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L’understatement del cronista giova all’evento

Telecronisti e commentatori che stanno sul pezzo e campioni che non se la tirano. Sarà questo il segreto della Champions League trasmessa da Prime video? Del resto, la piattaforma di Jeff Bezos ha acquistato i diritti per «la migliore partita del mercoledì». Dopo Inter-Liverpool e Atletico Madrid-Manchester United nel turno di andata, il primo match di ritorno degli ottavi era tra Real Madrid e Paris Saint-Germain. Due scuole calcistiche e due filosofie societarie a confronto. Le merengues composte da giocatori storici allenati da Carlo Ancelotti, richiamato a Madrid dal patron Florentino Pérez, e la squadra francese infarcita di fuoriclasse, allenata da Mauricio Pochettino, di proprietà dell’imprenditore qatariota Nasser Al-Khelaifi. Curiosamente, in campo, la squadra più blasonata, detentrice di 13 Champions League (comprendendo i trofei della vecchia Coppa dei campioni), era «più umile e più disposta al sacrificio», parole di Massimo Ambrosini, uno che qualche Champions l’ha vinta. Fino al sessantesimo del secondo tempo, le sorti del match e della qualificazione apparivano nettamente segnate in favore del Psg. In certi momenti, la supremazia tecnica della squadra con il trio delle meraviglie Messi-Neymar-Mbappé appariva schiacciante. Eppure, mai dare per morti i campioni nel loro stadio, ribadiva Sandro Piccinini in telecronaca. Anche sotto di un gol (di due nel punteggio comprensivo dell’andata) il tifo madridista continuava a sostenere Modric, Benzema e soci. Nonostante il piano inclinasse in una direzione precisa si aveva la percezione che il finale di partita non fosse ancora scritto. Sarà stata l’esperienza o semplicemente l’umiltà di seguire quello che stava accadendo, Piccinini e Ambrosini, coppia fissa di Prime video, trasmettevano la possibilità che qualcosa sarebbe potuto accadere. È il senso dell’evento, il saper rispettare la complessità del gioco. In materia di telecronache di calcio si assiste spesso a un eccesso di protagonismo dei commentatori. Il repertorio è vario: si va dalle disquisizioni tattiche ai consigli non richiesti agli allenatori fino al gossip con mini-biografie dei giocatori. Intanto le azioni si susseguono, spesso a dispetto del racconto. Nell’ultima mezz’ora la partita si è trasformata come la pelle di un camaleonte, regalando al pubblico la sensazione di aver assistito a un evento raro. Anche Clarence Seedorf, Julio Cesar e Luca Toni, ospiti a bordocampo di Giulia Mizzoni, trasmettevano il senso di un certo stupore. Se non si sa già tutto, spesso ci si diverte di più.

 

La Verità, 11 marzo 2022

Fenomenologia dell’Ajax, matrice di bel calcio

Però, la Juve. Però, nel primo tempo. Però, se ci fosse stato Douglas Costa. Il giorno dopo è ancora più difficile arrendersi all’evidenza. Le attenuanti rimontano. E il disagio serpeggiante allo Stadium, la scimmia di un’inferiorità conclamata, scolora nel ci rifaremo. È stata una lezione di calcio. Fine delle trasmissioni. E dei sogni di gloria. Una partita che se fosse finita 1-5 non ci sarebbe stato nulla da dire. La Champions League bianconera continuerà, almeno per un altro anno, a essere un’ossessione. C’è già chi vaticina la fine di un’epoca. Però, oggi, non è della débâcle juventina che si vuol parlare – quella è materia della sterminata galleria di meme sul Web –  ma di calcio e dell’Ajax, una squadra che ci ha riconciliato con la bellezza di questo sport. E che, perciò, suscita un’appartenenza estetica. Una squadra che esprime spensieratezza, leggerezza, umile spavalderia, se si può dire con un ossimoro. E che, con applicazione e rigore tattico assoluti, ha annichilito un avversario ben più ambizioso e potente. Il terzo, dopo Bayern Monaco e Real Madrid. Insomma, i soldi non sono tutto, nemmeno nel calcio.

L’evidenza maggiore dell’altra sera è un’abissale differenza di cultura, tra due filosofie diametralmente opposte. Perciò, anche tra i teorici, gli addetti ai lavori, gli opinionisti più o meno fiancheggiatori, ci sono perdenti e vincenti. Da una parte una squadra impostata sull’estro dei campioni e sul cinismo speculativo delle situazioni, dall’altra un gioiello tecnico e tattico con un’idea precisa in testa e nelle gambe: attaccare e vincere divertendosi e divertendo. Sprazzi di calcio totale. Furia controllata. Ruoli fluidi, movimenti sincronizzati, passaggi rapidi e millimetrici da sembrare intarsiati con il bisturi. Applicazione, disciplina, corsa. Una squadra con quattro giocatori d’attacco (Dusan Tadic, David Neres, Hakim Ziyec e Donny van de Beek), che non va mai o quasi mai in affanno in difesa.

Torna alla mente l’Ajax di Rinus Michels degli anni Settanta. E l’Olanda di quel periodo, ribattezzata Arancia meccanica per il colore della maglia e la sincronia del gioco. A proposito di passaggi: nella prima azione della finale mondiale del 1974 ne fece 17 consecutivi senza far toccar palla alla Germania, squadra del paese ospitante, fino all’ingresso in area di Johan Cruijff che costrinse al fallo Uli Hoeness, attuale presidente del Bayern Monaco, determinando il rigore, poi trasformato da Johan Neeskens. Quella partita fu poi vinta dalla Germania. Come quattro anni dopo fu l’Argentina, anch’essa paese ospitante, a togliere all’Olanda, con un arbitraggio molto discusso dell’italiano Sergio Gonella, la soddisfazione del gradino più alto. Quell’Ajax è stato la matrice di tante versioni aggiornate e corrette di un calcio offensivo e qualitativo. Poi rivisto nel Barcellona allenato dallo stesso Cruijff, nel Milan di Arrigo Sacchi, nel Napoli di Maurizio Sarri, nelle squadre di Pep Guardiola, inventore del famigerato tiki taka. Rivedendo la compagine diretta da Erik ten Hag, non a caso vice allenatore del Bayern di Guardiola, quel sistema e quella mentalità sono tornati di stretta attualità. E potrebbero esserlo ancora di più prossimamente nell’epilogo della stagione di Champions League. Visto così anche il calcio sembra cultura, storia di conoscenze che si tramandano, di maestri che trasmettono a chi ha voglia d’imparare e di provarci. Da Michels a Cruijff, da Guardiola a Ten Hag. Non è affascinante? Non è diverso dalla mentalità tutta malizia e furtività che vediamo praticata ogni domenica nei nostri campi di gioco? Spiace solo che, per impostazione societaria, a fine stagione l’Ajax venderà i suoi gioielli. Frenkie de Jong è già del Barcellona – a proposito – e Matthijs de Ligt è pure lui sul mercato, probabilmente con la medesima destinazione. E, dunque, bisognerà ricominciare da capo, sempre dalla solita matrice.

Ieri, nel day after dello Stadium, ci si continuava ad arrampicare sui ghiacciai cercando di capacitarsi. Ha scritto cerchiobottisticamente Mario Sconcerti sul Corriere della Sera: «L’Ajax gioca meglio della Juventus, non è migliore in assoluto, ma è più moderno… Non c’è stata astuzia nell’Ajax… ha solo e sempre giocato a calcio. Era quasi chiaro dovesse finire così, credo lo sapesse anche Allegri, anche l’ultimo dei giornalisti, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo», ha osservato Sconcerti. Alt, qualcuno sì: Maurizio Pistocchi, in un’intervista alla Verità. «E poi, in fondo, perché dirlo?», si è chiesto ancora l’editorialista più gettonato del bigoncio. Per un solo motivo, caro Sconcerti: per amore dello sport.

La Verità, 18 aprile 2019

«I poteri forti del calcio controllano la critica»

Buongiorno Maurizio Pistocchi: anche lei si è rinnamorato dell’Ajax?

«Io sono da sempre innamorato di un’idea di calcio che prevede il possesso e il controllo del campo e del pallone. Ho avuto la fortuna di lavorare con Arrigo Sacchi…».

Quando?

«Dal 1979 al 1981 come dirigente accompagnatore della primavera del Cesena».

Il calcio di Sacchi nasceva dal primo Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff?

«Sacchi era un allenatore di straordinaria cultura. Mutuò il pressing da Michels, la linea della difesa mobile dall’Argentina di Luis Menotti e la zona totale dai brasiliani. Assemblò tanti concetti. E soprattutto fu capace di trasferirli ai campioni, cosa tutt’altro che facile».

L’Ajax di oggi è un gioiello tecnico e tattico che viene da lontano.

«L’Ajax è l’inizio, tutto nasce dall’Olanda. Anche il Barcellona dov’è cresciuto Pep Guardiola, uno dei maggiori innovatori del calcio mondiale, era allenato prima da Cruijff e poi da Frank Rijkaard. È qualcosa che poi abbiamo visto nel Napoli di Maurizio Sarri e, appunto, nelle squadre di Guardiola».

Maurizio Pistocchi, giornalista scomodo di Mediaset, non ha più uno spazio da opinionista: scomparso. In un ambiente nel quale imperversano Mario Sconcerti e Ilaria D’Amico e la minima critica ai poteri forti suona lesa maestà, se ne sente la mancanza. Qualche giorno fa, per esempio, dopo Juventus-Milan e le successive polemiche per l’arbitraggio virato in bianco e nero, Sconcerti ha vergato un commento intitolato: «Juventus, quegli immensi distacchi che annullano gli errori arbitrali». Pistocchi ha replicato a stretto giro su Twitter (oltre 100.000 follower): «Ben Johnson, quegli immensi distacchi che annullano gli effetti del doping (Seul, 1988). Sconcertante».

Senta Pistocchi, noi ci siamo rinnamorati dell’Ajax, ma in semifinale andrà la Juventus.

«La Juventus è una squadra esperta, che ha abitudine ai grandi match ed è capace di sfruttare al 100% le occasioni. È favorita, ma lo era anche prima della prima partita».

Solito dilemma: estetica o praticità?

«Dissento. Come si può definire poco pratica una squadra che ha vinto 4-1 al Santiago Bernabeu? Non è bellezza fine a sé stessa. L’Ajax cerca il risultato attraverso il gioco, la Juventus attraverso le qualità individuali».

È difficile coniugare ricerca della bellezza e risultato?

«Una grande squadra dovrebbe perseguire questo obiettivo. Prima della finale di Coppa dei campioni con la Steaua Bucarest Silvio Berlusconi disse che la filosofia del Milan era <vincere e divertire>. Il giorno dopo L’Équipe scrisse che il calcio non sarebbe più stato lo stesso. Quel Milan è stato la squadra più importante del calcio italiano perché ha vinto e convinto. Non è mai stato insultato a fine partita. Vinse lo scudetto a Napoli uscendo tra gli applausi. Oggi, gran parte delle squadre italiane anziché puntare a divertire il pubblico giocando un calcio offensivo e di qualità, prediligono un gioco <risultatista>, basato sugli errori dell’avversario e lo sfruttamento delle situazioni. Il nostro è sempre stato un calcio avaro e speculativo».

Che cosa pensa delle dichiarazioni di Massimiliano Allegri quando, a proposito di un fallo non enfatizzato da Douglas Costa, ha detto che «bisogna crescere anche in questo, non si gioca puliti a calcio»?

«Penso che siano cose da dire al massimo dentro uno spogliatoio, non certo in televisione. Altrimenti, poi, non lamentiamoci se le partite delle giovanili sfociano in risse tra ragazzi, genitori, arbitri».

Il calcio, come tutto lo sport, dovrebbe essere il territorio della lealtà, invece è una cosa sporca?

«Quando ero bambino c’erano Omar Sivori, Valentino Angelillo e Humberto Maschio, tre argentini soprannominati gli angeli dalla faccia sporca, parafrasando il titolo di un famoso film. Erano campioni che praticavano un calcio di strada in cui era ammesso tutto. Per molti il calcio non è solo uno sport, ma una forma di rivalsa sociale, l’espressione di una mentalità. Noi siamo il Paese di Machiavelli, del fine che giustifica i mezzi».

La Juventus è antipatica perché vince troppo?

«Credo che possa risultare antipatica per come vince. Il problema non è la vittoria in sé, ma come arriva».

Cosa pensa dell’introduzione del Var e della sua applicazione?

«È una novità importantissima. Quando nel 1991 conducevo L’Appello del martedì in un’intervista a Tv Sorrisi e canzoni fui il primo a sostenere la necessità della moviola in campo. Oggi il protocollo di utilizzo va perfezionato, applicandolo anche nelle situazioni dubbie. Gli arbitri faticano ad accettare il Var perché pensano di perdere autorità. In realtà, io credo che tolga autoritarismo, ma aumenti l’autorevolezza dell’arbitro, anche e soprattutto quando ha il coraggio di correggersi».

Parlando di Ajax e Juventus lei ha segnalato il monte stipendi diverso delle due squadre, citando una frase di Cruijff: «Non ho mai visto un sacco di soldi segnare un gol». Alla lunga però la forza finanziaria aiuta.

«La Juventus è stata brava perché ha avuto visione, ha costruito lo Stadium, ha creato un progetto finanziario, ha realizzato un’operazione di marketing acquistando Cristiano Ronaldo che, con 206 milioni l’anno rappresenta, da solo, il quinto fatturato della Serie A. Poi ha avuto la fortuna di un allenatore come Antonio Conte che l’ha presa al settimo posto e l’ha portata al primo nell’unico anno in cui, con Allegri sulla panchina del Milan, Zlatan Ibrahimovic non ha vinto lo scudetto. Ha costruito i suoi successi sul lavoro e la qualità, avendo come unico competitor il Napoli di Sarri che l’anno scorso le ha conteso il primato fino a prima di Inter-Juventus, arbitrata da Orsato».

Quanto è significativo il fatto che Juventus e Napoli siano di proprietà italiana, mentre Inter, Milan e Roma no?

«Il calcio è spesso lo specchio di un Paese ed è indubbio che l’Italia sia in crisi. Se imprenditori come Massimo Moratti e Berlusconi hanno lasciato qualcosa vorrà dire. Il nostro sistema è dispendioso e indebitato perché impostato su assetti vecchi. I nuovi proprietari di Roma, Inter e Milan hanno trovato bilanci in crisi. Per acquistare Ronaldo la Juventus si è finanziata con l’emissione di un bond pur avendo alle spalle un’azienda come Fca con sede in Olanda. L’unico contraltare è il Napoli di proprietà di Aurelio de Laurentiis che, con possibilità molto inferiori, rimane sulla breccia».

L’uniformità dell’informazione e la mancanza di critica ai poteri forti è determinata dagli investimenti pubblicitari? Per esempio i 104 milioni investiti nel 2016 da Fiat, terzo big spender dietro Volkswagen e Procter & Gamble?

«Ogni mese i giornali, compresi quelli sportivi, registrano un calo medio del 10% sull’anno precedente. È evidente che la squadra con il maggior numero di tifosi, perciò di potenziali acquirenti o abbonati, possa di fatto condizionare il lavoro dei media. È naturale che, investendo molto denaro, le società che fanno capo a Fca siano difficilmente scontentabili. Tanto più se l’ufficio stampa della Juventus riesce a controllare tutto quello che viene detto e scritto».

È questo anche il motivo per cui è difficile realizzare una serie tv su Calciopoli?

«Mi pare l’abbia detto piuttosto chiaramente Luca Barbareschi, il quale realizzerà una serie sul calcio e le scommesse che non riguarderà Luciano Moggi».

Che cosa pensa dell’idea di trasformare la Champions League in un campionato europeo per club da disputare nei weekend spostando i campionati nazionali durante la settimana?

«Penso sia un’idea che distruggerà i campionati. Per fortuna, essendosi espresse in senso contrario sia Bundesliga che Premier league, sarà difficilmente attuabile. Quest’anno la Premier ha portato quattro squadre ai quarti di Champions, è la competizione più venduta nel mondo e incassa 3 miliardi di euro di diritti, contro i 900 della Serie A. Infine, occhio al rischio saturazione. In Gran Bretagna, dove gli stadi sono pieni, le partite trasmesse sono 180 all’anno, da noi 400. Prima di pensare al campionato europeo per club dovremmo decidere se consideriamo il calcio un fatto popolare o un hobby per oligarchi e grandi famiglie».

Perché non sappiamo creare vivai come l’Ajax e il Barcellona con una propria impronta sportiva?

«Perché abbiamo fretta. La Juventus, che lo potrebbe fare, si accontenta di vincere senza puntare a creare uno stile. Nello spogliatoio del Manchester united di Ferguson c’era un cartello che diceva che più delle vittorie conta lo stile. Al Real Madrid, se vinci giocando male ti mandano via, ne sa qualcosa Fabio Capello. Da noi, a chi osservava che la squadra più vincente non fa spettacolo, l’allenatore ha risposto che conta vincere e che per lo spettacolo si deve andare al circo».

Che idea si è fatto del caso Icardi?

«È qualcosa che può succedere in un gruppo di 25 milionari dove il più ricco sta sul piedistallo e diventa antipatico a tutti. È un fatto causato dalla scarsa integrazione nel gruppo. Il contrario di quello che ha fatto Cristiano Ronaldo, un campione umile che si è messo a disposizione della squadra».

Che cosa serve al Milan per tornare grande?

«Tutto deriva dal tipo di calcio che si vuole praticare. Penserei al Barcellona o al Manchester City e costruirei un vivaio con quella filosofia. In Italia abbiamo lasciato andare via Sarri, che al primo anno in Premier è terzo e ha un piede in semifinale di Europa League. Guarda caso l’allenatore consigliato da Sacchi ad Adriano Galliani quand’era all’Empoli».

E all’Inter cosa manca?

«Qualche grande giocatore e la scelta della direzione da prendere tra Marotta che vorrebbe Conte, chi vuole tenere Luciano Spalletti e l’ala morattiana favorevole al ritorno di José Mourinho. Se sai quale calcio vuoi giocare impari a valutare la tua rosa e magari non cedi Zaniolo».

Cosa pensa quando vede Berlusconi e Galliani proprietari del Monza calcio?

«Che tutti invecchiamo e anch’io domenica (oggi per chi legge ndr) compio 63 anni».

Tanti auguri, allora. Pensi che ti rivedremo in televisione?

«Grazie, sarà difficile. Le cose e le persone cambiano. E non sempre in meglio».

La Verità, 14 aprile 2019

La Champions League da tifosa di Ilaria D’Amico

Una gaffe al giorno toglie Ilaria D’Amico di torno? Se lo augurano i tifosi del Napoli che da tempo contestano la conduttrice più glamour di Sky Sport, compagna di Gianluigi Buffon. Decideranno i vertici della tv satellitare, ma è difficile immaginare una rimozione a furor di popolo. L’ultimo episodio che ha rinfocolato le polemiche è avvenuto mercoledì sera, nel prepartita di Ajax-Juventus quando, in collegamento con Gianluca Di Marzio da Amsterdam, riferendosi ai tifosi olandesi, la conduttrice ha parlato di una vigilia «con un approccio quasi partenopeo, con “triccheballacche” e fuochi d’artificio per disturbare il sonno degli avversari». Le proteste hanno inondato i siti sportivi e i social network. Si trattasse di una querelle relativa alla sola rivalità tra Juventus e Napoli, basterebbero le scuse e un atteggiamento più sorvegliato della conduttrice. In realtà, il dubbio è che certe scivolate, se così vogliamo considerarle, derivino dalla montante partigianeria della conduttrice. Sempre mercoledì, per esempio, dopo la partita con l’Ajax, ella si è complimentata con Massimiliano Allegri per un fallo subito da Douglas Costa, non enfatizzato: «Li state tirando su troppo onesti! Troppo onesti! State diventando europei…», ha vellicato. Dal canto suo, il tecnico ha rincarato: «Si deve crescere anche in questo, tutti puliti non si gioca a calcio…».

Evidentemente, nella filosofia juventina, il calcio dev’essere qualcosa di sporco, come la politica. Sia di qua che di là, tifoserie e schieramenti dettano legge a nervi scoperti e un aggettivo sbagliato o una frase colorita scatenano tempeste mediatiche. Da qualche tempo la D’Amico ha gettato la maschera. Mutatis mutandi, un po’ come Lilli Gruber non perde occasione per bastonare il governo in carica. Purtroppo, l’ultima stagione della bella Ilaria è lastricata di svarioni e tendenziosità. Martedì, per esempio, commentando il gol di Heung-min Son, ha chiosato: «Con tutto il rispetto per Son che, ricordiamolo, non viene da un Paese democratico…», confondendo la Corea del Sud, patria del calciatore, con quella del Nord. Andando indietro, fino ad Atletico Madrid-Juventus, si trova un’altra perla: «La cosa brutta per il ritorno è che a loro non frega niente di giocare male…». Quella volta ci aveva pensato Fabio Capello correggerla in diretta: «Ma noo, non è vero… Non sono d’accordo con quello che dici». Anche con Andrea Pirlo c’era stato un siparietto: «Che ne pensi tu che hai giocato la finale con la Juve?». E lui: «Veramente le ho giocate anche col Milan e le ho vinte». La faziosità fa perdere anche la memoria…

La Verità, 12 aprile 2019

Flop Juve? Allegri senza piano B e presunzione

La finale di Champions League con il Real Madrid l’ha persa soprattutto Massimiliano Allegri e Antonio Conte avrà goduto, non si sa quanto in segreto. L’allenatore bianconero non è stato capace di capire che cosa stava davvero succedendo e di cambiare la partita in corso d’opera. Alla fine, tutte le domande degli osservatori si sono appuntate sul calo della Juventus tra il primo e il secondo tempo. Ma risposte convincenti non ne sono arrivate. Sono stati bravi loro (Sacchi); gli episodi sono girati male (Buffon); Pjanic aveva un problema a un ginocchio (Allegri).

Le cose sono un tantino più serie. Da diversi mesi, cioè da quando è passata al 4-2-3-1, ovvero al cosiddetto modulo «a 5 stelle» (Higuan, Dybala, Madzukic, Dani Alves o Cuadrado, Pjanic), la Juventus ha sempre giocato per andare in vantaggio nella prima mezz’ora. Di un gol o possibilmente di due. Il segreto era dominare subito il match, schiacciando l’avversario nella propria metà campo, attraverso il pressing alto che può essere prodotto con efficacia da una squadra farcita di punte e mezze punte. Una volta conquistato il vantaggio di uno o due gol, a mezz’ora dalla fine Allegri provvedeva puntualmente a coprirsi, togliendo qualcuna delle stelle e innestando Marchisio o Lemina o Rincon. Una squadra così sbilanciata, infatti, non può reggere 90 minuti senza sfilacciarsi.

Massimiliano Allegri non ci ha capito niente

Massimiliano Allegri non ci ha capito niente

Con il Real Madrid il piano A non è riuscito. La Juventus prima è andata sotto, poi ha recuperato con un gol bellissimo ma irripetibile di Madzukic. Nell’azione precedente il Real aveva mancato il raddoppio perché Isco è incespicato sulla palla al limite dell’area. Commentando il match, sia Allegri che Buffon hanno sottolineato di non esser riusciti a chiudere in vantaggio il primo tempo come, a loro avviso, meritavano. Nel secondo tempo non è scattato il piano B e non si può gettare la croce addosso a Higuain e Dybala che in tutta la seconda frazione di gioco non hanno mai visto palla. È stato il Real ad attuare il pressing alto, recuperando subito il pallone in uscita, il terzo gol di Ronaldo con l’incursione di Modric è esemplare. I quattro centrocampisti di Zidane (Kroos, Casemiro, Modric e Isco) hanno sovrastato il reparto juventino (Pjanic e Kedhira con Dani Alves a fluttuare sulla fascia). Tardivo e inutile l’ingresso di Cuadrado, quando il gioco girava sempre dalle parti di Modric e Kroos.

Alle motivazioni tecniche ne va aggiunta una di tipo umano, che ha concorso in misura non trascurabile alla disfatta. Ed è la presunzione, una certa sicumèra che nei giorni precedenti ha alimentato la convinzione di essere superiori, la sensazione che «il primo triplete» non poteva sfuggire e nemmeno poteva farlo il Pallone d’oro a Gianluigi Buffon. La pressione è lievitata con i troppi proclami, un’arietta da trionfo scontato, la presunzione di essere favoriti, l’obbligo di vincere.

Il Real, più abituato a questo genere di partite, ha giocato più tranquillo e sornione. Fine della storia.

A commento del risultato, Andrea Agnelli ha detto: «L’anno prossimo dobbiamo essere più cattivi».

Col pubblico in studio «Premium Champions» fa sul serio

È iniziata da qualche settimana la stagione della Champions League, esclusiva Mediaset e Premium Champions condotto da Sandro Sabatini e Giorgia Rossi sta finalmente diventando un programma televisivo (martedì e mercoledì, nelle serate di coppa). Ricordate l’anno scorso i tre opinionisti abbandonati nello studio deserto che trasmettevano un senso di vaghezza e laconicità a tutta la serata e, nonostante il risuonare delle note della bellissima sigla che inaugura i match, lasciavano la sensazione dell’evento mancato? Da quest’anno Sabatini ha voluto il pubblico a scaldare l’ambiente e magari, perché no, a fare qualche applauso. Com’è accaduto l’altra sera quando Evra, rispondendo proprio a una domanda del conduttore, ha detto di avere piena fiducia nella sua Juventus: «Se non l’avessi in ognuno dei miei compagni, direi al mister di lasciarmi fuori». Perché questa, in fondo, è l’altra notizia. Martedì la Juventus ha pareggiato in casa contro il Lione e Sabatini si è ugualmente permesso di fare delle domande, così come una l’aveva fatta anche Luca Toni ad Allegri a proposito della coesistenza tra Higuain e Mandzukic. Ovvero: se era proprio convinto di farli giocare insieme, oppure se si trattava di una scelta dettata dagli infortuni e perché non schierare Cuadrado… Insomma, su Premium si fanno domande puntute pure alla Juventus, a differenza di ciò che accade su Sky Sport dove, quando non vince, giornalisti e conduttori sono più affranti dei giocatori e dell’allenatore (confronta l’account di Twitter SkyJuve). Qui, volendo, il discorso sui media si allargherebbe ancora. Ma conviene rimanere su Premium Champions, tanto più in un momento in cui non sono chiare le sorti future della pay tv di Cologno Monzese.

Sandro Sabatini e Giorgia Rossi, i due conduttori di «Premium Champions»

Sandro Sabatini e Giorgia Rossi, i due conduttori di «Premium Champions»

Insomma, la presenza del pubblico e il suo coinvolgimento attraverso l’applausometro per votare il gol più bello della serata (ce n’erano di bellissimi), cambia il clima complessivo della serata e rende più dinamico il programma. Sabatini appare più a suo agio, alternando le sollecitazioni agli opinionisti (oltre a Toni, Paolo Rossi e l’arbitro Graziano Cesari), i commenti di Alessio Tacchinardi, inviato sul campo, le interviste post partita e spezzoni della conferenza stampa di Allegri. Anche i gol e i famosi highlits delle altre partite non hanno un valore pedissequo e l’esclusione di Aubameyang del Borussia Dortmund, collegata alle dichiarazioni di Aurelio de Laurentiis, patron del Napoli, diventa una potenziale notizia di mercato. Senza iperboli, senza enfasi esagerate, stando sul pezzo. Premium Champions, abbiamo un programma.

 

La Verità, 4 novembre 2016

Alla Champions di Premium manca il tono dell’evento

Con l’eliminazione della Juventus ad opera del Bayern Monaco l’avventura italiana nella Champions League è giunta al capolinea (a completamento del triste epilogo anche l’eliminazione della Lazio in Europa League). Anche se rimangono da giocare le fasi finali, agonisticamente assai interessanti, l’esclusione delle nostre squadre è propizia per fare il punto sul primo anno di esclusiva Premium. Per la pay tv di Mediaset, questa stagione è, in realtà, da considerarsi come una sorta di anno zero durante il quale si dovevano testare la macchina, i conduttori, le sinergie tra redazione e telecronisti, i commentatori e gli opinionisti e, nel complesso, l’offerta dell’intero pacchetto. Il martellante battage della primavera-estate aveva creato molte aspettative a riguardo della confezione dell’evento. Ma, a ben guardare, è stata forse proprio la dimensione dell’evento a latitare, in particolare nello studio di Premium Champions-League. C’è qualcosa di routinario, una patina dimessa nella gestione degli appuntamenti. Entrando nel dettaglio, nella squadra delle voci non si sono registrate novità di rilievo. I telecronisti sono sempre Sandro Piccinini, che sembra aver rinfoderato le sciabolate, e Pierluigi Pardo, tendente a elevare i decibel per rendere l’enfasi dei momenti topici. Più sporadica la voce di Roberto Ciarapica. I commenti tecnici sono affidati prevalentemente ad Aldo Serena e Antonio Di Gennaro, con rare presenze del pur apprezzato Roberto Cravero.

Il punto più debole del pacchetto è però lo studio post-partita. Non tanto nella conduzione di Sandro Sabatini (ex Sky) che ha voluto farsi affiancare da Giorgia Rossi, tutto sommato un buon mix di competenza ed effervescenza, quanto nella resa degli opinionisti fissi. È anche la logistica a non aiutare: Alessio Tacchinardi con la Juve o Federico Balzaretti con la Roma, Arrigo Sacchi o Paolo Rossi e Graziano Cesari sono affiancati su tre seggiole, sperduti e inevitabilmente dimessi in uno studio senza pubblico, che sembra una piazza vuota. Tolto Sacchi, che col suo passato di guru e la sua ossessione calcistica manifesta ancora autorevolezza da studioso, agli altri commentatori sembrano difettare approfondimento e aggiornamento. Non manca la lettura tecnico-tattica del match, quanto la conoscenza ampia del movimento calcistico, i link internazionali, l’evoluzione in chiave moderna e, di conseguenza, la capacità di collocare il singolo match e il nostro calcio in un contesto più ampio. In questo modo si rischia di rimanere dentro una prospettiva provinciale come dimostrano le polemiche tra Sacchi e Allegri. O l’eccessivo spazio dato a piccole beghe nostrane (la Juve si è offesa per un tweet di Reina inneggiante al gol di Thiago Alcantara… Càspita!). Non che un tavolo o una scrivania, magari l’uso di un monitor o di un tablet risolvano tutti i problemi e trasformino d’improvviso Balzaretti e Tacchinardi in scienziati di questa disciplina opinabilissima che si chiama calcio. Però aiuterebbero. Di più ancora, aiuterebbe un po’ di studio.

Il bello verrà adesso che non ci sono più italiane. Visto il panel delle qualificate, la Champions mantiene una buona dose di fascino che, se non porterà nuovi abbonati a Premium, potrebbe essere il banco di prova per sperimentare nuove soluzioni e nuovi volti in vista della prossima stagione. Quando, in lizza potrebbero esserci ancora Juventus, Napoli e Roma, tifoserie ben distribuite lungo tutto lo Stivale (solo con la qualificazione di una milanese, le cose andrebbero numericamente meglio). Il tetto di 2 milioni superato già a dicembre e  gli ascolti dei match clou (1,5 milioni abbondanti e il 5,72% di share per Bayern-Juventus) incoraggiano a investire nuove risorse nell’esclusiva della competizione che sta trainando la crescita della pay di Mediaset. Ma bisogna cambiare passo.