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«Farò pentire chi mi ha invitato al Festival»

Gelido. Caustico. Tagliente. Rassicurante come una katana. Consolatorio come un’incudine. Affettuoso come una lastra di ghiaccio. Per la sua comicità si usano aggettivi come irriverente, dissacrante, scorretta. Ma alla prova degli spettacoli risultano cliché stantii. Lui rifiuta persino l’etichetta di comico. Chi non lo conosce lo cerchi su YouTube. Frasi brevi, secche come fucilate, in un crescendo di paradossi. Zero concessioni al mainstream. Angelo Duro, palermitano quarantenne, ex Iena, scoperto a un’esibizione da Davide Parenti, reduce da due stagioni sold out a teatro, è più eversivo di Checco Zalone, più insolente di Pio e Amedeo, meno gigione di Saverio Raimondo. Lo stand up comedian che non c’era e di cui, in questi tempi gne gne, c’è grande bisogno. Domani sera sarà ospite del Festival di Sanremo di Amadeus.

Insomma, sapeva che sarebbe successo, che era inevitabile che la invitassero?
«Certo. Prima o poi i linguaggi cambiano. Io sono la cosa più moderna che esista. I numeri che faccio in teatro ne sono la prova. Sto facendo sold out dappertutto. Mi sono costruito un pubblico che, come me, non vuole sentire cose moraliste. Io parlo di tutto. Non mi pongo limiti. Mi piace turbare la gente. Così poi do un po’ di lavoro agli psicologi. E devo dire che loro mi ringraziano sempre».
La prende come una consacrazione o non gliene frega un cazzo?
«Me ne frega del punto di vista rivoluzionario. Sanremo è sempre stato un luogo politico e del linguaggio che deve andare bene per tutti. Io non parlo di politica. Troppo facile come argomento. E non ho un linguaggio adatto a tutti. Attenzione, io lo ritengo adatto a tutti, sono loro che non sono pronti. Ma sono certo, che col tempo, si apriranno e tireranno fuori quei blocchi culturali che hanno dentro. Io sono come Dio nel Giudizio universale di Michelangelo che tende la mano ad Adamo aspettando che sia lui ad alzare l’indice ed aprirsi al creato».
Questa opportunità è tutto merito dei teatri pieni o anche un po’ del buon rapporto con Fiorello che qualcosa può segnalare ad Amadeus?
«Merito dei teatri pieni che hanno avvicinato sempre più gente a scoprirmi e conoscermi. Tipo Fiorello. Lui è un entusiasta ed è un vero talento anche a capire le cose prima di tutti. Ed è una persona sincera. Se gli piace una cosa, e ne riconosce l’autenticità, la promuove e la difende. È stato lui che ha spinto Amadeus ad invitarmi al Festival. Sono proprio contento di sapere che da mercoledì rovinerò la loro trentennale amicizia».
Nel post su Facebook dice che questo invito è la conferma che è «riuscito a cambiare il sistema». L’autostima non le manca…
«Ho cambiato il sistema del punto di vista del linguaggio. Ripeto, uno come me a Sanremo rappresenta un vero cambiamento. In peggio, ovviamente. Questa cosa fa crescere ancora di più la mia autostima. Il cambiamento è linguistico. Questo Paese fa fatica a parlare di argomenti senza dover per forza mettere dentro la morale. Io sono immorale. E ci tengo».
Ha scritto anche che dopo «anni di soldi estorti» con la sua presenza su Rai 1 «c’è un motivo valido per aver pagato il canone».
«E già… Guardatevi in giro. Non vedete che la gente è sempre più stupida? A chi volete dare la colpa? Al clima? Allo smog? No. La colpa è della tv che con i suoi programmi d’intrattenimento e d’informazione ha ridotto le persone cretine. Non è giusto. Poverine».
In questi casi per incoraggiamento si dice «in bocca al lupo». Lei risponde «viva il lupo»? O preferisce che le si dica «merda»?
«Non me ne frega di questi riti. Non sono superstizioso. Io non credo a nulla».
Ricominciamo dall’inizio. Angelo Duro è il suo vero nome o un nome d’arte? Sembra un ossimoro, tipo Angelo Nero o Angelo Incazzato.
«Mi chiamo così. Credo che i miei non abbiamo neppure pensato alla contraddizione di questo nome. Ma mi è sempre piaciuto. E mi rappresenta a pieno. È un nome unico. Sempre meglio chi chiamarsi Mario Rossi».
Perché nei suoi spettacoli è sempre incazzato duro?
«Non sono incazzato. Io racconto delle storie. Non sono incazzato senza un senso. Racconto cosa mi è successo, cosa ho pensato e come ho reagito quando mi è successo. È una causa e un effetto».
Come e quando è nata la sua comicità?
«Io non sono un comico. L’ho detto tante volte. E comunque la comicità non nasce. La comicità ce l’abbiamo tutti. È quell’esatto momento in cui di fronte a una grande paura dici a te stesso, o a chi ti sta vicino, una cosa per sdrammatizzare. Questa è la comicità. Per cui, per quanto mi riguarda, tutti siamo comici. Poi ci sono quelli che di fronte a paure e tragedie non osano sdrammatizzare perché ne hanno fatto un fattore morale. Poverini. E rimangono schiacciati dalle paure e dai loro traumi. Io non faccio altro che questo. Esorcizzo ogni paura o pericolo che esista nella vita. Certo, mettici che poi a farlo sono il più bravo di tutti. Ma questo è un dettaglio».
C’è stato un momento in cui le si è accesa l’idea o anche lei faceva ridere già a scuola?
«No. Perché, lo ripeto, non sono un comico. Io mi sono sempre limitato a dire quello che vedo di una cosa. È la gente che ride. Mica io. Cazzi loro».
Cosa le ha fatto decidere di fare dell’arroganza e del cinismo un genere comico?
«I soldi. Io, ripeto, non sono un comico. Sono un imprenditore».
C’è qualche modello a cui si è vagamente ispirato?
«No. Non sono un comico. Non ricordo se l’avevo già detto».
Anche la sua agenzia «Dasoloproduzioni» è drastica: niente film finanziati coi soldi pubblici, niente piattaforme che fanno serie per cerebrolesi, solo i suoi spettacoli: i testi li scrive tutti da solo?
«Io racconto di me. Le mie esperienze. Le cose che vedo. Le cose che sento. Non ci sono testi».
Può anticiparci cosa farà all’Ariston? Sarà un pezzo inedito?
«Chi dice che ci andrò? E se ci andrò chi dice che parlerò?».
Come fa a far ridere stando anche alcuni minuti in silenzio.
«Loro ridono perché hanno empatizzato con me. Sanno chi sono. Cosa penso. Per loro sono un amico. Una persona di famiglia della quale conosci tutti i connotati, pregi e difetti. Nel mio caso soprattutto i difetti. Quindi non mi serve fare altro. Perché io sono entrato nella loro testa. Conoscono il mio carattere. E sanno che da un momento all’altro potrei dire una cosa che fa crollare tutto. Questo disagio viene scaricato con una risata. Che, come le dicevo, serve ad alleggerire la tensione che creo».
Teme che mercoledì all’Ariston qualcuno in platea possa irritarsi per le sue provocazioni?
«No. Non lo temo. Lo spero».
Negli anni scorsi guardava il Festival?
«È successo. Tutti nella vita facciamo degli sbagli».
Cosa pensa di Chiara Ferragni e del mondo degli influencer?
«Non sono argomenti che tratto».
Dopo Perché mi stai guardando? e Da vivo, i suoi precedenti show, il prossimo spettacolo s’intitolerà Sono cambiato. Sbaglio se temo che sarà ancora più caustico?
«Chi può saperlo. L’unico modo per scoprirlo è stare lì. Adesso vi saluto che c’ho da fare».

 

La Verità, 7 febbraio 2023

«Io e Ricci, la più longeva simbiosi della satira»

Lorenzo Beccati non si vede mai, ma è popolarissimo. Forse non di nome, ma per la voce, che è quella del Gabibbo di Striscia la notizia, di cui è autore storico. Genovese di nascita, residente ad Alassio, la città di Antonio Ricci con il quale lavora da quarant’anni, Beccati si sta ritagliando uno spazio anche come scrittore di thriller storici, grotteschi, gialli. L’ultimo romanzo, pubblicato da Oligo editore, s’intitola Uno di meno, ed è ambientato nella Genova del 1600.

Quando e perché ha cominciato a scrivere?

Quando facevo cabaret nei teatrini con il mio gruppo, i Cospirattori, scrivere era una necessità. Parliamo degli anni Settanta. Visti i buoni risultati, altri comici mi hanno chiesto di farlo per loro. Ho collaborato a lungo con Gigi e Andrea e Pistarino. Ci sono autori che suggeriscono idee e fanno una scaletta. Io e Ricci siamo della vecchia scuola, ligi al copione parola per parola. Una puntata del Drive in era una roba di 50-60 pagine. Siccome poi ho sempre amato i libri, a un certo punto ci ho provato.

Perché romanzi storici?

All’inizio erano libri umoristici… Poi ho cominciato a incuriosirmi alla storia di Genova, ai carruggi… Ho scoperto il 1600, il secolo delle Repubbliche marinare e della nascita delle banche. Ho consultato testi antichi, frequentato gli archivi di Stato e ora mi sento a casa in quell’epoca. Uno dei primi romanzi, Il guaritore di maiali, vendette discretamente ed è stato tradotto in Germania. Così, ho proseguito.

Dietro la trama di fantasia c’è molta documentazione?

La base è la storia reale. Nell’ultimo romanzo c’è un Doge durato appena 40 giorni, il dipinto di Bernardo Strozzi della ragazza che spiuma le oche, «il genovesino», un tipo di coltello… Un attore scrive il monologo e poi improvvisa. Anche nel romanzo storico c’è ambiguità, realtà e fantasia si mescolano come nella comicità. Nelle note finali preciso cos’è reale e cos’è finzione.

Quando trova il tempo di scrivere?

Durante l’anno sarebbe impossibile. Ma d’estate, ad Alassio, cedo raramente al piacere del mare e mi dedico alla scrittura.

Serve a decantare lo stress del lavoro di autore tv?

Diciamo che è un lavoro più interiore, mentre quello di Striscia è collettivo, di condivisione di testi che innescano il monologo del comico o chiudono i servizi. Striscia è centrata sull’attualità, io mi rifugio nella storia. Sono diversi anche i tempi: pochi minuti in tv, orizzonti ampi nei romanzi. Anche se i miei non sono bestseller, ho un pubblico di fedelissimi. Ultimamente capita spesso che qualcuno di loro mi chieda di firmare copie dei miei primi libri.

Con la letteratura cerca la visibilità che il lavoro di autore non dà?

Assolutamente no. Innanzitutto perché come autori si è conosciuti. E poi, se mi fosse interessata la visibilità, avrei potuto continuare a fare il cabarettista. Mi è più congeniale stare dietro le quinte. Infine, interpretando il Gabibbo sono conosciuto pur non apparendo. Anche Antonio, che sul palco era molto bravo, quando s’impose Beppe Grillo scelse di cambiare vita e concentrarsi sui testi. Dal Drive in a oggi sono passati quarant’anni: salvo pochissime eccezioni, come autori si dura di più dei comici.

È molto duraturo anche il suo matrimonio professionale con Ricci.

Ci siamo conosciuti in vacanza, ma non ci siamo subito frequentati. All’inizio degli anni Settanta Antonio si esibiva con sua sorella Cecilia nel teatrino di Piazza Marsala a Genova. C’erano anche Paolo Poli e Paolo Villaggio. Io iniziai al Teatro Instabile, si chiamava così in polemica con lo Stabile di Genova e anche perché ci cacciavano spesso. C’erano Tullio Solenghi e Beppe Grillo… Non avevo ancora 18 anni.

Come arrivò a Drive in?

Scrivevo i testi di Pistarino e Ricci mi chiese di collaborare con continuità. Era il settembre del 1984, da allora lavoriamo gomito a gomito.

Che esperienza è lavorare con uno così?

È imparare da un genio, da una persona che va a caccia della verità. Anche quando montiamo i servizi, c’è sempre grande rigore. Ricci è uno che la satira ce l’ha «pronta beva», come diciamo noi.  Conosce i meccanismi della comunicazione come nessun altro. Satira e comunicazione sono una vena inesauribile nella quale gli autori hanno grande possibilità di inventare e creare satira.

Mai pensato di fare nuove esperienze?

E perché mai? A qualcuno può sembrare che esageri, ma il lavoro a Striscia è appagante.

Conducete una vita monacale.

Iniziamo alle 9,30 e finiamo alle 21,30, dopo la messa in onda. L’indomani ricominciamo da capo, come le casalinghe. Dove sono gli inviati, cosa scrivono gli autori, a chi porta il Tapiro Valerio Staffelli… Stiamo sempre sul pezzo, il telefono non si spegne mai. Arrivano centinaia di segnalazioni al giorno.

Anche nei migliori matrimoni ci sono incomprensioni e contrasti: voi?

Discussioni su lavori da correggere, quelle sì. Ma screzi veri mai. C’è grande rispetto tra persone che si vogliono bene. Se non fosse così, all’età che abbiamo e non avendo figli potremmo anche separarci…

Qual è stata la soddisfazione più grande come autore?

Impossibile dirlo perché è un lavoro gruppo. Non lo potrebbe dire nessuno. Abbiamo fatto tante campagne importanti, da Vanna Marchi alle mascherine anti Covid, ma è tutto condiviso.

Come dividerebbe le percentuali del successo di Striscia la notizia: genialità di Ricci, lavoro di squadra, documentazione…

La direzione e la capacità di Antonio conta per il 50%. La ricerca maniacale della verità il 20%. L’appoggio del pubblico e le segnalazioni esterne il restante 30%. Il contributo della gente è importante per trovare le notizie e partire con le campagne o i tormentoni.

Cosa fate quando arrivano le segnalazioni?

C’è un gruppo di persone che le vaglia e fa le prime verifiche. Poi incarichiamo gli inviati sul territorio di approfondire. Il 90% delle segnalazioni è vero. Infine, c’è il lavoro degli autori, una dozzina in totale.

Quanto conta il talento e quanto l’applicazione?

Il talento non si insegna, l’applicazione sì. Bisogna stare sul pezzo, lavorare di lima. Ci sono anche gli impiegati della risata perché la battuta, in fondo, è una formula matematica. Ma è il talento a fare la differenza.

Ricci legge i suoi libri?

È il primo a riceverli e in pochi giorni mi dà il suo giudizio. Non ama i gialli, Il pescatore di Lenin è il suo preferito. Una volta mi ha preso in castagna su un cantante lirico che avevo descritto come tenore, invece era un baritono.

Ha già in mente il prossimo?

Mi sono incuriosito al filetto alla Voronoff, scoprendo che Serge Voronoff fu un famosissimo chirurgo e sessuologo, un uomo molto ricco del secolo scorso. Si era occupato del ringiovanimento sessuale maschile attraverso l’innesto dei testicoli di scimpanzè. Ha vissuto in un grande castello a Ventimiglia fino al 1939, quando fu costretto a fuggire in America. Tornò a guerra finita e rimise a posto il castello bombardato. Ora è un bad&breakfast di lusso.

Ha mantenuto i rapporti con il gruppo di comici dei primi anni?

Con Grillo non ho mai avuto rapporti diretti. Ogni tanto vedo quelli del Drive in, seguo gli spettacoli di Solenghi, di Pistarino, di Sergio Vastano e leggo i libri di Enzo Braschi. Mi manca molto Giorgio Faletti.

 

Panorama, 27 aprile 2022

«In Romagna si sta bene perché c’è il matriarcato»

Paolo Cevoli lo inseguivo da parecchio. Avevo visto le sue parodie della Bibbia e a più riprese ho tentato, invano, di intervistarlo. Dall’epoca di Palmiro Cangini, il confusionario assessore che faceva divertire il pubblico di Zelig, Cevoli si è reinventato con nuovi show e filmati sui social con centinaia di migliaia di visualizzazioni. La pandemia gli ha fatto interrompere il tour dello spettacolo La sagra famiglia. Siccome, dopo Cent’anni di Roncofritto (Premio Forte dei Marmi) e Mare mosso bandiera rossa (Premio Flaiano) ora sta per uscire Manuale di marketing romagnolo (Solferino), le remore sono cadute. Ma non tutte: alcune, sull’attualità, resistono.

Questo libro è figlio del lockdown?

«Figlio dell’isolamento».

Come l’ha trascorso oltre che scrivendo?

«Bisticciando con mia moglie. Eravamo come Robinson Crusoe e Venerdì. Anzi, io ero il pallone Wilson nel film Cast Away che aiuta Tom Hanks a sopravvivere nell’isola».

È stata un’esperienza faticosa?

«Come per tutti, credo. Abbiamo dovuto rinunciare a tante cose. Però, oltre a scrivere il libro ho imparato a postare dei video sui social che altrimenti non ci avrei nemmeno pensato. Anche per mancanza di tempo».

Si definisce «venditore professionale di aria fritta»: primo consiglio, partire dalla consapevolezza di sé?

«Il segreto del marketing è questo. Ci sono due soggetti, come per esempio io e lei, e bisogna essere consapevoli quando si parla. Bisogna sapere chi sei te, chi hai di fronte e quello che c’è nel mezzo».

Un’altra definizione riguarda la sua terra dove regna «un clima di spensierato patachismo che rende la Romagna un posto unico al mondo». Secondo consiglio, la consapevolezza delle proprie radici?

«A me piace molto anche la definizione di Patrizio Bertelli di Prada: “I romagnoli hanno un simpatico complesso di superiorità”».

Importante che sia simpatico.

«Il romagnolo sa che quello che ha ricevuto dal Padreterno, dalla natura o dai propri avi dev’essere dato agli altri e non trattenuto fra le chiappe. Per esempio, la Liguria è un posto stupendo, però lì i turisti infastidiscono».

I liguri amano il turismo, ma non i turisti.

«Amano i soldi dei turisti».

Invece il vostro senso di ospitalità da dove arriva?

«È un mistero».

Ipotesi?

«È come dire perché sono piccolo, pelato e tracagnotto».

Magari somiglia ai suoi genitori?

«Non so bene perché siamo ospitali. O perché i toscani non lo sono. Magari è perché vediamo il sole sorgere mentre in Toscana lo vedono tramontare?».

Con la vostra ospitalità, Giuseppe e Maria sarebbero finiti in una mangiatoia?

«Certo che no. Avrebbero trovato posto perché l’albergatore sarebbe andato a dormire in garage e loro in camera sua».

Ma la storia sarebbe stata diversa.

«Infatti, meglio che siano andati lì. Non me la sento di criticare il Padreterno per la scelta della location».

La Romagna è stata una scuola di sopravvivenza?

«L’esempio giusto è quello di Tom Hanks in Cast Away. Ci si tengono strette le cose che aiutano a sopravvivere. Il pallone Wilson, che rappresenta la compagnia, uno scopo e l’immagine della moglie che è il motivo per tornare. La Romagna è forte nella compagnia, nello scopo e nell’amore».

Lo scopo è fare la grana?

«Secondo lei? È lo star bene e il fare star bene».

Questo libro è un omaggio ai suoi genitori e al pionierismo imprenditoriale di suo padre?

«Alla pensione Cinzia in piccolo c’era già tutto. È stato un apprendistato di marketing familiare. I social e il telefono, la promozione, l’upgrade e tutto il resto. Il seme era seminato. Come alle scuole elementari, ti infarini con tutto. Poi sviluppi e approfondisci il programma fino all’università».

Perché per i romagnoli il maiale è il migliore amico dell’uomo?

«Perché non si butta via niente, si immola sulle nostre tavole. E della maiala si tiene anche il numero di telefono».

È sicuro che un’espressione così si possa usare?

«Dipende dalle persone».

Si sente totalmente libero nel mestiere di comico?

«La comicità deve nascere da un aspetto affettivo, mai dal cinismo e dalla cattiveria. Mi hanno sempre detto che sono piccolo, pelato e tracagnotto. Sono abituato a essere preso in giro. E poi il politicamente scorretto fa parte dell’indole romagnola».

È sicuro che tutto il mondo invidi lo stile di vita italiano?

«No, non sono sicuro di niente».

Con la pandemia veniamo da un periodo non proprio fulgido.

«Per me l’Italia, con tutti i suoi difetti, è il più bel Paese del mondo. Anche mia moglie ha avuto il suo Mottarone, ma se m’impunto sui difetti mi avvilisco. Brigitte Bardot aveva i nei in faccia, però non è che ci si fermava a quello».

Invece noi invidiamo la lingua inglese. I capitoli del libro sono intitolati in inglese mentre potremmo usare parole italiane.

«Anche ai tempi dei romani si usavano più lingue. L’inglese dell’antica Roma era il greco e poi c’erano i dialetti. Non so se sia un bene o un male. È così: la pandemia è un male, ma alcune cose sono cambiate. Da un naufragio possono nascere fatti positivi, come diceva Fabrizio de André, dal letame nascono i fiori. Io cerco di vedere il bicchiere tutto pieno. Ma ci sono quelli che lo vedono mezzo vuoto o che non vedono neanche il bicchiere».

Perché il cameriere e l’attore sono lo stesso mestiere?

«Perché sono figure che servono gli altri dando sé stessi anche senza dare qualcosa di proprio. Il cameriere porta il cibo del cuoco, l’attore rappresenta un copione. Sono professioni che puntano a fare star bene gli altri. Magari anche altri mestieri sono così, ma io ho fatto questi due. E per un po’ anche l’imprenditore».

Perché nelle località turistiche si stentano a trovare lavoratori stagionali?

«Non lo sapevo».

Qual era il segreto di suo padre per farvi lavorare alla pensione Cinzia?

«Ci faceva divertire con le barzellette. Diceva che bisognava essere felici sia in cucina che in sala perché i clienti volevano della spensieratezza. La cucina era la quinta del palcoscenico».

Perché la prima volta che Gino e Michele le proposero di lavorare a Milano rifiutò?

«Avevo avviato un lavoro con altri soci e non mi sentivo di mollarli. E non credevo di essere all’altezza».

Oggi lo rifarebbe?

«Col senno di poi dico che ho fatto bene. Non ho perso niente. Ho debuttato 12 anni dopo, ma sono stati anni molto belli, che sono serviti per la mia carriera di oggi. È difficile fare il gioco del what if, tanto per restare all’inglese, chiedersi che cosa sarebbe accaduto se…».

C’è stato qualcuno che l’ha convinta a fare il comico?

«Gino e Michele quando mi hanno chiamato a Zelig».

E in gioventù, cosa le ha acceso la lampadina?

«Al liceo un professore mi costringeva a raccontare le barzellette in inglese. Io prendevo le storie del mio babbo e le traducevo. Facevano ridere anche per gli strafalcioni. “Tu devi fare l’attore”, ripeteva il prof».

Perché in Emilia-Romagna comandano le donne?

«Perché è una società antica e contadina. Se il mondo va come in casa mia… Quando hanno chiesto a Draghi se avrebbe fatto il primo ministro, ha detto di domandarlo a sua moglie. Forse non era solo una battuta».

Comandano le donne perché è una regione con due nomi femminili?

«Emilia e Romagna sono tenute insieme dal trattino. Che può essere un elemento di unione o di divisione. A volte mi chiedono che differenza c’è tra l’Emilia e la Romagna. Io preferisco dire le cose che uniscono».

Le donne romagnole diffideranno delle pari opportunità?

«Non lo so, deve chiederlo a loro».

Perché il personal computer è la vanga del terzo millennio?

«È una boutade per parlare della nuova schiavitù. Come i contadini s’ingobbiscono sulle zolle per produrre i frutti della terra, così noi ci ingobbiamo sul pc o sullo smartphone per produrre i frutti del tunnel carpale. Sono strumenti che non ci fanno alzare gli occhi».

Nel libro propone 4 modelli di persone in base a competenza e impegno: Valentino Rossi, molto talento e molta applicazione, Balotelli, più talento che impegno, Madonna, più impegno che talento, Problem creator, né l’uno né l’altro. Proviamo a incasellare alcune persone note?

«Preferirei di no».

Lei dove si inquadrerebbe?

«Non ne ho la più pallida idea».

Test di modernità: che cos’è la Spid?

«Non saprei».

L’app Immuni l’ha scaricata?

«No. Ho avuto il Covid, quasi senza accorgermene».

E come l’ha capito?

«Ero risultato positivo a un tampone rapido e poi anche al molecolare. Mi sono messo in isolamento, ma non avevo sintomi».

Meglio così. Partecipa al cashback e alla lotteria degli scontrini?

«Uso la biro».

È iscritto alla piattaforma Rousseau o vuole mantenere l’incognito e far dispetto a Giuseppe Conte?

«Non sono iscritto a niente. Non amo parlare di politica, preferisco la comicità alla satira, da bambino mi piacevano Stanlio e Ollio, non Alighiero Noschese».

Dove va in vacanza?

«A Riccione. Ci vengono anche i miei figli che vivono a Milano. È l’occasione per ritrovarsi anche con mio fratello e gli amici. Vado in bicicletta, faccio le passeggiate. Poi vado qualche giorno in montagna».

Cosa guarda in televisione?

«Neanche il telegiornale perché mi avvilisco. Leggo solo i giornali. Quando facevo Zelig non mi rivedevo, anche perché lavoravo di sera. Da quando sono sposato abbiamo un monitor con il videoregistratore e i dvd».

L’ultimo programma visto?

«Prima di andare all’università: L’altra domenica di Renzo Arbore, Odeon… Preistoria».

Poi basta?

«Non ho l’antenna. Se volessi vedere i canali Rai, Mediaset o La7 dovrei andare da un amico. Vedo le serie e i programmi in streaming. Qualche sera fa ho visto Il cattivo poeta al cinema. Poi una birra con gli amici e mia moglie, non mi sembrava vero».

Il prossimo progetto?

«Sto lavorando a una web serie con storie di fallimenti e rinascite. S’intitolerà Capriole. Racconterà persone che hanno toccato il fondo e sono rinate. Carcerati, tossici, imprenditori falliti, disabili: un progetto che faccio pro bono grazie a uno sponsor che pagherà i costi. Don Oreste Benzi mi ha insegnato che l’uomo non è il suo errore. Provo a dar voce a chi testimonia questo. Tra qualche giorno posterò sui social La dritta via che racconta Dante in Emilia Romagna».

 

La Verità, 5 giugno 2021

Perché i comici continuano a floppare nei talk show

L’altra sera, ad Agorà duemiladicassette, Gerardo Greco ha tentato un incipit originale. Dopo aver elencato alcune grane di giornata (il rinvio a giudizio dei vertici delle Ferrovie dello Stato, l’arresto di una famiglia che trafficava in armi con l’Isis, l’assegnazione ai domiciliari del pm del delitto di Cogne) ha passato la linea all’Orchestra filarmonica della Rai di Torino per farle eseguire – orgoglio della casa – la storica sigla d’inizio e fine trasmissioni (Rai 3, ore 21.10, share del 4,04 per cento). Da lì, passando per Aquara (Salerno), dove un masso caduto per una frana giace sulla carreggiata stradale da due anni impedendo la circolazione, la linea è tornata in studio per l’esibizione di Lillo e Greg, qualche giorno fa ospiti di Gigi Proietti e a breve in tour con il loro nuovo spettacolo. All’interno di un varietà, un duo comico può trovare, anche se non è scontato, la propria collocazione e la propria misura. Più difficile è la contestualizzazione all’interno di un talk show. Non si sa se il numero che la coppia comica ha proposto fosse stato provato o meno, fatto sta che, partendo dal masso giacente in strada, Lillo e Greg hanno tentato d’imbastire una sequenza di situazioni esagerate che niente avevano a che fare con lo spunto iniziale. Una serie di iperboli, di stranezze fatte di suite d’albergo a 62.000 euro a notte, di ristoranti di sushi «migliore del mondo sotto casa mia» dove «vengono tutti i giorni da Tokio», di amici che si sono fatti «l’elicottero con le lattine di birra», di Putin che «è una donna»… e via inventando, nel gelo dello studio. Se voleva essere una gag sulle bufale della post-verità non s’è ben capito. Erroneamente, il regista ha inquadrato il conduttore dubbioso. Ma così vanno le cose in questi giocosi tempi: con tutte le crisi d’identità di cui soffrono i talk show, ci manca pure che s’incarichino di far divertire. Lo chiamano «momento di alleggerimento» e quindi, chiunque tenga un salotto televisivo prova a scoprire o a lanciare qualche talento comico. Poi gli esiti sono come quelli dell’altra sera ad Agorà. Oppure come quelli di Piazza pulita e l’indigeribile Tgporco di Sabina Guzzanti. Lo stesso Giovanni Floris non ha ancora elaborato il lutto per la perdita di Maurizio Crozza e ci prova e riprova con Maurizio Lastrico o con Maurizio Battista, con risultati finora modesti. Perché la famosa contestualizzazione non si percepisce e comici in grado di far ridere con l’attualità politica non si inventano da un giorno per l’altro.

La Verità, 2 febbraio 2017

Il Celentano divertito che elogia Lucarelli bastian contrario

Celentano è tutti noi. È il mito, l’icona, il perfetto arcitaliano, intelligente, arguto e pop allo stesso tempo. Come si fa a contraddirlo? Impossibile: ha ragione per contratto. Ha ragione per default. Ok? Perfetto! Poi però cominciamo a leggere e proviamo a ragionare. Adriano, nome di battesimo, è anche un istintivo, un bambino grande, geniale e adorabile allo stesso tempo. E lo è ancor più quando non ha vicino Claudia Mori, l’anima sanamente cinica della coppia. Bene, l’altra sera “Claudia era particolarmente stanca e per una volta è andata a letto presto e senza di me”, scrive lui sul blog Ilmondodiadriano.it  parlando di Eccezionale veramente trasmesso da La7. “Tutto a un tratto mi accorgo di essere in compagnia di quattro simpatici e una ragazza non solo simpatica, ma arguta. A partire dal bravissimo Gabriele Cirilli, Paolo Ruffini, Abatantuono e l’amico Renato con il quale ho condiviso due film di successo. E poi lei, l’affascinante Selvaggia che fra i giurati, devo dire, lei è quella che ci azzecca più di tutti”.

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Sopra le righe del post una foto mentre si sganascia, a sottolineare che la sera dello show ha “riso parecchio!”. Beato lui. Poche cose sono più opinabili di ciò che fa veramente ridere. Soprattutto se non siamo di fronte a campioni della comicità come l’altra sera. Lo dimostrano anche le valutazioni discordanti dei tre giudici e dell’impareggiabile Renato Pozzetto.

E lo dimostrano anche le frequenti e convincenti bocciature “dell’affascinante Selvaggia che fra i giurati è quella che ci azzecca più di tutti”. Adriano invece si è divertito assai e ha “riso parecchio!”, col punto esclamativo. Mah…

Se Lucarelli dovesse giudicare il suo programma…

Evidentemente ci credevano parecchio. Da giorni su La7 era in corso il countdown che avvertiva il ridursi dell’attesa che separava dalla messa in onda. Meno tre, meno due, uno… Anche le vistose paginate di pubblicità sui quotidiani con il poker composto dai giurati e dal presentatore, più ridanciani che mai, indicavano che l’appuntamento, deciso prima della nomina a direttore di Fabrizio Salini, era Eccezionale veramente. Nel frattempo Piazzapulita di Corrado Formigli era stata spostata al lunedì, non si sa con quanto piacere del conduttore. In termini di audience il risultato non è stato pessimo: nella serata di Don Matteo e dell’edizione speciale delle Iene (spostate occasionalmente dal martedì), il 3,73 per cento (854mila spettatori) ci può stare. Oltre gli ascolti, la nota lieta della serata è arrivata dalla partecipazione di Renato Pozzetto nel ruolo di quarto giudice, un gigante in trasferta, lapidario e fulmineo nei giudizi. Purtroppo è tutto il resto che non gira: la giuria, lo studio, il livello delle gag abbastanza modesto, il pubblico che applaude in continuazione, stimolato da Gabriele Cirilli che lodevolmente si sfianca per convincersi e convincere che siamo di fronte a “un contest” di qualità; che sono stati visionati “più di 500 provini” (o erano “seicento”, o “quasi mille”); che il premio finale di 100mila euro e due anni di contratto con la Colorado Film di Diego Abatantuono è astronomico; che vedremo prove di “comicità trasversale, dalla barzelletta allo stand up”; che il livello è alto; che la giuria è quanto di meglio, autorevole e competente, severa ma equa eccetera.

Ecco, la giuria. Del capitano, il mitico Diego, va apprezzata l’umiltà di mettersi in gioco in prima persona per il suo marchio storico. Il suo impegno diretto ha tutta l’aria di essere una condizione imprescindibile per la realizzazione del progetto e l’inaspettato buonismo con cui ha valutato i concorrenti sembra un grande sforzo per dare plausibilità a tutta l’operazione. Purtroppo, proprio questo buonismo la rende poco credibile. Il colpo di grazia alla credibilità, che per un nuovo format è tutto, arriva invece da Paolo Ruffini. Può Ruffini giudicare il talento e le esibizioni comiche di qualcuno? Infine, Selvaggia Lucarelli, giornalista che porta in giro la sua fama di bella ma carogna, blogger, maitre à penser del gossip, giurata di Ballando con le stelle con all’attivo collisioni dialettiche con Asia Argento, Morgan, Enrico Papi e Platinette. Bene: nove volte su dieci concordavo con le sue bocciature. Perciò, la domanda sorge spontanea: se fosse una giurata televisiva (non c’è due senza tre), applicando il suo abituale metro di giudizio, Lucarelli promuoverebbe Eccezionale veramente o pigerebbe sull’emoticon con le labbra all’ingiù per far sospendere immediatamente il programma?