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«Auspico che i nuovi vertici Rai siano ambiziosi»

Il regista Pupi Avati è di nuovo nei cinema con il suo ultimo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario.

Pupi Avati, che cos’è il pupiavatismo?

«È un sostantivo che mi lusinga perché sintetizza un approccio personale, teso a guardare oltre il modo di fare cinema più in voga. Cioè, essere completamente anacronistici, fuori sync rispetto alle mode, partendo dai cast e proseguendo con la scelta di storie che raccontano un’Italia provinciale, anche minima, sempre più marginalizzata».

Il modo di fare i casting è il marchio del suo cinema alternativo?

«È un cinema che rinuncia volutamente alle star del momento per cercare gli interpreti dove nessuno li cerca più o li ha mai cercati, offrendo delle opportunità rimosse a causa delle atroci regole dello star system. E decontestualizzando attori che magari, in passato, hanno raggiunto il successo in un contesto lontano da quello in cui li propongo io».

Parlando di star system, in Italia il cinema è fatto da dieci attori e dieci attrici?

«C’è una panchina molto corta alla quale si ricorre doverosamente. Quindi ho sempre il compito di convincere la committenza, i distributori, a credere in scelte molto stravaganti che vanno da Katia Ricciarelli a Renato Pozzetto a Edwige Fenech».

I suoi casting sono l’invenzione di debuttanti, la reinvenzione dei dimenticati, lo sdoganamento degli etichettati. Anche così si esprime la sua visionarietà?

«Non è solo una provocazione, ma appartiene alla dilatazione dello sguardo che va oltre alla panchina corta e al ventaglio stretto dei generi cinematografici, che invece sono i più variabili. Tranne il western, li ho frequentati tutti. Mentre molti miei colleghi sono diventati il genere di loro stessi, io non disdegno di fare un film horror, anzi, mi è necessario. O un film storico come Dante…».

Il pupiavatismo finirà nei vocabolari?

«Chissà. È un augurio, un auspicio, ma io non ci sarò più se e quando accadrà. La cosa che più mi spiace è non essere diventato modello, non aver ispirato nessuno a seguirmi. Se pensa che, per esempio, due cantanti come Cesare Cremonini e Lodo Guenzi, che si sono rivelati attori straordinari, non sono corteggiati da altri colleghi, può comprendere il mio rammarico. Resterò il solo ad aver avuto questo tipo di approccio».

Non tutti hanno la capacità di trasfigurare gli interpreti.

«Mi auguro che a Edwige Fenech, di cui tutti parlano bene, vengano offerte nuove opportunità».

Si aspettava le tante recensioni favorevoli a La quattordicesima domenica del tempo ordinario o c’è stata una svolta nell’orientamento dei critici?

«Mi aspettavo che i recensori cattolici non fossero gli unici a sollevare obiezioni riguardo a un film così pieno di valori. Le racconto un episodio. A un certo punto nel film viene diagnosticato alla moglie del giovane interpretato da Guenzi un carcinoma ovarico. Allora lui, di fronte al pessimismo dell’oncologo, per prima cosa si reca in chiesa a pregare. A un incontro pubblico alla Sapienza davanti a 500 persone ho chiesto chi ricordasse un protagonista che di fronte a una difficoltà va in una chiesa. Uno ha alzato la mano e ha detto: <Me lo ricordo nei film di don Camillo>».

Roba di oltre mezzo secolo fa.

«Per trovare qualcuno che di fronte a una brutta notizia si rivolge al trascendente dobbiamo andare indietro cinquant’anni. Eppure queste persone esistono, ma il cinema laicizzato non le considera».

Per Dante non ha avuto neanche una nomination ai David di Donatello, per La quattordicesima domenica ne avrà?

«Non credo. Finché non cambiano quelli che gestiscono il potere del cinema italiano fortemente ideologizzato io non esisto, non ci sono proprio. Ma questo fatto mi dà una forza enorme. Essere emarginato da persone che non stimi dà grande forza. Tant’è vero che sono già qui a scrivere il prossimo film».

Ce lo anticipa?

«È un film del genere gotico che ho già frequentato in passato e che mi diverte molto. A 84 anni ho ancora dei committenti perché continuo ad avere un pubblico».

È il seguito di Signor Diavolo?

«Non sarà il seguito. È un film per metà ambientato in America e per metà a Comacchio. S’intitola L’orto americano».

Dice che non viene premiato, ma Renato Pozzetto vinse per l’interpretazione in Lei mi parla ancora.

«E mi fece molto piacere. Ma anche i premi ai miei film non sono mai a me…».

Al ricevimento al Quirinale in occasione degli ultimi David, tra gli addetti ai lavori si è diffuso l’allarme che ora la destra voglia prendersi il cinema. Risulta anche a lei?

«Non saprei in che modo e con chi. Se dovessi fare una lista di colleghi con un minimo di notorietà riconducibili all’area della destra non saprei che nomi fare. Perciò direi a questi signori di tranquillizzarsi. Mi ero illuso che la vittoria della destra avrebbe suggerito a chi può farlo di cambiare le cose soprattutto nel servizio pubblico della televisione italiana, invece…».

Un argomento che le sta a cuore come aveva evidenziato già due anni fa, nel momento acuto della pandemia.

«Scrissi una lettera ai maggiori quotidiani nazionali, invitando a superare la regola del mercato per la quale i numeri dell’audience danno la qualità dei programmi, il che non è assolutamente vero. Proponevo che la terza rete fosse svuotata dalla pubblicità e convertita alla cultura. Ricevetti numerosi messaggi di apprezzamento. Perciò, ora pensavo che la destra al comando in Rai avrebbe intrapreso questa missione, ideando un progetto ambizioso che sapesse inventare programmi innovativi. Anche lasciare il dibattito politico in mano alla tv di Urbano Cairo è un errore».

Lei parla al passato, ma la nuova governance Rai si è insediata da due giorni.

«È vero. Ma gli unici rumors riguardano la sostituzione di Fabio Fazio con Massimo Giletti o di Flavio Insinna con Pino Insegno…».

Ci si fermerà a questo?

«Le faccio una rivelazione. Ho raggruppato un nucleo di intellettuali autorevolissimi e non allineati, con attività consolidate e non bisognosi di alcunché, disposti ad aiutare i governanti competenti a individuare persone e temi per gestire in modo illuminato la tv pubblica. Bene: questa proposta non ha avuto riscontri».

Ultimamente l’abbiamo vista spesso in televisione: la miglior accoglienza al suo film può esser dovuta anche all’ospitata a Che tempo che fa?

«Fazio garantisce vendita di libri e presenze al cinema, altri programmi di maggior ascolto no. Su Rai 3 assicurava un’attenzione che altrimenti non si aveva. Non so se influisca sulla critica. E non so come andrà a Discovery. Ma sono convinto che lasciarlo andar via sia stato un errore. Sarebbe stata una dimostrazione di forza tenerlo».

Ma l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes non l’ha avuta.

«Lo so bene».

 

La Verità, 17 maggio 2023

«I diritti Lgbtq funzionano nel mondo convenzionale»

S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di  Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori. È un’autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo) di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, i film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.

Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?

«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia».

Che cos’è per lei la libertà?

«Non andare controcorrente, perché vorrebbe dire lottare scientemente contro qualcosa o qualcuno. È seguire con una certa tranquillità i propri pensieri e le proprie convinzioni, senza guardarsi troppo in giro. La libertà te la fai tu, è dentro di te…».

Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?

«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più raffinato».

Se avendo lavorato solo dieci anni nel cinema le danno il David alla carriera vuol dire che ha seminato bene.

«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo molto felice per il nostro cinema e non certo per merito mio. C’erano tanti talenti con i quali lavorare era gratificante. Se avessi continuato oltre quei dieci anni, considerati i cambiamenti, sarebbe stato diverso. Forse per la forza della televisione e per l’importanza delle nuove piattaforme il cinema ha perso un po’ di fascino».

Suo nonno fondò la Mostra di Venezia, suo padre vinse l’Oscar con Ladri di biciclette, ma la vera amante del cinema fu lei: perché sua madre affidò a suo fratello la direzione della Euro International?

«Mio nonno fondò la Mostra perché voleva attrarre più turisti all’Hotel Excelsior e al Des Bains del Lido. Mio padre produsse Ladri di biciclette perché cedette al fascino di Vittorio De Sica. Quando la acquistarono mia madre e mia zia, la Euro era solo una società di distribuzione, avrebbero ugualmente potuto comprare un’azienda che produceva yogurt. L’unica vera appassionata di quest’arte ero io».

E come mai non le affidarono le redini dell’azienda?

«Io volevo fare dei film, non occuparmi dei conti e mia madre pensò a mio fratello Bino. Mi opposi perché non lo ritenevo adatto. Il cinema era un mondo pericoloso per un ragazzo così giovane. Infatti, dopo un po’ tutto esplose e io me ne andai».

Non prima di conquistare l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?

«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista».

Un vostro legale, Carlo Majno, parlando di suo nonno, «un incrocio tra Giulio Andreotti e John Ford», disse che la sua famiglia era «distaccata dalla realtà in modo esagerato»: un’alterigia che ha contagiato anche lei?

«Majno descriveva l’incapacità di mia madre di affrontare la quotidianità. Non credo ci sia alterigia in me, mi pare che il libro racconti la vita di una donna con i piedi per terra».

Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo», eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini…

«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori».

Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?

«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».

Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?

«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno».

Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.

«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me. Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente».

Nemmeno il Leone d’oro del 1967 a Bella di giorno convinse sua madre a darle pieni poteri?

«Credo che nemmeno seppe quello che era accaduto. L’espressione di Majno sul distacco di mia madre nacque proprio in quell’occasione».

Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?

«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui».

Oggi il cinema è più libero di allora?

«Allora c’era la censura e dovevamo tagliare delle scene, oggi non c’è. I registi sono davvero liberi se sono anche produttori. Poi molti lavorano con i fondi pubblici».

Prevalgono un certo conformismo e certi clan?

«Esatto. Negli anni Trenta c’era più libertà, la moglie di Franklin Delano Roosevelt frequentava un’amica. Oggi vedo più conformismo: questo non si può dire, questo non si può fare».

Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?

«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse».

Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?

«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia».

Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?

«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso».

E di Andy Warhol?

«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».

Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?

«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti».

A quale regista o produttore di oggi si sente affine?

«Forse ad Andrea Occhipinti e Domenico Procacci di Fandango».

Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?

«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».

Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?

«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni».

Non la pensano così i militanti del Metoo.

«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Anche gli amici sono ognuno diverso. Da ragazza c’era Franco Rossellini, poi mia grande amica è stata Jeanne Moreau e ancora Ljuba Rizzoli. Non conoscevo Sara D’Ascenzo che mi ha proposto il libro e così è diventata un’amica. Quando sei nel bisogno, gli amici sanno esserti vicino senza fartelo pesare. Sono anche quelli con i quali condividi le passioni».

Benedetta Gardona con cui convive è cattolica e devota…

«Lo era di più fino a quando una sua amica d’infanzia è morta di tumore, e questo le ha fatto un po’ perdere la fede».

Lei ne è mai stata sfiorata?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa non formale. Pensi che quando avevo 15 anni mia madre si accorse che non avevo ancora fatto la prima comunione. Ora che non sono in salute alcune domande me le pongo, ma non sono riuscita a darmi delle risposte».

L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora?

«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».

 

La Verità, 6 maggio 2023

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023

«Zelensky a Sanremo? Affronto alla democrazia»

Nella sua casa tra gli ulivi sopra Velletri, Aurelio Picca sta lavorando al nuovo romanzo. «Un libro coraggioso e audace, come sempre», dice. Del resto, coraggio e audacia gli appartengono, come conferma anche in questa intervista.

Ha visto la serie Call my agent?

«Ho visto qualcosa. C’era Pierfrancesco Favino che faceva Che Guevara. È un bravo caratterista…».

Perché secondo lei gli addetti ai lavori sono in estasi?

«Evidentemente amano questa autofiction, una finzione nella quale i protagonisti sono personaggi reali. Stefano Accorsi fa Accorsi, Paola Cortellesi fa sé stessa e così tutti gli altri. Sembra una duplicazione, una bolla narrativa. Siccome oggi la commedia prende un campo ristretto, come se non si potesse raccontare in modo comico la realtà, ci s’inventa questa escrescenza della commedia. Che, alla fine, è tragica. Il gioco dell’apparire che sostituisce l’incapacità a raccontare la realtà è, a suo modo, tragico».

La gente già va poco al cinema per non vedere i soliti attori, ora si appassiona all’ombelico del cinema, pur raccontato in modo brillante?

«Dovrebbe appassionarsi alle storie di questi grandi attori che fanno sempre più o meno la stessa parte? Qualche tempo fa, vedendo Il bambino nascosto di Roberto Andò, mi sono imbattuto in un Silvio Orlando inedito, un ruolo totalmente inaspettato. Se si esce dalla bolla, anche l’attore diventato seriale può sorprendere. Non così se si resta nella comitiva in gita dei produttori, nel giro dei casinò delle produzioni come mi sembra sia questa serie».

Il cinema sul cinema è l’ombelico del cinema?

«Nessuno rischia più sulle storie psicopatiche e apocalittiche, le storie dell’orrore e della fine del mondo. Che sono le storie della realtà. Nessuno racconta la fine del mondo antico mentre noi contemporanei camminiamo su una strettoia. Vorrei vedere un grande film sulla ricerca di assoluto. Con i teenager che non guardano la tv e puntano al sublime. Perché non alzare il tiro e provare a vedere come si abbracciano i ragazzi, come cercano l’assoluto, l’utopia?».

Il cinema è prigioniero dell’autoreferenzialità come la letteratura?

«Tutto è prigioniero, anche le arti visive, il teatro… Se proponessi al Franco Parenti ogni sera un monologo a canovaccio di 50 minuti come mi accoglierebbero? Si preferisce l’ennesima caricatura di Mussolini… Adesso va molto il rapimento di Emanuela Orlandi, rispolverano anche quello di Mirella Gregori… Su quello che accade oggi fanno la serie tra una settimana, e chi se ne frega del linguaggio cinematografico e della profondità. Vendiamo prodotti da supermercato. Anche nell’arte si privilegia la cronaca bassa».

Agenti, critici, premi, festival, cordate: tutto nello schema dell’amichettismo?

«Sì, ma niente formule però. Gli editori scelgono sempre al ribasso, autori da 500 parole. Finalmente si stanno rivalutando i provinciali, Luciano Bianciardi, Curzio Malaparte… Qualche anno fa se ne parlavi ti beccavi del fascista come successe a me. Il problema è nato con Italo Calvino che per pubblicare Una questione privata ha aspettato che Fenoglio fosse morto. Si è appiattita la letteratura sulla comunicazione…».

Ci si parla addosso, si rincorre la propria coda?

«Si è raschiato il fondo e non c’è più niente. Se anche nelle antologie scolastiche non ci sono gli autori importanti del Novecento ma quelli che hanno scritto due libri, è inevitabile che la scrittura si fermi a 1000 parole, quando va bene. Anche la scuola è motore di un meccanismo bloccato».

Questo ripiegamento è dettato dalla rivoluzione digitale?

«Viene dall’industria culturale degli anni Sessanta e Settanta che, in nome della rivoluzione, ha distrutto il romanzo. Era uno degli obiettivi della neoavanguardia perché alla rivoluzione non servivano i romanzi. L’esempio più pertinente – lo dico con molto rispetto perché sto parlando di un grande storico medievale e di un grande semiologo – è Umberto Eco. Anche lui ha lavorato per la distruzione del romanzo perché era un teorico della neoavanguardia, come il Gruppo ’63. Poi però ha fatto Il nome della rosa, il grande romanzo comunicativo che ha venduto milioni di copie».

L’autofiction e l’appiattimento sulla comunicazione vengono da lontano.

«Negli anni Novanta alcuni nuovi narratori e poeti hanno ricominciato, tentando di recuperare il romanzo come arte che inventa i mondi. Ma l’industria gioca al ribasso per accontentare il lettore dominato dai mass media e infarcito di comunicazione e informazione».

Ora questo processo è aggravato dai social network?

«È un processo inestricabile. La virtualità non ha allontanato o migliorato l’orrore della realtà, è proprio un altro modo di viverla. La virtualità ha decomposto i corpi, ormai incapaci di vera leggerezza e vera pesantezza. È tutto simulazione».

Il lavoro è postare dei selfie dal salotto di casa.

«Penso agli operai comunisti che si alzavano alle 4 del mattino per andare a lavorare e tornavano alla sera, orgogliosi. In pochi anni siamo passati dal lavoro con il corpo alla cancellazione del corpo».

Che però è molto esibito.

«Un corpo che si vede ma che non si incontra e non si tocca, non è un corpo, ma una sua proiezione. È la stessa differenza che passa tra fare l’amore sul serio e vedere pornografia in rete. La virtualità è tutta pornografia perché si vende una finzione di sensualità e di erotismo che non ha la controprova dell’incontro».

Perché Chiara Ferragni è attesa al Festival di Sanremo come una regina?

«Perché siamo stupidi. Sono convinto che la stragrande maggioranza degli italiani guardi queste cose ma ci rida su, come in una commedia. Purtroppo, nella realtà siamo soffocati dall’orrore per il cinismo montante, la disumanità nei rapporti, l’incapacità di parlarci».

Cosa pensa del fatto che Ferragni ha annunciato di devolvere il cachet del Festival a un’associazione per la difesa delle donne?

«È detestabile che si annunci pubblicamente la beneficenza per accrescere la propria immagine».

Sono le regole della comunicazione?

«Ovviamente, i soldi si devolvono alle donne. Ormai, anche la donna fragile è un cliché esibizionista. Siamo nel post-femminismo dell’esibizione. Perché le donne devono combattere da sole e non insieme agli uomini? La donna fragile è un nuovo stadio dell’evoluzione della specie».

La notizia delle griffe scelte da Ferragni per l’Ariston è stata data al Tg1.

«Siamo in una fase di deragliamento che temo incontrollabile. O c’è un’intenzione precisa per non parlare dell’apocalisse che si avvicina, oppure la visibilità è diventata scientificamente il nuovo idolo e quindi è ancora più folle. Come in una commedia dell’assurdo di Ionesco».

Sempre al crocevia tra moda e spettacolo, che adesso si chiamano fashion e show, cosa pensa del fatto che per promuovere il nuovo disco i Måneskin hanno simulato un matrimonio?

«Io credo nel matrimonio assoluto, i giochetti non li apprezzo. Quando facevano i baffi alla Gioconda m’incazzavo. Adesso trovo irritante quella pubblicità con l’Ultima cena nella quale Gesù è una mezza femminuccia. Non accetto che una grande cultura sia spazzata via in un gioco di barzellette».

Ma nel rock si è sempre dissacrato…

«Certo, ma qui l’operazione è sottile. Prendiamo queste parole, glamour, fashion, show… Il problema non è che siano declinate in inglese, che è già grave, ma che il loro scintillio annulla la potenza del corpo, la sua realtà».

Lo scintillio sostituisce la carne?

«Esattamente, anche nella malattia o nella sanità. Sostituisce la corporeità in tutte le sue manifestazioni».

È il trionfo dell’immagine?

«Siamo oltre l’immagine, siamo alle ombre cinesi. L’immagine erano anche quelle degli anni Settanta, c’erano le icone… Questa è la frutta caricata di potassio, la carne chimica…».

La barzelletta compensa i limiti artistici?

«Questo non lo so, anche se non trovo grande musica. Lo dico da appassionato di Peter Gabriel, da uno che a 14 anni amava Jumpin’ Jack Flash, tutta la musica italiana anni Sessanta, e poi il travestitismo che però aveva sotto il corpo, dai Roxy Music a Lou Reed a David Bowie. La nudità di Iggy Pop era funzionale alla musica, il corpo era uno strumento, anzi, lo strumento principale».

Perché i Måneskin non si possono criticare?

«Perché sono il punto più alto della vendibilità, della vendibilità facile».

Quest’anno tornano a Sanremo per la terza volta, invece Achille Lauro sarà presente per il quinto anno di fila. È lui il volto identitario della manifestazione più importante della Rai?

«Alcuni suoi pezzi potevano pure piacermi… Il fatto è che si va per annate, ci sono pure Al Bano, Massimo Ranieri e il solito Gianni Morandi».

Questioni di audience e di target?

«Certo. I Måneskin e Achille Lauro sono la pseudo avanguardia, in realtà sono retroguardia perché la trasgressione c’è già stata negli anni Settanta. Poi ci sono i vecchi dromedari e la terra di mezzo. È una parcellizzazione in tante minoranze, come avviene per i diritti civili, dei gay, dei trans, delle donne… La parcellizzazione dei diritti sembra un’avanzata di civiltà, invece produce frammentazione in tante minoranze».

Che cosa indica il fatto che alle ultime sfilate Giorgio Armani ha scelto di tornare al classico facendo indossare i suoi capi a coppie composte da un uomo e una donna?

«È stato un gran signore. Il portabandiera di una nuova avanguardia che si oppone a questa deriva. Da stilista ha dato prova di stile. Anzi, di eleganza: c’è differenza… L’eleganza è naturale, lo stile si acquisisce con gli abiti e il portamento. I veri eleganti sono i bambini e gli animali, perché si muovono con grazia e libertà. Armani ha smesso i panni dello stilista e ha indossato quelli dell’uomo elegante».

Che cosa pensa del fatto che Volodymyr Zelensky sarà ospite in videocollegamento della serata finale del Festival?

«È un’idea pessima. Un una mossa da croupier del casinò. Una politicizzazione estrema».

La maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina eppure si offre a Zelensky la vetrina di maggior ascolto della televisione italiana.

«Infatti, è un affronto alla democrazia. Un inedito. Qualcosa che sa di dittatura mediatica».

I Giganti cantavano: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», stavolta si mettono i cannoni tra i fiori di Sanremo.

«C’è bisogno della guerra tra le canzonette? La decomposizione dei corpi, l’assenza di incontro tra le persone, la vittoria delle ombre cinesi e la parcellizzazione dei diritti non sono già una guerra?».

 

La Verità, 28 gennaio 2023

 

Una serie sull’ombelico del cinema italiano

Fazismo e Vanity Fair, che sono la stessa cosa; veltronismo e festival del cinema, idem: Call my agent – Italia, remake della francese Dix pour cent, diramata da Netflix e ambientata in un’agenzia cinematografica di promozione dei migliori attori e artisti del bigoncio, è la nuova serie che piace alla gente che piace. Sono tutti in visibilio, gli addetti ai lavori, perché funzionano la sceneggiatura, la regia, il cast farcito di guest star, da Paola Cortellesi a Pierfrancesco Favino, da Stefano Accorsi a Paolo Sorrentino, ognuno nella parte di sé stesso, ognuno che – senza prevaricare i veri protagonisti del racconto che sono, appunto, i loro agenti – dà il titolo all’episodio. Prodotta da Sky studios e Palomar, con la regia di Luca Ribuoli e la sceneggiatura di Lisa Nur Sultan, Call my agent – Italia ha entusiasmato i critici al completo. E se qualcuno (Marco Giusti) ha pignoleggiato sulla costruzione della storia, radicata nella Roma cinematografica e nel quartiere Prati delle sedi Rai, è perché alla fine Sky non poteva troppo indugiare sul contesto logistico, geografico, infine culturale di quel demi-monde che ha nella tv pubblica il suo epicentro. Insomma, l’agenzia Cma, dove Maurizio Lastrico (lo sfigato Gabriele), Sara Drago (l’isterica lesbica), Michele Di Mauro (lo squalo) e Marzia Ubaldi (la saggia) si affannano tra casting, set, premi e paranoie delle star sarebbe poco credibile perché poco incentrata nel suo proprio brodo di coltura. L’obiezione è sensata e coglie, forse, il tentativo di sottrarsi agli effetti nefasti dell’autoreferenzialità. Missione impossibile.

Qualche giorno fa, rispondendo a un lettore che non trovava attraente nessun film italiano in programmazione, Daniele Luttazzi scriveva: «Il cinema italiano deve spiegare, a questo punto, perché il pubblico dovrebbe uscire di casa per andare a vedere i film della solita compagnia di giro. Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, per dire, li ha già visti: la loro gamma emotiva quella è, da anni non hanno altro da aggiungere». Dieci attori e dieci attrici, più o meno, sempre gli stessi, fanno tutto o quasi (tra le poche eccezioni, Pupi Avati che gli attori li sceglie a modo suo e guarda caso entra di rado nell’italica premiopoli). Se già è asfissiante al cinema questa compagnia di giro, figurarsi quanto possono esserlo le paturnie dei suoi componenti nel backstage degli agenti. Non basta certo l’autoironia a rompere la gabbia del narcisismo. Ciò detto, la serie è godibile e furba. Ma il momento migliore è la tirata di Sorrentino sull’«entusiasmo immotivato, il sentimento più orrendo dell’essere umano»: sarà perché sembra presa dalla vita vera?

 

La Verità, 24 gennaio 2023

La più bella del mondo che ci fece fare il boom

Cinema, arte e piedi per terra. Parafrasando la triade del titolo del suo maggior successo, ci si approssima alla vera indole di Luigia Lollobrigida, ribattezzata Gina per motivi artistici e nata a Subiaco nel luglio del 1927. «La Bersagliera ci ha lasciato», hanno annunciato il figlio Milko Skofic e il nipote Dimitri. Una delle più grandi attrici del cinema italiano è morta ieri nella sua casa sull’Appia antica a Roma dopo che nel settembre scorso era stata operata per la frattura del femore.

A tutti nota come la Lollo, la «maggiorata fisica» che da sex symbol, strizzata in bustini che ne pronunciavano le forme, è divenuta una star internazionale, si è imposta nell’immaginario mondiale dopo una gavetta ben diversa da quelle della nostra èra digitale. Particine nei fotoromanzi con lo pseudonimo di Diana Loris, fumetti disegnati a carboncino e comparsate nella Cinecittà del dopoguerra sono state il viatico di una carriera nella quale ha recitato al fianco dei più grandi attori del Novecento, diretta dai migliori registi del cinema mondiale. Ha incarnato ragazze italiane come La romana di Luigi Zampa e La provinciale di Mario Soldati, e giovani di enorme fascino come l’Esmeralda del Gobbo di Notre Dame, fino alla Fata Turchina nel Pinocchio di Luigi Comencini, collezionando un Golden Globe, sette David di Donatello e due Nastri d’argento. Nel 1999 diventa Ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura e nel 2018 conquista la stella sulla prestigiosa Walk of Fame di Hollywood. Eclettica, disincantata, mai prigioniera del proprio status, è meno ingombrante, non solo fisicamente, della rivale Sophia Loren che ieri, appresa la notizia della morte, si è detta «profondamente scossa e addolorata». Una carriera tumultuosa, la sua, ma gestita con misura, capacità di distanziarsi dal cinema e la sagacia di reinventarsi, dedicandosi alla scultura, alla fotografia e ai documentari. Volando a Cuba per intervistare Fidel Castro: «L’ho conosciuta bene. Siamo stati anche innamorati, però era un amore platonico», disse lui.

Con i piedi per terra, ma versatile e popolana. Come la bersagliera di Pane, amore e fantasia che teneva testa al maresciallo donnaiolo (Vittorio De Sica), e che la impose definitivamente. Erano gli anni della ricostruzione, dell’Italia che medicava le ferite della guerra, dei primi frigoriferi nelle case, mentre per le televisioni si sarebbe dovuto aspettare ancora. Lei, di anni ne aveva 26, ma nel suo album c’erano già lavori con Zampa, Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!) e soprattutto Christian-Jaque che con Fanfan la Tulipe l’aveva consacrata diva in Francia. Nel 1950, prima dell’exploit di Pane amore e… era stata anche in America, alla corte del miliardario Howard Hughes, produttore e regista per hobby nonché scopritore di dive come Jane Russell. E si era anche già sposata con Milko Skofic, medico sloveno che curava i profughi alloggiati a Cinecittà. Matrimonio precoce, appena ventitreenne, che solo nel 2018 si scoprì esser seguito allo stupro subito a 18 anni, quand’era ancora vergine. Una circostanza che non aveva mai voluto rivelare – e nemmeno allora rivelò l’identità del violentatore. E che, tuttavia, non ne aveva frenato la volontà di affermarsi. Due anni dopo, infatti, s’era presentata a Miss Italia, giungendo terza dietro Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, future attrici come lei. Nella scheda d’iscrizione al concorso alla voce «aspirazioni» aveva scritto: «Fare qualcosa di serio con le mia capacità». Una frase-manifesto: di modestia personale e dello spirito del tempo. Si avanza con le proprie forze, niente aiuti, niente divani del produttore. Nemmeno quello di Hughes, appunto, considerato che una volta scoperto che avrebbe dovuto starsene buona dedicandosi ad allietarne le serate, se ne tornò in Italia. E pazienza se il contratto di esclusiva che ormai aveva firmato le impedì di lavorare in America fino al 1959.

Le gabbie dorate non le sono mai piaciute. Neanche quella della sua stessa immagine e della fama di star internazionale. Lei che aveva recitato in grandi produzioni mondiali al fianco di attori come Vittorio Gassman (in La donna più bella del mondo, biopic della cantante lirica Lina Cavalieri), Humphrey Bogart, David Niven, Yul Brinner, Anthony Quinn, Rock Hudson, Tony Curtis, Sean Connery, Burt Lancaster e Frank Sinatra. Il quale sul set de Il sacro e il profano la irritava parecchio perché il primo ciak si batteva solo dopo che aveva smaltito la sbronza della sera prima. Neanche nel ruolo della bersagliera verace ma seducente che l’aveva consacrata si era adagiata. Tanto che, dopo il successo di Pane amore e gelosia, sempre con De Sica e Comencini alla regia, aveva rifiutato il terzo episodio della serie, rimpiazzata proprio da Sophia Loren.

Intanto, nel 1957, era nato il primo figlio Milko jr., ma nel 1971 era arrivato anche il divorzio da Skofic, dal quale ormai viveva separata. Nel 2006 annuncia a sorpresa alla rivista Hola! l’intenzione di sposare l’imprenditore spagnolo Javier Rigau, di 34 anni più giovane, dopo una relazione tenuta nascosta per più di vent’anni. Il matrimonio viene effettivamente celebrato, ma successivamente l’attrice denuncia di essere stata vittima di un raggiro, ottenendo l’annullamento dalla Sacra Rota.

Al cinema torna a lavorare per Comencini, dando voce e volto alla Fata dei sogni di Pinocchio. È quella l’ultima grande interpretazione per cui anche i meno giovani ancora la ricordano. Siamo nel 1972. Dopo di allora ha recitato molto meno per il grande schermo, trovando più soddisfazione in alcune serie televisive come Falcon crest e il remake della Romana, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, nel ruolo della madre della protagonista, interpretata da Francesca Dellera, con la quale, però, i rapporti furono sempre tesissimi. Al cinema, fa sapere, potrebbe tornare solo se chiamasse Steven Spielberg. Ma le sue passioni ora sono altre. Anche Life e Time magazine ne scoprono il talento di fotografa. Gira l’Italia e il mondo camuffata da eccentrica turista per ritrarre indisturbata gli angoli del Belpaese, i volti dei bambini e dei vecchi dei nostri borghi. Poi arrivano l’amore per la scultura e l’impegno per i poveri che ha incontrato viaggiando come fotografa. Nel 2013 mette all’asta i suoi gioielli personali per raccogliere fondi. Nel 2016 Sergio Mattarella le consegna il David speciale alla carriera.

«Chi non fa niente invecchia prima», dice. E nel settembre scorso annuncia l’estemporanea candidatura nella lista Italia sovrana e popolare che riunisce varie sigle di sinistra tra cui Azione civile, guidata da Antonio Ingroia, suo avvocato. Il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento della lista le nega l’elezione. Noi pensiamo che quello che l’ha capita meglio sia Luigi Comencini e preferiamo ricordarla nei panni della bersagliera bella e impertinente o, forse, in quelli della Fata dei sogni di Pinocchio.

 

Dante al cinema ci aiuta a pensare e amare in grande

Dante campione d’incassi al cinema. E chi se l’aspettava? Chi se l’aspettava che il Sommo Poeta sbaragliasse la concorrenza dei filmoni americani e scalasse il botteghino? In pochi, diciamo la verità. Forse nemmeno lui, Pupi Avati, il regista che ha atteso 18 anni per mandare la sua opera nelle sale cinematografiche, azzardava previsioni tanto ottimistiche. Invece, da giovedì scorso, quando ha esordito al sesto posto con 65.000 euro circa, Dante è salito pian piano fino in vetta. Quarto, poi terzo e l’altro ieri, primo, con poco più di 56.000 euro e oltre 10.000 spettatori, in un giorno di partite di Champions League ed eventi vari. L’incasso totale sfiorava il mezzo milione di euro e, va detto, non si tratta certo di una cifra iperbolica. Ma, in tempi di vacche magrissime per i nostri cinema, è un risultato notevole. Prova ne sia il fatto che martedì il film di Avati (prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema e MG production e distribuito da 01), interpretato, fra gli altri, da un magnifico Sergio Castellitto nei panni di Giovanni Boccaccio «pellegrino» nei luoghi e nell’animo del Sommo Poeta, si è messo alle spalle cartoon come Dragon Ball Super: Super Hero, blockbuster come Avatar di James Cameron e le altre pellicole italiane, a cominciare dallo sponsorizzatissimo Siccità di Paolo Virzì con Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, per proseguire con Il signore delle formiche di Gianni Amelio e Ti mangio il cuore con Elodie.

Ma al di là dei modesti incassi delle nostre produzioni, quello che conta mettere in rilievo perché in controtendenza è il caso Dante. È presto per parlare di fenomeno, perché meno di una settimana di programmazione non basta a far primavera. Bisognerà vedere se funzionerà il passaparola e se i risultati dei primi giorni troveranno conferma anche il prossimo weekend. Ma il segnale va colto. Ricordiamoci che stiamo parlando di Dante Alighieri, gigante della letteratura mondiale, ma anche figura che oltre a suscitare universalmente soggezione, per molti è sinonimo di faticosi pomeriggi sui libri. Finora le poche eccezioni considerate in grado di allungare la vita alle agonizzanti sale cinematografiche erano i film di Supereroi, i blockbuster americani, i sequel di titoli di successo (Top gun) con platee di pubblico molto definite. È lunga la lista di opere prodotte per la fruizione diretta nelle piattaforme. O, se distribuite ottimisticamente nei cinema, resistite in sala pochi giorni prima di cedere il grande schermo a qualche commedia godereccia o a qualche cinepanettone. Invece, con Dante, il sismografo segnala che sul pianeta del pubblico italiano c’è vita.

Come detto, non era nelle previsioni. L’exploit ha spiazzato anche un critico attento come Marco Giusti, firma prestigiosa di Dagospia che quotidianamente ci aggiorna su ogni cosa si muova nel cielo della settima arte. Fin dal primo giorno di uscita ha confessato la sua «sorpresa», poi sconfinata in stupore, per il risultato di Dante. Al contrario, Camillo Langone ha raccontato di essere tornato a vedere un film al cinema dopo tre anni di diserzione dalle sale: «Corra a vederlo chi ama la poesia, le donne, il Medioevo», ha scritto sul Foglio. Ma ogni critico e ogni testata ha le proprie idiosincrasie: «A vedere Pupi Avati non ci voglio andare…», ha ribadito Giusti, chiamando in correità altri autorevoli addetti ai lavori che hanno preferito snobbarlo: «E tutti i festival, a cominciare da Venezia, che hanno fatto finta di niente?». Su questo il critico di Dagospia ha ragione da vendere: il film di Avati non è stato considerato dalla Mostra di Venezia, dove invece sono puntualmente passati Siccità, Il signore delle formiche, Ti mangio il cuore… Così ora è facile ascrivere il successo di Dante al cambio di scenario scaturito dalle urne del 25 settembre e all’avvento dell’Italia «melonsalviniana». Personalmente, non credo c’entri granché. Non credo che per andare a vedere un bel film, quando c’è, serva «la vittoria delle destre». Credo, piuttosto, c’entri il fatto che Dante è, appunto, un bel film, che narra, attraverso gli occhi del suo primo biografo, l’amore di un giovane per una ragazza, il cui sguardo gli ha rapito il cuore, lo ha cambiato e, di conseguenza, ha cambiato la storia della letteratura mondiale. Una storia vera. Fatta di esilio, di debiti e di talento artistico. Un film d’amore, di poesia e di grazia, sebbene con l’odore della peste addosso. Perché amore e poesia non sono qualcosa di etereo e sfuggente. Ma pulsioni carnali, sentimenti passionali e ispiratori, come la storia ha dimostrato.

Intervistato sabato scorso dalla Verità, Pupi Avati aveva detto che Dante è «una cartina al tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction». Il primo responso del botteghino sembra dire che questo pubblico, seppur piccolo, esiste. Che esiste un pezzetto d’Italia ancora ambizioso, disposto a pensare in grande e ad appassionarsi al «per sempre» dell’amore. E che rifiuta di accontentarsi della finzione del gossip, del chiacchiericcio e dei turbamenti delle coppie annoiate e ultramilionarie.

 

La Verità, 6 ottobre 2022

«Porto su Netflix l’eroe della sensibilità»

Sarà visibile in ottobre su Netflix Tutto chiede salvezza, la serie tratta dal libro omonimo di Daniele Mencarelli che vinse il Premio Strega Giovani del 2020. Il romanzo racconta la settimana di ricovero in Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) nel reparto di psichiatria di un ospedale romano vissuta dall’autore nel 1994. Mencarelli sarà interpretato da Federico Cesari, i suoi cinque compagni di stanza saranno Andrea Pennacchi (Mario), Vincenzo Crea (Gianluca), Vincenzo Nemolato (Madonnina), Lorenzo Renzi (Giorgio), Alessandro Pacioni (Alessandro). Nel cast anche Ricky Memphis (l’infermiere Pino), Filippo Nigro (uno dei medici), Michele La Ginestra (il padre di Daniele), Fotinì Peluso (l’amica Nina) e Carolina Crescentini (sua madre). Regista della serie è Francesco Bruni, uno dei maggiori sceneggiatori del cinema italiano (ha scritto, fra gli altri, tutti i film di Paolo Virzì, oltre al Montalbano televisivo), qui alla sua quinta regia, la prima di un’opera a episodi per una piattaforma digitale.

Com’è nato questo progetto?

«Ho letto il romanzo nel 2020 e, arrivato a pagina 50, ho chiamato Mencarelli per esprimergli tutto il mio apprezzamento. Gli ho chiesto se i diritti cinematografici fossero ancora liberi, ma erano già di Roberto Sessa (produttore di Picomedia ndr) che li aveva acquistati per farne un film».

A quel punto?

«L’ho chiamato, proponendomi. Un mese dopo mi ha ritelefonato dicendo che aveva deciso di produrre una serie e che io potevo dirigerla in quanto mi ero già occupato di tematiche giovanili».

In effetti, da Scialla! Stai sereno in poi…

«Le ho frequentate spesso. Sia in Scialla! che in Tutto quello che vuoi, il film che ha rivelato Andrea Carpenzano, i protagonisti sono due ragazzi attratti dalla criminalità».

Tornando al romanzo di Mencarelli?

«Essendo il racconto di una settimana di Tso, ho proposto che la serie si sviluppasse in sette episodi, uno per ogni giorno di ricovero».

Alla pagina 50 aveva già visto l’opera?

«È una sorta di punto d’arrivo della mia produzione, che parte dalla leggerezza di Scialla!, passa attraverso Tutto quello che vuoi, con Giuliano Montaldo nella parte di un anziano affetto da Alzheimer, fino a questa storia di un ricovero psichiatrico. Nella quale, senza scomodare Qualcuno volò sul nido del cuculo, ci sono quei momenti leggeri, tipici della convivenza tra persone, diciamo così, eccentriche. Insomma, mi sentivo nel mio».

Lei ha sceneggiato i film di Paolo Virzì, di Mimmo Calopresti, di Roberto Faenza oltre al Commissario Montalbano, ma ne ha diretti solo quattro. Perché per questo progetto si è rimesso dietro la cinepresa?

«Ormai la mia strada è questa. Mi sto sempre più appassionando al set, alla situazione collettiva delle riprese. In passato, non ero visto come un competitor, mentre oggi, dopo quattro film, se suggerisco qualcosa ai registi, è un altro regista che parla. La regia è un’esperienza totalizzante. Se ci arrivi dalla scrittura padroneggi tutto il percorso. Come quando da piccolo fai il presepe a Natale e vai a comprare anche le statuine. Se sei sceneggiatore e regista crei un mondo dall’inizio alla fine».

Che cosa l’ha colpita di Tutto chiede salvezza, una storia ambientata dentro un reparto di psichiatria?

«L’idea che un ragazzo di vent’anni possa camminare su un crinale stretto tra sanità mentale e malattia psichiatrica. Leggiamo i giornali, seguiamo le cronache. A Trastevere, il quartiere dove vivo, ne vedo tanti. È un luogo di ritrovo giovanile, un osservatorio privilegiato dove tutte le sere si scatenano risse, crisi di panico, arrivano ambulanze. Si ha la percezione di un’emergenza. Dopo la pandemia, certi eccessi sono diminuiti. Ma basta leggere un giornale per vedere quanto questi due anni abbiano acuito una sensazione d’impotenza, di mancanza di prospettive tra i giovani, sempre più convinti che studiare sia inutile e che un titolo di studio sia carta straccia. Questa è la prima generazione che starà peggio dei suoi genitori».

Però il libro di Mencarelli è stato scritto prima della pandemia.

«La storia è ambientata nel 1994, ma l’abbiamo trasposta nel presente».

Quindi post pandemia?

«Nell’anno di uscita del libro, anche Daniele è stato d’accordo nell’attualizzarla. Ma non ci sono riferimenti temporali precisi e nemmeno alla pandemia. Se Mencarelli avesse raccontato la sua vicenda nel 1994, l’anno in cui l’ha vissuta, non avrebbe avuto l’impatto che ha avuto. Probabilmente questa eco è dovuta al fatto che ha intercettato una situazione attuale. I giovani si sono riconosciuti».

La tematica del disagio giovanile e dell’eccesso di sensibilità era già presente 30 anni fa?

«Nei primi anni Novanta mi sembrava che fossimo tutti un po’ più sereni. Forse perché ero ancora immerso in una realtà provinciale dove tutto era più tranquillo. Adesso sono arrivati i social media a complicare la situazione. In particolare aumentando la differenza tra il sé vero e autentico e la sua rappresentazione. Ci si vende sempre come persone che stanno bene, performanti e che fanno una bella vita. Prima e più ancora della diffusione dell’odio e dell’attività degli haters in rete, questa menzogna, portata avanti a dispetto della realtà, crea un disagio, una bipolarità, difficilmente gestibile. In più, i social hanno radicalizzato la percezione di essere delle pedine, persone seguite, teleguidate, influenzate nelle scelte di vita e commerciali».

Veniamo da anni di sofferenze e restrizioni, dal cinema e dalla tv ci si aspetta un po’ di spensieratezza, invece…

«Non faccio questo tipo di calcoli. Non guardo le indagini Istat prima di buttarmi in un’opera. Cosa sarà, il mio ultimo film con Kim Rossi Stuart, raccontava di una reclusione sanitaria a causa della leucemia ed è uscito durante la pandemia».

È la prima volta che dirige una serie tv.

«Avevo chiamato Sessa pensando a un film. Quando lui ha parlato di una serie ho accettato. Credo sia la prima volta che Netflix concede a un autore italiano di essere sia sceneggiatore che regista. Se mi avessero proposto di firmare solo alcuni degli episodi avrei declinato».

Come mai nel suo cinema il confronto con la sofferenza è così presente?

«Dall’Alzheimer alla leucemia al disagio psichico, ho fatto filotto. La cosa buffa è che in tutti tre i casi si tratta di commedie. Forse per questa serie il termine è un po’ forzato».

Viene definita un dramedy.

«È il termine corretto, commedia e dramma. Di solito, quando vedo nella narrazione la possibilità di un momento leggero mi viene istintivo coglierlo a patto che non infici la verosimiglianza del racconto».

Insiste su queste tematiche per una motivazione autobiografica?

«È un po’ come chiedere a un musicista perché suona così. Ho sempre frequentato la commedia con un sottofondo drammatico. Anche nei film di Virzì. Un film drammatico che si nega momenti umoristici si fa un torto. Ho una specie di campanello d’allarme: mi chiedo se sto facendo troppo il cretino o se sto appesantendo la gente. È una sorta di antifurto interno. Nella serie si ride, le due cose s’illuminano a vicenda: l’umorismo rende accettabile il dramma e il dramma nobilita l’umorismo».

In questi giorni, dopo due anni di restrizioni, si ripete che i giovani hanno il diritto di divertirsi e dimenticare: possiamo dire che è una storia coraggiosa?

«Sì, certo. Tuttavia, va anche detto che quando il desiderio di libertà e, usiamo la parola vera, di sballo, a lungo compresso, si libera, può accadere che si finisca per rovinarsi il divertimento. In molti casi vedo che la sfrenatezza del desiderio di vivere si trasforma in un boomerang che ritorna addosso con violenza. Lo dico avendone fatte di tutti i colori da ragazzo – mi divertivo parecchio, stavo in giro di notte – pur non essendo mai stato in un commissariato di polizia».

Come tratterà la parte del racconto che contiene critiche al personale medico e infermieristico?

«C’è una critica alla situazione del sistema sanitario. Soprattutto alla carenza di servizi, il condizionatore che non funziona, la carta igienica che manca, a una parte del personale che è poco motivata. I due medici sono antitetici, uno è empatico l’altro severo. Sono persone messe negli avamposti del malessere e lo fronteggiano con i mezzi che hanno a disposizione. In filigrana si può leggere la vecchia diatriba fra manicomi e non manicomi, contenzione e non contenzione, che sembrava superata con l’esperienza di Franco Basaglia e dei suoi epigoni e che invece adesso è rimessa in discussione».

La domanda di senso, la ricerca di felicità che anima il protagonista viene recepita quasi come un disturbo patologico?

«Non è una riflessione sulla ricerca della felicità, miraggio irraggiungibile. È un discorso sulla sensibilità di persone nate senza le difese nei confronti del dolore altrui, un sentimento che li attraversa e li fa stare male. Questo tipo di sensibilità può portare a una patologia psichiatrica. Ma in un certo senso è un superpotere, un superpotere della sensibilità. Daniele, che anche nella serie si chiama come l’autore del romanzo, è un supereroe della sensibilità. Solo che deve capire che la sua è una forza, una virtù, non una debolezza».

Però tutto chiede «salvezza»: che cosa può salvare oggi?

«La compassione. L’accettazione dei propri limiti. La comprensione nei confronti degli altri. Non posso spoilerare il finale. Cito Mencarelli: “Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato. È semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi. Salvezza è quindi lasciarsi attraversare dal dolore”. Rimanendo vivi, possibilmente».

 

La Verità, 4 agosto 2022

«Io, Django, cambiato dall’incontro con un prete»

Franco Nero in persona?

«Francesco Clemente Giuseppe Sparanero».

Tre nomi di battesimo hanno un motivo preciso?

«Clemente è il santo del giorno in cui sono nato, Francesco si chiamava mio nonno materno, Giuseppe non lo so».

Per fortuna non è diventato Castel Romano.

«Sarebbe stato un dramma. Dino De Laurentiis aveva sentenziato sul set della Bibbia che si girava a Roma: “Debutti in via Castel Romano dove ci sono i nostri studi: ti chiamerai Castel Romano”. Mi salvò Luigi Luraschi, un suo assistente, che cominciò ad anagrammare nomi e cognome. Alla fine tagliammo Francesco e Sparanero e venne fuori Franco Nero».

Perché ha messo un proverbio africano come esergo del suo libro Django e gli altri (Rai Libri), scritto con Lorenzo De Luca?

«L’ho imparato molti anni fa, l’ho appeso anche sul muro in cucina».

«Puoi alzarti all’alba, ma il tuo destino si è svegliato prima di te».

«Ognuno ha un destino nella vita, ma bisogna anche saperselo costruire. Trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Il grande regista Joshua Logan cercava una faccia nuova per Lancillotto di Camelot e John Huston, che mi aveva fatto fare Abele nella Bibbia, mi segnalò. “Fisicamente sei perfetto, ma il tuo inglese è incerto e questo film è il più costoso della storia, non posso rischiare”, mi disse. Arrivato sulla porta mi voltai: “Ma io so recitare Shakespeare in inglese”».

Aveva imparato ascoltando i dischi in vinile che le aveva prestato Huston.

«Li avevo consumati a forza di ascoltarli e di ripetere la pronuncia dei più grandi attori del teatro inglese».

Voleva fare a tutti i costi l’attore?

«E il destino mi ha aiutato. Per Django Sergio Corbucci e i produttori litigavano sulla faccia giusta. C’erano altri due candidati oltre a me, così decisero di andare da Fulvio Frizzi, il papà di Fabrizio, che distribuiva il film. E lui puntò il dito sulla mia foto. Se quel fotografo non avesse insistito per farmi qualche primo piano che finì sulla scrivania di Huston la mia vita sarebbe stata diversa».

Il destino ci precede?

«Da bambino, a 5 o 6 anni, sognavo sempre un cavaliere su un cavallo bianco in cima a una montagna».

Un ragazzo nato a Parma, figlio di un maresciallo dei carabinieri pugliese che diventa una star del cinema non è male come sogno.

«Non mi posso lamentare. La mia vita è stata avventurosa perché sono sempre stato curioso. Ho lavorato molto all’estero. Sono stato in America e in Sudamerica, dovunque ho una storia bella. Sono un privilegiato. A questa mia giovane età sono appena tornato da Londra e sto per partire per Los Angeles».

Come si sta davanti alla cinepresa «nonostante la congenita timidezza»?

«Le ho sempre detto: “Cara cinepresa, io e te dobbiamo essere amici, farò di tutto per impressionarti”. Laurence Olivier, il più grande attore del mondo, una volta mi disse: “Con il tuo fisico puoi fare l’eroe un film all’anno, ma che monotonia. Oppure puoi cambiare e spaziare in tutti i generi”. Ho fatto tutti i ruoli, mi mancava quello del Papa».

Ma ora…

«Una compagnia spagnola mi ha proposto The men from Rome».

Il suo primo benefattore è stato John Huston o Sergio Corbucci?

«Tutti e due. Ho incontrato prima Huston e subito dopo Corbucci. Negli hotel in Sudamerica e in Giappone scrivevano Django, non Franco Nero».

Quindi Corbucci?

«Corbucci nel cinema mondiale, Huston in quello di lingua inglese. Huston fece il mio nome a Logan. Così entrai nella produzione di Camelot con Richard Harris e Vanessa Redgrave».

La sua Ginevra: come avvenne l’incontro lei?

«Non fu amore a prima vista. Mentre giravamo le battaglie dei cavalieri della Tavola rotonda, chiedevo a Logan chi avrebbe interpretato Ginevra? Finalmente, un giorno negli studi della Warner me la indicò. Avevo 24 anni e mi aspettavo una bellezza tipo Sophia Loren. Invece, mi vedo arrivare una ragazza con jeans strappati e occhiali da vista. Fui molto freddo. “Ma quella è un mostro”, dissi a Logan. Rientrato nel mio appartamento trovai un biglietto scritto in perfetto italiano in cui m’invitava a cena a casa sua. Decisi di andarci e, quando bussai, alla porta apparve una donna splendida. “Sono stato invitato da Vanessa Redgrave”. “Franco, Vanessa sono io”. Ero stupefatto».

Amore alla seconda vista?

«La nostra storia decollò un mese dopo, in America. Una sera, mentre andavo alla mia auto, lei mi chiese se potevo accompagnarla all’aeroporto insieme a Benjamin Spock che doveva partire. Quando rimanemmo soli scoprimmo che il giorno dopo entrambi non lavoravamo. “Perché non andiamo da qualche parte?”. Prendemmo un volo per San Francisco, dove noleggiai una macchina e andammo in giro tutta la notte finché, all’alba, affittammo una camera in un motel di quinta categoria».

Qual è il segreto della durata del vostro rapporto?

«La lontananza, non stare sempre assieme. Parlandoci molto al telefono, desideriamo sempre vederci».

Condividete la stessa visione politica?

«Ma… In gioventù lei era una troskista incredibile. Io la rispetto, ha sempre aiutato i più deboli come anch’io faccio da tutta la vita. No, in politica non la pensiamo allo stesso modo. Lei è una donna eccezionale, ha avuto vita dura anche in America per le sue idee. Furono Arthur Miller, Tennessee Williams e Sidney Lumet a difenderla e valorizzarla con ruoli importanti perché la stimavano molto».

È vero che una volta Clint Eastwood le manifestò la sua invidia?

«Ci eravamo conosciuti quando recitava per Sergio Leone. Una volta venne sul set americano di Camelot e commentò: “A Hollywood c’è un giovanissimo italiano che gira un grande musical, mentre io tornerò in Europa a girare un film italiano…”».

Perché dopo Camelot interruppe il contratto con la Warner?

«Gli amici storici con cui avevamo iniziato a girare i primi corti, Luigi e Camillo Bazzoni, Gianfranco Transunto e Vittorio Storaro, mi chiamavano per convincermi a tornare. La mia popolarità poteva aiutarci a girare i film che sognavamo da tempo. Anche Vanessa rientrava in Europa. Così andai da Jack Warner e gli dissi che mi mancava l’Italia. “Sei un pazzo, potresti diventare il nuovo Rodolfo Valentino, ho già due film pronti per te”. Alla fine cedette, anche lui stava per vendere la Warner».

Nella sua autobiografia Django è un uomo solo.

«Dev’esserlo, l’eroe del west non si sa da dove viene e dove va. Non per niente Quentin Tarantino ne ha fatto il remake».

Chi sono i suoi amici?

«Nel mondo del cinema non è facile averne, c’è l’invidia. In Inghilterra, in America, in Sudamerica ho più amicizie. In Italia frequento professori, medici e i contadini con cui gioco a briscola e tresette. Non faccio parte dei clan del cinema italiano».

Sono un po’ chiusi?

«E io sono un outlaw, un fuorilegge, non appartengo a nessun clan».

Ha conosciuto John Wayne, John Huston, Paul Newman, Anthony Quinn e tanti altri, ma scrive che l’incontro più importante della sua vita è stato con un  prete.

«Don Nello Del Raso. Avevo 23 anni e sbarcavo il lunario facendo l’aiuto fotografo e lavorando di notte da un panettiere che preparava i cornetti. Un giorno Luigi Bazzoni mi chiese di accompagnarlo a Tivoli. Al villaggio Don Bosco conobbi don Nello, un cappellano dell’esercito che aveva raccolto i bambini orfani della Seconda guerra mondiale. M’innamorai subito di questo piccolo grande uomo che insegnava loro un lavoro. Gli promisi che, sebbene squattrinato, gli sarei stato vicino. Da quando è morto e il suo posto è stato preso da don Benedetto Serafini, continuo ad aiutare il villaggio».

Perché nel suo ultimo film da regista, L’uomo che disegnò Dio, recita Kevin Spacey, incriminato per molestie sessuali?

«Conosco Spacey da quando dirigeva il teatro Old Vic di Londra. Qualche volta siamo anche andati a cena insieme con Vanessa. Un giorno il produttore Louis Nero (solo un omonimo ndr), mi disse che a Spacey sarebbe piaciuto essere diretto da me. Per il ruolo del commissario era perfetto. Perciò ho accettato, sapendo che è incriminato. Penso che nella vita bisogna saper perdonare e dare una chance a chi è in difficoltà. Lui mi ha detto che si è sempre dichiarato omosessuale e che molte cause le ha vinte. Si sa, i maschi eterosessuali ci provano con le donne, i maschi gay con gli uomini. Con me ha lavorato con grande umiltà».

È stato criticato per questa scelta?

«Ho avuto contro tutta la stampa americana e inglese. Spacey è stato sfortunato perché coinvolto nel momento del Metoo… A Hollywood, in passato, erano tanti i gay o i mezzi gay, ma tutto scorreva. Ora le accuse abbondano, a volte la ricerca della verità sembra anche una questione di soldi. Quando una persona è accusata 28 anni dopo i fatti qualcosa non va».

Un certo puritanesimo soffoca la creatività di sceneggiatori e registi?

«Assolutamente. Anni fa erano il produttore e il distributore a decidere. Oggi non si fa cinema senza i diritti televisivi. Se un film è un po’ spinto bisogna tagliare e l’autore non può scrivere ciò che vorrebbe. Per questo ho fatto poca tv».

Quando vedremo L’uomo che disegnò Dio?

«È ispirato alla storia vera di un cieco che, sentendo parlare le persone, riesce a riprodurne i tratti. Abbiamo finito di montarlo in marzo. Vorrei portarlo a un grande festival prima di farlo uscire, ma non dico niente per scaramanzia».

Nuovi progetti come attore?

«Ho letto diverse sceneggiature, l’unica che mi ha convinto è quella di Black beans and rice, un film che gireremo in America, ma ambientato a Cuba. È la storia on the road di un padre e un figlio che non si conoscono. Nel testamento la madre chiede che il ragazzo ritrovi il padre e, insieme, portino e disperdano le ceneri nel posto dov’è nata. Lo interpreteremo io e mio nipote, figlio di Liam Neeson e di Natasha, mia figlia morta 13 anni fa in un incidente stradale».

Negli ultimi anni ha lavorato meno?

«Anche a causa della pandemia. Però ho interpretato Il caso Collini, trasmesso in Italia da Rai 3, e The Match, visibile su Prime video».

La sorte delle sale cinematografiche è segnata?

«Lo temo, adesso ci sono queste piattaforme».

Si professa cattolico e scrive che gli italiani sono attenti a rispettare tutte le religioni fuorché la loro.

«Sono religioso, non praticante. Ogni tanto entro in una chiesa e sto lì a pensare. Non manco alla messa di Natale al villaggio Don Bosco. Anche a Pasqua».

Il cristianesimo ha lo stesso destino delle sale cinematografiche?

«Ah ah ah, speriamo di no».

 La Verità, 25 giugno 2022

«Vivo al Lido, ma niente Mostra: ora dipingo»

Catherine Spaak è morta il 17 aprile 2022, giorno di Pasqua, dopo una lunga malattia. Ripropongo la mia intervista, pubblicata dalla Verità nel settembre 2017, perché, pur dissonante nel coro generale degli osanna, ne fa ugualmente trasparire l’intelligenza e lo spirito indomito.

«Eravamo in barca…». Catherine Spaak arriva al bar del Lido di Venezia scortata da una barboncina. Camicia e bermuda, capelli raccolti, abbronzatura da esposizione senza creme protettive. Il fascino resiste.

In barca con suo marito?

«Sì, è pilota di porto, ma ha una barca sua».

Cosa fanno i piloti di porto?

«Salgono a bordo delle navi da trasporto e da crociera e le guidano insieme ai comandanti fino all’ormeggio».

Sulle grandi navi in laguna…

«Dice che non danneggiano l’ambiente: sotto, nei canali, c’è la melma».

Da quanto vive al Lido?

«Da due anni. Prima mio marito stava a Trapani».

E vi siete sposati sposati a Erice.

«Mio marito ha avuto un incidente a una spalla ed è rimasto fermo per un po’. Quando è rientrato ha potuto scegliere la nuova destinazione e ha scelto Venezia, che piaceva anche a me».

È più giovane di 18 anni: pesa la differenza d’età?

«Le cose che facevo con facilità a 40 o 50 anni ora mi costano. Andare in bicicletta, per esempio. Le cene e la mondanità invece non mi sono mai piaciute».

Capisco. La differenza di età rispetto al marito?

«Non credo sia rilevante».

Perché ha molte energie?

«Mi posso accontentare».

O perché crede nell’amore?

«Qualcuno ci riesce, ma penso che vivere senza amare sia una condanna».

Tra Emmanuel Macron e sua moglie ci sono 24 anni di differenza.

«Non m’interessa. Ho perso il vizio di giudicare: è troppo faticoso».

Sbaglio se dico che bisogna avere tante risorse per non farsi scoraggiare dagli amori finiti e risposarsi la quarta volta?

«A Maurizio Costanzo non farebbe questa domanda».

Magari sì.

«Ne dubito, è una domanda che si fa alle donne. Ci sono donne che hanno avuto mille uomini, ma essendosi sposate una sola volta sono stimate. Lo so, i matrimoni fanno effetto; io credo possa essere una brava donna anche chi è arrivata al quarto».

L’ultima volta che il grande pubblico l’ha registrata è stata all’Isola dei famosi

«Che cosa significa registrata?».

Cosa non ha funzionato all’Isola?

«Accadevano cose diverse da quelle prestabilite e me ne sono andata».

Per esempio?

«Non ne parlo volentieri, sono state scritte cose pessime. L’Honduras è violento. All’ingresso degli alberghi c’erano cartelli che invitavano a lasciare le pistole in macchina. A causa di un tornado siamo rimasti in hotel una settimana. Mi è capitato di vedere un servizio in tv sui soldati dell’esercito che, siccome si annoiavano, sparavano alle gambe dei cani per esercitarsi».

Ne fu turbata.

«Era parte di una situazione per me insostenibile».

In televisione iniziò come conduttrice di Forum su Canale 5, ma dopo due anni smise…

«Come giornalista sì, ma durò di più…».

Perché finì?

«Non ne voglio parlare».

Ad Harem invece si è divertita molto.

«Per 15 anni. Autori e direttori di Rai 3 mi hanno lasciato piena libertà. Credo che anche il pubblico si sia divertito».

L’ospite più divertente?

«È difficile, tre persone a settimana per 15 anni… Una è Kuki Gallmann, l’ambientalista autrice di Sognavo l’Africa. E Paola Borboni, piena di vita».

La sua dote era la malizia?

«La capacità di ascoltare. I giornalisti hanno paura del silenzio. In tv, poi, vanno nel panico. Ero intuitiva, accettavo il silenzio, prima che la persona parlasse».

L’ospite che la mise in difficoltà?

«Nessuno».

Perché fu chiuso il programma?

«Dopo Angelo Guglielmi altri cinque direttori l’avevano confermato. Quando arrivò Paolo Ruffini decise che si era detto tutto sulle donne».

Nessuna trattativa?

«Avevo dei progetti, ma non ebbero seguito».

Prima della tv il cinema e un po’ di musica: ha sempre voluto fare l’attrice?

«Volevo fare la ballerina classica, avevo studiato, ma sono diventata troppo alta. Il contatto con il cinema è stato casuale».

Sentiamo.

«Un’amica che doveva fare un provino per un cortometraggio mi chiese di accompagnarla. Il regista disse: “Lei è esattamente la tipologia di persona che cerco”. Solo che ero io. Quello fu il mio inizio, anche se mio padre era un importante sceneggiatore e in casa venivano molti uomini di cinema».

Che rapporti aveva con i suoi?

«Non buoni. Me ne sono andata a 18 anni dopo il primo film, Dolci inganni, di Alberto Lattuada».

Come la pescò Lattuada?

«Aveva già collaborato con mio padre a un film intitolato La spiaggia. Veniva a trovarci e diceva che prima o poi avrei fatto l’attrice. Quando chiese se poteva farmi un provino a Roma non pensavo di fare l’attrice».

Da bambina firmava autografi ai compagni di classe.

«Era un gioco».

Suo padre le concesse il provino, non era cattivo…

«Lo vedevo poco. A 9 anni sono entrata in collegio e ne sono uscita a 14 per andare a scuola a Parigi. A 16 o 17 ho iniziato a lavorare. Erano rapporti sempre un po’ conflittuali».

Poi risolti?

«Quando si è giovani è difficile comprendere certe cose, ma alla mia età mi sento serena. Non vivo nel passato».

In quegli anni al cinema era spesso oggetto del desiderio di persone adulte.

«Fanno ridere queste parole se si guardano quei film. Interpretavo ruoli di ragazza libera, consapevole. O personaggi letterari come la Cecilia de La noia di Alberto Moravia. Donne autonome».

Proto femministe.

«Non c’era il divorzio, le donne erano sottomesse, tanto più in un mondo maschilista come il cinema. Sul set c’erano 60 uomini e tre donne. La sarta, la segretaria di edizione e l’attrice protagonista; quattro con la parrucchiera. Anche uomini di talento e di cultura erano misogini».

Il suo fascino etereo incrinò il dominio delle maggiorate.

«Era anche un fatto generazionale. Io e alcune colleghe come Stefania Sandrelli eravamo diverse da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, con tutto il rispetto. La seduzione divenne più mentale che fisica».

Il suo modello?

«Ammiravo Audrey Hepburn. Quando la cito gli uomini storcono la bocca».

Cosa pensa dello scandalo delle molestie sessuali?

«Che doveva capitare. È la solita storia: tutti lo sanno e nessuno lo dice. Io ne parlai molti anni fa, ma molte colleghe dissero che a loro non era mai successo. Forse era solo troppo presto».

Il movimento Metoo?

«Ci sono tante sfaccettature, anche donne che approfittano di certe situazioni o che hanno delle responsabilità. Tuttavia, penso che la maggior parte abbia aderito perché ha subito situazioni spiacevoli. Il femminicidio è il risultato di un comportamento maschile sbagliato».

Catherine Deneuve ha difeso la libertà degli uomini di importunare.

«Poi si è scusata. Catherine Deneuve è Catherine Deneuve. Posso solo dire che non sono d’accordo».

Se gli uomini superano il limite non basta ribellarsi?

«Bisogna proteggere le donne molestate e violentate. Ci vuole un’educazione diversa di quella che si dà ai maschi, non solo in Italia. Qualche anno fa se una donna andava in commissariato le ridevano in faccia. Servono leggi severe per gli uomini che si comportano in modo sbagliato».

Lei ha subito molestie?

«Tempo fa, niente di grave, atteggiamenti inadeguati».

Che idea si è fatta della vicenda di Asia Argento?

«Nello studio di Bruno Vespa l’ho difesa dicendo che è assurdo stabilire un lasso di tempo oltre il quale una denuncia non è valida».

Gli ultimi fatti insegnano che lo schema uomini violenti e donne vittime è da rivedere?

«Bisogna sapere bene come sono andate le cose prima di giudicare. Io non lo so».

È ancora interessata alle discipline orientali?

«Pratico la meditazione buddista secondo la tecnica Vipassana».

Cosa le trasmette?

«Mi aiuta a interrogarmi sulle questioni fondamentali della vita. Anche la scuola dovrebbe educare al silenzio. Viviamo in un mondo di rumore, saltando da un posto all’altro. La tecnologia ha grande responsabilità, vedo ragazzi che non vivono senza essere connessi e non sanno stare soli con sé stessi».

Le manca il tempo in cui era «la voglia matta» di Ugo Tognazzi?

«Per carità».

Quando cantava L’esercito del surf?

«Per carità».

E quando ospitava Giulio Andreotti ad Harem?

«Nooo. Non vorrei avere né 30 né 40 né 50 anni oggi, sarei in difficoltà. Ero così anche a vent’anni».

Così come, un filo snob?

«L’hanno detto in tanti».

Si definisca.

«Non saprei… Sto bene con me stessa».

L’hanno mai invitata alla Mostra del cinema, a due passi da qui?

«Due anni fa hanno proiettato L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni. Mi hanno invitata, ma ho declinato. Non ho voglia di presenziare…».

Se le chiedessero di consegnare un premio?

«Mah… Vivo lontano dal cinema e dal teatro. Anche se l’anno scorso ho recitato un testo scritto da me su Colette. L’abbiamo portato in tournée e replicato diverse settimane al Parioli di Roma».

Perché smise di fare cinema?

«Trovavo banali le parti che mi proponevano. Tutto si è affievolito molto serenamente».

Ci va ancora?

«Da normale spettatrice, anche a teatro. Vado alle mostre, alla Biennale… E dipingo; la pittura mi ha preso molto».

Quando vedremo i suoi quadri?

«A fine anno».

Ci può anticipare qualcosa?

«Devo incontrare un gallerista interessato a quello che faccio, ne parlerò al momento opportuno».

Niente notizie, le piace più intervistare che farsi intervistare.

«Ora nemmeno più quello. Quando ho cominciato a scrivere sospettavano che scrivesse qualcun altro; quando facevo le interviste che le preparasse qualcun altro; ora diranno che i quadri chissà chi li ha dipinti. Ha presente quando si diceva che gli attori di cinema non potevano recitare a teatro? Però questi giudizi non mi hanno impedito di fare quello che ho fatto e che faccio».

Il suo film della vita?

«È difficile… Adoro Momenti di gloria».

Bellissimo.

«Anche E. T. e Jules e Jim. Poi leggo molto, due o tre libri al mese».

L’ultimo?

«La treccia di Laetitia Colombani».

Vive al Lido e va spesso a Roma…

«Ogni tanto, Roma non mi piace più, sto meglio qui. Anche d’inverno».

La Verità, 2 settembre 2017