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Arriva in tv una «casetta» per il cinema italiano

Non c’era. Difficile da credere, ma è così. Un canale tv dedicato al cinema italiano non esisteva. Colmerà la lacuna Cine34 di Mediaset, la nuova rete tematica (al tasto 34 del digitale e al 327 della piattaforma satellitare), che esordirà il 20 gennaio, nel centenario della nascita di Federico Fellini, al quale sarà dedicata la programmazione dell’intera giornata: otto film del maestro riminese, da Lo sceicco bianco a 8 e ½ passando per Amarcord e La dolce vita.

Disponiamo di televisioni sempre più complesse ma anche smart, di connessioni multiple, di telecomandi che sembrano consolle di portaerei, di decine e centinaia di canali ma, lasciando stare le reti generaliste, presi dalla smania di accontentare i vari target, i fan dei reality, quelli del crime, gli amanti del lifestyle e quelli della comicità, ci eravamo dimenticati del nostro cinema, quello che racchiude tutti i generi. Incoraggiati dalla crescita di ascolti delle altre 11 reti tematiche (il 7.4% di share in prima serata supera Rai, Discovery, Sky e Viacom) i dirigenti Mediaset hanno deciso di aprire questa nuova «casa del cinema», nella quale i diversi generi saranno proposti con una programmazione giornaliera: la domenica i poliziotteschi, il lunedì le monografie, il martedì i maestri del cinema, il mercoledì i thriller e così via. L’offerta attinge a una library di 2672 titoli, 446 dei quali mai trasmessi in tv, ottenuta sommando al magazzino Mediaset acquisizioni di nuovi listini per completare collane di autori, come nel caso di Fellini, o per integrare filmografie di sicura presa sul grande pubblico, come la commedia sexy (in palinsesto il venerdì) e gli spaghetti western (il sabato). Precisato che il nuovo canale prevede la giornata dedicata alle pellicole d’autore e d’essai, la parte del leone la faranno i cosiddetti B movie. L’ingenerosa etichetta proviene dalla critica colta, ma se un regista come Quentin Tarantino si è felicemente formato alla scuola del cinema popolare italiano, non dovremo essere noi a snobbarlo.

Rivolto a un pubblico centrale, con leggera predominanza maschile, l’obiettivo di share del nuovo canale è l’1% da raggiungere in sei mesi. Non potendo contare sulla visibilità nelle pagine dei programmi tv dei giornali, ci vorrà pazienza perché il passaggio da Cine34 diventi un’abitudine dello zapping serale. Ma contando su alcune chicche inedite in tv (tra le altre, Black killer con Klaus Kinski, La minorenne con Gloria Guida) o su alcuni classici dimenticati nei vari generi (La polizia incrimina, la legge assolve, con Franco Nero, La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati), forse si può azzardare che quell’1% è una previsione al ribasso.

 

La Verità, 18 gennaio 2020

Il Vaticano? Un girone dantesco per Sorrentino

Dopo The Young Pope Paolo Sorrentino aveva due strade: mettere ordine nel calderone del Vaticano orfano(?) di Pio III-Lenny Belardo (Jude Law) o accentuare il disordine creativo. È fuor di dubbio che egli abbia imboccato la seconda, quella più estrema, eccentrica, febbrile. In The New Pope, la serie originale Sky da ieri sul canale Atlantic e on demand, creata e diretta dal regista premio Oscar, prodotta da The Apartment – Wildside, parte di Fremantle, la specificità del Vaticano c’è, ma è quasi un pretesto. Pre-testo. Un punto di partenza per le licenze e licenziosità poetiche, etiche, estetiche del regista-sceneggiatore-produttore esecutivo. La Cappella Sistina, piazza San Pietro e i giardini vaticani sono il luogo per eccellenza; il contrario del non luogo contemporaneo e della società liquida, come fa intendere il sempre più strategico (e stratega) cardinal Voiello (Silvio Orlando) parlando della diversità dei tempi della Chiesa. La Santa Sede è il luogo del Logos e Sorrentino lo sa o, per lo meno, lo intuisce. Intuisce che la Chiesa è un’istituzione dell’altro mondo, una realtà umana attraversata dal divino, e ne è affascinato, soprattutto per l’estetica di liturgie e riti. Tuttavia, faticando a penetrarne il mistero e a dare verticalità al racconto, la messinscena si dibatte tra vero, verosimile, falso, onirico, fantasy, virtuale, allucinato, psichedelico…

Così The New Pope è più di un sequel di The Young Pope, con personaggi nuovi e sganciamenti narrativi. E le situazioni nelle quali lo spettatore viene introdotto sono spin off del reale. Francesco II che apre il Vaticano ai migranti e parla di Chiesa povera, lo è di Bergoglio anche se muore precocemente, citando papa Luciani. Mentre la situazione in cui si vengono a trovare Lenny Belardo e John Brannox (John Malkovich) è un lungo parallelismo dei due pontefici attuali. Con le licenze che dicevamo. E con le licenziosità, parola del moralismo novecentesco, con il quale il regista continua a giocare muovendo le suore infoiate, la realpolitik di Voiello, il dandismo di Malkovich. Il quale, più che interpretare papa Giovanni Paolo III, gli presta le proprie mollezze, accettando l’iniezione dialettica dello stesso Sorrentino che, sempre per gioco, gli mette in bocca discorsi pregnanti e sincopati da guru moderno, nel terzo episodio ce ne sono ben due. Perché l’altra novità di The New Pope sono i tempi dilatati della narrazione che innesta la sintassi felliniana con accenni lynchiani. Il risultato finale è un Vaticano dantesco assolutamente imprevedibile, fucina di esotiche sorprese, rigorosamente da non prendere sul serio.

 

La Verità, 11 gennaio 2020

A «Tolo Tolo» manca l’irriverenza di Zalone

È vero, la risata non ha colore politico. Ma in Tolo Tolo le risate scarseggiano, purtroppo. Mentre la politica…

Furbo, ruffiano, arrotondato e senza spigoli, insomma: paraculo. Si può dire? Il nuovo blockbuster di Luca Medici, nome d’arte Checco Zalone, re Mida del cinema italiano, colui che da solo salva le stagioni, non a caso bis-primatista assoluto d’incassi (primi due posti al botteghino per introiti nel giorno d’esordio in sala), segna un cambio di rotta nella produzione del comico barese rivelandosi piuttosto deludente. Addio sfregio cafone e dell’irriverenza, volgare ma sana, che in passato aveva sdoganato il sentimento maggioritario dell’Italia imbonita dal manierismo dominante.

Certo, parliamo pur sempre di un lungometraggio sfaccettato e pieno di cose, anche se un tantino affastellate e in difetto di regia e scrittura. C’è l’idea del migrante bianco che fugge in Africa dallo Stato esattore e fa il percorso contrario di quello dei poveri cristi di cui parliamo tutti i dì. C’è la varietà dei generi e del linguaggio, dall’animazione al musical, dal movie on the road alla commedia sordiana sul solito italiano furbo e cialtrone. Ci sono gli scenari del Kenya e del Sahara, i camei prestigiosi (Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Nichi Vendola) e una buona colonna sonora con citazioni e novità. C’è tutto questo, ma parlando di Checco Zalone ben di più e d’altro ci si aspettava. Perché, purtroppo, ciò che manca ai novanta minuti di Tolo Tolo è proprio il suo quid, la beata tamarraggine, il graffio scorretto, la battuta ignorante e vincente proprio perché (fintamente) inconsapevole. Quando si va a vedere un film di Zalone ci si aspettano le vetrine in frantumi del correttismo e lo sberleffo al benpensantismo. Invece, salvo una battuta antisaviano («Sei pronto a fare la brava risorsa» al bimbo che finalmente approda in Italia) e il sorteggio finale per l’assegnazione ai Paesi europei dei gruppi di migranti, ci troviamo dentro una commedia terzomondista con capovolgimento di prospettiva. Un film che si snoda geograficamente e socialmente al contrario, per finire in braccio al più composto e sentimentale veltronismo.

All’inizio della storia, dopo l’arrancante prologo, l’imprenditore in fuga dall’Agenzia delle entrate Pierfrancesco Zalone accusa d’ignoranza l’amico nero Oumar perché non sa pronunciare «ialuronico»: «Io voglio fare il cinema, mica l’estetista», è l’acrobatica risposta che apre la strada al ribaltamento della vicenda. Gli europei si sono venduti l’anima per l’effimero, gli africani sono sani, colti e si battono per l’umanità. Nel tempo libero, tra un’incursione delle milizie e un bombardamento, Oumar guarda i film di Pier Paolo Pasolini e la dolce Idjaba si rassegna a prostituirsi pur di mantenere la promessa di accompagnare verso un futuro migliore il bambino che le è stato affidato. E gli italiani? Cialtroni, si diceva, e cinici. Nell’amico senz’arte né parte che si arrampica dalla disoccupazione fino a palazzo Chigi è facilmente riconoscibile Luigi Di Maio (con tratti di Giuseppe Conte), mentre nella speranza dei famigliari di Zalone che lui sia morto per poter estinguere i debiti con il fisco, è resa plasticamente la preferenza del portafoglio sugli affetti. Un film al contrario, che sovverte le attese alimentate dal video di Immigrato, sapiente depistaggio rispetto alla sceneggiatura, dove la mano di Paolo Virzì è facilmente individuabile.

Proprio il trailer eccentrico, che ha fatto sclerare i sacerdoti del Bene, e la campagna promozionale sono state le mosse più indovinate di tutta l’operazione. Forse sarebbe stato ancora meglio ridurre la comunicazione, limitandosi al promo e alla conferenza stampa, godendosi lo spettacolo di noi giornalisti che ci scervelliamo su destra e sinistra. Giornali e sale piene, per una volta. Vittoria su tutti i fronti, tranne che sulla qualità del prodotto cui avrebbe giovato una regia più distaccata.

Rileggere ora l’intervista concessa ante-visione ad Aldo Cazzullo può essere istruttivo: «Purtroppo non si può dire più nulla», ammette Zalone. «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa… mi arresterebbero… L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto». Parole autogiustificatorie? Non sarà che pure l’amato Checco vi ha ceduto senza riuscire a scavalcare quel «purtroppo», come ha sempre fatto in passato? Il dubbio c’è ed è suffragato dal fatto che ora lo troviamo coccolato dal salotto sgravacoscienze de sinistra, amministrato da Paolo Mereghetti che ha scomodato Primo Levi, da Natalia Aspesi, che ha provato «la stessa emozione» di quando «piccina mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani» e da Andrea Salerno, per il quale Tolo Tolo è «un film decisamente di sinistra». Ha ragione il direttore di La7 che, con Massimo Giletti ed Enrico Mentana, ha «dato una mano» e lui se n’è compiaciuto. Un film di sinistra: a confermarlo arrivano anche Cazzullo, che lo ama perdutamente, ma lo descrive «palesemente antisalviniano», e Fulvio Abbate su Dagospia, il più fulminante: «Un patetico calendario missionario… tra le cose da tenere in cucina».

 

La Verità, 6 gennaio 2020

Veronesi, Haber… Eravamo quattro amici a Cinecittà

Il cinema va in tv. Meglio, il backstage del cinema. Il dietrolequinte, scritto in una parola, perché, con Maledetti amici miei, diventa un genere, un’affabulazione, un disvelamento (Rai2, giovedì, ore 21,30, share del 4.37%). Niente di epocale, beninteso. Aneddoti, raccontini, piccoli retroscena, qualcuno più divertente di altri. La compagnia è ben assortita: Giovanni Veronesi, regista e burattinaio del gruppo, Sergio Rubini, l’Al Pacino italiano anche se, ahinoi, più corretto, Rocco Papaleo, attore e musicante autoironico assai, Alessandro Haber, capro espiatorio e vittima designata. Ospiti fissi, Max Tortora e Margherita Buy, mentre Paolo Conte regala a tutte le puntate una sigla diversa tratta dal suo repertorio. L’alchimia è notevole, ognuno dei quattro ha una tempra e una tempera, perché si conoscono e si frequentano da decenni e il segreto è proprio questo: mettono in scena loro stessi, singolarmente e insieme, interagendo, come si dice. Prendendosi per i fondelli, stuzzicandosi, alzandosi la palla per la gag vincente.

In uno studio sui tetti di un’ipotetica periferia postindustriale i tre attori e il regista improvvisano episodi che animano la vita quotidiana dei set, attraversati da manie, fobie, paturnie personali. La premessa che fa da cornice all’operazione che è una grande citazione di Amici miei (e di Quelli della notte) con burle e goliardate annesse, passa dalle parole di Rubini: «Noi siamo l’avamposto della tv generalista, siamo gli ultimi televisivi, quelli che la tv non l’hanno mai fatta». Ma ora, con loro, Cinecittà arriva in tv. Attraverso questa scena tutta autoriferita: autobiografica, autoironica, autoreferenziale. Con un filo di malinconia-nostalgia di sessantenni alla ricerca del tempo perduto, narratori di litigi, di interpretazioni rocambolesche e di autisti stralunati. Una psicopatologia del cinema italiano svelata in prima persona. Nella quale la Buy, «maestra d’ansia» («mettere ansia ai figli fin da piccoli va bene perché così non vanno da nessuna parte e restano con voi»), potrebbe vincere l’oscar come protagonista femminile, e Carlo Verdone, con le sue turbe ipocondriache, quello da protagonista maschile. Non a caso si scopre che il loro romanticissimo bacio in Maledetto il giorno che ti ho incontrato è, in realtà, frutto di una prova di forza dello stesso Verdone al culmine di 37 esasperanti ciak. Godibile, spassoso, burlesco, ma perfetto per la seconda serata. Anche perché così si potrebbe eliminare il gioco del turpiloquio libero una volta scaduta l’ora della fascia protetta: una banalità.

 

La Verità, 5 ottobre 2019

«Leonardo oggi non starebbe sui social»

Donnaiolo, omosessuale, poliziotto, pugile, professore, commissario e, dal 2 ottobre, Leonardo Da Vinci. Sono alcuni dei ruoli interpretati da Luca Argentero, 41enne torinese, laureato in economia, assurto a notorietà pop con la partecipazione al Grande Fratello del 2003. Chi l’avrebbe detto che un ragazzo di buona famiglia, padre della borghesia piemontese e madre siciliana di estrazione proletaria, sarebbe diventato uno degli attori più eclettici della scena italiana? E che uno così, sempre misurato e attento alle parole, sarebbe finito nell’occhio di una polemica su femminismo e romanticismo? Questo, in realtà, qualcuno poteva dirlo, considerato il conformismo dilagante che Bret Easton Ellis chiama «totalitarismo dei buoni». Ma tant’è. Nella homepage del sito di Argentero si legge: «Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che tu incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Quindi: vivi come credi. Fai cosa ti dice il cuore», parola di sir Charlie Chaplin.

Nel giro di pochi giorni vedremo Argentero nei panni di Leonardo Da Vinci, in quelli di un commissario di polizia e in quelli di sé stesso, narratore a teatro delle vite di tre grandi sportivi. Il progetto futuro più importante, però, è il matrimonio con Cristina Marino, la ragazza di cui si proclama «follemente innamorato». Auguri.

Cominciamo da Io, Leonardo, produzione SkyArte e distribuzione Lucky Red. Protagonista del docufilm è la mente di uno dei più grandi geni della storia. Che cos’è l’incoscienza?

«Accettare un ruolo del genere, un’incoscienza compensata dalla qualità e dall’esperienza di SkyArte nella produzione di questo genere di film. A pensarci bene, un certo grado di azzardo c’è interpretando qualsiasi personaggio. Questo è un prodotto diverso, con elementi di storia e di arte, trattati con il linguaggio della fiction e del documentario. In passato il pubblico ha mostrato di apprezzare questo tipo di racconto. Sono fiducioso».

Come si entra nella mente di Leonardo?

«Studiando, provando a capire chi erano i suoi genitori, com’è cresciuto, com’è diventato quell’uomo lì. Sono le domande che si pone la sceneggiatura che indaga non solo il genio, la vita e le opere, ma tutta l’umanità del protagonista, con i momenti di fragilità e gli incidenti di una persona normale».

Per esempio?

«Il rapporto con il padre, che non gli ha mai detto “ti voglio bene”, e neanche “bravo” in occasione dei primi successi, perché non riconosceva le doti del figlio. La mancanza di una madre, che non ha mai potuto frequentare. Insomma, una giovinezza non proprio felice, che lo ha condizionato per il resto dell’esistenza».

Per indossare i panni del medico ha frequentato un ospedale, per interpretare Tiberio Mitri ha lavorato duro in palestra… Come ci si prepara a essere Leonardo Da Vinci?

«Oltre ai miei approfondimenti, ci ha pensato il regista a fornirmi la documentazione necessaria. Ho lavorato gomito a gomito con Jesus Garces Lambert, un regista di grande sensibilità teatrale che mi ha aiutato a immedesimarmi nel corpo di Leonardo. Infine, c’è stato il lavoro di gruppo con tutto il cast».

Qual è la contemporaneità di Leonardo?

«Forse un invito a rallentare per andare in profondità, un invito a frenare la velocità di questo mondo digitale. Leonardo s’interrogava su tutto e rifuggiva la superficialità. Oggi siamo abituati al mordi e fuggi dei social, ai 140 caratteri di Twitter che, più o meno, corrispondono al titolo di un articolo. Leonardo ci insegna a leggere l’articolo per intero. A chi lo accusava di essere lento rispondeva che non si può mettere fretta a un lavoro fatto bene».

Al cinema questo film sarà un evento speciale come Caravaggio – l’anima e il sangue e Michelangelo – Infinito prima di andare in onda su SkyArte?

«Stavolta la scommessa è restare in sala finché ne avrà la forza».

Si è affermato con un reality show, poi ha recitato nelle serie e nella commedia al cinema: che cosa aggiunge un film d’arte al suo curriculum?

«Sono abbastanza pragmatico. Se sei un buon professionista il lavoro porta lavoro, magari con lo stesso regista che ti ha già apprezzato. Da un set non mi aspetto mai nulla. Quando un film esce al cinema sei già sbilanciato su altri progetti per il fatto che passa molto tempo da quando cominci a lavorarci. Sono molto curioso di vedere se piace».

Una settimana dopo l’uscita di Io, Leonardo, arriverà anche Brave ragazze: che storia è?

«È un film tratto da una storia vera accaduta in Francia negli anni Ottanta. Quattro ragazze che conducono una vita precaria decidono di svoltare rapinando una banca. Per farlo, si travestono da uomini. La cosa funziona e, una alla volta, le banche diventano una decina. Proprio il travestimento le rende imprendibili, finché… Io interpreto il commissario che indaga su questi furti».

In novembre, invece, ripartirà la tournée a teatro di È questa la vita che sognavo da bambino, tre storie di uomini di sport. Walter Bonatti e Alberto Tomba si possono capire, Luisin Malabrocca, la prima maglia nera al Giro d’Italia invece è una scelta bizzarra.

«Non volevo raccontare tre vincenti tradizionali, ma tre modi di intendere la vita e lo sport, qualcosa che ha contribuito alla mia formazione personale. Luisin Malabrocca aveva capito che si può vincere anche senza arrivare sul gradino più alto. Visibilità, premi… Era uno dei migliori passisti del Giro, ma un perdente consapevole che si era accorto di guadagnare di più arrivando ultimo anziché sesto o settimo. In un certo senso, è stato l’inventore del marketing nello sport».

Che discipline ha praticato?

«Il tennis, non con i risultati cui ambivo. In montagna e nello sci invece sono bravino».

Dopo l’ultimo mondiale vinto si è detto che Federica Pellegrini è la più grande atleta italiana di tutti i tempi: per lei?

«Per me come Tomba non c’è nessuno».

Federer o Nadal?

«Federer».

In Italia, Fognini o Berrettini?

«Fognini. Chissenefrega delle intemperanze, un talento cristallino».

Nel calcio, Pelé o Maradona?

«Pelé. Di Maradona non ho condiviso alcune scelte personali».

Garrone o Sorrentino, anche se non sono sportivi?

«Molto difficile scegliere… Da spettatore direi Garrone».

Che cos’è l’eclettismo per lei?

«Più che cambiare ruoli, affrontare più generi, passare dal dramma alla commedia, dalla farsa del film di Natale ad uno storico o d’autore».

Che cos’è il Caffè onlus?

«Un’iniziativa di solidarietà realizzata con alcuni amici dell’università che riprende la tradizione del caffè sospeso napoletano: chi beve un caffè ne paga uno per il cliente successivo, senza sapere chi sarà. Un piccolo gesto di generosità. Ogni settimana scegliamo una onlus diversa da promuovere attraverso la comunicazione dei nostri canali grazie al dono del valore di un caffè».

Le piace la figura dell’attore impegnato o militante?

«Dipende dal tipo di messaggio. La politica non sempre si sposa con l’arte. Personalmente, scelgo di non parlare di politica per non influenzare i ragazzi attraverso parole che possono essere imprudenti. Preferisco che si facciano un’opinione documentandosi sull’attività di chi politica la fa davvero. Se invece parliamo di solidarietà, credo si possa trovare l’occasione per veicolare un messaggio positivo».

Ha condiviso la dedica di Luca Marinelli alle ong della Coppa Volpi?

«Se lui si sentiva, ha fatto bene a farlo. Era il suo spazio e ha espresso il suo pensiero».

Vorrei farle i complimenti per l’intervista a Gq in cui diceva che ci tiene a essere il maschio della coppia e a difendere una certa galanteria dell’uomo.

«Forse i complimenti sono troppo. Sono stato frainteso e, forse, ero realmente fraintendibile. Mi sono già scusato più volte per aver utilizzato in modo improprio alcuni termini».

Per esempio?

«Dicendo che la mia fidanzata è poco femminista non volevo essere irrispettoso nei confronti delle lotte delle donne. Volevo sottolineare che, pur essendo un’ottima imprenditrice, allo stesso tempo le fa piacere prendersi cura di me. Mi spiace se una parte delle donne si è sentita offesa, io non volevo criticare il femminismo, un termine che forse ho usato in modo improprio, ma solo raccontare ciò che amo della donna che è al mio fianco».

Le donne possono non essere femministe?

«Mi astengo da ogni altro commento».

Quanto pensa la stia aiutando avere alle spalle una famiglia tradizionale?

«Moltissimo, non smetto di ringraziare i miei genitori. Anche oggi, se ho un problema, può capitarmi di chiamare mio padre per un suggerimento. Ritengo sia un privilegio poterlo fare».

Parlando dei suoi genitori e del suo lavoro, pensa che la loro diversa estrazione l’abbia aiutata a interpretare ruoli molto differenti tra loro?

«Mi stupisco da solo del paniere di ruoli impersonati. È un viaggio davvero ricco, non so se sia retaggio familiare, del fatto di essere cresciuto in una famiglia nella quale si parlavano dialetti reciprocamente incomprensibili. Questo, forse, mi aiuta negli accenti e nelle parlate. Spero che la varietà interpretativa sia anche merito di una certa affidabilità, della professionalità con la quale rispondo alle opportunità che mi vengono offerte e al rispetto del lavoro degli altri».

È questa la vita che sognava da bambino?

«È molto meglio. Non ricordo esattamente quale vita sognassi, ma quella che faccio mi piace molto».

 

La Verità, 29 settembre 2019

Carlo Delle Piane, il cinema come zona franca

Una pallonata in pieno volto a dieci anni e un incidente automobilistico a 37. Sono stati gli infortuni, i casi della vita, si potrebbe dire, a regalarci Carlo Delle Piane così come lo ricordiamo, ora che ci ha lasciati a causa dei postumi dell’emorragia cerebrale che lo colpì nel 2015. Aveva 83 anni. L’attore più timido e riservato del cinema italiano era anche il più professionalmente longevo, avendo festeggiato all’ultima Mostra del cinema di Pesaro i settant’anni di una carriera ricca di 110 film. Iniziata quando, dodicenne, gli assistenti di Duilio Coletti lo reclutarono alla scuola media Pio XI di Roma, per affidargli il ruolo di Garoffi in Cuore. Era il 1948 e il suo volto era già inconfondibile per il naso scalinato a causa di quella violenta pallonata.

Un ragazzino dalla faccia strana. Brutto o bruttissimo, per dirla tutta. Perfetto per il cinema. Al quale si avviò più che altro «perché era un modo per non andare a scuola e per mettermi qualche soldo in tasca». Figlio di un sarto istrione, che inventava strani infortuni per giustificare i ritardi delle consegne, e di una madre casalinga, allergica a qualsiasi contatto fisico, con una faccia così Carletto non poteva che avviarsi a una luminosa carriera di caratterista. Nel 1951 è già al fianco di Totò in Guardie e ladri, regia di Mario Monicelli e Stefano Vanzina (Steno), nella memorabile scena in cui declama al padre il tema che lo riguarda: «Mio padre non è quello che si può dire un bell’uomo…». Soprattutto è uno che per sfangarla rubacchia «stoffe, orologi, ombrelli e pure copertoni». «Ma perbacco…». Nello stesso anno veste i calzoni corti di Pecorino, figlio di Aldo Fabrizi e Ave Ninchi in La famiglia Passaguai, Fabrizi anche in regia. E la sua interpretazione è così convincente che il nomignolo gli resta a lungo appiccicato. Fin quando, cioè, non sterza in generi e ruoli diversi, al fianco di Alberto Sordi, Vittorio De Sica («mio padre inconsapevole»), ancora Totò e Fabrizi, suo primo vero amico nel mondo del cinema, come lui stesso raccontava nelle poche interviste che concedeva: schivo, fobico, prigioniero di un reticolo di manie igieniste che gli impedivano una vita normale. Gli esplosero nel 1973 dopo quell’incidente d’auto che lo lasciò un mese in coma. Al risveglio dal quale trovò il solo Aldo a rimbrottarlo ai piedi del letto: «A Carlè, ma quanto cazzo dormi?».

Le commedie del dopoguerra, i musicarelli, il neorealismo e l’epoca delle pochade con Edwige Fenech e Renzo Montagnani, Delle Piane attraversò tutte le stagioni cinematografiche da perdente che fa risaltare le doti del protagonista. Fu Pupi Avati in una delle sue più felici intuizioni a trasformare poco alla volta il grande caratterista in attore protagonista. L’outsider diventa vincente. Sempre senza eccessi, recitando per sottrazione, come piaceva a lui, alla maniera di Buster Keaton, il suo modello di riferimento.

La prova generale avvenne in Tutti defunti…tranne i morti, dove Delle Piane fu ancora comprimario. Ma da allora il sodalizio tra il misantropo attore romano e il regista bolognese divenne uno dei più fecondi degli ultimi decenni, consacrato dalla conquista della Coppa Volpi alla Mostra di Venezia del 1986 – superato il favoritissimo Walter Chiari – per l’interpretazione dell’avvocato Santelia, l’enigmatico pokerista di Regalo di Natale. Fu quella la parte più riuscita di tutta la sua filmografia, in gara con il timido professore di Una gita scolastica, di tre anni prima, innamorato di una collega che lo illude senza ricambiarlo. Avati aveva scovato la vena profonda e malinconica di un grande attore che, dopo i musicarelli, si stava rassegnando alle commedie scollacciate con Carmen Villani.

Al risveglio dal coma di quell’incidente l’indole di Carletto s’era fatta più crepuscolare. Non porgeva la mano, non toccava le maniglie delle porte, si sedeva solo su un fazzoletto strategico. Sceglieva i ristoranti in base al bagno pulito e spazioso, «tanto mangio solo patate lesse». Una schiavitù. «Le fobie sono il rovescio della depressione», mi disse una volta Anna Crispino, la cantante napoletana e donna straordinaria che da fan era divenuta sua moglie dopo averlo incontrato alle prove di uno spettacolo. Solo sul set le paranoie lo abbandonavano. Il cinema lo riscattava. Era una zona catartica. Una terapia: «Tutta la mia vita l’ho vissuta diviso tra finzione e realtà. Quando recito divento il personaggio che interpreto. Allora tocco, abbraccio, sono libero».

«Anche se fingeva di averlo superato, in realtà il cruccio per il suo aspetto aveva scavato in lui», riflette Avati. «E certo non lo aiutavano i ruoli in cui gli si chiedeva di far ridere accentuando gli occhi stralunati. Quello con Carlo è stato uno dei rapporti più belli e profondi di tutta la mia vita. Quando presentammo Una gita scolastica a Venezia non ci aspettavamo quell’accoglienza. Poi arrivò il successo di Regalo di Natale. Era stato mio fratello Antonio a impormelo dopo averlo conosciuto in un cinema d’essai, ma io non ero per nulla convinto. Poi ne scoprii l’animo. Un mondo ricchissimo, dietro quei suoi complessi e quel senso di inadeguatezza nel quale mi riconoscevo anch’io. Con lui non servivano tante parole, eppure era il più efficace nel restituire i personaggi che avevo in mente. Dopo un trentennio di film insieme ero sicuro che potesse camminare con le sue gambe: stento a perdonare i miei colleghi che non lo hanno considerato come meritava».

 

La Verità, 25 agosto 2019

Quanti padri ha Il Signor Diavolo di Pupi Avati

Il diavolo, probabilmente. O forse no. Ma chi può dirlo, con quel finale mozzafiato. Oltre quarant’anni dopo La casa delle finestre che ridono, Pupi Avati torna all’horror che gli diede grande successo a inizio carriera. Presentato ieri in contemporanea al cinema Adriano di Roma e all’Anteo di Milano, Il Signor Diavolo uscirà nelle sale il 22 agosto, qualche giorno prima dell’inizio della Mostra del Cinema di Venezia. Con quest’opera il cineasta bolognese chiude un cerchio artistico e tematico, riproponendo il tema prediletto dell’esistenza del male radicato in ogni essere umano. La vicenda ci porta indietro di quasi settant’anni, autunno del 1952, in pieno regno della Democrazia cristiana, Alcide De Gasperi presidente del consiglio, epoca nella quale il regista si muove con gran disinvoltura. «Il maligno è sempre attualissimo, non c’è tecnologia che tenga», sottolinea Avati. «Sebbene non se ne parli, è in me e in te, lo sappiamo bene. Noi pratichiamo il male, godiamo delle sfortune altrui, oppure siamo invidiosi dei successi. Ho visto persone trasformarsi in esseri malefici appena hanno conquistato un briciolo di potere. Io ne sono vittima anche in questo periodo. Non si tratta solo di qualche cattiva azione, di fare lo sgambetto a qualcuno per sostituirsi a lui. C’è qualcosa di più patologico, una presenza congenita, un’ambiguità diffusa. Alla fine, nel mio film, il male è ovunque».

Nei paesi tra la laguna e il Delta del Po lo scandalo per l’omicidio di Emilio, un ragazzo deforme, considerato un indemoniato dal popolino, sta mettendo a rumore la vita locale. Gli echi dell’indagine che punta sugli ambienti della Chiesa sono arrivati fino a Roma e, per tacitare i pettegolezzi, il ministro di Grazia e giustizia incarica un funzionario (Gabriele Lo Giudice) di compiere un’inchiesta parallela. Le elezioni si avvicinano e non si può permettere che i consensi al partito siano erosi da certe fandonie. Tra l’omicida Carlo, anche lui adolescente, e l’amico Paolino, è filato sempre tutto liscio fino alla comparsa proprio di Emilio, figlio unico di una possidente terriera (Chiara Caselli). Secondo le solite maldicenze, sarebbe stato l’indemoniato a sbranare una neonata nella culla (citazione di Rosemary’s Baby?). Quando, per darsi importanza, Paolino lo umilia pubblicamente, Emilio mostra la dentatura ferina. È la conferma. La ripicca si consuma alla cerimonia della Prima comunione quando, al momento di ricevere l’ostia, Emilio spintona Paolino che finisce per calpestare la particola. La celebrazione viene inevitabilmente sospesa e da quel momento inizia una serie di accadimenti inquietanti.

Tratto dal romanzo omonimo scritto dal regista e qui sceneggiato con il figlio Tommaso con un finale diverso, Il Signor Diavolo è un film che condensa tutta la maestria artigianale dei fratelli Pupi e Antonio Avati. I tramonti in laguna, gli scorci cunicolari di Venezia, le penombre delle sacrestie, le suore, le candele, i crocifissi: tutto conferisce sacralità a un racconto dalle tinte fosche. Notevole anche la cura dei dettagli, dalle scenografie ai costumi, dalle occhiaie dei bambini fino alla calza smagliata dell’aristocratica in lutto con veletta e guanti neri. Perfettamente definiti i caratteri dei personaggi in un film corale dal cast più avatiano che mai: la nobildonna Chiara Caselli, il giudice Massimo Bonetti, il sacrestano Gianni Cavina, l’esorcista Alessandro Haber, il parroco Lino Capolicchio, il medico legale Andrea Roncato.

Oltre che un ritorno al genere d’inizio carriera e all’epoca prediletti, quella dell’adolescenza del regista, nel Signor Diavolo c’è anche il ritorno «all’idea del cinema che ci faceva indagare l’altrove», sottolinea Avati, «quel cinema che ci faceva immaginare il mistero, che si avventurava in tempi e luoghi diversi dall’eterno presente, costantemente al centro della produzione attuale centrata solo ed esclusivamente sulla commedia. In America non è così», incalza il regista, «non si ha timore di scandagliare il passato o il futuro e di tuffarsi nei generi. Non a caso negli Stati Uniti amano registi come Ruggero Deodato, Mario Bava o Lucio Fulci più di quanto li stimiamo noi. Senza andare lontano, prima di arrivare a Raicinema, il mio film ha subito il rifiuto di sei distributori, perché tutti si aspettavano la solita commedia. L’unico genere che continuiamo a frequentare In Italia, con cast ripetitivi e una panchina sempre più corta».

Avati ha scelto, invece, una storia controcorrente. Più che un film de paura, come si dice, è un film gotico. Più che un horror, una storia sinistra e ambigua. Soprattutto, una storia inquietante, che lascia aperti tanti interrogativi. «Si usa la definizione di gotico come sinonimo di horror, ma è sbagliato», distingue il regista. «Qualcuno si accontenta degli scricchiolii e delle porte che si aprono da sole, io no. Un’opera è gotica quando ai temi del bene e del male aggiunge la presenza del sacro. Io sono affezionato a queste tematiche. Sono cresciuto nella cultura della favola contadina e in un cristianesimo timoroso, preconciliare. Non come quello di oggi, che si preoccupa solo di essere rassicurante. I peccati sono solo quelli sociali e non a caso i sacerdoti si sono trasformati in psicologi o assistenti sociali. Io sono stato chierichetto quando i preti predicavano dal pulpito in alto, al centro delle chiese, per farsi sentire meglio. E parlavano del peccato, dell’inferno e del diavolo. Oggi non lo fa più nessuno, neanche il Papa. Ma, come dice Charles Baudelaire, la più grande astuzia del diavolo è proprio far credere di non esistere».

Oltre a Baudelaire, Il Signor Diavolo è figlio di tanti padri. «Di Giovannino Guareschi e don Camillo, e del suo piccolo mondo che questa volta ho ambientato in quella parte tra la laguna e il Po. E poi anche della pittura fiamminga. Soprattutto di un quadro in particolare con il quale sono cresciuto: I coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, che campeggiava alle spalle della scrivania prima di mio nonno, poi di mio padre. Se non lo conosce, vada a cercarlo su Google e poi mi dica se, con quella visione, con quei volti sempre davanti, non si cresce immersi nella paura».

 

La Verità, 23 luglio 2019

«Vorrei raccontare su Rai 1 il Medioevo di Dante»

Frati sodomiti e maneggioni neanche fossimo nel presente. Il nome della rosa è di sicuro un grande romanzo, un classico dell’intrigo, una saga gotica a tinte gialle; non a caso Umberto Eco ha attinto da Arthur Conan Doyle e dal suo Sherlock Holmes, cui Guglielmo da Baskerville deve svariate somiglianze (oltre alla citazione del Mastino dei Baskerville). Bene, grande opera: ma sempre un Medioevo cupo, peccaminoso, perverso. In una parola, oscurantista, come lo tratteggiano certi stereotipi storiografici. Sembra sia impossibile raccontare l’Età di mezzo com’era: pur con tutte le sue violenze, ma anche un’epoca di religiosità e misticismo profondi, e fiorente di arti, lettere e architettura.

Anche un regista come Pupi Avati rifiuta l’identificazione pedissequa tra Medioevo e oscurantismo. Magnificat, un film del 1993, gli è valso la conquista di tre premi di medievistica: il Jacques Le Goff, intestato all’eminente storico francese, il premio Cecco d’Ascoli e il premio di archeologia medievale intitolato a Riccardo Francovich. «In quel film, ambientato durante la settimana santa del 926 in un’abbazia dell’Appenino tosco emiliano raccontavo un Medioevo diverso da come lo si vede di solito. C’erano le violenze e le atrocità più tremende – io stesso rappresentavo lo squartamento di una donna – ma non tutto era male, peccato e perversione. Era un film in cui, attraverso i protagonisti, raccontavo un clima, delle tradizioni, una cultura nella quale prevaleva la sacralità della vita». Anche I cavalieri che fecero l’impresa, ambientato nel tredicesimo secolo, evidenzia uno sguardo diverso su quell’epoca… «Era la storia di cinque cavalieri che vanno alla ricerca della Sindone – che per noi rappresenta ciò che è il Gral per il mondo sassone – e la riportano in Occidente».

Una storiografia di parte identifica il Medioevo con «i secoli bui» e ora anche la visione della serie tratta dal libro di Eco lo riproduce acriticamente. Avati confessa di non aver visto i primi episodi: «Ma non ho dubbi che la qualità sia notevole», premette. «Più che altro mi lascia perplesso l’idea del remake di un’opera che si è già imposta nel tempo sia a livello letterario che cinematografico. Riproporla ora nasconde l’ambizione di aggiornarla e rinfrescarla. Da autore ritengo sia un atteggiamento vagamente parassitario, che risponde a calcoli di marketing e di indici di ascolto. Questa considerazione vale per qualsiasi remake di opere prestigiose, un po’ come se volessi rifare 8 e ½… E vale anche per la televisione che si fa acquistando format in Spagna o in Gran Bretagna, un’implicita ammissione che noi italiani abbiamo esaurito la vena creativa. Io non credo sia così».

Avati non condivide invece l’obiezione secondo la quale conviene dare priorità alle storie contemporanee e alla tv del presente: «Anche la storia può trasmettere contenuti validi per l’oggi, la tv didattica aveva i suoi pregi», sottolinea il regista. A patto che, nell’intento di attualizzare a tutti i costi un’epoca lontana, si forzino espressioni e situazioni, come quando in un ammonimento di Guglielmo da Baskerville («Mentre noi sogniamo mondi migliori, governanti ciechi guidano popoli ciechi verso l’abisso») molti hanno visto una lezione per l’Italia governata da Lega e Cinque stelle. «Oggi ci scandalizziamo per la violenza di quei monasteri e delle crociate. Ma se pensiamo alle decapitazioni in diretta dell’Isis, forse potremmo essere meno baldanzosi», osserva Avati. «Nei miei film ho tentato di raccontare il Medioevo per come era: un’epoca pervasa dalla sacralità del tempo e del lavoro, dominata dalla presenza di un Dio che non si manifestava, ma era perennemente atteso. Si viveva con la percezione che tutti sarebbero stati risarciti, nell’aldilà. C’era la condivisione della morte, la promessa di un dialogo, di un rapporto che continuava con i cari scomparsi. Questo tipo di immaginazione, questa relazione trascendente, è durata con la nostra civiltà contadina fino al Dopoguerra. Oggi si è completamente persa, l’immaginazione delle nuove generazioni è tutta definita dalle banche dati di Cupertino e dai guru della Silicon Valley. Oggi non credo che Dante Alighieri riuscirebbe a scrivere La Divina Commedia».

A proposito di Dante, di vena creativa e d’immaginazione, Avati coltiva da molto tempo l’idea di portare al cinema e in televisione la vita del Sommo poeta, detto per inciso, coevo di Guglielmo da Baskerville. Nel 2021 ricorrerà il settimo centenario della morte di Dante. «Nella sua opera abbiamo la visione completa dell’universo medievale», sottolinea il cineasta. «Il sommo bene, il Paradiso, compensa l’opera e la creazione del diavolo di cui oggi, eccetto me, non parla più nessuno, preti e genitori compresi». Tornando a Dante, già nel 2001 Avati ricevette l’incoraggiamento da Giancarlo Leone e Stefano Munafò di Rai Cinema e Rai Fiction, di preparare un film sull’autore della Commedia. La fonte scelta dal regista è Il Trattatello in laude di Dante la prima biografia del Poeta scritta da Giovanni Boccaccio. «Nel 1350, 29 anni dopo la morte di Dante, Boccaccio, che era un dantista e aveva già copiato tre volte La Divina Commedia, ebbe l’incarico da una congregazione di Firenze di portare dieci fiorini a suor Beatrice, figlia del Poeta, monaca a Santo Stefano degli Ulivi di Ravenna. Una volta giunto lì», si appassiona Avati, «con l’aiuto della figlia, Boccaccio incontra Piero Giardini, amico del Poeta, e apprende molte informazioni sulla sua vita, dalla data di nascita al luogo dove si trovano gli ultimi 13 canti del Paradiso, l’abitazione del suo esilio a Ravenna. Ne scaturì il famoso Trattatello al quale dobbiamo molto di ciò che sappiamo oggi su Dante».

Al progetto di Avati, un film per il cinema e una miniserie per la Rai, hanno già dato il patrocinio il Ministero dei Beni e le attività culturali, l’Accademia della Crusca con un suo comitato scientifico, e il comune di Ravenna, con il sindaco Michele De Pascale. «Sono sicuro che quando si avvicinerà la ricorrenza del 2021 gli appetiti delle grandi società di produzione si sveglieranno», prevede il regista. «Nella mia sceneggiatura sono protagonisti due dei tre fondatori, con Francesco Petrarca, della lingua italiana. Mi auguro che, vicino alle biografie di Mia Martini e Giorgio Armani, si trovi spazio anche per Dante Alighieri, l’italiano più noto nel mondo. E che a decidere le assegnazioni non siano solo la potenza di fuoco e la forza contrattuale dei soggetti in campo, ma anche la passione, l’originalità della storia e la cura artigianale nel realizzarla».

La Verità, 8 marzo 2019

«Ho vissuto 8 vite, meglio rimorsi che rimpianti»

Gli abusi sessuali, la tentazione di farsi del male ogni giorno, il nazismo e l’infanzia in Uruguay, il cinema d’autore, David Mamet, le zie zitelle, la lobby dei pedofili, papa Francesco, la dittatura del politicamente corretto, Andy Warhol e David Bowie, C’eravamo tanto amati, i gesuiti di Milano, l’Eliseo laboratorio culturale, gli alcolisti anonimi, la madre scappata che mandava libri, La Recherche a 15 anni, Ce n’est qu’un début, Lucrezia Lante della Rovere e Marina Ripa di Meana, il teatro come catarsi, Nanni Moretti e i morettiani, la difficoltà di stargli vicino, il mio psicanalista diventerà pazzo, la lectio magistralis a Broadway, il Fondo unico per lo spettacolo, Muhammad Ali, Cercare segnali d’amore nell’universo

Luca Barbareschi apre file in continuazione, parla per metafore, fa connessioni, salti logici e temporali. Siamo nel suo ufficio nel labirintico ventre del Teatro Eliseo di Roma che ha acquistato cinque anni fa e di cui è direttore artistico. Ci sono anche Maria Letizia Maffei, capo ufficio stampa del teatro, e Monica Macchioni, responsabile della comunicazione di Barbareschi. «Mi sento un po’ sorvegliato», abbozzo. «Sorvegliano me», replica lui con ragione.

Primo file: Montevideo, Uruguay.

«La storia comincia con una nave di emigrati sulla quale salirono mio padre e mia madre che, come si dice, non venivano da soldi. Mio padre era il capo partigiano degli ebrei di Milano, mia madre un’ebrea tedesca. Pensavano che il nazismo non sarebbe mai finito – e avevano ragione: solo due giorni fa hanno massacrato di botte il capo rabbino di Buenos Aires. Partirono dopo la guerra… Anni dopo, sulla nave mia madre era incinta…».

Lei è del 1956, è un secondo viaggio?

«Esatto. Arrivati in Uruguay, mi ha scodellato. Ho vissuto fino a cinque anni a Montevideo, in una casa divertente, un seminterrato. Sopra abitavano il macellaio kosher e un antiquario ebreo che ci dava l’arredamento. Ma siccome i mobili li vendeva, vedevo la mia cameretta cambiare ogni tre o quattro mesi, un letto a muro, poi un lettone… La casa era in continua trasformazione, probabilmente l’amore per il teatro è nato lì».

Milano, Italia.

«I nazisti venivano a rifugiarsi in Sudamerica. Tornammo a Milano, dove ho vissuto fino a 18 anni, poi in America fino a 25».

Il liceo dei gesuiti Leone XIII.

«Mamma era scappata dopo un anno e mezzo e mio padre era in Medio Oriente a fabbricare aerei. Due zie, sorelle del nonno paterno, mi misero in collegio. Era frequentato dalla Milano bene, c’era un clima cupo, non si sapeva niente… Ero un bambino solo, volevo attenzioni come chiunque a quell’età. Un’età in cui non si ha consapevolezza, non si sa come comportarsi se un prete vuole toccarti. Tendi a fidarti. Per te sono esplorazioni, invece l’adulto sa di abusare. Ancora adesso, oltre i sessanta, vivo con il dubbio di essere colpevole, ogni giorno ho la tentazione di farmi del male».

Ha più rivisto il suo molestatore?

«È morto. Qualche anno fa sono andato a trovare il preside del Leone XIII. È tutto cambiato. Gli ho regalato Michael Kohlhaas, un racconto di Heinrich von Kleist ispirato a un episodio reale del sedicesimo secolo in cui un commerciante di cavalli, vittima di un sopruso di un potente, cerca giustizia per tutta la vita. Non volevo soldi, ma pubbliche scuse. Invece, mi ha minacciato. Per fortuna c’è il Papa».

Il Papa.

«Gesuita anche lui. Ha appena concluso il summit sulla pedofilia. Da qualche parte si deve cominciare, visto che in Italia non si fa niente. Siamo l’unico Paese dove i pedofili non vengono arrestati. La pedofilia è inguaribile, un adulto che violenta un bambino di quattro anni è malato. L’altro giorno in America uno ha chiesto di essere ucciso, perché ha detto che, prima o poi, l’avrebbe rifatto. Le racconto un fatto».

Prego.

«Sono stato a trovare una donna a Tor Bella Monaca. Una che fa le pulizie, semi analfabeta, con sette figli tutti ripetutamente violentati dal padre, che lei ha denunciato, facendolo condannare a 45 anni di galera. Bene: tutti i sette figli sono laureati. “Come ha fatto, signora?”. “Li ho portati tutti i sabati a trovare il padre in carcere. Ha sbagliato, ma un papà ce l’avete: voi potete diventare uomini migliori”. Dalle sventure si deve imparare. Sa che cosa mi ha insegnato Muhammad Ali?».

No.

«Quella mattina Gianni Minà non si era svegliato, così ci sono andato io e gli ho chiesto: “Chi è il campione?”. Per risposta mi ha dato un jeb, piano, al plesso solare. Mi sono afflosciato come un sacco vuoto. “Stand up, stand up”, urlava. Quando mi sono alzato, ha detto: “Now, you are a champion” (Ora tu sei un campione ndr)».

Secondo file: gioventù e militanze varie.

«La politica non mi appassionava. Fino a 15, 16 anni mia madre continuava a mandarmi libri. Era il suo modo di dimostrarmi che mi voleva bene. A 15 anni avevo letto Franz Kafka e Alla ricerca del tempo perduto. Sono cresciuto a pane e Leonardo Sciascia, pane e Claudio Magris, la terza del Corriere…».

Niente politica.

«Nel Movimento studentesco c’erano le ragazze più belle, ma le scarpe inglesi mi hanno tradito. Andai a una manifestazione, San Babila e la Statale sono vicine, indossando l’eskimo. “Ciao, tu sei un compagno? Non ti ho mai visto…”. “Certo”, alzai il pugno, ma lui abbassò gli occhi e vide le Church. Mi menarono. Alla prima vetrina rotta mio padre mi chiuse in casa. Io scandivo “Ce n’est qu’un debut”, “Marx, Lenin, Ho Chi-Minh”, lui urlava: “Chi è Lenin?”. Io zitto, lui giù un ceffone. “Chi è Ho Chi-Min?”. Ancora muto, altro ceffone. Ripetevo slogan da idiota. La contestazione con Mario Capanna era così. Qualche anno fa l’ho incontrato a giocare a golf al Miramonti di Cortina».

Dopo i ceffoni prese altre strade?

«Mi piaceva il motocross. E leggere, come le dicevo. Poi la musica, vede le chitarre, il sax… Sono polistrumentista, mio padre suonava con Franco Cerri e Lelio Luttazzi».

Altro file: l’America. Perché non è rimasto a vivere lì?

«Facevo il cameriere e lavoravo un po’ per la televisione. Interviste, come quella a Cassius Clay… Studiavo all’Actors studio. I docenti erano Dustin Hoffman, Elia Kazan, Shelley Winters, Paul Newman. Per restare in America devi diventare americano nella testa. Io ero troppo europeo. Non riuscivo a integrarmi fino in fondo, fu una decisione sofferta».

Tornato in Italia…

«Sono precipitato in una palude di veti e odi politici, dove l’arte non è contemplata. Le nostre piazze sono piene di monumenti a statisti che nessuno ricorda, mentre ci ricordiamo di Michelangelo e Caravaggio. Eppure continuiamo ad accapigliarci solo per la politica».

È per questo che continua ad andare a Los Angeles?

«La mia società produce spettacoli lì, ma siamo artisti non impiegati. Il 12 febbraio 2006 ho tenuto una Lectio magistralis a Broadway, fu una grande emozione. Ero a New York vent’anni prima da pischello, se me l’avessero detto non ci avrei creduto. C’era Anna Strasberg, Al Pacino stava facendo China doll. Fu commovente».

Lucrezia Lante della Rovere.

«Era una donna talmente bella. Inevitabile l’invidia. Eravamo belli anche insieme, a teatro c’erano le code. La gente vive di fiabe. Certe passioni nascono nei momenti d’infelicità, s’instaurano delle alchimie. Ero il suo pigmalione. Mi era simpatica anche sua madre, Marina Ripa di Meana».

Bel match di caratteri.

«Per lei il teatro era il mondo, prendeva in giro tutti, metteva in piazza il privato. Una volta dovevamo festeggiare il compleanno di Lucrezia. Mi aveva giurato che saremmo stati solo noi quattro, con Carlo (Ripa di Meana ndr). Entrati in salotto eravamo su La vita in diretta di Rai 1. Allora dissi a Marina: “La prossima volta che fai piangere Lucrezia ti meno”. Da quel giorno mi ha ribattezzato “Il ceffo”. Però mi adorava».

Perché finì con Lucrezia? Chissà quante ne avrà combinate.

«No, è che è difficile stare con me. Sono esigente, nessuno ci obbliga a recitare o a suonare, ma se scegli di farlo non ci sono mediazioni. Era vulcanica e umorale, ma non riusciva a reggere le mie pretese. È diventata un’ottima attrice».

Non s’è fatto mancare niente.

«Mai rimpianti, piuttosto rimorsi».

Che si pagano.

«Ho vissuto sette, otto vite meravigliose. Vede quella foto? È il ricordo del concerto dei Velvet Underground al Max’s di Kansas City autografato da Andy Warhol. Ero un ragazzo, ero seduto vicino a David Bowie».

E gli alcolisti anonimi?

«Ti aiutano a condividere il dolore. Ho fatto un periodo di rehab a trent’anni. Andavo avanti indietro da Los Angeles. Gli psichiatri dicono che l’inizio della cura è quando realizzi di avere un problema. Alcol e cocaina pensi di gestirli, sbagliando. Andai da uno psichiatra a Londra, mi diede un libro e iniziò a parlarmi di me. “Qualcuno le ha telefonato, come fa a sapere queste cose?”. “Crede di essere unico? Lei rientra in una casistica molto comune”. Siamo cresciuti con il mito di Jimi Hendrix e James Dean, ma l’eroismo del nostro male non esiste».

Cioè?

«Autocompiacimento: pensiamo che la nostra dannazione sia epica e romantica. I media costruiscono il mito del bello e dannato. Ma morto. Sembra che cantino bene perché sono tormentati. Sono convinto che canterebbero meglio se fossero sani. Soprattutto, canterebbero ancora. Sa qual è il vero problema?».

Sentiamo.

«La mancanza del padre. Non ho ancora trovato uno schema narrativo che spieghi tutto questo meglio della storia di Edipo. Tanto più in Italia, dove ci sono madri possessive e invadenti».

Non il suo caso.

«Io sono uno strano esperimento genetico. Mia moglie dice che impazzirà anche il mio psichiatra. In realtà, mi curo con il teatro, che è una palestra dell’anima che funziona a contrasto. La gente va in palestra per caricarsi di pesi, io a teatro mi alleggerisco l’anima».

Il suo momento di massima popolarità fu con le liti finte di C’eravamo tanto amati?

«Ma no… In televisione ho fatto anche altro… Ricordo un Io contro tutti da Maurizio Costanzo sulla pubblicità nei film. Lo slogan era “non s’interrompe un’emozione”. Citai le campagne pubblicitarie firmate da Woody Allen, Wim Wenders, Federico Fellini. Walter Veltroni replicò che quella era un’emozione commerciale. Ecco: la doppia morale, il conformismo di sinistra, quello per cui oggi uno come Ennio Flaiano, per dire, viene celebrato solo in Svizzera. Al cinema ho fatto Summertime di Massimo Mazzucco che vinse a Venezia come opera prima, Bye Bye Baby di Enrico Oldoini, In nome del popolo sovrano di Luigi Magni…».

Si spalanca la porta ed entrano Vittorio Sgarbi, Sabrina Colle e Stefano Lucchini, potente direttore delle relazioni esterne di Banca Intesa. Loro sono reduci da un dibattito con il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli, io vedo in pericolo la prosecuzione dell’intervista. Invece no, dopo qualche minuto di saluti e di scambio d’informazioni, si congedano.

Nuovo file: Banca Intesa.

«È uno dei principali sponsor dell’Eliseo. Con l’approvazione del ministro Bonisoli stiamo preparando un progetto per Roma. Se fossimo in un Paese normale parlerei di lobby virtuosa, ma qui si ha paura solo a pronunciare la parola. Comunque, è il miglior media desk d’Europa. Abbiamo fatto insieme quattro film e tre fiction. L’Eliseo è un luogo di condivisione, un luogo per la comunità, un pezzo di storia di Roma e della cultura italiana. Negli archivi ho trovato i carteggi tra Harold Pinter e Luchino Visconti, le foto di Igor Stravinski. I politici intelligenti se ne accorgono. In questo studio si sono seduti tre presidenti del consiglio, sono venuti il ministro Giovanni Tria e Matteo Salvini».

Gode di un trattamento di favore? Cosa mi dice dell’avviso di garanzia per traffico di influenze?

«Confido nell’opera della magistratura. Anche perché quale sarebbe il reato? Il fatto che passo il tempo a tentare di convincere i politici che la cultura ha bisogno di finanziamenti? È una cosa quasi comica. L’Eliseo è un Tric, un Teatro di rilevante interesse culturale, ce ne sono 18 in tutta Italia, costa 5,6 milioni all’anno, un terzo del Piccolo di Milano e la metà del Teatro Argentina di Roma. Improvvisamente, dal 2015 il contributo del Fus (Fondo unico dello spettacolo ndr) si è ridotto a un terzo dell’entità precedente, proprio mentre si avvicinava il centenario. Abbiamo parametri di qualità uguali o superiori a quelli di teatri che ricevono ben più di noi. Sono stanco di prendere lezioni di morale da chi paga gli attori in nero. Se la finanza controllasse i borderò di tutti rideremmo parecchio. Sfido i miei colleghi dei teatri lirici e non a un confronto dal vivo in televisione su questi argomenti. Scommetto che nessuno si presenterà».

Quando faceva politica in An si occupava di questi temi. Poi?

«Ci ho creduto, ma poi tutto si è impantanato. Siamo stati commissariati dall’Europa con Mario Monti. Quelli che mi davano lezioni di bon ton democratico, Italo Bocchino e Gianfranco Fini, mi pare abbiano qualche problema. Tornerei domani in politica se esistesse la possibilità di farla sul serio».

Adesso c’è il governo gialloblù.

«Salvini è uno che non vende fumo. Siccome è un campo che non conosce, non parla di cultura e di cinema. L’Eliseo è un laboratorio culturale del Paese. Luoghi come questi sono carne viva, determinano la qualità della convivenza civile. Credo che questo discorso Salvini e il premier Giuseppe Conte lo capiscano molto bene».

Cosa pensa del cambiamento scaturito dal voto del 4 marzo scorso?

«Penso tristemente che non ci sia nessun cambiamento. Ovvio che la politica precedente, da destra a sinistra, ha fallito. Stentiamo ancora a diventare un Paese coeso. Mettiamola in positivo: mi auguro che nei vari settori scelgano per competenza e non per appartenenza».

Paolo Savona, Giovanni Tria non sono competenti?

«Certo che sì. La politica sceglie i politici. Ma poi sono le nomine in Rai, in Finmeccanica, all’Eni a fare la differenza. L’impasse della Tav di questi giorni è ridicola. I grandi progetti devono avere una visione ampia. Che non può essere la decrescita felice, ma la crescita responsabile».

Auspica il ritorno di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi?

«Credo che ci siano delle stagioni. Berlusconi al massimo può fare il padre nobile. Renzi mi piaceva. Se dovessi dare un consiglio non richiesto gli direi di sparire davvero per due anni, senza incancrenirsi in risse e litigi. Se hai fatto degli errori, devi fermarti. Tra due anni sarà ancora giovane».

Fausto Brizzi, da poco scagionato dalle accuse di molestie sessuali, è davvero un genio come ha detto?

«Certo, per questo dirige la divisione cinema dell’Eliseo. È un grande showrunner, uno che corre più di me, un uomo generoso. È la prima volta che lavoro con un regista che mi presenta altri registi, a suo dire migliori di lui».

Il Me too.

«Chiacchiere e distintivo. Peggio: ha fatto del male alle donne qualsiasi molestate nei supermercati o nelle imprese di pulizia. 26 anni fa ho fatto uno spettacolo intitolato Oleanna, scritto da David Mamet. Era la storia di una carezza verbale trasformata in stupro psicologico. Prima c’era stato il caso di Popi Saracino, il professore che secondo l’accusa aveva violentato una sua allieva. Ora, ci sono le rivelazioni a scoppio ritardato: trent’anni fa mi hai palpato una tetta… È una forma d’involuzione del pensiero politicamente corretto. In Gran Bretagna una docente nera, lesbica e di sinistra improvvisamente non può più insegnare in università perché si è espressa contro le associazioni Lgbt. Capisce? Si avvera la profezia di George Orwell secondo la quale avremmo inventato una lingua che ci avrebbe permesso di parlare senza esercitare lo spirito critico».

Ho visto delle foto sue a una serata con Alessandro Baricco, Francesco Piccolo, Ritanna Armeni: era completamente a suo agio?

«Sì, perché ero a casa mia. Il giorno dell’apertura dell’Eliseo, cinque anni fa, c’erano Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Silvio Orlando e tutto il cinema d’autore. Avrei potuto fare lo spavaldo oppure dire: “Da oggi c’è un posto non dogmatico, questa è casa vostra”, come ho fatto. È venuto giù il teatro… Io guardo al prodotto non per chi votano i registi. Quelli che danno lezioni sul cinema d’autore spesso fanno il procedimento inverso».

La solita doppia morale?

«Se Moretti fa un bel film lo applaudo. Il guaio, semmai, sono i morettiani e gli imitatori. Se lo fa Barbareschi, è sempre un film di Barbareschi. Per capirci, senza far paragoni, non giudico il Faust in base al fatto che Wolfgang Amadeus Mozart era coprofilo. Tra 50 anni potrebbero distruggere quello che ho fatto come artista in base alle mie debolezze e farla pagare ai miei figli».

Si fa o no la serie tv su Calciopoli?

«Sì, per Sky, sarà pronta tra un anno. Ma non sarà su Luciano Moggi, scudetti e partite comprate, come la volevo. Sarà sui procuratori. Le società incombono, la Fiat e non solo. Mi accontento. Siamo un Paese che non vuole diventare adulto».

Il suo romanzo autobiografico s’intitola Cercando segnali d’amore nell’universo: vasto programma. Cercarlo nei posti giusti a portata di mano?

«Infatti, l’ho trovato in mia moglie che è la donna della mia vita. Solo una calabrese può stare vicino a un ebreo come me. Donna straordinaria e tostissima».

Attore, regista e produttore teatrale, televisivo e cinematografico, in Italia e negli Stati Uniti, direttore artistico… chi è Luca Barbareschi?

«Come dice Walt Whitman: “Sono vasto, contengo moltitudini”. Oppure, altra definizione, ognuno ha la testa bacata a modo suo».

 

La Verità, 3 marzo 2019

La prima pietra infrange l’ardua integrazione

A un certo punto, dopo ore di inutili ed estenuanti trattative nelle quali ha dato fondo a tutte le sue notevoli risorse di pazienza e di mediazione, pure il preside Ottaviani (Corrado Guzzanti) sbotta: «Mi avete già fatto togliere tutti i crocifissi dalla scuola perché vi offendevano, cos’altro volete da me?». Raramente un film ha avuto una tempistica così felice. Essendo una commedia, La prima pietra di Rolando Ravello (prodotta da Domenico Procacci per Warner Bros. Entertainment Italia e Fandango) uscita giovedì nelle sale, dovrebbe farci ridere e sorridere sui tanti casi di integrazione etnica e religiosa mal riuscita di cui parla la cronaca di questi giorni. In realtà, dietro le situazioni grottesche e i dialoghi caustici al punto giusto, alla fine, si sorride amaro perché il film di Ravello ha il pregio di prendere sul serio la questione e di non sbrigarla con facili scorciatoie. Improponibili se si pensa ai conflitti quotidiani nelle nostre scuole causati da insegnanti particolarmente zelanti nel decidere la cancellazione di Gesù nelle canzoni delle recite prenatalizie. O se si pensa alla querelle moralistica suscitata dalla proposta dell’ultima star dell’autodafé cattolico, il padovano attivista di cooperative sociali don Luca Favarin, che ha esortato i cristiani a eliminare i presepi per coerenza con la mancata accoglienza di poveri e migranti. In sostanza, prima ci si proclama pro immigrati poi si può allestire la Natività di Gesù Bambino in tinello. È così, per certi preti moderni anche nella zazzera, la morale precede la fede. Dal canto suo, la commedia di Ravello ha la freschezza per bucare certe nebbie clericali e andare dritta al sodo. Mostrando che, pur con tutti i buoni propositi di accoglienza e tolleranza, mettere d’accordo le varie confessioni anche sotto Natale è tutt’altro che facile. E che, di conseguenza, l’anelata integrazione inclusiva è una chimera.

Mentre il preside si affanna ad allestire l’armoniosa recita che rappresenti leggende musulmane, parabole ebraiche, vangelo cattolico, credenze buddhiste e hindu, il piccolo musulmano Samir scaglia la prima pietra, di evangelica memoria, contro la finestra della scuola, mandando in frantumi oltre al vetro, l’idillio interreligioso di angeli, imam e cori celestiali. Non bastasse, il sasso carambola sulla coppia di bidelli (Valerio Aprea e Iaia Forte), costretti alle cure in Pronto soccorso. Privati dell’attenzione dell’appassionato regista distolto dall’increscioso episodio, le prove dello spettacolo procedono con rattoppi al copione e agli abiti di scena grazie agli straordinari della segretaria (Caterina Bertone), foraggiati di tasca propria dallo stesso Ottaviani. Il quale però ora, deve sciogliere il nodo del risarcimento dei danni provocati da Samir e mai intreccio si rivelerà più inestricabile. Nel suo ufficio si riuniscono l’altera madre del lanciatore (Kasia Smutniak, velata ma ben truccata), la caustica nonna (Serra Yilmaz, habitué dei film di Ferzan Ozpetek), i piagnucolosi bidelli che si scopriranno di origine ebraica, e la maestra di Samir buddhista e vegana (Lucia Mascino). Il tentativo di conciliazione va in frantumi come un bicchiere precipitato sul pavimento e relative schegge impazzite in tutte le direzioni.

Tratta da un testo teatrale di Stefano Massini, la storia – una versione scolastica del noto Carnage di Roman Polanski ambientato a Brooklyn – si sviluppa attraverso dialoghi veloci e battibecchi tra gli esponenti delle diverse fedi, rappresentati in modo credibile anche se al limite del grottesco, come il registro della commedia richiede. Inflessibile nel suo orgoglio, la componente islamica rifiuta di provvedere al risarcimento e anzi ottiene per Samir il ruolo centrale della recita, concessogli nella speranza, vana, di convincerli a pagare il danno. I lamentosi bidelli ebrei continuano a covare il loro rancore, aspettando l’occasione buona per la vendetta. La maestra vegana viaggia su nuvole di armonie inesistenti, vagheggiando karma positivi plasticamente illusori, salvo sclerare al momento sbagliato. Insomma, un perfetto dialogo impazzito e tra sordi. Al quale tenta invano di dare compiutezza il preside cattolico solo perché interessato alla riuscita della recita. Quanto possibile lo capiranno gli spettatori.

Alla terza prova da regista, oltre a quella da sceneggiatore dell’apprezzato Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Ravello ha il merito di dirigere un film attualissimo e che riguarda la vita di tutti. Di farlo senza sconti e, soprattutto, senza appiattirsi sulla narrazione dominante o fornire risposte di comodo. Per trovare quelle c’è ancora un po’ di strada da fare.

 

La Verità, 8 dicembre 2018