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«Se lo Stato non aiuta la natalità tocca alle aziende»

Produce burro e formaggi di alta qualità che, dall’alto vicentino, esporta in tutto il mondo. Ma è un antistatalista, un creatore di welfare alternativo, un imprenditore visionario. Avvocato, un passato da musicista al fianco della madre concertista con tournée europee, l’ultima trovata di Roberto Brazzale è l’assunzione di un gruppetto di ex compagni di scuola sessantenni. Se non è andare controcorrente questo…

Roberto Brazzale, stamattina ha bevuto il caffè con i suoi ex compagni di scuola?

«Con quelli presenti, sì. Erano solo due perché alcuni fanno il ponte e altri sono in giro per lavoro».

Sono diventati suoi dipendenti a sessant’anni?

«All’incirca, fra i 50 e i 60 e oltre. Noi non guardiamo la carta d’identità».

Trae una riflessione generazionale da questa vicenda?

«Siamo un po’ sorpresi dal clamore che ha avuto questa notizia. Ci sembra un fatto normale, ma evidentemente non è così. Forse abbiamo toccato un nervo scoperto».

Quale?

«Credo che molte persone di quest’età abbiano ancora tanta voglia di realizzarsi nel lavoro, a fronte di uno Stato preoccupato solo di trovare risorse per farle uscire dalla vita attiva. È vero che c’è chi sente il bisogno del pensionamento per mille motivi, ma altri sono ancora pieni di energia».

La sorprende di più la motivazione dei sessantenni o l’insipienza dei trentenni?

«Non si devono contrapporre le generazioni. Quasi il 50% dei nostri dipendenti ha meno di 35 anni e siamo felicissimi di loro. Il punto è che si può essere giovani anche a sessant’anni e oltre: la carta d’identità è spesso una convenzione. Mi sono trovato di fronte a degli amici, ex compagni di scuola, veri fuoriclasse che, grazie alla passione e all’esperienza sanno dare il meglio ora che non sono più giovanissimi».

In che ruoli sono stati assunti?

«Ruoli amministrativi, logistici e soprattutto commerciali di contatto con la clientela o il consumatore. Lavorano in perfetta simbiosi con i ventenni».

Dal suo osservatorio come giudica l’inverno demografico italiano?

«È la crisi più terribile che stiamo vivendo: tutto è contro la procreazione. I primi a esserne colpiti sono i giovani che lavorano. Deve tornare a essere bello fare figli. È un piccolo segnale il fatto che alcuni sessantenni possano continuare a lavorare, contribuendo ad alleggerire i giovani dal peso fiscale e contributivo che complica la realizzazione dei loro progetti di vita. L’allungamento dei congedi parentali può essere la chiave di volta di questa crisi».

Come funziona?

«Copiamo dai Paesi più civili. Ho davanti l’esempio della Repubblica ceca dove abbiamo 500 dipendenti che lavorano al Gran Moravia. Lì, papà o mamma, a scelta, possono restare a casa fino a quattro anni con il posto di lavoro garantito e una remunerazione del 30%. E, dopo la prima infanzia, gli asili sono perfettamente efficienti. Purtroppo, in Italia assistiamo a una serie di tentativi che, nonostante le buone intenzioni, non colgono il bersaglio. Oggi non arriviamo a 390.000 nati a fronte di quasi 700.000 morti all’anno. Se si aggiungono i 100.000 che emigrano, è come se scomparisse una città come Bologna».

Però ci sono gli immigrati.

«Sono fondamentali da decenni, ma non rimediano al male interno alla nostra società provocato dal crollo delle nascite e dalla riduzione dei giovani. Due fattori che stravolgono intimamente società e cultura del nostro Paese, facendogli perdere slancio, fiducia e bellezza».

Quanti stranieri ha nella sua azienda?

«Abbiamo oltre mille dipendenti sparsi nel mondo. In Italia sono più di 500 dei quali oltre il 25% stranieri. La loro presenza è fondamentale».

Crea problemi di tipo amministrativo o burocratico?

«Nessun problema. Sono veramente bravi, senza di loro le nostre attività si fermerebbero».

Il sociologo Luca Ricolfi afferma che le giovani coppie non procreano perché l’arrivo di un figlio compromette il piano di vita che si sono date, molto più basato sul tempo libero rispetto a qualche decennio fa.

«In molti Paesi occidentali i giovani vivono allo stesso modo, eppure fanno figli. Da noi ci sono stipendi netti troppo bassi, il reddito pro-capite non cresce da più di vent’anni. E soprattutto non c’è una valorizzazione della procreazione che dovrebbe essere il momento aureo della vita dei singoli. Fare figli è una corsa a ostacoli, economici, amministrativi, culturali».

Per lei la denatalità dipende dalla mancanza di sostegni economici e di una legislazione finalizzata?

«Non solo. Bisogna dare tempo ai genitori per seguire i figli. Meno del 50% delle donne italiane lavorano, a fronte del 70% negli altri Paesi europei, perché lasciano il lavoro per poter essere mamme. Serve un diverso atteggiamento nel mondo del lavoro e una ridefinizione delle priorità dello Stato. Garantire i congedi triennali con una remunerazione del 30% potrebbe costare molto meno di 10 miliardi all’anno, l’1% della spesa pubblica, il 3% delle pensioni. Ma lo Stato non li trova e magari poi li spende con il Pnrr che è spesa  a debito, il cui peso graverà proprio sui giovani».

È contrario al Pnrr?

«Ovvio. 250 miliardi di spesa pubblica extra: ne avevamo bisogno? In Italia la spesa pubblica è già il 60% del Pil, e il debito vero ben oltre il 150%. Lo Stato deve ridursi non espandersi, imprese e famiglie devono essere sollevate dal peso che le soffoca. Ormai nessun politico difende più i singoli dall’ipertrofia dello Stato».

Il Pnrr permetterà di realizzare opere necessarie allo sviluppo del Paese.

«Gli Stati che funzionano le fanno attingendo al bilancio ordinario, non a extra debito. Un euro speso dallo Stato è un euro tolto ai cittadini. Come si può pensare che lo Stato spenda meglio di una famiglia o di un’impresa?».

Nella sua azienda assume sessantenni, estende il baby bonus, allunga il congedo per maternità…

«Attraverso il congedo parentale aziendale aggiuntivo, i nostri dipendenti, uomini o donne, possono rimanere a casa fino a un anno in più al 30% dello stipendio. Abbiamo creato un gruppo di imprenditori che si chiama “Benvenuta cicogna”, una mailing list per scambiarci informazioni e anche Confindustria giovani Vicenza ha messo al centro della propria azione la maternità sul lavoro. Non possiamo aspettare lo Stato, invitiamo a considerare misure simili chi non l’ha ancora fatto».

È uno strano welfare aziendale, il suo.

«L’azienda è una comunità di persone. Oggi categorie come i sessantenni o le donne che hanno paura della gravidanza sono considerate neglette nel mondo del lavoro. Noi proviamo a porre rimedio a ciò che non funziona nella nostra società, anche prendendo esempi dalle esperienze che facciamo in giro per il mondo».

I sindacati cosa dicono?

«Le nostre misure, per esempio le attenzioni per le mamme, sono apprezzate e condivise. La protezione della maternità è quasi una forma di controcultura perché, per sciatteria, la cultura prevalente mortifica la procreazione».

È contento del momento d’oro dei formaggi italiani, in vetta alle classifiche di gradimento mondiali?

«Il momento d’oro dei formaggi italiani dura da sempre e durerà per sempre perché 8,1 miliardi di persone a cui torna l’appetito ogni 4 ore amano i nostri prodotti. C’è solo da darsi da fare per rispondere a questa enorme domanda sopperendo alla carenza di territorio di cui soffriamo. Dunque, pensando al made in Italy come valore aggiunto creato dagli italiani e dalla loro formidabile capacità di trasformazione, attraverso l’espansione internazionale delle catene di approvvigionamento».

È più urgente la riforma del premierato o quella dell’autonomia?

«La più urgente è riprendere a fare figli. Rispetto a questo, quelle riforme sono irrilevanti. Poi, non si capisce bene quale autonomia lo Stato voglia davvero concedere. La sensazione è che il centralismo statalista, la radice dei nostri mali, non verrà intaccato».

Che cosa si aspetta dalle elezioni europee?

«L’Unione europea ha bisogno di ripensare molte delle sue decisioni più recenti e di farlo in fretta».

Sa già per chi voterà?

«Dipende dai candidati e dai programmi, ci sono ancora molte cose da capire».

Se dovesse dare un consiglio a Giorgia Meloni quale sarebbe?

«Subito il congedo parentale triennale a carico del sistema previdenziale. E maternità e procreazione in cima alle priorità, in modo rivoluzionario».

L’ultima volta che ci siamo visti, parlando del suo andare controcorrente, mi ha raccontato di quell’automobilista che mentre guida in autostrada nella nebbia sente alla radio l’allarme per un pazzo che va contromano e commenta: «Macché uno, saranno almeno cento…». È ancora incolume o ha fatto qualche incidente?

«Nessun incidente. Appena esco dall’Italia mi accorgo di pensare in modo normale, comune. Mio nonno diceva: “Mai paura, basta ’ver ’e idee ciare”».

Dice di pensare in modo condiviso nei Paesi europei, ma poi la Ue promuove le auto elettriche, l’efficientamento delle abitazioni e penalizza le aziende che non si adeguano ai dogmi green.

«L’Unione europea è una brutta copia centralista degli Stati nazionali, replica i loro difetti e ne aggiunge di propri. Era meglio un’Europa comunitaria, che eliminava barriere e allargava mercati e libertà».

Per questo le chiedevo quali aspettative ha dalle prossime elezioni.

«I Paesi sono espressione della cultura dei popoli. Si pretenderebbe di unificare Paesi con culture molto diverse, antitetiche. L’Italia non è solo quella che ha fatto nascere il Recovery plan è anche l’unico Paese che ha chiesto tutti i fondi a debito del Pnrr. Siamo i più furbi o i peggio amministrati? Stando ai risultati, la seconda. La Ue per tenersi in piedi ha finito per assecondare le peggiori politiche nazionali, come la monetizzazione dei deficit. Di facciata si sottoscrivono patti che si sa già non verranno rispettati. E presuntuosi burocrati pretendono di pianificare la vita di singoli e imprese. La capitale a cui guardare oggi non è né Bruxelles né Roma ma, sorprendentemente, Buenos Aires».

Addirittura? L’Argentina del premier con la motosega?

«Lasci stare il folklore. Certi principi di buon governo e libertà non si sentivano pronunciare dai tempi di Margaret Thatcher. Riusciranno a metterli in pratica? Difficile, ma finalmente il pensiero unico statalista viene messo in discussione da un governo liberamente eletto. Peccato ciò accada solo fuori dalla Penisola e dal Vecchio continente».

 

La Verità, 30 dicembre 2023

«Serve un vero federalismo in un’Europa comunitaria»

Poi dici, gli imprenditori del Nord… Nella pedemontana vicentina, fra Thiene e Asiago, ha radici Roberto Brazzale, 59 anni, sposato con Luisa, padre di tre figli, comandante della più antica industria casearia del Veneto: 750 dipendenti, 220 milioni di fatturato, aziende in Moravia e in Brasile. Anima lunga e mimica da visionario, mostra le stanze degli avi prima di accompagnarmi nella nuova sede, vetrate e scale minimaliste. «I miei dipendenti devono aver voglia di venire a lavorare perché qui si sta bene», sottolinea mentre preme un pulsante che fa lievitare il tavolo al quale siamo seduti: «Se ci si vuole alleggerire la schiena si può lavorare stando in piedi, come al bar. Quando si è stanchi si schiaccia e ci si risiede».

Lei è l’uomo del colesterolo?

«Di quello buono. Il colesterolo è essenzialmente un fatto naturale».

E di burro e formaggio.

«Il settore ha sofferto quarant’anni di fake news. C’era cascata perfino la Food and drugs administration».

Invece?

«La scienza ha completamente riabilitato il burro. Al quale è stato restituito il ruolo che merita perché non solo non fa male, ma è indispensabile per una vita sana».

La liberazione è definitiva o la strada è ancora lunga?

«Il consumatore risente ancora delle campagne del passato. Nostro compito è realizzare prodotti straordinari per accompagnarne il rinascimento, tipo un burro Rolls Royce che, se lo assaggi, non riesci più a mangiarne un altro».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono un tipico veneto nato negli anni Sessanta, felice di esserlo».

Studi?

«Liceo classico, laurea in legge e studi di organo e composizione organistica al conservatorio».

Genitori?

«Mia madre è stata organista della cattedrale di Padova, direttrice di conservatorio, concertista internazionale. Il papà era chimico industriale con sensibilità artistica, amico di Luigi Meneghello, in pratica uno dei bricconi di Libera nos a malo. Accompagnavo mia madre nelle tournée, eravamo europei ben prima che arrivasse l’Unione europea».

Tutto questo cosa c’entra con la gestione di un caseificio industriale?

«I miei mi hanno insegnato l’importanza di una preparazione più ampia possibile. Sono a mio agio come giurista che opera in campo economico».

Precisando il suo ritratto, quanto le piace andare controcorrente?

«A me sembra di pensare col buon senso e che siano gli altri controcorrente. Ha presente il tipo che guida nell’autostrada immersa nella nebbia e sente la notizia alla radio? “Attenzione, c’è un pazzo che sta andando contromano”. E lui: “Come uno? Saranno almeno cento”».

Appunto, tutti esaltano il consorzio del Grana padano: e lei?

«Pensi che i nostri nonni lo fondarono… Noi a un certo punto abbiamo scelto di superare i limiti delle Dop e andare dove poter produrre meglio ed ecosostenibile. Dopo lunghe ricerche, abbiamo scoperto la Moravia».

Quindi addio made in Italy?

«No, è solo più evoluto».

In che senso?

«Per noi è made in Italy un prodotto con una prevalente componente italiana in termini di territorio, fattore umano, cultura. Legarsi alla provenienza delle materie prime è autolesionistico, perché siamo limitati per carenza di territorio e perché il vero valore aggiunto del food italiano sta nella capacità di trasformazione, che può esprimersi ovunque. Abbiamo triplicato i dipendenti in Italia da quando abbiamo espanso la produzione in Moravia. Questa è la contraddizione».

Spieghi.

«La domanda di prodotti italiani nel mondo è altissima, ma non abbiamo materia prima per soddisfarla tutta. Così la copre l’italian sounding, prodotti totalmente esteri ispirati ai nostri, come il parmesan. Così i giovani rimangono disoccupati. È conseguenza della visione miope del principale sindacato agricolo».

La Coldiretti?

«Restando legati a quelle logiche perdiamo interi mercati. Lo sa che l’Italia esporta meno prodotti alimentari del Belgio?»

In compenso voi vi siete spinti fino in Brasile.

«Per regola facciamo le cose dove riescono meglio e dagli anni Novanta le opportunità si sono ampliate a dismisura. Per un allevamento da carne il posto migliore è il Mato Grosso do Sul dove si pascola 365 giorni all’anno. Lì abbiamo riforestato i pascoli piantando 1,5 milioni di alberi e raggiungendo la neutralità di carbonio dei nostri stabilimenti».

La riforestazione compensa le emissioni carboniche delle vostre aziende?

«Esatto. Per primi al mondo nel settore caseario».

Avete anche introdotto il baby bonus.

«Nel 2016 abbiamo scoperto che una nostra dipendente aveva paura di dirci che aspettava un bambino. Bisognava reagire. Abbiamo introdotto una mensilità premio per ogni nato o adottato, e la possibilità di allungare di un altro anno il congedo parentale, per la mamma o papà, retribuito al 30%».

Le piace la svolta europeista di Salvini?

«È Draghi che nove anni fa ha fatto una svolta sovranista, con la famosa frase “whatever it takes”: è stata una calamità».

Addirittura.

«Ha scelto di perseverare nell’errore del progetto dell’euro quando era palese che la convergenza dell’Italia non ci sarà mai. Invece di smontare l’illusione, Draghi ha promesso al mondo di sostenere i Btp all’infinito, iniziando a stampare montagne di moneta dal nulla, come chiedevano i sovranisti. L’Italia ha così potuto evitare di riformarsi e ha ingigantito il proprio debito pubblico. Ma gli squilibri continuano a crescere: il debito dell’Italia verso la Bce è salito a oltre 500 miliardi a fronte di un credito della Germania di mille miliardi. Chi regolerà queste posizioni?».

La next generation?

«Ci meriteremmo ci venisse revocata la patria potestà sulla prossima generazione come si fa con un tutore infedele».

Draghi ha difeso l’euro.

«Ma non gli europei. Ha monetizzato i deficit, come negli anni Settanta, in spregio ai trattati: anestesia, non terapia, contro un male che nel frattempo avanza indisturbato. Nel 1992 Draghi era direttore generale del Tesoro quando Ciampi per “difendere la lira” lanciò un mini “whatever it takes” che costò all’Italia 50.000 miliardi di lire per sostenere una quotazione irreale. Quello di Draghi ci costerà molto di più quando il castello di carte crollerà. Succederà, perché nessuna costruzione politica è <irreversibile>, tanto più se è sbagliata, guardi il comunismo».

Contromano in autostrada, boccia anche la presentazione in Parlamento per la fiducia?

«Draghi ha una visione statalista, da alto burocrate ministeriale. Vuole un forte ruolo dello Stato nell’economia e trasferire ulteriore sovranità alla Ue, per ovviare alle debolezze italiane, anziché progettare riforme efficaci. Non parla di autonomie regionali, praticamente assenti i temi della natalità e dell’insopportabile vessazione fiscale su famiglie e imprese. Draghi concorre da protagonista al governo dello Stato italiano da almeno trent’anni: ingenuo aspettarsi cambiamenti coraggiosi».

Si dice che la svolta di Salvini sia stata suggerita dagli imprenditori del Nord per sedersi al tavolo che gestirà i miliardi del Recovery fund.

«Sarebbe comprensibile, ma sbagliato. Il Recovery fund è nuovo debito, il 10% del Pil, che graverà sui nostri figli. Denari sottratti loro per essere spesi oggi dalla mano pubblica. Una bestialità. Quel che serve sono adeguati e veloci indennizzi a lavoratori e imprese penalizzati delle chiusure».

Non incrementano l’assistenzialismo al contrario degli investimenti che creano sviluppo?

«Abbiamo bisogno di meno spesa pubblica non di più spesa pubblica. Non esiste denaro dello Stato perché tutto ciò che spende lo stato lo toglie ai cittadini. E pensare che ne faccia uso migliore dei cittadini è insensato».

Bocciato sul nascere anche il nuovo governo: sta all’opposizione con Giorgia Meloni?

«Fratelli d’Italia è un partito centralista e statalista. Questo governo è meno peggio del precedente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è ben altro».

Sentiamo.

«Riformare l’architettura istituzionale, restituendo ai territori responsabilità e libertà. Smontare il modello centralistico dei trasferimenti che ci ha portato in questa situazione. In tutto il mondo le realtà che funzionano meglio sono comunità di 5-10 milioni di abitanti, indipendenti come Austria o Singapore, o federate come Svizzera o Stati Uniti».

Quindi è anche contro l’Europa?

«Scherza? Nessuno è più europeista di me. Ma credo in un’Europa comunitaria, non unionista. L’unionismo è un’ideologia velleitaria e dannosa perché è lapalissiano che l’integrazione tra i Paesi europei non verrà mai».

Per chi vota?

«Ho cambiato spesso, a volte non voto».

Dove sbaglia Salvini?

«Doveva perseguire il federalismo che oggi, in Italia, è orfano».

Durante la pandemia le regioni non hanno dato grande prova.

«Perché sono dipendenti dal centro, una realtà incompiuta. Il regionalismo manca dei pezzi più importanti come l’autonomia fiscale. Tre anni fa 2,3 milioni di veneti hanno chiesto al governo di concedere più autonomia come previsto dalla Costituzione: ignorati. Anche da Salvini che ha fatto una svolta nazionalista e centralista».

Alla ricerca di consensi in tutto il Paese e per non abbandonare il Sud al suo destino?

«I consensi si devono conquistare in un’ottica federalista che è urgente soprattutto al sud dove può favorire una rinascita grazie alle straordinarie risorse umane che oggi sono depresse dallo statalismo».

Niente grandi opere al Sud?

«Cito la ricerca di Accetturo e De Blasio intitolata Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) pubblicata dall’Istituto Bruno Leoni. Il denaro pubblico ha fatto danni enormi al Sud».

Io cito due investimenti statali virtuosi in tempi di crisi: l’Autostrada del sole consegnata in anticipo e il ponte Morandi ricostruito in un anno.

«Quelli erano investimenti necessari. Perché prima di avviare una grande opera non s’interpella chi la paga, come in Svizzera?  Non è rilevante se lo Stato sia svelto a fare le opere, ma se queste opere siano più utili che lasciare i soldi in tasca ai cittadini perché investano loro. Lo Stato, che spende già oltre 900 miliardi, avvalora l’ideologia che fare investimenti e spesa pubblica sia utile all’economia perché innescherebbe un moltiplicatore. Frottole, l’unico moltiplicatore che innesca è quello dei debiti pubblici».

 

La Verità, 20 febbraio 2021