mia età, dopo 14 anni a Sky, due anni in Rai potessero dare qualcosa alla mia storia. Ed è stato così».

Tornando sui poteri forti. Come valuti il fatto che Marcello Nicchi sia presidente degli arbitri dal 2009?

«Considero gli arbitri la parte migliore del calcio. È impossibile che portino avanti un complotto perché sono una lobby nella quale tutti competono. Lo scopo di ognuno di loro è arbitrare la partita più importante. Tra avversari non si allestisce un complotto per favorire qualcosa o qualcuno».

È già accaduto.

«I disonesti ci sono dovunque, anche tra i giornalisti. O tra i giocatori che vendono le partite».

Undici anni di presidenza dell’Aia sono tanti?

«Sono due mandati e mezzo. Vediamo che cosa succede alle prossime, imminenti, elezioni. Gli arbitri sono la parte migliore perché la più selezionata. Sono 50.000, ma in Serie A ne arrivano una decina all’anno. Dopo di che sono un mondo a parte, come la magistratura».

Bell’esempio.

«Fra gli arbitri però non c’è solidarietà di categoria: se uno sbaglia, gli altri sono contenti perché lo scavalcano».

Ti aspettavi la tenuta del Milan?

«È certamente una sorpresa. Gli innesti di Ibrahimovic e Ante Rebic sono stati fondamentali per trasformare una squadra di ragazzi in una squadra di uomini. C’era un grande valore assoluto, Gigio Donnarumma e Theo Hernandez sono giocatori di livello europeo».

Mancava la mentalità vincente?

«Mancava la completezza del carisma».

Chi gioca il miglior calcio in Italia?

«La squadra che mediamente gioca meglio è il Milan, quella più pronta per vincere è l’Inter».

Perché l’Atalanta ha improvvise cadute?

«Perché pratica un gioco molto dispendioso, sono dappertutto».

Cristiano Ronaldo sta alla Juventus come Lukaku all’Inter e Ibrahimovic al Milan?

«Sì, anche come Immobile alla Lazio».

Ronaldo vince quasi senza la squadra, mentre la squadra senza di lui fatica a vincere?

«Il peso di Ronaldo è aumentato perché è mancato Dybala, non c’è un centravanti come Gonzalo Higuain e Alvaro Morata è buono, ma normale. La differenza balza agli occhi perché parliamo del più grande attaccante del dopoguerra».

C’è molta distanza tra il calcio italiano e quello degli altri campionati europei?

«Ce n’è abbastanza. Abbassando il livello di tutti, il Covid ci ha fatto avvicinare al calcio inglese e tedesco, mentre quello spagnolo è in ristrutturazione. Siamo abituati a pensare che vincano le squadre più brave, invece vincono le più ricche. Nel momento in cui non possono investire, Real Madrid e Barcellona vincono meno, esattamente com’è successo a Milan e Inter. Il campionato inglese è il migliore perché è il più ricco».

A proposito di poteri forti.

«Il calcio è uno spettacolo, non uno sport. C’è un mercato nel quale non tutti sono nelle stesse condizioni. Nei 100 metri si parte tutti dalla stessa linea e il più veloce vince. Nel calcio la bravura si acquista e, di solito, vince chi ha più margine di spesa».

Che europeo prevedi per l’Italia?

«Un buon europeo, se riusciamo a essere, come spesso siamo stati, rapidi nel gioco, cioè diversi. Però finora abbiamo battuto avversari non difficili e ci aspettano verifiche a livelli più alti».

Sei favorevole alla Superlega?

«Per ideologia sportiva, sono per dare più uguaglianza possibile alle squadre. La Superlega è la negazione dell’uguaglianza».

Chi è il miglior giocatore di questo campionato?

«Nicolò Barella».

Chi vincerà lo scudetto? Ti concedo delle percentuali.

«40% il Milan, 30% a testa Inter e Juve».

Chi è stato il miglior giocatore italiano di sempre? Accetto un podio.

«Paolo Maldini, Valentino Mazzola e Roberto Baggio».

Nel mondo, per estetica e fantasia io voto Johan Cruyff, tu?

«Per estetica e fantasia scelgo Maradona. Cruyff lo voto come maestro universale del secolo perché ha giocato ad altissimo livello cambiando il calcio e insegnandolo: Guardiola ha imparato da lui. Mentre Maradona e Pelè si sono fermati a loro stessi».

 

La Verità, 13 febbraio 2021