«Auspico che i nuovi vertici Rai siano ambiziosi»
Il regista Pupi Avati è di nuovo nei cinema con il suo ultimo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario.
Pupi Avati, che cos’è il pupiavatismo?
«È un sostantivo che mi lusinga perché sintetizza un approccio personale, teso a guardare oltre il modo di fare cinema più in voga. Cioè, essere completamente anacronistici, fuori sync rispetto alle mode, partendo dai cast e proseguendo con la scelta di storie che raccontano un’Italia provinciale, anche minima, sempre più marginalizzata».
Il modo di fare i casting è il marchio del suo cinema alternativo?
«È un cinema che rinuncia volutamente alle star del momento per cercare gli interpreti dove nessuno li cerca più o li ha mai cercati, offrendo delle opportunità rimosse a causa delle atroci regole dello star system. E decontestualizzando attori che magari, in passato, hanno raggiunto il successo in un contesto lontano da quello in cui li propongo io».
Parlando di star system, in Italia il cinema è fatto da dieci attori e dieci attrici?
«C’è una panchina molto corta alla quale si ricorre doverosamente. Quindi ho sempre il compito di convincere la committenza, i distributori, a credere in scelte molto stravaganti che vanno da Katia Ricciarelli a Renato Pozzetto a Edwige Fenech».
I suoi casting sono l’invenzione di debuttanti, la reinvenzione dei dimenticati, lo sdoganamento degli etichettati. Anche così si esprime la sua visionarietà?
«Non è solo una provocazione, ma appartiene alla dilatazione dello sguardo che va oltre alla panchina corta e al ventaglio stretto dei generi cinematografici, che invece sono i più variabili. Tranne il western, li ho frequentati tutti. Mentre molti miei colleghi sono diventati il genere di loro stessi, io non disdegno di fare un film horror, anzi, mi è necessario. O un film storico come Dante…».
Il pupiavatismo finirà nei vocabolari?
«Chissà. È un augurio, un auspicio, ma io non ci sarò più se e quando accadrà. La cosa che più mi spiace è non essere diventato modello, non aver ispirato nessuno a seguirmi. Se pensa che, per esempio, due cantanti come Cesare Cremonini e Lodo Guenzi, che si sono rivelati attori straordinari, non sono corteggiati da altri colleghi, può comprendere il mio rammarico. Resterò il solo ad aver avuto questo tipo di approccio».
Non tutti hanno la capacità di trasfigurare gli interpreti.
«Mi auguro che a Edwige Fenech, di cui tutti parlano bene, vengano offerte nuove opportunità».
Si aspettava le tante recensioni favorevoli a La quattordicesima domenica del tempo ordinario o c’è stata una svolta nell’orientamento dei critici?
«Mi aspettavo che i recensori cattolici non fossero gli unici a sollevare obiezioni riguardo a un film così pieno di valori. Le racconto un episodio. A un certo punto nel film viene diagnosticato alla moglie del giovane interpretato da Guenzi un carcinoma ovarico. Allora lui, di fronte al pessimismo dell’oncologo, per prima cosa si reca in chiesa a pregare. A un incontro pubblico alla Sapienza davanti a 500 persone ho chiesto chi ricordasse un protagonista che di fronte a una difficoltà va in una chiesa. Uno ha alzato la mano e ha detto: <Me lo ricordo nei film di don Camillo>».
Roba di oltre mezzo secolo fa.
«Per trovare qualcuno che di fronte a una brutta notizia si rivolge al trascendente dobbiamo andare indietro cinquant’anni. Eppure queste persone esistono, ma il cinema laicizzato non le considera».
Per Dante non ha avuto neanche una nomination ai David di Donatello, per La quattordicesima domenica ne avrà?
«Non credo. Finché non cambiano quelli che gestiscono il potere del cinema italiano fortemente ideologizzato io non esisto, non ci sono proprio. Ma questo fatto mi dà una forza enorme. Essere emarginato da persone che non stimi dà grande forza. Tant’è vero che sono già qui a scrivere il prossimo film».
Ce lo anticipa?
«È un film del genere gotico che ho già frequentato in passato e che mi diverte molto. A 84 anni ho ancora dei committenti perché continuo ad avere un pubblico».
È il seguito di Signor Diavolo?
«Non sarà il seguito. È un film per metà ambientato in America e per metà a Comacchio. S’intitola L’orto americano».
Dice che non viene premiato, ma Renato Pozzetto vinse per l’interpretazione in Lei mi parla ancora.
«E mi fece molto piacere. Ma anche i premi ai miei film non sono mai a me…».
Al ricevimento al Quirinale in occasione degli ultimi David, tra gli addetti ai lavori si è diffuso l’allarme che ora la destra voglia prendersi il cinema. Risulta anche a lei?
«Non saprei in che modo e con chi. Se dovessi fare una lista di colleghi con un minimo di notorietà riconducibili all’area della destra non saprei che nomi fare. Perciò direi a questi signori di tranquillizzarsi. Mi ero illuso che la vittoria della destra avrebbe suggerito a chi può farlo di cambiare le cose soprattutto nel servizio pubblico della televisione italiana, invece…».
Un argomento che le sta a cuore come aveva evidenziato già due anni fa, nel momento acuto della pandemia.
«Scrissi una lettera ai maggiori quotidiani nazionali, invitando a superare la regola del mercato per la quale i numeri dell’audience danno la qualità dei programmi, il che non è assolutamente vero. Proponevo che la terza rete fosse svuotata dalla pubblicità e convertita alla cultura. Ricevetti numerosi messaggi di apprezzamento. Perciò, ora pensavo che la destra al comando in Rai avrebbe intrapreso questa missione, ideando un progetto ambizioso che sapesse inventare programmi innovativi. Anche lasciare il dibattito politico in mano alla tv di Urbano Cairo è un errore».
Lei parla al passato, ma la nuova governance Rai si è insediata da due giorni.
«È vero. Ma gli unici rumors riguardano la sostituzione di Fabio Fazio con Massimo Giletti o di Flavio Insinna con Pino Insegno…».
Ci si fermerà a questo?
«Le faccio una rivelazione. Ho raggruppato un nucleo di intellettuali autorevolissimi e non allineati, con attività consolidate e non bisognosi di alcunché, disposti ad aiutare i governanti competenti a individuare persone e temi per gestire in modo illuminato la tv pubblica. Bene: questa proposta non ha avuto riscontri».
Ultimamente l’abbiamo vista spesso in televisione: la miglior accoglienza al suo film può esser dovuta anche all’ospitata a Che tempo che fa?
«Fazio garantisce vendita di libri e presenze al cinema, altri programmi di maggior ascolto no. Su Rai 3 assicurava un’attenzione che altrimenti non si aveva. Non so se influisca sulla critica. E non so come andrà a Discovery. Ma sono convinto che lasciarlo andar via sia stato un errore. Sarebbe stata una dimostrazione di forza tenerlo».
Ma l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes non l’ha avuta.
«Lo so bene».
La Verità, 17 maggio 2023