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L’uomo che ascoltava papà Sgarbi

Non era uno scrittore della sua generazione, ma della nostra. I suoi racconti del passato riguardano il presente. Si sa com’è, i vecchi hanno una memoria asimmetrica, ricordano con nitidezza i fatti lontani e scordano quelli recenti. Era come se guardasse la realtà con il binocolo rovesciato, rimpicciolendo le storie. Gli sembrava tutto normale e non lo era per niente. Io lo invitavo a rimettere il binocolo dalla parte giusta, per ingrandire le immagini. La guerra, la campagna di Grecia, il viaggio a Tirana, 600 chilometri a piedi e in treno per recuperare un po’ di sigarette per i commilitoni, il compleanno da solo sul lungomare, il ritorno a casa. Poi l’alluvione del 1951, l’apocalisse che distrusse quel poco che la guerra aveva lasciato in piedi o che aveva appena ricostruito gente come la Nena, l’unica donna che riusciva ad attraversare la piena col suo barchino, portando in salvo chi era in pericolo. Ascoltavo quei racconti e assistevo a un’epopea, come in certi film di Bernardo Bertolucci. La sua memoria mi affacciava su un emisfero ignoto: quella civiltà contadina che noi, figli della società industriale e tecnologica, non abbiamo vissuto». Giuseppe Cesaro, giornalista, editor che presto pubblicherà Indifesa, il suo primo romanzo per La nave di Teseo, è stato per cinque anni il confidente, lo scrivano, il collaboratore silente di Giuseppe Sgarbi, detto Nino. Lo scrittore di quella estrosa famiglia di farmacisti, critici d’arte, editori. Il capostipite riservato. Il custode di tutto, rimasto nell’ombra fino a 93 anni, quando ha ceduto alle insistenze della figlia Elisabetta, convinta, a ragione, che le sue memorie avessero dignità letteraria. Ora che Nino è scomparso, novantasettenne, poco prima che fosse pubblicato il suo quarto libro, Il canale dei cuori (Skira), vien da chiedersi come si aiuta uno scrittore esordiente ultranovantenne che, siccome ci vede poco, ha bisogno di dettare? Che tipo di affinità s’instaura tra il protagonista di quei racconti e chi li trasferisce sulla pagina?

 

Giuseppe Sgarbi, morto nel gennaio scorso

Giuseppe Sgarbi, morto nel gennaio scorso

«Quella mattina nella casa di Ro Ferrarese c’era solo la Rina, sua moglie», riprende Cesaro. «Vittorio si è sempre visto ai suoi orari. Elisabetta era al lavoro a Milano. La conoscevo da una decina d’anni. “Mio papà è una miniera di storie”, mi aveva confidato. “Ho bisogno di una persona che sappia ascoltare, a cui possa affidare i ricordi senza timore di effrazioni nel suo mondo”. Così, eccomi lì, davanti a questo signore tranquillo, riservato, gran lettore, che citava a memoria poeti su poeti. E che mi scrutava, mentre io facevo finta di nulla e gli davo rispettosamente del lei, per non violare le regole della sua sensibilità. Sedevamo in giardino: “Qui tutti mi chiamano Nino, ma in realtà il mio nome è Giuseppe, come lei”, disse. Allora gli raccontai che mio padre aveva la sua età ed era nato a Badia Polesine, pochi chilometri distante dalla sua Stienta. E lui mi chiese, titubante: “Ma lei è proprio sicuro? Elisabetta insiste tanto…”. “Proviamo, vediamo che cosa viene fuori”, incoraggiai».

Finora, son venuti fuori quattro libri di memorie. Ai primi tre, Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro e Lei mi parla ancora, struggente lettera alla moglie scomparsa, si è aggiunto Il canale dei cuori, uscito postumo, e dedicato al cognato Bruno Cavallini, fratello di Rina, intellettuale raffinato, il vero maestro di Vittorio. Nei cassetti di Cesaro, però, c’è materiale per altri due mémoires. «Uno dovrebbe intitolarsi Dietro il banco e raccogliere i ricordi di farmacista di Nino. Si sa com’era una volta: insieme al prete, al sindaco e al medico, nei piccoli paesi il farmacista era un’autorità. A quei tempi spesso i medicamenti venivano preparati su misura, come fa il sarto con gli abiti. L’ultimo libro dovrebbe intitolarsi Il viaggio non è finito e raccontare il rapporto con il tempo, con la vita e la morte, attraverso il fiume, il suo fiume, che è stato la culla dei ricordi. Io ho sempre fatto attenzione a rispettare la sua riservatezza, le sue reticenze, la volontà di non violare l’intimità che aveva costruito con la Rina. Era una donna pirotecnica. Lo prendeva in giro, gli diceva che era veneto, falso come tutti i veneti, e lo chiamava ancora “il mio bambino”. Ma quando non c’era, si sentiva persa. Era anche gelosa e un pochino snobbava il suo nuovo impegno letterario». Nel Canale dei cuori lui la racconta così: «O scrivi o vivi. Credo sia impossibile fare le due cose insieme. Farle bene, voglio dire. Per una questione di attenzione, più che di tempo. Bisogna scegliere a cosa dedicare le energie migliori. La vita è come la pagina: le devi stare dietro con la testa, altrimenti è un disastro. E finché c’era la Rina…».

«Quando penso a Nino», continua Cesaro, «mi viene in mente George Harrison che faticava a convincere John Lennon e Paul McCartney a inserire nei dischi qualche suo brano. Appena i Beatles si sciolsero, con tutte le canzoni rimaste nel cassetto incise All Things Must Pass, un album triplo che ebbe enorme successo. Nino ha aspettato che il tempo rallentasse, che la piena scendesse e finalmente, dopo aver ascoltato e letto una vita, ha cominciato a ricordare e a scrivere».

Non dev’essere stato facile rispettare il suo linguaggio, così originale. «Si esprimeva in una lingua molto personale. Un lessico che in parte mi era familiare, perché somigliava al dialetto di mio padre. Ma il suo era un italiano più complesso e sfaccettato. Era stato mandato a scuola a Camerino, ospite di un fratello del papà. Poi le superiori ad Ancona, dove aveva cominciato a leggere e dov’era rimasto affascinato dagli idrovolanti. La guerra lo aveva portato in Grecia e in Liguria. Aveva un vocabolario ricco, come una lingua di foce che raccoglieva tanti affluenti».

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta

Come lavoravate? «Vivo a Roma, appena avevo qualche giorno libero mi trasferivo a Ro. Ci vedevamo al mattino, lo ascoltavo per un paio d’ore. Registravo e prendevo qualche appunto per ricordarmi la sequenza degli argomenti. Dopo pranzo si lavorava un’altra oretta, poi andava a riposare. Io controllavo date e riferimenti geografici e la sera gli facevo una specie di riassunto. Il giorno dopo, a volte, ripeteva ciò che aveva già detto e quando glielo facevo notare annuiva: “Sì, però non ti avevo detto quest’altro”. Così la storia si arricchiva di nuovi dettagli. Era come un lungo filò davanti al camino, che cercavo di riordinare, facendone un montaggio coerente. Una volta sbobinato il materiale glielo rileggevo e lui si stupiva: “Davvero ho scritto questo?”. Magari correggeva qualcosa. Alla fine mandavo tutto a Elisabetta che rileggeva a sua volta e rispediva per l’ultima lettura di Nino, con una grossa lente su caratteri enormi».

Avete avuto discussioni sui contenuti? «Vittorio avrebbe voluto racconti più intimi. Ma lui ripeteva: “L’arte è di tutti, la vita è di quelli che l’hanno vissuta”. Mi sentivo come l’ospite che aspetta l’invito del padrone per oltrepassare la soglia di casa. Una volta entrato, ero come un’ostetrica che aiuta la memoria a spingere fuori i ricordi. Citava i suoi poeti, Petrarca, Pascoli, Leopardi, le letture di gioventù, i francesi, Emilio Salgari… Se qualche volta gli mancava un verso glielo trovavo su internet. Oppure con Google maps lo riportavo nei posti dov’era stato tanto tempo fa. Riconosceva la piazza di Camerino, i viali di Ancona, le strade di Sanremo. Ricordava e tornava bambino. Io guardavo lui che guardava il computer. Anche sulla soglia dei cent’anni gli occhi sono l’unica cosa che non cambia di un uomo. I suoi erano uno spettacolo».

 

Panorama, 15 marzo 2018

 

 

Ritratto di famiglia in un castello

Condividere la bellezza. Esiste esperienza più coinvolgente? Spartire la grazia, partecipare di una sensibilità, di un sentimento del vivere. Visitare la collezione Cavallini Sgarbi (fino al 3 giugno) allestita dall’omonima Fondazione nelle sale del cinquecentesco Castello Estense di Ferrara è fare questa esperienza. Si scrutano le opere, 140 capolavori da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati, dal 1300 al secolo scorso, «scelti con assoluto rigore, sopportando gli strali di mio fratello», confida Elisabetta, «tra le cinquemila opere della casa di Ro Ferrarese», e si vedono loro. Vittorio, con la sua fame erudita e frenetica di vita e arte. Mamma Rina, socia complice in questa avventura di accumulo e valorizzazione del bello. Elisabetta, motore e mente razionale, lucida e fattiva, curatrice di ogni dettaglio. Papà Nino, custode di questa bramosia, che ha saputo riflettere nei tramonti sull’acqua filmati in Il mio fiume (2010). Protagonisti nell’ombra. E protagonisti reali di una storia irripetibile che comincia là dove la mostra finisce, nella «Stanza dei giochi» dei bambini, davanti a una Madonna (1550-60), bambola in legno con le calze rosse di Nero di Sansepolcro, con le foto di Vittorio che guida una macchinina da corsa, e di Elisabetta con il binocolo regalatole da papà Nino per osservare meglio la realtà: una storia che fa da punteggiatura ai capolavori, resa dall’album di famiglia in bianco e nero, come attori di ieri e di oggi, per dire che, in fondo, il vero capolavoro siamo noi, con la nostra sete e il nostro desiderio inestinguibile.

L’ingresso nella prima sala, vicino a una porta che riproduce quella della casa di Ro, è preceduto dalle dediche ai genitori: «A mia madre, Rina Cavallini, che ha risposto a ogni mia richiesta. Ed è qui, in Paradiso, fra queste stanze», scrive Vittorio. «A Nino, mio padre, che ho scoperto scrittore. E questo resterà per sempre», gli fa eco Elisabetta. Ci si inoltra, dunque, nelle sale ornate di rosso, accompagnati dalle immagini di mamma Rina che fa gli onori di casa. Vediamo i cofanetti di fine Trecento della Bottega degli Embriachi, prima di entrare nella stanza degli «Antichi maestri», con il busto di un imponente e assorto San Domenico (1474), opera di Niccolò dell’Arca, scovato a sorpresa da Vittorio «nella bottega di un antiquario colto a Roma». Subito dopo ci accolgono il magnetico Cristo benedicente (1486-87) di Jacopo da Valenza e la cinematografica Madonna del latte tra sant’Agnese e santa Caterina d’Alessandria (1490) di Antonio Cicognara. Si fa «Ritorno a Ferrara» con Boccaccio Boccaccino, Giovanni Battista Benvenuti, detto l’Ortolano, il Garofalo, il Bastianino, lo Scarsellino, la trionfante Sibilla (1600-06) e la tenerissima Sacra famiglia (1615-18) al desco di Carlo Bononi, con il bimbo che imbocca un san Giuseppe anziano.

Il «San Domenico» di Niccolò dell'Arca

Il «San Domenico» (1474) di Niccolò dell’Arca trovato da Vittorio nella bottega di un antiquario

Tesori ritrovati grazie a una ricerca «senza dogmi», scrive Vittorio nello splendido catalogo (La nave di Teseo), dispersi e inconsapevoli nella nostra «Italia della meraviglia», linfa vitale e arca di una ricchezza inesauribile, dovunque invidiata, che pure non gode più del giusto stupore in grado di farsi impresa e cultura. Comprendente pregiatissime opere di pittori ferraresi, la collezione Cavallini Sgarbi ha, dunque, il sapore di una restituzione alla città estense che gli meriterebbe uno spazio storico per una Permanente. Ma è anche un dono al pubblico italiano tutto, cultori, amanti d’arte, collezionisti, semplici visitatori e turisti. La condivisione del bello di cui si diceva chiama il riconoscimento istituzionale, soprattutto se ministro dei Beni culturali dovesse restare il ferrarese Dario Franceschini. E ancor più in considerazione delle profonde radici cittadine della famiglia, testimoniate dal restauro a cura della Fondazione Elisabetta Sgarbi della casa di Via Giuoco del Pallone, dove Ludovico Ariosto compose la prima edizione dell’Orlando Furioso.

La ceramica di Andrea Parini con l'iscrizione: «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice»

La ceramica di Andrea Parini (1941) con l’iscrizione: «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice»

Procedendo nella visita, si entra nella sala delle «Belle donne», la carnalissima Cleopatra (1620) di Artemisia Gentileschi di cui, scrive Sgarbi, «sentiamo gli odori, il sudore, la puzza», opposta alla femmina rappresentante l’Allegoria del tempo (1650) di Guido Cagnacci, che «persegue una sensualità intellettuale, sofisticata». Si avanza e ci si inoltra nella ritrattistica, da Lorenzo Lotto a Francesco Hayez, dove spicca il Ritratto del legale Francesco Righetti (1626-28) del Guercino, raffigurato davanti alla libreria di volumi di diritto, «capolavoro di natura morta» secondo Pietro Di Natale, curatore della mostra. Si passa per una Santa Caterina da Siena con Gesù Bambino (1650) di Giovanni Battista Salvi, detto il Sassoferrato, «un equilibrista del pennello», che mamma Rina volle fortissimamente acquistare contro la volontà del figlio. Si continua nella stanza degli «Amati scultori» con il Ritratto della figlia (1941) di Andrea Parini, una ceramica nella quale il pudico desiderio dell’autore – «Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice» – ricorda l’auspicio di papà Nino per Elisabetta. Si giunge, infine, al potente, e amatissimo da Rina, Cristo crocifisso (1881) di Gaetano Previati, che Vittorio non avrebbe voluto acquisire «per quanto era impegnativo», ma alla fine se ne convinse, «vedendolo nella posizione ideale nell’abside» della chiesa di San Gottardo in Corte a Milano. Arrivò il 31 ottobre 2015, appena tre giorni prima che Rina morisse senza vederlo. «Cristo, forse, l’ha attesa in Paradiso», spera Vittorio.

Del resto, come si legge nello stralcio di Lungo l’argine del tempo di papà «Nino», scomparso a pochi giorni dall’inaugurazione, e proposto come congedo al visitatore, «non è vero che tutto finisce e precipita nell’oblio. Dopo di noi le cose continuano e qualcosa di noi sopravvive in ciò che abbiamo fatto (…) E nei figli, naturalmente. Ci consola sapere che il nostro sangue e i nostri pensieri vivranno in loro e che loro continueranno nell’impresa di realizzare il desiderio più grande dell’uomo: mantenere in vita la vita. E continueranno a cercare, a coltivare e a raccontare la bellezza, come fanno Vittorio ed Elisabetta».

Capaci di trasformare la collezione Cavallini Sgarbi in un’eredità culturale che profuma di gratuità.

La Verità, 17 febbraio 2018

Il (primo) regalo postumo di Nino Sgarbi

Poteva succedere solo nella famiglia Cavallini Sgarbi la rivelazione a 93 anni del miglior talento letterario della casa. Ma le vie della grazia sono infinite. Perciò, dobbiamo essere grati a quella dinastia di farmacisti, in realtà artisti, critici ed editori, per l’imminente pubblicazione (l’8 febbraio) di Il canale dei cuori di Giuseppe «Nino» Sgarbi, morto novantasettenne pochi giorni fa. Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro, che mi segnalarono il precedente Lei mi parla ancora, sostengono che questi libri andrebbero letti nelle scuole «per far capire ai ragazzi chi sono le persone sagge». Hanno ragione. Dovrebbero esser letti e studiati anche per la qualità letteraria, oltre che per la loro singolare gestazione. Quando, cedendo alle insistenze della figlia Elisabetta, papà Nino decise di provarci, essendo debole di vista, si rese necessario l’aiuto di qualcuno che mettesse sulla pagina scritta i ricordi. Dobbiamo dunque esser grati anche a Giuseppe Cesaro che ha saputo trasferire quelle narrazioni nei preziosi memoir pubblicati da Skira. Dopo Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro e Lei mi parla ancora nel quale si rivolgeva alla moglie Rina, in Il canale dei cuori, Nino Sgarbi dialoga con il fratello di lei, Bruno Cavallini, compagno di pesca sul Po e il Livenza, professore di liceo, maestro di lettere e arti di Vittorio, soprattutto amico con cui ha condiviso l’amore per la poesia e il sentimento del vivere. «C’è una strada certa per la solitudine, Bruno: essere intelligenti, intellettualmente onesti e liberi. E tu eri tutte e tre le cose insieme… A un certo punto la solitudine ti aveva teso la mano e tu l’avevi presa: sapevi che avreste camminato l’uno di fianco all’altra per tutta la vita. E così ho capito di non esserti mai stato davvero vicino. Non nel modo del quale avresti avuto bisogno tu, comunque. Ed è questo il mio cruccio. Insieme al fatto di sapere che ormai non ho più modo di rimediare. Forse per questo ho deciso di dedicarti queste pagine, anche se mi rendo conto che arrivano tardi e sono più utili a me che a te. Perdonami».

La copertina di «Il canale dei cuori», in uscita l'8 febbraio da Skira

«Il canale dei cuori»usicrà l’8 febbraio da Skira

La memoria di Sgarbi riporta in vita un mondo terso e rarefatto con tocco mite, capace di rendere attuali sentimenti rimossi. Così la scrittura diventa balsamo e consolazione che lenisce la mancanza di persone care, conforto che aiuta a rimettere ordine negli affetti e nelle vicende di un secolo: il padre cacciatore e gran seduttore, il mulino di Stienta, la Seconda guerra mondiale, la campagna di Grecia, l’alluvione del 1951, la morte del migliore amico, l’incontro all’università di Ferrara con «la spaccatutto», futura moglie, il matrimonio in intimità, i figli Vittorio ed Elisabetta, la farmacia nella casa di Ro, ritrovo di artisti e scrittori che per lunghi anni Nino ha ascoltato, avendo sempre preferito il silenzio alla parola, per lasciare alla Rina e Vittorio i ruoli da protagonisti.

Finché… «Se ho aspettato così tanto a pubblicare è solo perché credo che la condizione ideale per raccontare sia stare fermi. E non solo perché, da fermo, si vedono molte più cose di quante non se ne riescano a vedere quando ci si muove. E si vedono molto meglio, tra l’altro. Ma anche perché mi sono accorto che, appena ti fermi, succede un fenomeno strano: all’improvviso ti rendi conto che, al contrario di quello che hai sempre creduto, la realtà non ti corre dietro, non ti insegue, non ti viene a cercare. Era tutta un’illusione ottica. Lei non si muove, non si muove affatto: siamo noi a farlo. Ed è il nostro muoverci a muovere lei. È come quando, da bambino guardavo partire la littorina del binario accanto, e avevo l’impressione che fosse lei a muoversi. Con la realtà è la stessa cosa: se corriamo, corre, se rallentiamo, rallenta, se ci fermiamo, si ferma. E quando si ferma, finalmente s’invertono i ruoli: da prede diventiamo cacciatori». E siccome, alla scuola del padre, anche Nino è stato cacciatore, le sue nuove prede – da cercare, rincorrere, acciuffare e immortalare per condividerle – sono diventate le parole, incise in una prosa tenue come certi acquerelli che restano impressi per le loro tinte insolite e personalissime.

Una breve poesia fa da incipit a ogni capitolo, sciogliendo il gomitolo dei ricordi che scorrono come le acque del Po, testimoni di tanti avvenimenti. Come la morte in un incidente stradale dell’amico Pierino Roveroni che gli fece conoscere la tristezza, «primogenita del dolore», diversa dalla depressione, all’epoca ignota. «Per soffrire il mal di vivere, bisognava aver conosciuto il bene di vivere», che in campagna, prima della guerra, era piuttosto raro. Nino e la tristezza siedono dunque sull’argine di quella fatale curva a gomito, nel silenzio che «odorava d’infelicità» e che favorisce l’insolito dialogo. «Che senso ha?», urla, la morte di un amico? «Per lui nessuno, per te invece…», risponde la tristezza; «assurdo non significa inutile… Sai cosa direbbe il tuo amico se fosse qui?… Sii i miei occhi, Nino. Occhi, mani, voce, gambe: tutto! E vivi la vita che non avrò. Questo direbbe». «Rientrammo a casa in bici», ricorda Sgarbi, «che l’alba cominciava a restituire i colori alla pianura. Io pedalavo, la tristezza sedeva sulla canna, il fiume ci correva accanto. Nessuno fiatava. Né le ruote, né i cipressi, né il canneto… “Pensaci” sussurrò, prima di congedarsi, “credi che il tuo Leopardi avrebbe scritto tutto quello che ha scritto, se non mi avesse conosciuta?”; “Preferivo Pierino”, dissi. “E lui, Silvia, credimi”, replicò. Non dissi più nulla».

È la gratitudine il sentimento dominante nel lettore di questi racconti. Una gratitudine lieta. Tanto più se, come ha anticipato Vittorio durante la cerimonia di congedo, il futuro ci riserverà altri due libri postumi.

La Verità, 2 febbraio 2017

Nino Sgarbi, quanta vita dentro placide acque

Tenerezza, mitezza, timidezza. Sono le parole che mi girano dentro da quando ho saputo della morte di Giuseppe Sgarbi, papà di Elisabetta e Vittorio. Tenerezza, soprattutto. Perché «Nino» Sgarbi era una persona dolce, di quella dolcezza non mielosa, ma sapida, ironica e dal sorriso trattenuto. Come trattenuti erano i sentimenti, coltivati nella contemplazione, la passione per la poesia e la pesca. Lo incontrai poco più di un anno fa, nella casa di Ro Ferrarese, metà farmacia e metà, anzi, ben di più, museo strabordante di opere, sculture, dipinti, oggetti d’arte accumulati con lo spirito tumultuoso che era proprio della moglie Rina e di Vittorio. Era da poco uscito il terzo libro, Lei mi parla ancora (Skira), struggente lettera rivolta alla donna della sua vita. Vulcanica e irrequieta lei, pacato e riflessivo lui. Mite e timido, scopertosi scrittore a 93 anni, dotato di sensibilità e trasparenze che non arrivano sulla pagina se non vivono nel cuore, epicentro dell’io. Nino era come quegli specchi d’acqua placidi in superficie, ma pieni di movimenti e correnti in profondità, i fiumi che traversano le terre narrate nei primi tre libri e ora nel quarto, Il canale dei cuori, di imminente uscita. Ha aspettato a lungo per farle sommessamente affiorare, quelle correnti, incoraggiato da Elisabetta e Vittorio. Ha aspettato che ci fosse lo spazio giusto per farle tracimare nei campi della letteratura. Gli siamo tutti grati per averlo fatto.

Di seguito, l’intervista uscita sulla Verità il 15 gennaio 2017, giorno del suo novantaseiesimo compleanno.

 

È una storia curiosa quella di Giuseppe «Nino» Sgarbi. Una vicenda singolare. In una famiglia di persone iperattive e tempestose come il figlio Vittorio (critico d’arte, politico, polemista e tutto il resto), la figlia Elisabetta (regista, editrice, fondatrice di La nave di Teseo e anima della Milanesiana) e la moglie Caterina «Rina» Cavallini dalla quale discendono quei temperamenti vulcanici, lui amava la pesca e la poesia. Il capostipite è uno spirito contemplativo e mite, un uomo tenero e pacato. All’alba dei 93 si è scoperto scrittore e ora che, oggi 15 gennaio, di primavere ne compie 96, si sta godendo il successo del suo terzo libro, Lei mi parla ancora (Skira), lunga e struggente lettera alla moglie morta un anno e mezzo fa. Giuseppe Cesaro che, a causa della cecità incipiente, glieli scrive sotto dettatura, dice che Nino Sgarbi gli fa venire in mente George Harrison, il Beatle che non riusciva a convincere John Lennon e Paul McCartney a incidere un suo brano. Appena la band si sciolse, però, pubblicò da solista All Things Must Pass, un triplo che riscattava le canzoni rimaste troppo a lungo nel cassetto. Nessuno ha compresso la vena letteraria di papà Sgarbi – il contrario – ma la sua trilogia sulla famiglia di farmacisti che in realtà sono critici, editori e scrittori è perfetta per trarne un film o una fiction (avrei anche il nome del regista adatto). Anche le location si presterebbero. Nella casa di Ro Ferrarese, paesino addossato all’argine del Po, la vecchia farmacia confina con il salotto dalle pareti foderate di quadri e dipinti e dai tavoli affollati di sculture, busti, volti, statue. In totale 4.000 opere che abitano e riempiono una trentina di stanze, appartenenti alla Fondazione Cavallini Sgarbi, molte delle quali vanno e vengono di continuo dalle mostre. Sulle porte, invece, sono incorniciati gli articoli e le interviste di Vittorio ed Elisabetta. Qui c’è quella travolgente fame di vita della madre e di Vittorio, che percorre la prosa rarefatta ed elegante di Nino. La seconda casa di questa saga, nel centro storico di Ferrara, dove Nino Sgarbi e Rina Cavallini si sono conosciuti e amati, ha invece il carattere di Elisabetta. Che l’ha, per così dire, «rieditata» con targhe in ottone, suddividendola in quattro appartamenti intitolati ognuno a un componente della famiglia, intestandoli complessivamente «Le case Cavallini Sgarbi».

Giuseppe «Nino» Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Dottor Sgarbi, Lei mi parla ancora sarà il suo ultimo libro o la saga continua?

«Guardi che io non sono mica uno scrittore… E, comunque, non vorrei scrivere più niente. Proverò a resistere agli inviti a continuare».

Da dove le arrivano?

«Da Vittorio. Vorrebbe che scrivessi un libro su Gnocca, che è un paese qui vicino, sul Po, dove andavo a pescare con il fratello della Rina. Ci sono tre paesi attaccati, prima c’è Oca, poi Gnocca e infine Donzella. Vedremo. Però non ho tanta voglia».

Il titolo è… stimolante. Suo padre e anche Vittorio hanno sempre frequentato la bellezza femminile.

«Le belle donne ci sono sempre piaciute, a cominciare da mio padre che ha avuto una vita piuttosto attiva in questo senso. Mia madre era una santa donna, oltre che molto bella. A Stienta avevamo il mulino e una volta toccò a lei portare un campione di frumento da esaminare a mio padre. Lui prese il grano e trovò moglie».

E lei ha mai fatto ingelosire la Rina?

«Non era gelosa se apprezzavo qualche bella donna. Mi lasciava dire, senza irrigidirsi. Non credo di averla mai fatta indispettire. Era una donna di notevole intelligenza e cultura. Si era laureata in farmacia con 110 e quando partecipò a un concorso a Milano con 90 candidati per sei farmacie ne vinse una. All’esame trovò anche il modo di correggere il professore di matematica che aveva commesso un errore. Così per molti anni abbiamo avuto due farmacie, questa di Ro e quella di Milano. La Rina stava lì, io andavo ad aiutarla qualche giorno e poi tornavo qui».

Parlando del vostro rapporto ha scritto: «Ci univa la differenza, non l’identità».

«Se si è uguali si può andare meno d’accordo. Io mi occupavo della farmacia e m’interessavo di caccia e pesca. Lei si dedicava ai figli e seguiva le attività artistiche di Vittorio, soprattutto partecipando alle aste. Però se un’opera le piaceva era pronta a superare il limite massimo che lui le aveva dato».

Diceva che si è interessato di caccia e pesca…

«Mio padre era un gran cacciatore. Possedeva bellissimi fucili per il tiro al piccione. Da ragazzo lo seguivo e mi sono appassionato. Poi, quando conobbi la Rina, suo fratello mi iniziò alla pesca e tradii la caccia. La pesca è una passione che ti seduce e conquista. Ti entra nel cervello… Poi qui siamo addosso al Po, può ben immaginare quante occasioni».

Com’è accaduto che si è scoperto scrittore a 93 anni?

«Da tanto tempo Elisabetta insisteva perché scrivessi qualcosa sulla mia vita. Detto oggi e ridetto domani, ho provato. Il risultato è piaciuto molto a lei e anche a Vittorio finché l’hanno fatto pubblicare».

Quando e come scrive?

«Lo sa che non ci vedo quasi più? Dètto i miei pensieri a un amico paziente».

Com’è la sua giornata?

«La mattina mi alzo piuttosto tardi. Poi vado al cimitero a Stienta, 25 chilometri da qui. Nella tomba di famiglia sono sepolti mio nonno e mia nonna, i miei genitori, le mie sorelle e mia moglie. Quando torno, pranzo e poi vado a dormire un paio d’ore. Dopo cena sto alzato fino a molto tardi, guardo la televisione, spesso c’è Vittorio».

Giuseppe Sgarbi con il figlio Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, proverò a resistergli»

Giuseppe Sgarbi con Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, vedremo»

Segue la politica?

«No. Di politici di valore non ne abbiamo più. Io ho visto De Gasperi e Andreotti. In televisione guardo soprattutto Rai Storia, sono appassionato delle cose della guerra. Ho fatto la campagna di Grecia, a Giannina. Siccome ero cacciatore mi misero al mortaio. Mi sono congedato col grado di sottotenente. Qualche volta, alla sera, Edera, la mia infermiera, mi fa vedere dei filmati su quella tavoletta, come si chiama… Vede che sto perdendo anche la memoria?».

Il tablet.

«Ecco sì, un oggetto portentoso. L’ho conosciuto da poco…».

L’altra sua passione è la poesia?

«Leopardi, soprattutto. “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai silenziosa luna? Sorgi la sera e vai…” E La vispa Teresa la conosce? Da giovane ho letto tanto. Anche i libri che Mussolini proibiva. Anatole France era uno dei miei preferiti: “La nostra vita è un viaggio nell’inverno e nella notte. Noi cerchiamo il nostro passaggio nel cielo, dove niente risplende”».

A proposito di memoria: vorrei essere come lei a 96 anni…

«La ringrazio. Mi restano in mente molti versi, credo che l’espressione in poesia sia una delle più perfette che esistano. Poi ricordo L’Idillio dell’Orlando di Ariosto che incontra una donna che l’amerebbe se lui “a Macon credesse” e lui “si diede e per un bacio rinnegò la fede”. Questi versi son cari a chi crede poco. Me li insegnò l’ingegner Orengo che dopo la guerra s’innamorò di mia zia Eliduina. Molti anni dopo scoprii che Ariosto era nipote di Brunoro Ariosti, l’antico proprietario della casa di via Giuoco del pallone dove conobbi la Rina».

Come avvenne?

«Avevo prestato dei libri di chimica a un amico che li affidò a sua volta a una ragazza. Quel giorno incrociai quella ragazza all’università, la quale mi disse che sarebbe andata a studiare a casa di una sua amica e li avrebbe lasciati lì. Mi presentai in via Giuoco del pallone e la vidi».

In quella casa è sbocciato il vostro amore.

«Ci incontravamo lì per studiare, nella sala del grande camino. A Rina bastava leggere una volta il testo ed era in grado di ripeterlo. Io avevo bisogno di più tempo, perciò qualche volta restavo a ripassare a casa mia per non annoiarla. Studiavamo fianco a fianco, i gomiti si sfioravano, si toccavano, lei non si ritraeva. Quando ebbi la certezza che ricambiava la mia passione scrissi una lettera di commiato alla fidanzata di allora, un’insegnante di Bergamo, amica di mia sorella. Lei comprese e accettò. Suo padre meno, e venne fino a Stienta per biasimare il mio comportamento. Non aveva tutti i torti, ma non potevo farci nulla. La prima volta che avevo visto la Rina, quando mi aprì la porta di casa in quel pomeriggio, capii che il mio futuro sarebbe dipeso dai suoi occhi».

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Così lei ha avuto tre grandi passioni: due contemplative come la pesca e la poesia e una travolgente come la Rina. È così?

«È così. La Rina ha riempito la mia vita, era una donna speciale, di una bellezza speciale, piena di idee e iniziative. L’anima della famiglia».

Una famiglia di farmacisti che in realtà sono tutti artisti.

«Sì, un paradosso. La Rina seguiva Vittorio nella sua attività, a volte era lei che dettava i suoi articoli ai giornali. Elisabetta ha fatto l’editrice, ha fondato La nave di Teseo, fa la regista».

E adesso è arrivato lo scrittore. Va tutti i giorni al cimitero?

«Sì, tutte le mattine. Quando, nel fine settimana, viene anche Elisabetta qualche volta leggiamo alla Rina un articolo di Vittorio. Lui invece capita qui di notte, lancia qualche idea, parla con Alessandro delle mostre e riparte. Lì, a Stienta, abbiamo una cappellina. Se non fa troppo freddo, come in questi giorni, entro e mi fermo una decina di minuti. Chiamo al telefono Elisabetta e recitiamo insieme un Padre nostro e un’Ave Maria. Poi torno a casa».

 

Papà «Nino» Sgarbi, rivelatosi grande scrittore a 96 anni

È una storia curiosa quella di Giuseppe «Nino» Sgarbi. Una vicenda singolare. In una famiglia di persone iperattive e tempestose come il figlio Vittorio (critico d’arte, politico, polemista e tutto il resto), la figlia Elisabetta (regista, editrice, fondatrice di La Nave di Teseo e anima della Milanesiana) e la moglie Caterina «Rina» Cavallini dalla quale discendono quei temperamenti vulcanici, lui amava la pesca e la poesia. Il capostipite è uno spirito contemplativo e mite, un uomo tenero e pacato. All’alba dei 93 si è scoperto scrittore e ora che, oggi 15 gennaio, di primavere ne compie 96, si sta godendo il successo del suo terzo libro, Lei mi parla ancora (Skira), lunga e struggente lettera alla moglie morta un anno e mezzo fa. Giuseppe Cesaro che, a causa della cecità incipiente, glieli scrive sotto dettatura, dice che Nino Sgarbi gli fa venire in mente George Harrison, il Beatle che non riusciva a convincere Lennon e McCartney a incidere un suo brano. Appena la band si sciolse, però, pubblicò da solista All Things Must Pass, un triplo che riscattava le canzoni rimaste troppo a lungo nel cassetto. Nessuno ha compresso la vena letteraria di papà Sgarbi – il contrario – ma la sua trilogia sulla famiglia di farmacisti che in realtà sono critici, editori e scrittori è perfetta per trarne un film o una fiction (avrei anche il nome del regista adatto). Anche le location si presterebbero. Nella casa di Ro Ferrarese, paesino addossato all’argine del Po, la vecchia farmacia confina con il salotto dalle pareti foderate di quadri e dipinti e dai tavoli affollati di sculture, busti, volti, statue. In totale 4.000 opere che abitano e riempiono una trentina di stanze, appartenenti alla Fondazione Cavallini Sgarbi, molte delle quali vanno e vengono di continuo dalle mostre. Sulle porte, invece, sono incorniciati gli articoli e le interviste di Vittorio ed Elisabetta. Qui c’è quella travolgente fame di vita della madre e di Vittorio, che percorre la prosa rarefatta ed elegante di Nino. La seconda casa di questa saga, nel centro storico di Ferrara, dove Nino Sgarbi e Rina Cavallini si sono conosciuti e amati, ha invece il carattere di Elisabetta. Che l’ha, per così dire, «rieditata» con targhe in ottone, suddividendola in quattro appartamenti intitolati ognuno a un componente della famiglia, intestandoli complessivamente «Le case Cavallini Sgarbi».

Giuseppe «Nino» Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Giuseppe Sgarbi con la figlia Elisabetta e la moglie «Rina» nella farmacia di Ro Ferrarese

Dottor Sgarbi, Lei mi parla ancora sarà il suo ultimo libro o la saga continua?

«Guardi che io non sono mica uno scrittore… E, comunque, non vorrei scrivere più niente. Proverò a resistere agli inviti a continuare».

Da dove le arrivano?

«Da Vittorio. Vorrebbe che scrivessi un libro su Gnocca, che è un paese qui vicino, sul Po, dove andavo a pescare con il fratello della Rina. Ci sono tre paesi attaccati, prima c’è Oca, poi Gnocca e infine Donzella. Vedremo. Però non ho tanta voglia».

Il titolo è… stimolante. Suo padre e anche Vittorio hanno sempre frequentato la bellezza femminile.

«Le belle donne ci sono sempre piaciute, a cominciare da mio padre che ha avuto una vita piuttosto attiva in questo senso. Mia madre era una santa donna, oltre che molto bella. A Stienta avevamo il mulino e una volta toccò a lei portare un campione di frumento da esaminare a mio padre. Lui prese il grano e trovò moglie».

E lei ha mai fatto ingelosire la Rina?

«Non era gelosa se apprezzavo qualche bella donna. Mi lasciava dire, senza irrigidirsi. Non credo di averla mai fatta indispettire. Era una donna di notevole intelligenza e cultura. Si era laureata in farmacia con 110 e quando partecipò a un concorso a Milano con 90 candidati per sei farmacie ne vinse una. All’esame trovò anche il modo di correggere il professore di matematica che aveva commesso un errore. Così per molti anni abbiamo avuto due farmacie, questa di Ro e quella di Milano. La Rina stava lì, io andavo ad aiutarla qualche giorno e poi tornavo qui».

Parlando del vostro rapporto ha scritto: «Ci univa la differenza, non l’identità».

«Se si è uguali si può andare meno d’accordo. Io mi occupavo della farmacia e m’interessavo di caccia e pesca. Lei si dedicava ai figli e seguiva le attività artistiche di Vittorio, soprattutto partecipando alle aste. Però se un’opera le piaceva era pronta a superare il limite massimo che lui le aveva dato».

Diceva che si è interessato di caccia e pesca…

«Mio padre era un gran cacciatore. Possedeva bellissimi fucili per il tiro al piccione. Da ragazzo lo seguivo e mi sono appassionato. Poi, quando conobbi la Rina, suo fratello mi iniziò alla pesca e tradii la caccia. La pesca è una passione che ti seduce e conquista. Ti entra nel cervello… Poi qui siamo addosso al Po, può ben immaginare quante occasioni».

Com’è accaduto che si è scoperto scrittore a 93 anni?

«Da tanto tempo Elisabetta insisteva perché scrivessi qualcosa sulla mia vita. Detto oggi e ridetto domani, ho provato. Il risultato è piaciuto molto a lei e anche a Vittorio finché l’hanno fatto pubblicare».

Quando e come scrive?

«Lo sa che non ci vedo quasi più? Dètto i miei pensieri a un amico paziente».

Com’è la sua giornata?

«La mattina mi alzo piuttosto tardi. Poi vado al cimitero a Stienta, 25 chilometri da qui. Nella tomba di famiglia sono sepolti mio nonno e mia nonna, i miei genitori, le mie sorelle e mia moglie. Quando torno, pranzo e poi vado a dormire un paio d’ore. Dopo cena sto alzato fino a molto tardi, guardo la televisione, spesso c’è Vittorio».

Giuseppe Sgarbi con il figlio Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, proverò a resistergli»

Giuseppe Sgarbi con Vittorio: «Vuole che continui a scrivere, vedremo»

Segue la politica?

«No. Di politici di valore non ne abbiamo più. Io ho visto De Gasperi e Andreotti. In televisione guardo soprattutto Rai Storia, sono appassionato delle cose della guerra. Ho fatto la campagna di Grecia, a Giannina. Siccome ero cacciatore mi misero al mortaio. Mi sono congedato col grado di sottotenente. Qualche volta, alla sera, Edera, la mia infermiera, mi fa vedere dei filmati su quella tavoletta, come si chiama… Vede che sto perdendo anche la memoria?».

Il tablet.

«Ecco sì, un oggetto portentoso. L’ho conosciuto da poco…».

L’altra sua passione è la poesia?

«Leopardi, soprattutto. “Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai silenziosa luna? Sorgi la sera e vai…” E La vispa Teresa la conosce? Da giovane ho letto tanto. Anche i libri che Mussolini proibiva. Anatole France era uno dei miei preferiti: “La nostra vita è un viaggio nell’inverno e nella notte. Noi cerchiamo il nostro passaggio nel cielo, dove niente risplende”».

A proposito di memoria: vorrei essere come lei a 96 anni…

«La ringrazio. Mi restano in mente molti versi, credo che l’espressione in poesia sia una delle più perfette che esistano. Poi ricordo L’Idillio dell’Orlando di Ariosto che incontra una donna che l’amerebbe se lui “a Macon credesse” e lui “si diede e per un bacio rinnegò la fede”. Questi versi son cari a chi crede poco. Me li insegnò l’ingegner Orengo che dopo la guerra s’innamorò di mia zia Eliduina. Molti anni dopo scoprii che Ariosto era nipote di Brunoro Ariosti, l’antico proprietario della casa di via Giuoco del pallone dove conobbi la Rina».

Come avvenne?

«Avevo prestato dei libri di chimica a un amico che li affidò a sua volta a una ragazza. Quel giorno incrociai quella ragazza all’università, la quale mi disse che sarebbe andata a studiare a casa di una sua amica e li avrebbe lasciati lì. Mi presentai in via Giuoco del pallone e la vidi».

In quella casa è sbocciato il vostro amore.

«Ci incontravamo lì per studiare, nella sala del grande camino. A Rina bastava leggere una volta il testo ed era in grado di ripeterlo. Io avevo bisogno di più tempo, perciò qualche volta restavo a ripassare a casa mia per non annoiarla. Studiavamo fianco a fianco, i gomiti si sfioravano, si toccavano, lei non si ritraeva. Quando ebbi la certezza che ricambiava la mia passione scrissi una lettera di commiato alla fidanzata di allora, un’insegnante di Bergamo, amica di mia sorella. Lei comprese e accettò. Suo padre meno, e venne fino a Stienta per biasimare il mio comportamento. Non aveva tutti i torti, ma non potevo farci nulla. La prima volta che avevo visto la Rina, quando mi aprì la porta di casa in quel pomeriggio, capii che il mio futuro sarebbe dipeso dai suoi occhi».

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Giuseppe e Rina Sgarbi si sposarono nel 1950: «Vado a trovarla tutti i giorni al cimitero»

Così lei ha avuto tre grandi passioni: due contemplative come la pesca e la poesia e una travolgente come la Rina. È così?

«È così. La Rina ha riempito la mia vita, era una donna speciale, di una bellezza speciale, piena di idee e iniziative. L’anima della famiglia».

Una famiglia di farmacisti che in realtà sono tutti artisti.

«Sì, un paradosso. La Rina seguiva Vittorio nella sua attività, a volte era lei che dettava i suoi articoli ai giornali. Elisabetta ha fatto l’editrice, ha fondato La Nave di Teseo, fa la regista».

E adesso è arrivato lo scrittore. Va tutti i giorni al cimitero?

«Sì, tutte le mattine. Quando, nel fine settimana, viene anche Elisabetta qualche volta leggiamo alla Rina un articolo di Vittorio. Lui invece capita qui di notte, lancia qualche idea, parla con Alessandro delle mostre e riparte. Lì, a Stienta, abbiamo una cappellina. Se non fa troppo freddo, come in questi giorni, entro e mi fermo una decina di minuti. Chiamo al telefono Elisabetta e recitiamo insieme un Padre nostro e un’Ave Maria. Poi torno a casa».

La Verità, 15 gennaio 2017

Sgarbi: «Ma l’Europa è vivace e propositiva»

Elisabetta Sgarbi è regista e scrittrice, ma soprattutto editrice. Dopo essere stata per anni direttrice editoriale di Bompiani, a fine 2015, dopo l’annuncio della vendita di Rcs libri ha fondato con altri autori La Nave di Teseo.

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi, che cosa pensa del servizio di acquisti online di Amazon? Perché in questo caso si vedono solo i lati positivi della globalizzazione?

«Ne penso benissimo, sono cliente di Amazon di Ibs e delle librerie tradizionali. Lo sono in veste di autore, editore, lettrice. Proprio per questo conosco bene i punti di forza dell’e-commerce: senza entrare negli aspetti più tecnici, basta pensare alla disponibilità di una piattaforma logistica comune a diversi paesi, e l’accesso a una vetrina virtuale di milioni di clienti. Le librerie online hanno un catalogo infinito e sono aperte 24 ore su 24, le librerie di quartiere hanno un assortimento più personale e forniscono il supporto del libraio, che è una figura insostituibile. Per questo credo fermamente che i due canali non siano alternativi, ma complementari, perché offrono servizi e opportunità diversi, e un buon lettore ha bisogno di entrambi».

Di fronte alla forza dei grandi marchi digitali non sono un po’ anacronistiche le nostre diatribe interne sulle fusioni editoriali?

«Non penso. Sono discussioni mosse da principi importanti, per entrambe le parti».

Perché in Europa non nasce e non si afferma un Bill Gates o un Mark Zuckerberg? Siamo limitati dal punto di vista del talento o della legislazione?

«Abbiamo avuto tanti Gates e Zuckerberg. Pensi ad Alberto Mantovani e a quello che il suo gruppo di ricerca ha fatto».

L’Europa sembra aver culturalmente abdicato. Si può dire che sia in atto una sorta di colonizzazione al contrario?

«Mi sembra una semplificazione. La situazione non è esattamente così, anzi, vedo in Europa i segni di una grande vivacità intellettuale. Non sono io a dirlo, ma citerò due autori pubblicati dalla Nave di Teseo. Nicola Porro, nel suo libro La disuguaglianza fa bene, ricorda il fondamentale contributo dato al pensiero economico dagli studiosi europei: dalla Scuola di Francoforte, agli austriaci, ai ricercatori italiani. L’ex ministro delle finanze greco Yanis Vaorufakis, di cui pubblicheremo il 27 ottobre il nuovo atteso libro, che pure è molto critico nei confronti delle istituzioni europee, è altrettanto fermo nel segnalare i pericoli di inseguire ciecamente le politiche economiche americane, rivalutando un’alternativa europea».

La Verità, 1 ottobre 2016