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Cara Biennale, senza padri gli stranieri sono ovunque

Terzomondismo e terzosessismo. In fondo, con un titolo così, era prevedibile. Stranieri ovunque – Foreigners everywhere è un gigantesco link alle minoranze. Un magnete di vittimismi. La 60ª Biennale d’Arte di Venezia è una chiamata a raccolta delle comunità outsider, laterali, emarginate, violentate dal potere, dagli Stati, dal pensiero unico, dalla globalizzazione. Ecco allora il terzomondismo e l’ideologia queer alzare il proprio pianto, lamentarsi, recriminare. Un coro a più voci, nelle varie tonalità che compongono la polifonia finale. Quella dell’esclusione patita. Della vessazione. Del sopruso. Dell’oppressione. Migranti, nomadi, apolidi, indigeni, aborigeni, sradicati, rifugiati ed espatriati si accostano a omosessuali, queer, fluidi, disforici, non binari in una comune condanna dell’Occidente colonialista, selettivo, discriminatorio, razzista. Il quale, per sgravarsi dal pesante complesso di colpa, li accoglie, li sdogana, li legittima e li esalta secondo i dogmi dell’inclusione e dell’accoglienza. Parole care anche a papa Francesco che, prima volta di un Pontefice, visiterà la Biennale, in particolare il Padiglione Vaticano (alla quarta partecipazione) allestito nel penitenziario femminile all’isola della Giudecca per l’esposizione intitolata Con i miei occhi e realizzata con la supervisione del cardinal José Tolentino de Mendoça (prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione). Ad aspettarlo, domenica mattina Francesco troverà l’opera di Maurizio Cattelan: due piante di piedi, come quelli che ogni giovedì santo Bergoglio va a lavare nel carcere femminile di Rebibbia.

Su questa edizione ha già scritto magistralmente Marcello Veneziani, basandosi sul titolo voluto dal precedente presidente Roberto Cicutto, con sagacia ereditato da Pietrangelo Buttafuoco, e segnalando le parole del curatore che tiene a proclamarsi queer Adriano Pedrosa: «In profondità, siamo tutti stranieri». Niente di nuovo sul fronte artistico. Non serviva vedere i padiglioni e le installazioni se non per trovare conferme e aggiungere dettagli, rilievi formali, classificazioni di schieramenti.

Per esempio, il fatto che, rispetto a quello di origine geografica, il sentimento di estraneità a causa dell’orientamento sessuale è quantitativamente maggioritario forse perché più di moda tra le élite intellettuali. All’ingresso dell’Arsenale ci accoglie Refugee Astronaut II, creazione dell’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare, quasi una summa delle precarietà e dei disconoscimenti odierni. È un astronauta a grandezza naturale, che indossa una tuta di stoffa con motivi nigeriani e porta in un sacco di rete attrezzi e strumenti per superare sfide ecologiche e umanitarie. Senza, però, riuscire ad ambientarsi, tanto da rivolgersi allo spazio. Inoltrandosi nei saloni ai Giardini, invece, si trovano denunce più circostanziate. Nei dipinti elementari di Marlene Gilson che affiancano soldati e indigeni c’è l’oppressione subita dagli aborigeni dell’Australia, mentre nelle fotografie e negli arredi di Pablo Delano si ripercorre la storia di Porto Rico dalla dominazione spagnola alla subalternità agli Stati Uniti. La critica al colonialismo tocca anche l’Italia nell’opera Gheddafi in Rome: anatomy of a friendship di Alessandra Ferrini, artista fiorentina che ripropone l’incontro del leader libico con Silvio Berlusconi del 2009, analizzando il rapporto tra i due Stati fin dall’occupazione italiana del secolo scorso. Nell’enorme arazzo di Pacita Abad (Singapore), si fotografa invece la stratificazione sociale della globalizzazione: nella fascia alta dei grattacieli compaiono le sigle della finanza, nella seconda i marchi della moda, nella terza le famiglie dei ceti medi e nell’ultima, a terra, i più poveri. Il racconto della resistenza al regime di Pinochet realizzato su grandi tele da Arpilleristas, artiste cilene ignote, è ingenuo e colorato dal sole, segno di una speranza che non demorde. Restando in Sudamerica, l’argentina Mariana Telleria dichiara che Dios es inmigrante nell’installazione con alberi di barche a vela che compongono una grande croce, collocata nel giardino di un ostello vicino al porto di Buenos Aires. Più militante e antipotere il lavoro di Disobedience archive, raccolta di «tattiche di resistenza contemporanea» realizzata dal Marco Scotini, composta da una collezione di video sulle forme di protesta nel mondo. È una delle poche opere audiovisive del capitolo sullo sradicamento geografico che riempie anche i padiglioni dei Giardini, dove il frontespizio è affrescato dal collettivo brasiliano Mahku. Per il resto, dominano pittura, scultura e la stoffa degli arazzi, familiari nelle comunità terzomondiste degli anni Settanta.

Più variegata nei linguaggi, sebbene sia assente quello digitale, la denuncia delle comunità omosessuali, queer e non binarie. Si va dalla performance video di danza su lenzuola appese al soffitto di Isaac Chong Wai (Hong Kong) alle raffigurazioni di gaiezza quotidiana dell’americano Louis Fratino. Il sudafricano Sabelo Mlageni sceglie invece dei murales in spazi rurali per raccontare la sua non binarietà, mentre Puppies Puppies intitola Woman la scultura di un maschio normodotato. Ahmed Umar, queer sudanese e musulmano riparato in Norvegia, assomma entrambe le forme di estraneità, ritraendosi in abiti, gioielli e trucco femminili nell’opera intitolata Talitin, ovvero «terzo», tipico insulto arabo. Più inquietante è l’evoluzione di Void, il video di Joshua Serafin (Filippine), in cui un corpo evolve in uno spazio fangoso dalla condizione strisciante a essere eretto, fino a proporsi come divinità fluida. La rappresentazione più estrema è, però, quella di Xiyadie, «padre, contadino, omosessuale, lavoratore, migrante e artista» che illustra su enormi tele il disagio dell’identità queer in Cina, raffigurando fellatio e scene di autolesionismo genitale. Infine, in Cyber-Teratology Operation di Agnes Questionmark (Italia), un corpo in sala operatoria, gravido e con arti pinnati – quindi trans-specie, transgender e transumano – è una sorta di summa dello sterminato capitolo dedicato ai percorsi trans.

In conclusione, la tonalità ultima della polifonia è quella del pianto, lamento non sempre fuso nella protesta. In cui più che la qualità e l’innovazione artistica, conta il messaggio originato dall’appartenenza a una delle minoranze rappresentate. Tuttavia, lo stupore è in modica quantità. In un’epoca che con il Sessantotto ha ucciso i padri e abolito il principio di autorità e con l’avvento della globalizzazione ha cancellato le patrie, gli stranieri sono ovunque. E, grazie alla Biennale d’Arte di Venezia, ai media mainstream e all’industria dell’audiovisivo hanno molte possibilità di diventare maggioranza.

 

Ma il Padiglione Italia e il Padiglione Venezia hanno una visione altra

Un piccolo grande elemento di discontinuità rispetto allo spartito immaginato dalla coppia Roberto Cicutto Adriano Pedrosa, rispettivamente ex presidente e attuale direttore della sezione arte della Biennale viene dal Padiglione Italia e dal Padiglione Venezia, curati da Luca Cerizza e Giovanna Zabotti. Sono avulsi dalla narrazione della gran parte degli altri spazi perché parlano una lingua diversa, costruttiva verrebbe da dire se non fosse una parola tabù nel nichilismo imperante. Al Giardino delle Tese dell’Arsenale, ecco Two here (due qui) che, giocando sull’assonanza con To hear (ascoltare), suggerisce una sorta di sospensione per fare spazio all’altro. In un labirinto di tubi innocenti echeggia un suono costante e rigonfio che forse vorrebbe richiamare il perenne saliscendi dell’acqua e fango che riempiono un grande catino. All’inaugurazione il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro vi ha immerso le mani, schizzando come in uno scherzo impertinente che ha suscitato la riprovazione dell’autore, Massimo Bartolini («Lei sta dando pessimo esempio…»). Ma trovando l’immediata difesa del presidente Pietrangelo Buttafuoco: «Il nostro sindaco è come quel bambino che fa i baffi alla Gioconda». In conclusione, appare curioso che il padiglione italiano vanti un titolo inglese, ma tant’è.

Più coerenti e, in un certo senso, orientate in direzione contraria, risultano le proposte dello spazio Venezia, in fondo ai Giardini. Il titolo è Sestante domestico e dice della ricerca di una bussola per il presente, sulla scorta di una poesia di Franco Arminio: «Abbiamo bisogno/ di un luogo: ci vuole/ una mano/ una casa, un sorriso/ qualcosa che ci faccia/ da perimetro». E gli artisti si sono espressi al meglio. Vittorio Marella ha dipinto una parete di sabbia nella quale due ragazzi si abbracciano («Mi è stato chiesto di rappresentare la mia idea di casa, proprio mentre stavo cercando casa… Invece, ho trovato una persona. Nel nostro volerci bene, nel nostro abbraccio, c’è la mia casa»). L’ottantenne Safet Zec, pittore e grafico della Bosnia-Erzegovina, già esule per la guerra e da un ventennio cittadino veneziano, espone povere figure in preghiera e padri che corrono per portare in salvo figli sofferenti. Opere intrise di tenerezza che si intitolano «Vie della bellezza».

 

La Verità, 24 aprile 2024

 

 

«L’islam conquista l’Europa con migranti e natalità»

Giornalista del Foglio, già collaboratore del Jerusalem Post e del Wall Street Journal, autore di saggi sulle religioni del Medio Oriente, Israele e mondo arabo, Giulio Meotti è uno dei maggiori esperti italiani di islam.

Il suo ultimo libro pubblicato da Cantagalli s’intitola La dolce conquista, sottotitolo: l’Europa si arrende all’islam. Perché sarebbe dolce questa conquista?

«Perché è più pericolosa delle bombe e delle uccisioni, ce ne sono state tante con centinaia di morti».

Sembra un controsenso.

«È più pericolosa perché non provoca una reazione dell’opinione pubblica e di coloro che dovrebbero proteggerci».

La dolcezza risalta a confronto con i precedenti tentativi di conquiste, quella dei Mori della Spagna, e quella dei Turchi passando dai Balcani?

«In parte sì. Il grande islamologo e arabista Bernard Lewis diceva che questa è la “terza conquista”, dopo che i musulmani sono stati fermati a Poitiers e alle porte di Vienna».

Di quali mezzi si serve?

«Della demografia perché il tasso di fertilità è di gran lunga superiore al nostro, dell’immigrazione e della dawa, che è la predicazione attraverso le moschee e la proliferazione dei simboli islamici».

È più l’Europa che si arrende o la religione islamica che è aggressiva?

«Un mix delle due cose. Da un lato c’è l’arrendevolezza dei politici europei e dall’altra la volontà di espansione che appartiene all’islam che, ricordiamolo, si distingue tra il dar al-islam, la terra dell’islam, e il dar al-harb, che è la terra della conquista, tutto ciò che non è islamico ma lo dovrà diventare».

Premesso che Francesco sottolinea che la missione si esprime attraverso il contagio, il proselitismo appartiene a tutte le religioni.

«Con la differenza che il cristianesimo nella vecchia Europa è in ritirata mentre l’islam è in una fase di grande avanzata. Il mix letale è scristianizzazione più islamizzazione».

Un travaso fra vasi comunicanti?

«A suo tempo il cardinal Giacomo Biffi disse che “l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà islamica”».

Sono proselitismi paragonabili?

«Non c’è nella storia dell’islam un Paese che si islamizza e preserva comunità religiose alternative. Nel più laico tra i paesi musulmani, la Turchia, gli ebrei sono una manciata e i cristiani stanno scomparendo».

Non ammettono la convivenza con altre confessioni?

«Boualem Sansal, autore di 2084. La fine del mondo, ha paragonato l’islamismo a un gas, “nel lungo periodo occupa tutto lo spazio”».

È corretto definire l’islam religione?

«Non è solo una religione, è un’ideologia e un modo legislativo di vivere: non bere alcolici, fai crescere la barba ma non i baffi, vela le donne. L’islam non ha capacità di separare il privato dal pubblico».

Prevede anche la poligamia, la guerra santa contro gli infedeli, l’assassinio degli apostati, la sottomissione delle donne?

«Nel Corano si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma per come si è impostato nei secoli, l’islam è diventato una straordinaria macchina di conquista per cui, oggi, gli stessi musulmani sono oggetto di conquista. Lo vediamo in Europa dove le seconde e le terze generazioni sono più religiose dei loro padri».

In che senso?

«I padri sono venuti qui per lavorare alla Renault e alla Fiat e si sono laicizzati a contatto con le libertà e i diritti occidentali. Ora i figli si sono reislamizzati. Con l’affermazione degli ayatollah e dei Fratelli musulmani i giovani sono diventati oggetto di una nuova campagna di indottrinamento. Altrimenti come spiegarsi il fatto che, pur essendo in Occidente da decenni, ancora pensano al Profeta, al califfato, alla sharia?».

La jihad è solo un movimento religioso?

«Jihad significa sforzo quindi è anche militare ed economica. Lo si vede dall’esplosione del mercato halal, i ristoranti, i menù nelle mense, le catene alimentari, i pellegrinaggi organizzati dall’Europa verso La Mecca. E poi dalla quantità di denaro spaventoso che Qatar, Arabia saudita e Turchia investono in Europa».

Però esiste anche un islam moderato.

«Esistono i musulmani moderati, persone che vogliono vivere la loro vita in mezzo a noi, che non hanno in testa la guerra santa o la sottomissione. Ma guardando ai grandi poli dell’islam mondiale, cioè l’Arabia saudita, l’Iran, il Qatar, il Pakistan, la Turchia e i Fratelli musulmani non esiste una corrente che abbia fatto la riforma. Cioè, reinterpretato il Corano nel presente. Anche perché, per loro, il Corano è stato dettato da Allah e quindi va applicato letteralmente».

L’islam moderato conta poco?

«Il grande studioso Rémi Brague ha detto: “L’islamismo è un islam che ha fretta”. I musulmani moderati sono singole persone».

Tra queste Pietrangelo Buttafuoco, appena designato alla presidenza della Biennale di Venezia.

«È una persona che stimo, con cui ho lavorato per tanti anni al Foglio. La sua non è una conversione militante».

Ci sono margini per una convivenza armonica?

«Sì, se l’Occidente si fa rispettare e pone delle condizioni. La prima è che l’Europa è giudaico-cristiana. La seconda è che gli islamici accettino che la libertà di pensiero e di parola è un diritto sacrosanto. E la terza che la donna e l’uomo sono uguali».

Pensa che integrazione e multiculturalismo siano utopie?

«Lo ha detto Angela Merkel: “Il multiculturalismo è fallito”».

In cifre come si può quantificare questa espansione?

«Bruxelles, la capitale dell’Unione europea, è per il 30% islamica, con vere e proprie enclavi dove si arriva al 50%. Birmingham, la seconda città britannica, ha il 30% di cittadini musulmani. Le grandi città francesi, da Marsiglia a Lione, hanno comunità dal 30 al 40% di cittadini islamici. È possibile che nel giro di una generazione i musulmani saranno la maggioranza».

Cosa significa che in Gran Bretagna città come Londra, Birmingham, Leeds, Sheffield, Oxford e altre hanno sindaci musulmani nonostante la Brexit?

«Significa che hanno rinunciato all’operaio polacco per avere quello pakistano. Con la Brexit si sono sparati sui piedi, fermando i flussi dall’Est Europa e aumentando quelli dall’Asia. Gli unici Paesi che sono riusciti a fermare un po’ questa conquista, un po’ perché sono meno attraenti e un po’ perché hanno un’identità più forte, sono i Paesi dell’Est europeo».

Quanto concorre l’arrendevolezza della nostra civiltà a questa espansione?

«Per una buona parte, ma dobbiamo distinguere due categorie. I fifoni, che sono atterriti e intimoriti, ma sanno cosa c’è dietro questa strategia. E i collaborazionisti. Coloro che si sono prestati in cambio di voti a fare il gioco del cavallo di Troia dell’islam politico. Il partito socialista belga non esisterebbe oggi senza il voto degli immigrati».

Esempi di collaborazionismo italiani?

«Se fossi un esponente della sinistra, farei mio il progetto vincente del voto di scambio del partito socialista belga. In Francia Jean-Luc Mélenchon per non alienarsi l’80% del voto islamico difende i veli e non critica l’attacco di Hamas».

Prima accennava all’influenza dell’Arabia saudita e del Qatar.

«L’Arabia saudita è stata decisiva dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila e le grandi moschee di Roma, Bruxelles e Madrid sono tutte saudite. Dopo sono arrivati il Qatar e la Turchia, che oggi sono i costruttori delle moschee con i minareti in tutta Europa».

Con la forza del denaro.

«In Francia, dove ogni due settimane circa apre una nuova moschea, arrivano i soldi del Qatar attraverso le sue ong. Ma avviene così anche in Italia».

L’islam politico si è alleato con la cultura di sinistra attraverso l’ideologia green e Lgbtq?

«È riuscito a fare sue le parole d’ordine del progressismo: diversità, antirazzismo e lotta alla cosiddetta islamofobia».

Ma il movimento arcobaleno è agli antipodi dell’islam.

«Gli attivisti arcobaleno sono come i tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento. Infatti, siamo alla resa dei conti. In Belgio la sinistra ha portato il gender in tutte le scuole e i fondamentalisti islamici sono scesi in piazza a protestare anche con metodi aggressivi».

La cancel culture favorisce questa conquista?

«Prepara il terreno creando una società gelatinosa, senza storia e identità, perfetta per realizzare la sostituzione di civiltà. In Gran Bretagna, hanno abbattuto decine di statue di personaggi storici e a Birmingham hanno appena eretto una grande statua di una donna velata».

Perché ogni anno di questi tempi spunta qualche ente che vuole obliterare il Natale cristiano?

«Quest’anno tocca all’Istituto europeo di Fiesole. L’Europa è una società in metastasi, quasi masochista nell’automutilazione: non ho mai sentito i musulmani lamentarsi per il Natale».

Come valuta il magistero di Francesco?

«È il grande Papa post europeo. Dopo Benedetto XVI che ha provato a salvare l’Europa da sé stessa, è arrivato il Papa che dice che l’Occidente è fili spinati e schiavitù. Quindi è come se per lui l’Europa continente cristiano non fosse da preservare».

Come incidono in questo scenario i movimenti migratori?

«Persino Jacques Attali che è il grande intellettuale globalista di Emmanuel Macron ha detto che l’Europa è un colabrodo. Che altro vogliamo aggiungere».

Ora la guerra in Israele renderà tutto tremendamente più complicato.

«Favorisce il grande risveglio della coscienza islamica che, ricordiamo, è una umma, una comunità di 1,5 miliardi di fedeli che non sono divisi in Stati-nazione. La causa palestinese è il grande afrodisiaco dell’islam».

Si risveglia anche l’alleanza con la sinistra?

«La sinistra alimenta manifestazioni all’insegna di “Allah akbar”, “morte agli ebrei” e “Palestina libera”. La più grande strage di ebrei dopo la Seconda guerra mondiale ha dato vita alla più grande esplosione di antisemitismo in Europa».

Senza dimenticare le responsabilità di Israele.

«Ci sono in tutti i conflitti. Non vedo armeni accoltellare azeri, o ciprioti del sud accoltellare ciprioti del nord».

Il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha detto che gli attacchi di Hamas non sono nati dal nulla.

«L’Onu è diventato il teatro dell’assurdo di Ionesco per cui i grandi regimi della terra lo usano in nome dei diritti umani per imporre la loro visione del mondo».

Perché grande sostituzione e sostituzione etnica sono espressioni tabù?

«Perché sembrano preconizzare un complotto, mentre indicano un fatto della vita dei popoli europei di oggi. E perché siamo degli struzzi che non vogliono capire che se cambia la popolazione di un Paese cambia anche la sua cultura. Per quanto abbiano tutti gli stessi diritti, gli esseri umani non sono intercambiabili».

 

La Verità, 28 ottobre 2023

«L’uomo che ha portato il sorriso nella politica»

Pietrangelo Buttafuoco, mi dice la sua prima reazione alla morte di Silvio Berlusconi?

«Mi è tornata in mente come un presagio un’immagine che ho visto poco fa. Scendevo le scale di Palazzo Grazioli dove c’è il mio ufficio e, giunto sul pianerottolo dove si trova l’appartamento nel quale ha abitato Berlusconi, ho visto il portone spalancato. Mi ha subito ricordato il rituale di addio dei santi tipico del Sud».

Com’è questo rituale?

«Quando muore qualcuno in casa, il primo gesto dei famigliari è spalancare porte e finestre e mormorare le formula del viatico: “Va a buon luogo”. È il modo in cui si accompagna l’anima del defunto verso il cielo».

Una casualità premonitrice o a Palazzo Grazioli già sapevano?

«No, oltretutto non è più il suo appartamento. I misteri dell’invisibile sono imperscrutabili. Col senno del poi ha confermato quanto fosse forte la sua natura sciamanica».

Proviamo a descriverla?

«Berlusconi ha introdotto nella politica, intesa come polis, il sorriso. A questo riguardo, l’immagine che era solito usare, “abbiamo il sole in tasca”, è più che mai emblematica. Come Mary Quant con la sua minigonna ha cambiato il costume, così lui ha cambiato per sempre la nostra contemporaneità».

Il linguaggio, la politica, la possibilità di sognare…

«Solo studiandolo nella distanza potremo capire l’unico personaggio che l’Italia consegna alla storia e alla memoria. Pensiamo a quante nuove parole sono state coniate a causa sua. Anche chi l’ha osteggiato ha sempre trovato la sorpresa di vedersi ricambiare con un sorriso».

Lei non è mai stato suo collaboratore, ma gli porta affetto.

«L’ho studiato perché, come tutti, mi sono trovato immerso nell’Italia disegnata e costruita da lui. La mia formazione e i miei gusti non rientrano in quelli che sono i suoi prodotti culturali. Ma riconoscerne la grandezza coinvolge tutti noi suoi contemporanei, compresi coloro che lo avversavano. Le giovani generazioni che non conoscono gli altri protagonisti della politica italiana lui lo riconoscono immediatamente. Anche la nostra memoria, diciamo così, di addetti ai lavori, ne resterà segnata mentre non conserverà nulla di coloro che ci sembravano fondamentali».

Che epoca era quella che ora si dice finita?

«Berlusconi è stato il nuovo capitolo della grande commedia italiana. Intendo l’opera che descrive la nostra identità, e alla quale si aggiunge l’aggettivo divina».

In che senso?

«Se si va a sfogliare il capolavoro di Dante si troveranno tanti personaggi sovrapponibili ai vari Paolo Bonolis, Giuliano Ferrara, Lucio Colletti, Maria De Filippi, Antonio Martino, Giulio Tremonti, Antonio Ricci, Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani, Sandra Mondaini e Raimondo Vianello… E poi nel Malebolge, l’ottavo cerchio dell’Inferno, si possono trovare tutti i seminatori di discordia, i fraudolenti e i profittatori che non sono mancati».

Una personalità più grande di tutti i moralismi?

«Assolutamente. Uso apposta la categoria della commedia perché in lui si compendiano Carlo Goldoni, Gioacchino Rossini, Gaetano Donizetti, quella vena viva che fa dell’Italia il luogo specialissimo della commedia come romanzo universale».

Ora si comincerà a dividere la biografia tra l’imprenditore, il tycoon, il presidente del Milan e il politico un po’ pasticcione?

«È un’unica performance perché incarna un affastellarsi di scene, la verità e il suo esatto contrario».

È sbagliato frazionarlo?

«Certo, se dobbiamo raccontarlo attraverso il metro della critica letteraria, il suo riferimento è Niccolò Machiavelli che è contemporaneamente l’autore sì del Principe, ma anche della Mandragola. Che è la satira più acre della corruttibilità dell’anima umana».

Negli ultimi anni l’hanno rivalutato anche i suoi più feroci detrattori.

«C’è più sincerità d’affetto nei suoi nemici che in molti suoi finti amici, quelli che lo abbracciavano come si abbraccia una cassaforte».

Soprattutto le donne?

«Gran parte delle donne s’innamoravano sinceramente perché non era certo un Dominique Strauss-Kahn, ma il Paride vezzoso dell’Elisir d’amore di Donizetti che della seduzione possedeva tutte le alchimie».

Tutti argomenti per un grande libro che lei, se non ricordo male, sta scrivendo.

«Si è provato a raccontarlo con la politologia, la cronaca giudiziaria, la sociologia e col cinema, dove non si contano i fallimenti, compresi quelli di venerati maestri come Paolo Sorrentino e Nanni Moretti. L’unico che è riuscito a renderlo nel suo essere sia popolo che nicchia è Franco Maresco con Belluscone».

Il suo libro?

«È un saggio di critica letteraria. S’intitola Beato lui – Panegirico dell’arcitaliano Silvio Berlusconi ed esce la prossima settimana da Longanesi. Era già in distribuzione ad aprile quando lui entrava in ospedale e nessuno poteva sapere come sarebbe uscito. Abbiamo quindi deciso di posticiparlo e proprio perché mi sono avvalso della verità letteraria, mi sono trovato delle pagine che raccontavano ciò che non osavo immaginare: laddove c’era una folla che lo abbracciava nell’addio di un funerale, ho ricostruita la moltitudine che lo applaudiva nell’ingresso al Quirinale, finalmente eletto Capo dello Stato».

Qualche difetto ce l’aveva, però?

«Una cattiveria geometrica che, però, sapeva trasferire nell’intelligenza».

Per esempio?

«Quando gli proposero di fare il libro delle barzellette di Berlusconi dopo quello di grande successo delle barzellette di Totti si chiese: “E se poi vendo meno di Totti?”. E fermò le rotative».

Che cosa mi dice della sua generosità?

«Vorrei dire soprattutto dell’ingenuità. Nell’Italia che si spertica in elogi della doppiezza gesuitica lui aveva l’ingenuità gioiosa dell’allievo salesiano. Basta ricordare la sua espressione immediatamente dopo essere stato colpito al volto dalla statuina del modellino del Duomo. Era l’espressione di un interrogativo attonito: come posso non essere amato?».

Sapeva scegliersi i collaboratori?

«Mi è capitato di ascoltare il pianto di tanti e tante».

Molti bracci destri amputati perché non sapeva e voleva preparare la successione?

«Quella non la poteva preparare. Tra i tanti possibili eredi lui guardava senza dubbio con simpatia a Matteo Renzi».

Che si è suicidato.

«E la vecchia talpa della storia gli ha apparecchiato la sorpresa di trovare l’unico successore in una donna, quella Giorgia Meloni presso la quale la maggioranza silenziosa ha trovato casa».

Forza Italia rischia di sparire?

«Sicuramente domani resteranno e si studieranno Mediaset e Milano 2 che sono il frutto dell’ingegno. Mentre il frutto del genio è la sua avventura politica che si chiude con lui. I voti di Forza Italia erano i voti per Silvio Berlusconi».

 

La Verità, 13 giugno 2023

«Letta ha favorito Meloni, l’astensione aiuta lo stallo»

Pietrangelo Buttafuoco, ha voglia di fare la pagella della campagna elettorale?

«Volentieri».

Cominciamo definendola.

«Secondo me è stata una campagna da fiato sospeso. Perché da un lato c’è stata una forte tensione perché sotto sotto può cambiare tutto, al punto da smentire Il Gattopardo. Dall’altro c’è stata la paura che potesse accadere qualcosa».

Qualcosa di pericoloso?

«La nostra è pur sempre una storia di misteri irrisolti. Da Enrico Mattei ad Aldo Moro fino al libro nero degli anni Settanta. È stato un tempo sospeso e ora non vediamo l’ora che arrivi domani sera».

Certi poteri consolidati non si rassegnano alla possibilità di un cambiamento?

«Il vero bipolarismo in Italia è tra lo status quo e la maggioranza silenziosa che non ha mai avuto rappresentanza politica. È il famoso 65% degli italiani, individuato a suo tempo da Pinuccio Tatarella, che non è di sinistra, ma non ha mai trovato espressione compiuta».

E che stavolta più che in passato ingrasserà il partito degli astensionisti?

«La campagna elettorale è stata costruita sulla paura: se votate in un certo modo finirà tutto male. Lo diciamo noi migliori, ma lo dicono anche l’Europa e il mondo perché quelli lì sono brutti, sporchi e cattivi».

È stata la narrazione di fondo.

«Nascondendo l’ingombrante dettaglio che se ci troviamo in questa situazione è perché al timone ci sono stati loro».

Qual è l’episodio o lo slogan che le è rimasto più impresso?

«Makkox, il vignettista di Propaganda live, ha detto che “l’ignoranza è il concime della destra”. È una frase dal sen fuggita che svela il vero sentimento degli ottimati di fronte agli italiani alle vongole».

Il noto complesso di superiorità?

«Ora più marcato perché lo zoccolo duro della Ztl e dei garantiti ha costruito una muraglia per proteggersi dai deplorevoli. In Italia arriviamo in ritardo di qualche anno rispetto alla famosa invettiva di Hillary Clinton».

Chi è stato il più efficace?

«Senza dubbio Giuseppe Conte perché dal grande svantaggio da cui partiva è riuscito a toccare tre corde sensibili: la povertà, la ghiotta occasione e la pace. Con il reddito di cittadinanza ha evidenziato il dato oggettivo che la povertà esiste. La ghiotta occasione è quella dei bonus, con i quali i 5 stelle sono identificati. Infine, la contraddizione della guerra: è difficile spiegare agli italiani che si danno 700 milioni agli Ucraini e solo 5 ai Marchigiani».

Si conferma che il M5s è efficace sul piano dei principi, ma rimane poco affidabile quando c’è da governare?

«Però stavolta hanno il vantaggio che il reddito di cittadinanza l’hanno dato e i bonus anche. La guerra è arrivata dopo e si propongono come elemento di disturbo. Il ritorno dei 5 stelle sorprende perché sono riusciti anche a neutralizzare la scissione pilotata di Luigi Di Maio».

Chi il meno brillante?

«Proprio il povero Di Maio. L’unica nota squillante è stato ritrovarsi in volo tra le braccia dei pizzaioli di Napoli come Patrick Swayze in Dirty dancing. A pensarci bene però la campagna più efficace è un’altra».

Quale?

«Quella di Fratelli d’Italia affidata a Enrico Letta».

Ha fatto autogol?

«Ha fatto una campagna per far vincere Fdi».

Di proposito, per non confrontarsi con il momento drammatico?

«No. È una beffa del destino».

Cioè?

«Nelle tecniche di combattimento orientale come il karate non è la tua forza che ti fa vincere, ma la potenza dell’avversario sfruttata a tuo vantaggio».

È la mossa vincente di Giorgia Meloni?

«Sì. Letta ha offerto l’immagine della sinistra più insopportabile agli occhi degli italiani. Ha presente la parodia che fa Maurizio Crozza della Cirinnà?».

È l’eterogenesi dei fini?

«Siamo sul filo del paradosso. Noi pensiamo che il mito del cane della Cirinnà sia una gag, invece mostra l’abitudine a garantire i privilegiati. Nel Pd i diritti coincidono con i privilegi e si dimenticano le garanzie sociali che derivano dalle emergenze incombenti. Oggi, se sei senza casa, ti rivolgi ai leghisti, a Fdi o ai 5 stelle. Se invece hai bisogno della colonnina per ricaricare il monopattino vai dalla Cirinnà».

Tornando alla campagna di Letta?

«Gli do 10 come spin doctor di Fdi».

E come segretario del Pd?

«Respinto».

Infatti si parla già di successione indicando Elly Schlein.

«Devono sincerarsi che non possieda un canuzzo dotato di cuccia e relativo contante».

Letta ha polarizzato lo scontro, o noi o loro, con i manifesti rossoneri.

«È un lapsus speculare a quello di Makkox. Anche i preti che frequentano non sono mai vicini al prossimo. Il nuovo riferimento è il cardinal Matteo Zuppi che scrive una lettera alla Costituzione. Ma prenditi il vangelo…».

Letta ha coinvolto Berlino e Bruxelles.

«Per fargli dire che se arrivano le destre non avremo più la tutela dell’Unione europea, che è il vero reddito di cittadinanza».

Carlo Calenda e Matteo Renzi?

«Mi ricordano l’esperimento dell’Italia dei carini, della principessa Alessandra Borghese e Luca Cordero di Montezemolo».

Sfonderanno?

«Non credo. Tutti i benestanti che conosco votano Calenda. Fa fine e non impegna. Voti i soviet, ma lo mascheri con una patina di moda. Alle ministre di Forza Italia non è parso vero di liberarsi della cattiva immagine per presentarsi in società. In tv ho visto Massimo Mallegni, un senatore di Forza Italia, più ostile verso il centrodestra dell’esponente del Pd. Col suo entusiasmo ha svelato il disegno: farsi eleggere qui per poi andare di là. Calenda e Renzi sono i Bel Ami, offrono la possibilità a chi è stato sotto l’ombrello berlusconiano di darsi una rinfrescata nel mondo nuovo. Ma questo vale solo per la nomenklatura, perché l’elettorato col cavolo che li segue».

Draghi li ha mollati ma sperano sempre nello stallo e nel ricorso al commissario?

«Sembra quando da bambini si litigava e si diceva: adesso torno con mio fratello più grande. Draghi non ha mai detto: “Non in mio nome”. In Italia ci si lascia sempre la porta aperta. Dimentichiamo che è italiano e gesuita. E la disciplina seguita dai gesuiti è solo una: la dissimulazione».

Il no pronunciato nell’ultima conferenza stampa non l’ha convinto?

«Un no convincente sarebbe stato: “Prego gli autori della campagna elettorale in mio nome di astenersi”».

Che voto dà a Silvio Berlusconi su TikTok?

«Dieci a prescindere. Non solo su TikTok, anche nella guerra alle mosche. Mentre merita un 5, anzi, un 2 nelle interviste scritte. Ma non si offenderà perché è noto che non è lui a rispondere».

È l’ago europeista e liberale del centrodestra?

«È molto più di questo, è il grande romanzo italiano della letteratura universale».

Però un milione di alberi, la flat tax, la pensione a mille euro per tutti…

«Sono i suoi giochi pirotecnici, sempre efficaci, perché scavano nell’immaginario degli italiani. Meno tasse per tutti diventa subito meno Totti per Ilary».

O più giga per tutti. È un po’ grottesco?

«Berlusconi resta nell’immaginario al pari di Garibaldi, di Totò, di Padre Pio. I ragazzini lo conoscono e riconoscono mentre gli altri del pantheon della politica spariranno. Difficilmente ricorderemo Giuseppe Saragat, Sandro Pertini o Oscar Luigi Scalfaro. In lui si compendia la tradizione italiana, da Carlo Goldoni a Gioachino Rossini. È il nostro Balzac».

Questo è il suo prossimo romanzo?

«Magari, immagino un musical».

È parso anche a lei che Matteo Salvini abbia rincorso?

«È un movimentista, è fuori luogo immaginarlo in grisaglia, non sa e non vuole annodarsi la cravatta».

Il dietrofront su Putin?

«Di necessità si fa virtù. Ciò che noi italianucci potremmo dire oggi riguardo alla storia è poca cosa».

Meloni ha catalizzato la campagna come l’orso del tiro al bersaglio? Prima il pericolo fascista, poi la colpa di essere una donna non femminista…

«È stata come Dioniso preda delle Menadi. Solo che la sanguinaria eucarestia cui si sottopone Dioniso si svela sempre nell’esatto contrario: le Menadi se ne vanno e Dioniso resta».

Voto alle star dello showbiz, da Elodie a Paolo Virzì…

«10. Sempre per conto di Fratelli d’Italia».

Voto a Laura Pausini che non ha cantato Bella ciao.

«La novella Arturo Toscanini che si rifiutò di eseguire Giovinezza».

Il nuovo bersaglio è Pino Insegno?

«Purtroppo i democratici non sanno evitare d’insultare chi la pensa in modo diverso da loro».

Voto ai grandi giornali?

«Sempre 10 per conto di Fdi. Certi titoli della Stampa… La campagna di Repubblica contro Giorgia Meloni, altro non è che un monumento a cavallo. Ma nemmeno il Corriere della Sera scherza. I moderati sono i cosiddetti terzisti, speculari al Terzo polo, come gli indipendenti di sinistra lo erano ai tempi del Pci. È il famoso amico del giaguaro».

Voto al filone editoriale elettorale su Mussolini?

«Nel centenario della marcia gli antifascistissimi Aldo Cazzullo, Antonio Scurati e Sergio Rizzo scalano le classifiche dei libri grazie al Duce e pare di vederli in scena 100 anni fa. Arrivano a Roma per dire al re: Maestà, vi portiamo l’Italia delle classifiche dei libri. È solo marketing».

Vincerà il partito degli astenuti?

«Ne sono terrorizzato. È il vero bastone armato dello status quo».

Chi non vota favorisce il mantenimento della situazione attuale?

«L’elettore di centrodestra è il più distratto. Se deve andare a un battesimo ci va, non fa tutte e due le cose perché confida che ci pensino gli altri».

Voto a Michele Santoro che ha denunciato la non rappresentanza della maggioranza contraria all’invio delle armi in Ucraina?

«Nessuno ha ampia rappresentanza politica. Io, per esempio, mi ritrovo in quella maggioranza che non ha mai avuto voce, non ha giornali, non ha tribuna. Quella degli esuli in patria, per dirla con Marco Tarchi. Quand’è così, si va dove si vede il cambiamento. Altrimenti togliamo le elezioni e continuiamo con il meccanismo in voga dal 2008. Quello che s’identifica nei tecnici alla Carlo Cottarelli, presunti super partes, che invece sono sempre della famiglia dem. Si cambia nome, ma la mobilia resta la stessa. La fureria d’Italia si appoggia ai soliti caporali. Quando li vedo mi chiedo se starebbero bene in orbace e camicia nera, con il fazzoletto garibaldino, con la grisaglia democristiana e mi rispondo che sì, starebbero bene con tutto perché sono il partito unico del potere».

Voto a Draghi, premiato in America da Henry Kissinger.

«Senza che risulti offesa, in quella scena ho visto più Alberto Sordi, eterno Americano a Roma, che un nuovo Cristoforo Colombo».

 

 

La Verità, 24 settembre 2022

 

 

«L’Italia sta con Padre Pio, ma comanda la Cirinnà»

È un bipolarismo culturale prima ancora che politico quello che Pietrangelo Buttafuoco tratteggia in questa intervista, fornendo una chiave di lettura tridimensionale allo stato delle cose. L’Italia degli anni Venti è scavata dalle dicotomie: uomini o caporali, Padre Pio e la Cirinnà, salesiani o gesuiti. Libero da acquartieramenti vincolanti, lo scrittore catanese non ha peli che ne ingombrino la parlata. Sono cose che passano, il romanzo in uscita da La nave di Teseo – «un divorzio all’italiana, ambientato nella Sicilia del dopoguerra, che si risolve in un Faust al femminile» – susciterà di certo polemiche e gridolini di sdegno nel bel mondo politicamente corretto. Ma lungi dal preoccuparsene, Buttafuoco se la ride. Come fa, in sottofondo, mentre chiacchieriamo da qui in avanti.

Caro Pietrangelo, la prima indicazione che le amministrative ci hanno consegnato è che non si voterà fino al 2023?

«Il dato più evidente è stato il non voto più che il voto. Il vero bipolarismo è quello di Esopo tra il topo di città e il topo di campagna».

Il quale non è andato alle urne.

«Ribadendo l’annoso problema che la maggioranza silenziosa non ha rappresentanza politica e culturale. Questo, salvo eccezioni. L’ultima delle quali è stato Silvio Berlusconi. Che, all’apice, veniva massacrato allo stesso modo in cui abbiamo visto svillaneggiati Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Con il grande svantaggio di non avere, loro due, la forza del Cav; non ultima quella di pagare gli avvocati».

Sta di fatto che lo schieramento che più voleva anticipare le politiche ha preso una batosta.

«Da quando chiedevano le elezioni è passato un lasso di tempo che ha svuotato l’entusiasmo. Queste amministrative sono state un secondo Papeete».

Addirittura?

«Si fosse votato quando toccava avrebbero stravinto. Invece, il patrimonio si è depauperato».

Anche il Pd non vuole affrettare i tempi perché il M5s è in crisi e la coalizione è fluida.

«Siamo di fronte a un groviglio di contraddizioni. La prima è che, da padrone del sistema, il Pd ha l’abilità di trarre vantaggi da ogni situazione. All’inizio Draghi era visto come fumo negli occhi. I suoi capi speravano nel Conte tris, poi erano vedove di Conte, infine si son fatti piacere Draghi, che ora sembra roba loro».

La seconda?

«All’esordio la Lega era il pilastro di Draghi. Giancarlo Giorgetti gli sedeva accanto come un fratello. Ma pure in questo caso, il vantaggio si è capovolto. E lo stesso Draghi ci ha messo del suo».

Cioé?

«Ha sentito il richiamo delle sirene della rispettabilità sociale, tanto che non ha fatto l’auspicato cambio di passo tenendosi Roberto Speranza, Luciana Lamorgese e perfino il reddito di cittadinanza. Anche l’abbraccio con Maurizio Landini si trasformerà nel suo contrario, sarà Draghi a dover abbracciare Landini. È l’antica regola italiana: nella difficoltà ci si butta a sinistra».

Anche se adesso sta rinascendo il centro?

«Vedremo. Temo che, seguendo il solito richiamo, Carlo Calenda possa replicare la parabola di Mario Segni. Quando Berlusconi gli offrì il ruolo di leader dei moderati, Mariotto rinunciò per non inimicarsi il sistema. Invece, se vuoi vincere devi intercettare la maggioranza degli italiani che è naturaliter antisistema. Nel senso che sono più uomini che caporali».

Chi sono i caporali oggi?

«Gli stessi di ieri. Quelli che si danno quest’aria di compostezza presto indosseranno le uniformi richieste dall’epoca. I trentenni meravigliosi della task force di Palazzo Chigi, si sarebbero scapicollati con Bettino Craxi e prima con Amintore Fanfani, Alcide De Gasperi e Giuseppe Bottai. Chi sosteneva il Borbone è già pronto per il Savoia, per la camicia nera, il fazzoletto rosso, lo scudocrociato, la falce e martello e ora per sventolare la bandiera dell’Europa. Il codice del potere è sempre lo stesso, cambia solo l’uniforme».

I burocrati più longevi dei ministri?

«L’originalità italiana è nel trasformismo del potere narrato da I Viceré di Federico De Roberto e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa».

Anche il Pd ha interesse a mantenere Supermario dov’è sperando di piazzare uno dei suoi al Quirinale?

«Dipende dalla capacità di tenuta del centrodestra che, sulla carta, ha un vantaggio numerico. E questo anche considerando il fatto che, a dispetto di Berlusconi, i ministri di Forza Italia sono più affini al Pd che al resto del centrodestra e potrebbero, dunque, votare Paolo Gentiloni, il vero candidato dem. Tuttavia, i margini per giocarsela ci sono. Bisogna solo individuare una figura di pacificazione. E trarre insegnamenti dai due Papeete. In queste amministrative sono stati commessi diversi errori».

La crescita di Fratelli d’Italia ha bloccato la svolta moderata di Salvini?

«In politica c’è un momento in cui un leader dice: basta, voti non me ne servono più. Il caso di Meloni è particolare perché il successo è suo, non di Fdi. Ricordiamoci che parliamo di granai pieni, non di carestie. Ma il granaio pieno va distribuito, altrimenti marcisce. L’acutezza dell’establishment è stato far tenere il granaio chiuso e marcire il consenso».

Prendendo qualche grande città il centrodestra ne avrebbe messo a frutto una parte?

«La cagnara sul fascismo ha spaventato il popolino. È stato un gigantesco pizzino per dire: “Voi la coda non la muovete”. Sì, il candidato di Roma era debole, ma il dossieraggio cui si sono prestate autorevoli testate e la quasi totalità dell’informazione tv ha paralizzato i topi di campagna».

La batosta è stata determinata dalla campagna sul fascismo più che dai candidati sbagliati?

«Tutto insieme. Senza quella cagnara, a Torino il centrodestra avrebbe vinto. Il grande centro dei moderati lo faranno grazie a Forza nuova che fa il gioco del Pd».

Come ha evidenziato a suo modo @LefrasidiOsho. Che idea ti sei fatto della tempistica delle inchieste?

«Mi affido all’arguzia di Giulio Andreotti: a pensar male ci si azzecca».

Vince il centrodestra moderato: conseguenze?

«Resta attuale la strategia dell’armonia di Pinuccio Tatarella. Dare visibilità a tutte le sfumature, il consenso si costruisce in un caravanserraglio aperto. Se non ci si impegna a dare un destino politico e culturale alla maggioranza degli italiani si costringe il Pd a governare».

Il consenso si costruisce nel dibattito culturale, lontano dalle urne?

«Faccio un esempio. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli italiani ami Padre Pio e ciò che rappresenta. Invece, grazie a un’accorta regia, sembra che stia più a cuore la cultura della Cirinnà. Vuoi un altro esempio?»

Prego.

«Ogni volta che si deve nominare una persona autorevole per i destini del Paese tutti citano Emma Bonino, quando sappiamo bene che per i padri di famiglia e la gente semplice che lavora è una figura inesistente. Certi culti vivono solo nel racconto dei giornali e nei palinsesti tv».

La pandemia ha bocciato populismi e politica di pancia e promosso competenza e pragmatismo?

«La pandemia è un’occasione per mantenere lo status quo e neutralizzare dissenso e spirito critico. Il mondo occidentale è una grande sala d’attesa dove si passa da un’emergenza all’altra. Esco dalla metropolitana a Piazza del Popolo e vengo fermato da una volante che mi chiede il certificato verde: emergenza sanitaria. In Via del Corso m’imbatto nei blindati della polizia: emergenza terroristica. 100 metri dopo trovo uno che chiede l’elemosina, emergenza finanziaria. Quando penso che tre bastino, sullo smartphone mi vedo recapitare un video di Greta Thunberg con l’emergenza climatica».

Finirà come ha ipotizzato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, cioè si faranno «i conti senza il voto» per adeguarsi alla «formula Ursula»?

«Conoscendo il senso dell’umorismo di Mieli, immagino che volesse rifarsi alla Modesta proposta di Jonhatan Swift: ingrassare i bambini denutriti per farli mangiare ai ricchi».

Fuor di metafora?

«Si toglie il voto ai “deplorevoli», come li ha chiamati Hillary Clinton, inadatti a gestire la cosa pubblica. Mieli è allievo di Renzo De Felice, studioso di Mussolini, per il quale le elezioni erano “ludi cartacei”».

Ha lanciato il sasso e nascosto la mano o no?

«Non dimenticare La dissimulazione onesta di Torquato Accetto, formula molto gesuitica. Un’altra dicotomia italiana è quella dei salesiani massacrati dai gesuiti. Ricordiamoci che Berlusconi è un allievo dei salesiani mentre Draghi lo è dei gesuiti».

La quadratura sarebbe il primo al Quirinale e l’altro a Palazzo Chigi?

«È dal 1641, anno in cui viene stampata La dissimulazione onesta, che i gesuiti orchestrano i giochi. Perciò, come diceva Ludwig Wittgenstein: “Di quel che non si può parlare si deve tacere”».

La terza indicazione rafforzata dalle amministrative è che per governare serve il benestare dell’Europa?

«In un’ottica provinciale sì. Oggi il gioco con la posta più alta si è trasferito nell’oceano Pacifico, dove Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia fronteggiano la Cina».

Come finirà il braccio di ferro con la Polonia?

«Sula Polonia non può gravare una pregiudiziale storica come sull’Italia o la Germania. I polacchi hanno fronteggiato i due moloch del Novecento. E hanno alle spalle il mito fondante di Karol Woytjla, mentre l’Unione europea segue la moda passeggera di Bergoglio».

Perché se siamo un Paese in prevalenza moderato il partito del sistema è il Pd?

«Perché ha avuto l’astuzia gesuitica d’innestarsi nella dissoluzione apparente delle due chiese del regime partitocratico, il Pci e la Dc. Per fare carriera i figli di buona famiglia devono bazzicare quelle stanze».

Perché la cultura è in mano alle élite di sinistra?

«Perché purtroppo la Chiesa è stata politicamente complice dei suoi persecutori».

Giudizio molto duro.

«Ma vero. Se chiacchieri con un alto prelato non ti parla di Dio, ma dell’etica. Se chiedi al cattolico medio il nome di un filosofo ti cita Norberto Bobbio e non l’unico grande filosofo che abbiamo avuto, Augusto Del Noce. Faccio quest’esempio apposta, perché avevano le aule confinanti all’università di Torino».

Finirà che il centrodestra resterà digiuno mentre la sinistra famelica «ha già il tovagliolo al collo e si papperà un’altra volta il Quirinale», come teme Maurizio Gasparri?

«Ma certo, si prenderanno tutto».

 

La Verità, 23 ottobre 2021

«E se la Gruber fosse la Papessa straniera del Pd?»

Provocazione, sberleffo, contropiede culturale. Pietrangelo Buttafuoco ha appena pubblicato Salvini e/o Mussolini (PaperFirst), sapido libello in forma di dizionario sulla scorta di Jefferson e/o Mussolini di Ezra Pound, anno 1936.

Prendere in parola i sapienti scandalizzati dagli eccessi salviniani è un divertissment?

Diciamo che provo a disinnescare i riflessi condizionati che gravano sia su Salvini che su Mussolini. Chi odia il leader leghista dice che è come il Duce, chi lo ama pure. Nel corto circuito si scorge tutta la pigrizia italiana.

Perché scavando si scopre che le presunte similitudini sono fasulle?

Esattamente. Come il «chi si ferma è perduto» pronunciato da Salvini e attribuito a Mussolini, che in realtà è di Dante Alighieri. O il «tanti nemici, tanto onore» che correttamente è «molti nemici, molto onore», e fu coniato dal condottiero tedesco Georg von Frundsberg davanti ai militi veneziani in una battaglia del 1513.

Senta, Buttafuoco, ma non era Bettino Craxi l’erede di Mussolini?

Disegnandolo con gli stivaloni, Giorgio Forattini faceva eco al sentimento del Craxi dei giorni migliori. Il quale, a sua volta, viveva una forma di attrazione affettuosa per la Buonanima. Tanto che si recò a Giulino di Mezzegra, sul Lago di Como, per far mettere una lapide nel posto dove fu ucciso. Il sentimento che dominava in lui era l’essere patriota, amante dell’Italia tutta, in tutte le sue epoche.

Anche a Bruno Vespa, che nel suo ultimo libro è ripartito dal Ventennio, tutti gli interpellati hanno smontato il parallelismo, salvo Dario Franceschini.

Solo lui ha evocato l’insopportabile fantasma dell’arco costituzionale che si trascina il sabba dell’intolleranza. Guarda caso, il nemico di quel dogma fu proprio Bettino Craxi.

L’antifascismo in assenza di fascismo è un boomerang della sinistra di piazza e di salotto?

Lo è perché il popolo ha sempre un fiuto laterale rispetto ai proclami e ai copioni glamour. Un po’ come quando la Chiesa cerca di distrarre i fedeli dai santi, ma le processioni e la devozione popolare riportano in auge il bisogno di celebrare il sacro.

Senza il fascismo, paragonare Salvini a Mussolini è fargli un regalo?

È un tentativo di esorcismo che può provocare la moltiplicazione di quelli che dicono «magari!».

Facendo scattare l’allarme per il ritorno dell’uomo forte?

Il fascismo non fu fascista per come lo intendiamo noi. In questo dizionario molti luoghi comuni cadono, a cominciare da quello sull’immigrazione.

Spieghi.

Faccetta nera è il tentativo di far diventare italiani gli africani. Tra le potenze coloniali eravamo l’unica che faceva dei territori d’oltremare delle province, con i prefetti e le moschee.

Salvini e Mussolini gemelli diversi e non solo per peso specifico?

Molto diversi. Il Capitano incarna il politico di destra e condivide il momento favorevole con Giorgia Meloni, a dimostrazione di una ricca offerta post ideologica. Mentre l’esperienza di Mussolini resta una pagina nell’album del socialismo. Eretico quanto si vuole, ma sempre socialista.

Nei primi anni della sua azione.

E anche alla fine, con la Rsi.

Per la classe politica attuale il confronto con il Novecento non può che essere impietoso.

Oggi il contesto è a-ideologico e perfino anti-ideologico. Il secolo scorso imponeva uno sforzo intellettuale molto superiore. Oggi domina la superficialità, che è transeunte ed evapora subito non avendo fondamento.

Per rimanere nel populismo, Beppe Grillo sta durando più di Guglielmo Giannini, l’uomo qualunque.

Perché, grazie a Carlo Freccero e Antonio Ricci, ha avuto la possibilità di irrobustirsi con il dadaismo.

La traversata dello Stretto di Messina aveva echi dannunziani: poi?

Sono spariti perché ha dovuto sgattaiolare nella buca della rispettabilità borghese. Mettendosi con il Pd si è consegnato mani e piedi al sistema.

Addio cambiamento.

Invece di proseguire l’impresa nella libera città di Fiume si è buttato tra le braccia del Cagoia, il triestino che disse «mi no penso ghe per paura», divenuto simbolo di viltà. L’unico che può essere uno strepitoso Guido Keller è Alessandro Di Battista.

Verrà il suo momento?

Quanto meno come Keller avrà la possibilità di alzarsi in volo e gettare un pitale su tutti gli anticasta che si stanno facendo salvare la poltrona proprio dalla casta.

Per il Cagoia Giuseppe Conte, che in un pomeriggio passa da un governo di centrodestra a quello più a sinistra dell’Occidente, ci sono precedenti?

Iscriverlo nel capitolo del trasformismo sarebbe persino nobilitante. Invece è proprio perfetto per la caricatura del «paglietta», il giurista sciuè sciuè, ampolloso dicitore.

Senza contenuto.

Buono per tutti gli usi. Prima si diceva che era il vice dei suoi vice, adesso è sicuramente vice del suo portavoce, Rocco Casalino. Con l’emergenza coronavirus, dal Conte 2 siamo passati al Casalino 1.

Restando tra spregiudicati volteggi, chi è l’antenato di Matteo Renzi?

Amintore Fanfani, «il Rieccolo».

Medesima provenienza.

E caratteraccio. Purtroppo per Renzi, invece che da Ettore Bernabei è affiancato da Marco Carrai.

Giorgia Meloni alleata di Salvini somiglia al Gianfranco Fini coccolato dai giornaloni in chiave anti Berlusconi?

Ci provano, ma non ci riusciranno perché lo spessore della Meloni è molto superiore a quello di Fini. Non è una comprimaria, ma una protagonista.

Come dice il sociologo Luca Ricolfi.

La Meloni ha l’imbarazzo dei destini. Può fare il sindaco di Roma, ritagliarsi una stagione da premiership o andare in Europa. O, infine, può far saltare il risiko dei poteri forti. In questa veste mi ricorda la Sposa interpretata da Uma Thurman in Kill Bill che, armata di katana, consuma la sua vendetta.

 E il fatto che sia donna…

È un vantaggio. Nel libro l’ho paragonata all’Italo Balbo della trasvolata atlantica che, pur con tutto il politically correct, ha ancora la strada intitolata a Chicago. Anche lei non deve temere la contraerea italiana.

Salvini la tollererà.

A destra è una ricchezza che siano in due o tre, hanno diversi potenziali premier.

Tipo?

Se serve un garante c’è Roberto Maroni; se serve chi ha esperienza ci sono Maurizio Gasparri e Roberto Calderoli; se serve qualcuno pronto alla battaglia frontale i nomi abbondano.

Invece la sinistra?

Ha l’establishment, i tecnici e le dinastie, ma non ha la politica. Infatti si fa sempre sedurre dal Papa straniero: Bergoglio, Roberto Saviano, Greta Thunberg, le Sardine, Carola Rackete…

Nicola Zingaretti?

È un socialdemocratico alla Mario Tanassi. Quanto al suo operato di amministratore è peggio di quello di Virginia Raggi. Ma nessuno lo dice.

Il gemello diverso di Massimo D’Alema è Enrico Berlinguer?

Il confronto giusto è con Palmiro Togliatti che, a sua volta, era il D’Alema dei suoi tempi.

Molto elogiativo.

Per i comunisti ho un debole perché non sono di sinistra.

Nel senso della sinistra da salotto di oggi?

Esatto. Il mio più caro amico è stato Stefano Di Michele, collega al Foglio, un contadino abruzzese che non si mischiava con i birignao. E destino vuole che lavori con un fior di comunista come Peppino Caldarola.

Luigi Di Maio?

Pinuccio Tatarella ne avrebbe fatto uno statista. Ne aveva le potenzialità, purtroppo è finito nella trappola di Grillo.

Che lo sta consumando.

Non potrò mai credere che sia contento di governare con il Pd.

Le Sardine le confrontiamo con i girotondi?

Eppure, oplà, sono loro la prosecuzione del qualunquismo sotto l’ala protettiva del conformismo. L’approdo nel mainstream lo dimostra.

Sinistra di piazza e di reality?

Non solo. Quando mai un antagonista è esposto nella vetrina del potere. Manca che siano ricevuti dal Papa e avranno percorso tutte le tappe del politicamente corretto.

Andranno prima da Antonio Spadaro che li ha già adottati.

Spadaro è un Andreotti capovolto, non devoto a Dio come il vecchio Giulio. Se potessi farne un romanzo, me lo vedo baciare Totò Riina piuttosto che Salvini.

Il cui avversario alle future elezioni sarà Giuseppe Sala?

Mi sembra un po’ troppo fighetto, tendenza Bignardi.

Nel suo talk show si è palesato potenziale leader.

Lui il Papa straniero? Mmmh… facile governare Milano, voglio vederlo a Scampia.

Ci sono precedenti da Palazzo Marino a Palazzo Chigi?

Governare l’Italia partendo da Milano ci sono riusciti solo Mussolini, Craxi e Berlusconi. Non credo che la compagnia gli piaccia.

Però siamo tornati all’inizio.

Già, ma il Papa straniero potrebbe essere una Papessa.

Lilli Gruber?

Se ne avesse voglia. Il sangue altoatesino potrebbe aiutarla.

Con lei la sinistra di salotto avrebbe vinto.

Sì. Solo che la Merkel all’italiana, anziché avere le radici nella gloriosa Germania est, ha l’asso nella manica di Urbano Cairo…

 

Panorama, 11 marzo 2020

Giusto che Lerner vada in onda, Salvini ha sbagliato

Caro direttore,

concedimi qualche riga per manifestare il mio dissenso sulla campagna contro Gad Lerner di questi giorni. Non che l’editorialista di Repubblica – dov’è stato rilanciato con una certa enfasi dalla direzione di Carlo Verdelli che anche da direttore editoriale dell’informazione Rai l’aveva richiamato in servizio –  non smuova antipatia e avversione con le sue liste di proscrizione, l’intercessione per «le classi subalterne» dall’alto dell’elicottero dell’Avvocato Agnelli e dello yacht dell’Ingegner De Benedetti, le lamentazioni di censure dal pulpito del talk show più glamour di Rai1 dove promuovere il suo Approdo nuovo di zecca su Rai3. Ci sono tutti i motivi perché uno così vada di traverso e provochi contrarietà. All’incirca gli stessi che smuove Fabio Fazio che gli ha fatto da cerimoniere nell’ospitata di cui sopra, e che è pagato in modo esorbitante con il denaro pubblico del canone. Per inciso, lo dissi personalmente al suo agente, Beppe Caschetto, alla presentazione dei palinsesti di due anni fa, quando il passaggio di FF alla rete ammiraglia fu annunciato in pompa magna: «Beppe, vedrai che questo megastipendio diventerà un boomerang». Tanto più ora che Fazio ha scelto scientificamente la rotta di collisione sui porti chiusi salviniani, invitando ogni domenica qualcuno che li contestasse e accampasse ragioni per l’accoglienza urbi et orbi. Riassumendo: il caso Fazio e il caso Lerner si assomigliano per la faziosità dei contenuti, le lamentazioni e la propensione all’autoproclamazione di martiri in favore di telecamera e i giornaloni a fare il tifo. La somiglianza si stempera solo a proposito dei compensi, iperbolico quello di Fazio, tanto che, dopo il ridimensionamento, si accaserà su Rai2, poco proporzionato quello di Lerner se rapportato agli ascolti, solitamente modesti dei suoi programmi.

Detto tutto questo, c’è un motivo ancor maggiore per cui, forse ingenuamente, non avrei inaugurato la campagna contro l’ex conduttore di Milano, Italia. Ed è il principio del liberalismo, l’accettare e il confrontarsi con opinioni contrarie, una certa magnanimità che, ahimè, spesso finisce per mancare agli uomini di potere. Vincere va bene, stravincere meno, recitava un vecchio adagio. Ritengo che Matteo Salvini abbia sbagliato a innescare questa polemica su Lerner, offrendo il pretesto a certe sinistre prefiche di piangere su editti inesistenti. Lo ha fatto da ministro degli Interni, da segretario leghista, da vicepremier? In tutti i casi, mi pare inopportuna. Criticare il volto noto che lamenta censura proprio mentre ha a disposizione microfoni e vetrine tv, va bene. Ma a questo, per conto mio, ci si dovrebbe fermare. Forse anche per malizia. Lerner faccia il suo programma, senza censori sul piede di guerra: sarà un testimonial suo malgrado del liberalismo della Rai al tempo dei gialloverdi (o forse è il caso di dire verdegialli?). Questo sì sarebbe davvero «governo del cambiamento»: tenere lontane le mani della politica dalle scrivanie di Viale Mazzini. Lo hanno promesso anche i governi precedenti senza mai riuscirci, come documentano le dimissioni di Verdelli e ancor prima di Antonio Campo Dall’Orto, indotte dal fuoco amico renziano. Se il governo verdegiallo vuol davvero cambiare, non vieti il ritorno in tv degli avversari ed eviti di mettere becco sulle scelte di amministratore delegato e presidente Rai. A quel punto chi potrà azzardarsi a parlare di bavaglio, censure e mancanza di democrazia? Anche quella di non occuparsi di nomine e di palinsesti della tv pubblica è una promessa che Salvini potrebbe e dovrebbe mantenere.

Siccome però, il pluralismo è sacro in tutte le direzioni, il cambiamento si dovrebbe e potrebbe vedere dall’aggiunta di voci dissonanti rispetto al pensiero unico, un po’ nel solco di quello che sta tentando di fare, magari disordinatamente, Carlo Freccero a Rai2. Qualche suggerimento per promuovere una narrazione alternativa? Ecco i primi che mi vengono, d’istinto, senza pensarci troppo: Alessandro D’Avenia, Paola Mastrocola, Antonio Socci, Davide Rondoni e Giovanni Lindo Ferretti per i temi di approfondimento culturale, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco e Costanza Miriano per l’attualità, Pupi Avati per la fiction, Federico Palmaroli (Le frasi di Osho) per la satira, oltre al recupero di Milena Gabanelli e Massimo Giletti…

C’è molto da fare, come si vede. E probabilmente c’è spazio per molti, se non proprio per tutti.

Un caro saluto.

La Verità, 3 giugno 2019

Come la Rai ha sprecato il gioiello di Pupi Avati

Non si sa se sia la sciatteria, la mentalità da routinier o l’incomprensione bella e buona la causa che ha prodotto lo spreco di un piccolo gioiello come rarissimi se ne trovano nel bailamme delle nostre televisioni intrise di reality, barzellette e indovinelli, soprattutto d’estate. Qualche giorno fa Rai 1 ha trasmesso senza preavviso Il fulgore di Dony, film per la tv sceneggiato e diretto da Pupi Avati, e interpretato da Greta Zuccheri Montanari, Alessandro Haber, Lunetta Savino, Giulio Scarpati e Ambra Angiolini. È la storia di due ragazzi tra i quali si accende la scintilla di qualcosa che nemmeno loro sanno definire e che però li distingue l’uno all’altra. A separarli, sembra irreversibilmente, provvede un incidente sugli sci che relega lui in un mondo a parte, infantile, bisognoso di tutto. Soprattutto di lei, Dony, la ragazzina incrociata casualmente qualche tempo prima e che ora è l’unica in grado di mantenere e vivificare un rapporto misterioso perché lo ama contro tutto e tutti. Contro i genitori, che non si capacitano e la esortano a troncare. Contro il buonsenso, perché da un sentimento così non potrà mai trarre soddisfazione e gratificazione. Contro le esigenze dell’età, perché i tempi della scuola e della formazione sono lì a dettare le priorità. Non resta che ricorrere allo psicologo per trarla dalla stranezza. Tentativo vano: l’amore, la gratuità, l’innocenza non arretrano nella loro apparente follia. Anzi…

Insomma, una storia singolare, tanto introvabile da sembrare una favola; una storia, ha notato sul Sole 24 ore Pietrangelo Buttafuoco, di cui «solo in un punto di vista inaudito si può cogliere il senso». Una storia collocata «tra i residui del palinsesto», nella serata del Grande Fratello per capirci, e trasmessa evidentemente solo per deferenza verso il maestro del cinema. Per la Rai nulla di nuovo: è l’ennesimo esempio di un’occasione mancata, la possibilità di aprire uno squarcio sui nostri ragazzi, ostaggi di social e visualizzazioni, in un momento in cui l’educazione degli adolescenti è tra le prime emergenze nazionali. Non a caso persone come Alessandro D’Avenia, Susanna Tamaro, Antonio Polito, Franco Nembrini e Claudio Risé si dedicano principalmente a questo. Nel servizio pubblico della televisione non se ne sono accorti. Il fulgore di Dony doveva essere il primo di una serie di episodi dedicati alle beatitudini

Non era né sciatteria, né incomprensione, ma astuzia omologata. Avete visto? Noi siamo pluralisti, diamo spazio anche a un regista moderato come Avati, ma gli ascolti non l’hanno premiato.

La Verità, 7 giugno 2018

Raffaele, facciamo che io non ero la Boschi

Più satira di costume che politica, dunque. L’indiscrezione avanzata da Pietrangelo Buttafuoco sul Foglio ha trovato conferma. Tra i bersagli delle parodie di Virginia Raffaele non c’è stata Maria Elena Boschi. Almeno, alla prima puntata di Facciamo che io ero, one women show dell’imitatrice più eclettica del bigoncio (Rai 2, giovedì, ore 21.20, share del 14,5%). Più avanti, chissà. Dopo Sabrina Ferilli, Fiorella Mannoia, Donatella Versace, sulla rampa delle caricature si attendono Melania Trump, Carla Fracci, Belén Rodriguez e Ornella Vanoni. Ma è difficile che vedremo il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, peraltro nell’occhio della bufera per le vicende che riguardano il caldeggiato salvataggio di Banca Etruria.

Virginia Raffaele nell'imitazione di Maria Elena Boschi

Virginia Raffaele nell’imitazione di Maria Elena Boschi

Tra le cose migliori del programma c’è sicuramente il titolo, spiegato dalla stessa Raffaele: un gioco che, come tanti, faceva da bambina, una prova di fantasia e immaginazione condensato nell’uso del tempo passato, non del presente, che ne evidenzia il tratto ingenuo e burlesco. Il titolo è l’innesco dello show nel quale Raffaele per la prima volta si mette in gioco da protagonista, partendo proprio dalla sua biografia. Per farlo ha scelto una narrazione (pardon!) intimista e sentimentale, ambientata nel mondo del circo dal quale proviene, resa pure dalla storia di famiglia illustrata con un album interattivo. Un approccio sincero e volutamente ingenuo, ma che rischia di essere anche la debolezza della sceneggiatura. Perché a volte si ha l’impressione che gli ospiti e il co-conduttore Fabio De Luigi siano intermezzi, quasi dei riempitivi tra una parodia e l’altra. Francesco Gabbani, Gabriel Garko e Lino Guanciale fanno da spalla a lei nelle sue varie versioni. Non a caso, forse, oltre la nuova parodia di una Bianca Berlinguer egocentrica e incazzosa, i momenti più efficaci della serata sono stati lo sketch del finto casting con Lillo e Greg, il ballo con Roberto Bolle e il monologo sulle tante paure che ci affliggono quotidianamente, momenti in cui Raffaele ha fatto sé stessa. Notevole anche la parodia di Saveria Foschi Volante (Valeria Bruni Tedeschi?), l’attrice colta che deve leggere un pezzo ispirato, ma non ce la fa per l’emozione.

Ha scelto il costume, ma forse Raffaele dà il meglio proprio nella satira con retrogusto politico. E forse è come dice Buttafuoco: dopo il precedente della «Boschi shabadabadà» a Ballarò di qualche anno fa, la mancata imitazione dell’altra sera è un test della potenza del sottosegretario di palazzo Chigi. O forse, anche, un segno di debolezza della direzione di Rai 2. Per infilarsi in una bagarre come questa ci vuole un direttore di rete diverso da Ilaria Dallatana, appassionata di trash tv.

La Verità, 20 maggio 2017

Buttafuoco: «La destra è senza progetto culturale»

Giornalismo, letteratura, teatro, televisione: Pietrangelo Buttafuoco, 53 anni, siculo poliedrico e instancabile per necessità oltre che per virtù, non si fa mancare niente. Gira con lo zainetto, ufficio in spalla, perché una dimora culturale fissa non ce l’ha. Ogni giorno la sua ventura.

Giornalismo: collaborazioni con Il Fatto quotidiano e Il Foglio.

Letteratura: in uscita da Skira un libro su Agostino Tassi, pittore del Seicento, stupratore di Artemisia Gentileschi, simbolo del femminismo.

Teatro: in tournée con Mario Incudine con lo spettacolo Il dolore pazzo dell’amore.

Televisione: rubrica Olì Olà nel Faccia a faccia di Giovanni Minoli su La7.

Cominciamo da Olì Olà: chi è il Donald Trump italiano?

«Deve ancora arrivare. Il punto di forza di Trump è di rappresentare la novità. Non bisogna dimenticare che quando si affermò alle primarie, i democratici si fregarono le mani dalla soddisfazione. La stessa Clinton si mostrò felice di confrontarsi con lui, considerato il candidato ideale per stravincere. In Italia, se si votasse adesso, e all’elettore fosse dato di scegliere tra Alessandro Di Battista e Matteo Renzi, quest’ultimo sarebbe travolto».

Quindi Trump si trova tra i grillini?

«Forse, al momento. Ma da qui alla data delle elezioni potranno accadere molte cose. Ci attendevano due passaggi: dopo le elezioni americane ora tocca al referendum costituzionale».

Vuole tentare uno scenario post 4 dicembre?

«Non mi avventuro. Ho visto che, per esempio in Sicilia, sono state mobilitate le clientele elettorali. E anche se fanno numeri importanti non vengono rilevate dai sondaggi, ma solo dalle segreterie politiche dei capi bastone».

È nato prima Berlusconi o Trump?

«Prima il Cavaliere. Silvio uovo e Donald gallina che ha a disposizione un’aia ampia e impegnativa. Perché ha davanti a sé un orizzonte globale ed epocale che per forza di cose determinerà trasformazioni».

Salvini e Grillo che spazio avranno?

«Sono il già visto. Se il bisogno di novità non fosse stato così decisivo sarebbe bastato Jeb Bush. Invece nessuno dei candidati repubblicani ha dato prova di saper interpretare il cambiamento. Non è un caso che i Bush in queste elezioni si siano alleati con i Clinton».

Abbiamo assistito al rovesciamento delle alleanze. Lei parla di nuova lotta di classe…

«La Clinton ha preso l’aperitivo con Lady Gaga, mentre Trump teneva comizi davanti alle fabbriche. La nuova lotta di classe è tra i cosiddetti deplorevoli, come li ha classificati la stessa Clinton, e le élites. Tanto è vero che i fondi sovrani, i magnati e lo stesso Soros adesso si sono mobilitati per organizzare la controrivoluzione».

Hillary Clinton con la popstar Lady Gaga, sua sostenitrice

Hillary Clinton con la popstar Lady Gaga, sua sostenitrice

Tutto questo senza che il nostro ragionamento significhi approvazione del trumpismo.

«Stiamo facendo un’analisi. Personalmente ho grandi dubbi sulla democrazia».

Auspica il ritorno dell’uomo forte?

«La realtà determina se stessa, dandosi una forma. L’Italia è in imbarazzo causa mancanza di sovranità: dipende da consigli e centri di potere che stanno altrove. Per questo è importante capire quali siano le intenzioni degli Stati Uniti. Avesse vinto la Clinton, una personalità fuori dall’establishment troverebbe disco rosso a Palazzo Chigi».

Dopo la Brexit la vittoria di Trump: cosa serve ai giornalisti da salotto per fare un bagno di realtà?

«Serve una sveglia. Si sono assopiti nella irrilevanza tutta autoreferenziale delle solite marie antoniette e delle loro brioche».

Serve anche un bagno di umiltà?

«Obiettivamente hanno tantissimi privilegi. Conoscono le lingue, hanno uso di mondo, di narrazione, di mercato. Com’è possibile che facciano giornali tanto penosi? Gli ultimi importanti contratti nelle maggiori testate sono stati fatti nelle redazioni Esteri. E il risultato è che faticano a raccontare proprio gli scenari internazionali. Guardando in casa, quando, un anno e mezzo fa Egidio Maschio, imprenditore veneto protagonista del miracolo del Nordest, si sparò nel suo ufficio traumatizzando il mondo produttivo e imprenditoriale, il Corriere della Sera gli dedicò una breve. Alla borghesia italiana manca una voce che sappia guidare. Questa è stata la disperazione dei beniamini del grande pubblico. La gente voleva Indro Montanelli e gli davano Piero Ottone, voleva Giovannino Guareschi e gli davano Fortebraccio, voleva Leo Longanesi e gli davano il Politburo e la Fondazione Einaudi».

Indro Montanelli. Buttafuoco: «I lettori volevano lui e gli davano Piero Ottone» (Tam Tam)

Indro Montanelli. Buttafuoco: «I lettori volevano lui e gli davano Piero Ottone» (Tam Tam)

Dove sbaglia di più Renzi?

«Nel confondere un progetto politico con l’estetica della comitiva. Il suo orizzonte è il muretto degli amici sistemati nei posti chiave. Pensi al tentativo di mettere Marco Carrai ai Servizi segreti. O a Luca Lotti che spadroneggia in ogni recesso del potere. Renzi ha intossicato di conformismo le analisi di tutti i giornali. Almeno Berlusconi aveva le testate più autorevoli contro. Renzi le ha tutte a favore. Mi sa che la parte migliore di Renzi è Denis Verdini».

Provoca?

«Verdini sembra scappato dalle pagine di Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino, un saggio nel quale Giuseppe Prezzolini descrive il Machiavelli come il rappresentante vivo di un potere sinceramente italiano e quindi universale, non provinciale com’è quello di Renzi».

Lei che se ne intende, che Islam si aspetta dal programma di Gad Lerner su Rai 3?

«Mi aspetto il solito equivoco per il quale si tende a confondere l’Islam con l’immigrazione. È un luogo comune accreditato a destra come a sinistra. A destra, per raggranellare il pieno elettorale; a sinistra, per autocompiacimento d’ordinanza».

L’unica strada è l’integrazione: impresa possibile?

«L’unica integrazione che ha funzionato nella storia è quella che avviene quando i sapienti si parlano tra loro. L’esempio canonico è quello tra Francesco e il Sultano. In tempi recenti non possiamo che indicare quello che il vero campione della destra, Vladimir Putin – altro che Trump – ha fatto: inaugurare a Mosca la più grande moschea su suolo europeo».

Figuriamoci cosa accadrebbe da noi.

«Chi se l’aspettava che i valori immutabili della metafisica dovessero essere difesi da un colonnello del Kgb. Ovvero, da colui che ha appoggiato le milizie miste di cristiani e musulmani in Siria per liberare i villaggi cristiani, restituire le chiese ai fedeli e innalzare la statua della Vergine Maria sull’altura di Maaloula, in Siria, una statua che i terroristi avevano distrutto».

Lo storico incontro tra Vladimir Putin e papa Francesco

Lo storico incontro tra Vladimir Putin e papa Francesco, alleati nel fermare la guerra in Siria

Putin difensore della cristianità. E Bergoglio?

«Quando hanno fermato l’attacco in Siria il Papa e Putin hanno agito in perfetto accordo».

Detto della sinistra, che cosa ha da imparare la destra dal caso Trump?

«Che non si può essere destra per come piace alla sinistra. Quanti tentativi di farsi dare la patente di presentabilità sociale. Il riferimento culturale della destra dev’essere garantire alla comunità un’aderenza ai principi sacri, eterni e soprattutto universali. Abbiamo un grande vantaggio dall’abitare in Italia: quello di convivere con un’entità universale cui guarda il mondo intero. Quando il contadino siberiano si fa il segno della croce sa di trovare nella Basilica di san Nicola a Bari un riferimento della sua storia e della sua identità. Così il commerciante indiano, quando ascolta Iqbal e i poeti di strada, sa che la patria è il Mediterraneo culla di civiltà e orizzonte del futuro, e la Sicilia, perla dell’Islam. Altro che le tecnocrazie di Bruxelles. Fino agli anni ’70 le parole italiane più note nel mondo erano quelle della tradizione musicale: allegretto, andante, mosso. Ora sono pasta, pizza, pane. Con le differenti conseguenze commerciali. Se ci fosse, una destra saprebbe che il progetto è la Via della seta. E che, non si offendano gli antifascisti, è ancora scritto sul frontone del palazzo dell’Eur: artisti, eroi, santi e navigatori. La destra non può accontentarsi dei rutti del bar sport».

Quando la destra farà autocritica per le grandi occasioni perse in questi vent’anni?

«La destra al governo è stata una disgrazia. Come conferma il progetto culturale delle tre “i”: Internet, Inglese, Impresa. Se non ricordo male fu proprio la destra a eliminare dai licei l’insegnamento della storia dell’arte e della musica».

Nella galassia berlusconiana sembra vincere la linea pro-renziana di Confalonieri.

«Che è sempre coincisa con quella di Berlusconi. Nella galassia il principe è sempre uno solo».

Si sta riconvertendo al renzismo?

«Direi che ha chiara la situazione. Se vince il No, il Cavaliere ucciderà la destra del centrodestra. Se invece vincerà il Sì, Renzi si farà un partito tutto suo, uccidendo a sua volta la sinistra del centrosinistra. E Berlusconi sarà fondamentale nella transizione».

La copertina di «La notte tu mi fai impazzire» in uscita il 24 novembre

La copertina di «La notte tu mi fai impazzire» a giorni in uscita

A giorni uscirà da Skira La notte tu mi fai impazzire. Gesta erotiche di Agostino Tassi. Perché un libro su un pittore del Seicento? Che cos’ha di attuale?

«Doveva essere un libro su Artemisia Gentileschi, pittrice caravaggesca adottata dal femminismo. Poi mi sono accorto che era già stata celebrata e che la storia del suo stupratore era più nuova. È una storia che illumina i traffici d’arte, religione e politica dell’epoca e che si concentrano nella figura di Cosimo Quorli, potentissimo e corrotto furiere del Papa. In confronto Mafia capitale è roba da educande».

Dopo tanto tempo ha uno spazio in tv non come ospite. Che cosa le sta dando?

«Molto entusiasmo. In Giovanni Minoli ho trovato un maestro generoso e partecipe. Con lui mi sento come quando da adulto sono andato a prendere lezioni di russo, sedendomi a fianco dei bambini, armato di quaderno per imparare a fare le aste».

Con lo zainetto.

 

La Verità, 20 novembre 2016