Tag Archivio per: eutanasia

«Senza scandalo, la Mostra è un funerale coi lustrini»

Tinto Brass è un vero signore, oltre che un grande cineasta ultranovantenne. In questi giorni di Mostra di Venezia, segue lo sfilare dei film e delle star dalla sua casa di Isola Farnese, borgo fuori Roma dove vive con la moglie Caterina Varzi, evitando di abbandonarsi alla percezione di non essere profeta in patria. Tuttavia, in questa intervista alla Verità, qualcosa dice. In modo elegante.
Maestro, com’è la Mostra di Venezia vista da Roma?
«Non ho particolare interesse a seguirla. Una sfilata di pavoni che si crogiolano nel loro vuoto, senza il coraggio di osare e che si applaudono a vicenda per film che non scuotono più nessuno. Di cinema vero, quello che ti prende a schiaffi, neanche l’ombra. Tutti attenti a non pestare i piedi, a non offendere, a fare film che vanno bene per tutti. Il trionfo del perbenismo, dove ogni provocazione è soffocata da una cappa di conformismo. Se non c’è scandalo, se non c’è eros, se non c’è rischio, allora non c’è cinema. Venezia sembra sepolta sotto una montagna di chiacchiere e ipocrisie. Ci vorrebbe una rivoluzione formale, qualcuno che getti tutto all’aria e riporti un po’ di vita. Finché il festival resterà questa messinscena, non sarà che un funerale con i lustrini».
L’ultima volta che ci è stato fu nel 2013 per la proiezione di un documentario sulla sua opera.
«S’intitolava IstintoBrass ed era diretto da Massimiliano Zanin. È un lavoro a cui tengo moltissimo perché realizzato in uno dei momenti più difficili della mia vita. L’ho rivisto di recente con una certa commozione. La mia memoria era stata completamente azzerata da un’emorragia cerebrale di cui sono stato vittima nel 2010, e nel film recitavo me stesso. Avevo imparato a memoria un copione sulla mia vita scritto da mia moglie Caterina. È stata lei a raccogliere ogni dettaglio utile dal mio archivio per permettermi di raccontarmi».
Quest’anno i Leoni d’oro alla carriera sono andati alla statunitense Sigourney Weaver e al grande regista australiano Peter Weir. Si poteva guardare più vicino, visto che lei ha vissuto sempre a Venezia e l’ha omaggiata in La chiave e Senso ’45?
«Sono felice che questi riconoscimenti siano andati a grandi figure come Sigourney Weaver e Peter Weir. In cinquant’anni qualcosina al cinema italiano credo di averla data anch’io. La mia cifra stilistica è segnata dal forte legame con Venezia e il Veneto. Basti pensare che nella Vacanza Vanessa Redgrave recita non in italiano, ma addirittura in veneto. Il film vinse il premio della critica alla Mostra del 1971. Eppure, dalla mia terra sono stato bandito. Per questo, me ne sono andato. Poi però il richiamo delle radici, degli odori, dei cibi, delle immagini della mia Laguna, si fa sentire».
Tra i film italiani in concorso c’è Diva futura che racconta la storia dell’agenzia che lanciò Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger. Ha conosciuto Riccardo Schicchi o qualcuna delle sue pornodive?
«Ah, Schicchi… Sì, l’ho conosciuto. Era un visionario. Uno di quelli che sa vedere oltre le convenzioni, e in quanto tale non poteva che essere un personaggio controverso. Proprio per questo mi è sempre stato simpatico. Sapeva sfidare il perbenismo con ironia, e poi aveva un talento innato nel creare icone di sensualità. In un certo senso, eravamo affini. Anche se i nostri approcci erano diversi. C’era un desiderio comune di esplorare la sensualità senza moralismi. Schicchi ha dato spazio a donne che hanno saputo prendersi la loro libertà, diventando simboli di un’epoca. Ilona Staller è quella che ho preferito. Una donna capace d’incarnare il desiderio in maniera spontanea, con una sfrontatezza che spiazzava. Ma anche un candore perverso che la rendeva molto affascinante».
A proposito di scandalo, cosa pensa di Queer di Luca Guadagnino tratto dal romanzo di William S. Burroughs in cui un omosessuale quarantenne, interpretato da Daniel Craig, storico James Bond, s’innamora di uno studente?
«Non avendolo visto, non posso pronunciarmi. La storia può essere forte. La riuscita di un film non dipende da cosa racconta, quanto da come la si racconta. È il modo in cui il regista riesce a tradurre la storia in immagini, emozioni e ritmo a fare la differenza».
Qualcuno ipotizza che possa vincere il Leone d’oro.
«Vedremo. Sono felice che presidente di giuria sia una donna. Sono sicuro che, con la sua sensibilità, Isabelle Huppert saprà guidarla alla scelta giusta. Anche Gianni Canova, presidente per le Opere prime è stata un’ottima scelta. Un uomo libero e un critico intelligente. La sua conoscenza e passione per il cinema mi confortano nell’idea che, alla fine, vincerà il meno peggio (ride)».
Pedro Almodóvar ha presentato The Room Next Door, un film sull’eutanasia: c’è troppa morte a Venezia quest’anno?
«Sul tema dell’eutanasia non posso che essere d’accordo con Almodóvar: tutto il mondo dovrebbe avere una legge che la consenta. La libertà di un uomo si evince anche dalle sue scelte di fronte alla morte e alla malattia. In situazioni irreversibili, si ha diritto di scegliere di morire. Il mio ultimo film, Vertigini, affronta proprio il tema della dolce morte. Una sorta di testamento spirituale che purtroppo non sono ancora riuscito a realizzare. Lo proposi ad Alain Delon, ma mi rispose che era un tema troppo forte per lui».
Dopo il Metoo e con la cultura woke il cinema è cambiato in meglio o in peggio?
«In meglio? Ma non diciamo sciocchezze! Ogni idea, ogni scena, ogni parola deve superare il filtro della moralità imposta da questa nuova forma di inquisizione. Un’inquisizione che ha preso il posto della censura vecchio stile, ma con un volto più ipocrita. Tutto deve essere pulito, conforme, corretto. Ma la vita non è così, e il cinema che riflette questa realtà asettica è un insulto ai nostri istinti. Noioso e prevedibile: una lezione di buone maniere mascherata ad arte. Se questo è il cambiamento, allora preferisco mille volte il cinema di un tempo, che non aveva paura di scioccare, di provocare, di mettere il dito nella piaga».
Cosa pensa del fatto che i film candidati all’Oscar devono rispettare le quote? Ci dev’essere un omosessuale, un nero, un disabile eccetera…
«Le regole e le quote sono per i burocrati, non per i cineasti. Il cinema è libertà, espressione di una visione intima e profonda. Non puoi dire a un artista quali storie raccontare o chi deve apparire nei suoi film. Forzare certi criteri vuol dire imbavagliare l’immaginazione. L’inclusione dev’essere una scelta naturale. Se inizi a mettere dei paletti, il cinema perde la sua anima anarchica, la sua capacità di scandalizzare e sovvertire le regole. E il cinema senza scandalo, senza provocazione, senza libertà, è morto».
Oggi sarebbe più facile dirigere Caligola?
«Oggi sarebbe impossibile realizzare un film del genere. Caligola, film del 1979, è indissolubilmente legato alla figura di Malcom McDowell e a un cast straordinario: Teresa Ann Savoy, John Gielgud, Peter O’ Toole, Adriana Asti, Helen Mirren, Leopoldo Trieste… L’intenzione era quella di lasciare sullo schermo il segno di un apologo destabilizzante del potere e della violenza. Un tema affascinante che però non ritenevo e non ritengo alla portata di attori e attrici italiani, abituati alla fascia televisiva protetta. La scelta di un attore non dipende dalla nazionalità, ma dalla sua capacità d’interpretare il ruolo. Ho diretto grandi interpreti come Gigi Proietti, Giancarlo Giannini, Franco Branciaroli, Alberto Sordi, Silvana Mangano, Monica Vitti, Stefania Sandrelli, ma anche figure del tutto sconosciute. Per questo considero sterili le polemiche sollevate da Pierfrancesco Favino. Non si tratta di escludere gli attori italiani, ma di trovare l’interprete giusto, indipendentemente dal Paese di provenienza».
Come finirà la causa per violazione del diritto d’autore?
«Finisce in tribunale. Nonostante lunghe trattative, un accordo recentemente raggiunto non è stato rispettato, portando all’impossibilità di ulteriori negoziati».
Con sua moglie Caterina Varzi, attrice, psicanalista e penalista si è ben tutelato?
«Caterina è una donna forte e determinata, si prende cura del mio archivio e della mia opera con grande dedizione. Riempie la mia vita di calore e gratificazione e non posso che esserle grato per tutto ciò che fa».
Il suo cinema è molto controverso.
«Sono amareggiato perché la questione dei diritti d’autore si ripresenta in altre situazioni legate ai miei film, con furbetti di ogni sorta. A detta degli esperti in materia, sono il regista più indebitamente sfruttato al mondo».
Sembra anche a lei, come scrivono alcuni giornali, che la destra si sta impossessando del cinema?
«Mi sembra che ci sia da parte di Giorgia Meloni una precisa dichiarazione di intenti: liberare la cultura italiana, quindi anche il cinema, dall’egemonia della sinistra. Pietrangelo Buttafuoco, uno degli intellettuali più riconosciuti della destra, è stato nominato Presidente della Biennale, l’istituzione che sovrintende a una serie di eventi che riguardano anche la Mostra del cinema. Tutto normale in una logica di alternanza politica».
Che cosa pensa del caso che ha coinvolto il ministro Gennaro Sangiuliano?
«Da Cleopatra a Sangiuliano, la storia si ripete: il potere rimane il più intrigante degli afrodisiaci. Non spetta a me stigmatizzare il tradimento, che è uno dei leitmotiv dei miei film erotici. La questione è più complessa sul piano politico. La storia ha la mannaia pesante e, in questo caso, impone coerenza. Se si è dimesso Vittorio Sgarbi, è giusto che anche Sangiuliano lo faccia».
L’ultimo film italiano che le è piaciuto e quello che ha disprezzato.
«Zamora è quello che recentemente ho apprezzato. Del più brutto non ricordo il titolo».
Se avesse una bacchetta magica che cosa farebbe per risollevare il cinema italiano?
«Trasformerei il cinema in un’esperienza sensoriale che sfida le convenzioni e abbraccia l’innovazione, incoraggiando nuovi talenti a esprimersi in un’esplosione di immagini e passioni. Nella mia convinzione di sempre: solo la forma, il significante, può dare un significato al nonsense della realtà. Come le ninfee di Monet, i girasoli di Van Gogh, frammenti di universo cui aggrapparsi come zattere di salvataggio nella deriva di un mondo in guerra. Che, se non posso cambiare, voglio rendere più abitabile. Grazie alla bellezza della forma e delle forme. E allo splendore del vero».

 

La Verità, 7 settembre 2024

«La fine di Indi mostra che il nostro sistema è sano»

Papillon e certezze granitiche, Simone Pillon lo disegnano come un babau dell’ultradestra. In realtà, l’avvocato che ha difeso la famiglia Gregory nella controversia con l’Alta corte inglese che ha sancito la morte della piccola Indi, è persona dai modi gentili. Avvocato cassazionista, ex senatore della Lega, organizzatore dei Family Day, il suo ultimo libro s’intitola Manuale di resistenza al pensiero unico. Dal gender al transumanesimo (Giubilei Regnani).

Avvocato Pillon, qual è il sentimento che ha lasciato in lei la morte di Indi Gregory?

«È un sentimento ambivalente. Da una parte il dispiacere di non essere riusciti a salvarla, dall’altra la certezza di aver fatto tutto il possibile per portarla in Italia. Infine, provo profonda commozione nel vedere il miracolo che questa bimba ha compiuto oltre che nella sua famiglia anche in tutto il mondo, perché la sua vicenda ha appassionato persone dagli Stati Uniti all’Australia».

Invece qual è la riflessione complessiva su tutta la vicenda?

«Abbiamo la prova provata che il sistema italiano è sano perché si fonda su valori condivisi come il rispetto della sacralità della vita. Mentre un sistema sofisticato e progredito come quello inglese ha perso ormai i valori fondamentali e, di conseguenza, va in corto circuito».

Quando si terrà il funerale della piccola?

«Il papà vuole un funerale religioso che probabilmente si terrà nella grande cattedrale medioevale di Derby. Oltre a questo desidera che siano presenti le autorità italiane e che il feretro della bambina sia avvolto nel tricolore».

La data?

«Tra fine novembre e inizio dicembre».

Perché, pur non essendolo loro, i genitori hanno voluto che Indi fosse battezzata?

«È la parte più commovente della storia. Il papà è sempre stato ateo, ma mi ha confidato che nella vicenda di Indi ha visto l’inferno e il male all’opera. Perciò si è detto che se esiste l’inferno deve per forza esistere anche il paradiso. E ha concluso: “Io voglio che la mia bambina vada in paradiso. E poi voglio andarci anch’io”. Quindi ha chiesto il battesimo per Indi e lo chiederà anche per sé».

Che cosa vuol dire precisamente essere un avvocato cassazionista?

«Avere l’abilitazione a patrocinare presso le supreme corti come la Corte costituzionale, la Corte di Cassazione e le corti europee».

Per Indi Gregory avete presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo?

«Avevamo preparato insieme ai colleghi un ricorso per la violazione dei diritti alla vita, alla libertà di movimento e alla libertà di religione. Purtroppo la bambina non è sopravvissuta abbastanza da permetterci di depositarla».

Da uomo di legge cosa pensa di un ordinamento in cui dei giudici e non i suoi genitori decidono quando, come e dove si deve mettere fine alla vita di un bambino gravemente malato?

«I latini dicevano summum ius summa iniuria, il massimo del diritto è il massimo dell’ingiustizia».

Sintesi inquietante.

«È ciò che si è verificato nel caso di Indi e negli altri casi come il suo. Conosco l’ordinamento britannico e ne ho grande rispetto perché è molto più attento, puntiglioso e approfondito del nostro. Però evidentemente si è perso il quadro generale e sia i giudici che gli avvocati non si sono probabilmente resi conto che sostenere che la morte di una bambina sia nel suo interesse smentisce tutto ciò che sta alla base del diritto».

Ci sono altri Paesi in cui questo avviene?

«Anche nel nostro ci sono casi in cui il giudice si sostituisce ai genitori, per esempio quando i testimoni di Geova rifiutano le trasfusioni per i loro figli. Ma si tratta sempre di interventi a difesa della vita, mai contro di essa. Purtroppo anche in Italia qualcuno comincia a spingere perché si intervenga a tutela della cosiddetta qualità della vita, con norme eutanasiche».

Perché è stato rifiutato il secondo parere di un’altra équipe medica previsto a tutela dei pazienti?

«In realtà, il secondo parere era già stato dato da medici di fiducia del curatore di Indi nominato dal giudice».

E diceva?

«Era conforme a quello dell’ospedale di Nottingham. L’inghippo è proprio qui. Il giudice esautora immediatamente i genitori nominando un curatore del minore a sua scelta che, ovviamente, fa ciò che gli dice il giudice. Il parere medico del Bambin Gesù sarebbe stato il terzo ed era in contrasto con gli altri due».

Un ordinamento monolitico?

«Che si fonda sulla collaborazione ai limiti della complicità tra il sistema sanitario pubblico e il Cafcass (Children and family court advisory and support service ndr), un gigantesco ente pubblico che riunisce assistenti sociali, psicologi, curatori speciali dei minori e avvocati contro cui la famiglia non ha alcuna possibilità di vincere».

Sembra uno spicchio di società distopica.

«Che qualcuno vorrebbe introdurre anche in Italia, istituendo forme di collaborazione diretta tra servizi sociali, giudici e curatori dei minori».

Come a Bibbiano?

«Esatto».

Le aspettative dei genitori coincidono sempre con il bene dei bambini malati?

«I genitori di Indi avevano ben chiaro che la bambina non sarebbe mai guarita e che l’aspettativa di vita data dalla sindrome mitocondriale era molto ridotta. Volevano offrirle tutte le opzioni possibili per una presa in carico che le desse le migliori prospettive».

Qual è il confine tra accanimento terapeutico e scivolamento nell’eutanasia?

«Dobbiamo trovare un equilibrio tra Scilla e Cariddi. Non si possono applicare trattamenti inutili o peggio controproducenti. Ma dall’altra parte non si può cadere nell’abbandono terapeutico. Io credo che il limite sia dato dai cosiddetti sostegni vitali, alimentazione, idratazione e respirazione, che non possono mai essere negati a nessuno».

Perché tra tanti casi finiti come per Indi Gregory, solo per Tafida Reqeeb, la bambina che 4 anni fa è stata trasferita dal Royal Hospital di Londra al Gaslini di Genova dove tuttora vive, la decisione è stata diversa?

«In quel caso decise un giudice illuminato che nel provvedimento parlò proprio di sacralità della vita. Ma qualcuno mi dice che la decisione fu assunta anche perché agli atti era stata depositata la fatwa di un imam che assicurava la maledizione di Allah su chiunque avesse attentato alla vita della piccola di religione musulmana».

Il sistema sanitario che dispone di risorse limitate può ritenere che il prolungarsi delle cure per malati inguaribili penalizzi altri malati?

«L’ospedale non può decidere di rifiutare cure, può rifiutare terapie».

Che differenza c’è?

«La terapia mira alla guarigione, la cura è data da quei supporti vitali e da tutte le attenzioni che circondano il paziente che non possono essere rifiutate».

Michele Serra ha detto che San Francesco parlava di «sorella morte» e i cattolici dovrebbero saperla accettare con maggior disponibilità.

«È vero. Nella prospettiva della fede la morte è un passaggio alla nostra condizione definitiva. Ma non per questo è lecito disprezzare la vita come la conosciamo che è un tempo concesso a ogni uomo ed è per sua natura la cosa più preziosa che abbiamo su questa terra».

Altri opinionisti hanno detto che lo zelo usato nel concedere la cittadinanza a Indi dovrebbe esserci per concederla ai figli di immigrati che già vivono e studiano in Italia.

«La situazione di Indi era di pericolo di vita e questo ha giustificato la procedura di urgenza. Se non ci fosse stato il pericolo di vita come nel caso di Tafida Reqeeb, il cui ingresso in Italia è stato autorizzato senza grossi problemi, non sarebbe stata necessaria la cittadinanza».

Nel 2018 è diventato senatore della Lega, perché alle ultime elezioni non è stato rieletto?

«C’è stata una scelta da parte della segreteria politica di mettere la mia candidatura in una posizione estremamente difficile. Ho accettato questa decisione anche per mostrare che il mio impegno non dipende dal mio ruolo nel palazzo, ma è motivato da ragioni più alte. Ho sempre combattuto la battaglia per la vita e la famiglia e continuerò a farlo dovunque mi trovi».

È sempre convinto che si possa ridiscutere la legge 194 per arrivare a una situazione di aborti zero?

«Sono convinto che le prossime generazioni guarderanno con orrore alla nostra che solo in Italia ha condannato a morte 6 milioni di bambini dal 1978 a oggi. Certamente la legge sull’aborto sarà cancellata. Si tratta solo di continuare la battaglia culturale e politica affinché tutti comprendano che un Paese civile e progredito ha a disposizione altri strumenti per risolvere i problemi senza bisogno di sbarazzarsi dei bambini non ancora nati».

Che cosa pensa dell’attività di Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia del Senato nonché legale della presunta vittima di stupro nel processo che vede imputato Ciro Grillo?

«Giulia Bongiorno è certamente una validissima collega. Non è un mistero che io e lei non abbiamo la stessa visione su temi come l’affido condiviso e l’eutanasia. Io, al suo posto, avrei preferito rifiutare la difesa in questione, ma non vedo ragioni di carattere deontologico per censurare la sua libera scelta».

Che cosa propone il suo Manuale di resistenza al pensiero unico?

«Ho raccontato molte storie di persone massacrate dal pensiero unico Lgbt, esponendo alcune proposte di resistenza. Tra queste le più importanti sono il fare rete, l’appoggiarsi alla politica senza farsene condizionare, il testimoniare nella vita quanto si sostiene con le parole e soprattutto il ricorrere alla forza potente della preghiera. Non dimentichiamoci che l’impero sovietico fu abbattuto da un pugno di operai polacchi che cominciarono la loro battaglia pregando di nascosto il rosario nei cantieri Lenin di Danzica. Come diceva Santa Teresa di Lisieux: “Quando il cristiano si mette in ginocchio il mondo trema”».

Si ritrova nella definizione di rappresentante delle istanze ultra-conservatrici?

«La definizione di conservatore può avere un senso, ma Gilbert Keith Chesterton già ci metteva in guardia sostenendo che compito dei progressisti è commettere errori, mentre compito dei conservatori è fare in modo che quegli errori non vengano corretti. Purtroppo si sta verificando questa profezia e sui temi valoriali ormai in molti paesi non c’è più differenza tra destra e sinistra. Il mio impegno è per la difesa e la promozione della vita umana sempre, della meravigliosa differenza tra maschile e femminile e per la promozione della famiglia società naturale, così come ci è stata tramandata da millenni di evoluzione, nonché salvaguardare le nostre radici cristiane. Se questo è essere ultra conservatori allora lo sono».

 

La Verità, 18 novembre 2023

«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022

«Il referendum sul fine vita nasconde un equivoco»

Con l’autorevolezza che gli deriva dalla lunga frequentazione delle istituzioni repubblicane, già presidente della commissione Antimafia e della Camera dei deputati, Luciano Violante è abituato a spaccare il capello con il laser del diritto. Significativo è stato un suo recente intervento sul referendum, spacciato come pro eutanasia, in realtà volto a depenalizzare il reato di omicidio del consenziente.

Presidente, pure in presenza di un giudizio positivo sull’operato del governo Draghi alcuni analisti segnalano che esso rappresenta un’anomalia istituzionale per esempio in rapporto al Parlamento: qual è la sua opinione in proposito?

«Abbiamo un sistema costituzionale che non favorisce la decisione. I nostri  tempi, invece, necessitano di decisioni. Senza riforma costituzionale quello che sta succedendo è inevitabile».

Sembra anche a lei che Draghi decida quasi a prescindere dalle indicazioni dei partiti della maggioranza?

«La figura del presidente del Consiglio in tutti i sistemi di democrazia matura non è quella del mediatore, ma del decisore, previo consenso delle componenti della maggioranza. Non è più un puro recettore delle tendenze dei partiti com’è stato fino al governo Craxi. Da allora il sistema si è modernizzato. Non a caso  i giornalisti usano il titolo di premier, costituzionalmente  scorretto, ma che ne definisce bene le funzioni».

Ritiene indispensabile il protrarsi dello stato di emergenza a causa della pandemia?

«Non siamo in presenza di una guerra, per cui alcuni argomenti “bellici” andrebbero usati con prudenza. Tuttavia l’epidemia è gravissima e sostanzialmente  sconosciuta ; va affrontata con  strumenti adeguati, gravi, che in condizioni normali non sarebbero accettabili».

È corretto sottolineare che l’emergenza del Covid ha accentuato una deriva pericolosa per la democrazia o quella di Massimo Cacciari va presa solo come una provocazione?

«Non è mio costume fare polemiche. Il professor  Cacciari ha espresso un’opinione che, anche quando non condivisa, va accolta con rispetto. Ritengo sbagliato demonizzare anziché discutere. Le restrizioni sono ammissibili se ragionevoli, proporzionate e temporanee».

Non le pare che la demonizzazione di chi pone domande sia evidente?

«Vedo radicalismi da un parte e dall’altra».

È pretestuosa l’accusa d’ipocrisia della gestione del green pass? Non sarebbe più trasparente stabilire l’obbligo vaccinale cosicché nei casi controversi ci sia una responsabilità precisa alla quale rifarsi?

«La gestione del green pass è un fatto sanitario. A mio avviso la salvaguardia della salute è primaria. Dotarsi di green pass non comporta un grave sacrificio né un gran costo. Personalmente capisco poco la polemica sulla privazione della libertà».

Quanto dev’essere tenuto in considerazione il fatto che, esclusa la Francia, nella maggioranza dei Paesi europei il certificato verde non ha applicazioni così estese?

«Il problema va considerato in termini comparativi. Le misure vengono adottate in rapporto al costume, alle relazioni tra cittadini e con lo Stato, se si tratti di un popolo più o meno disciplinato o di uno Stato più o meno accentratore. Noi siamo un Paese con una forte tendenza alla libertà  individuale».

In questa situazione si registra la spinta per il referendum in favore dell’eutanasia o più precisamente per l’abolizione del reato dell’omicidio del consenziente: se fosse approvato quali scenari aprirebbe nella legislazione del fine vita?

«Se tanti cittadini  firmano significa che esiste un problema. Se il referendum fosse approvato potrebbe essere uccisa una persona con il suo consenso solo perché ritiene insopportabile una delusione sentimentale, un fallimento finanziario, una depressione. Tutto ciò che riguarda decisioni definitive, non riformabili, come dare e darsi la morte va legiferato con estrema attenzione. Diverso è, a mio avviso, il suicidio assistito sul quale esiste già una sentenza della Corte costituzionale. L’attuale quesito referendario esprime una buona intenzione, ma può avere effetti tragici».

Perché l’abolizione dell’articolo 579 del Codice penale potrebbe trasformarsi in una discriminazione dei più poveri?

«Oggi assistere un malato in un istituto che pratica cure palliative costa circa 300 euro al giorno, mentre in un ospedale il costo sale a 470 euro. Aumentando la popolazione anziana con il miglioramento delle condizioni di vita, in futuro gli anziani che non possono pagare queste cure potrebbero essere indotti a chiedere la morte per sé. Mi ha colpito che, durante questa pandemia, un giornalista e scrittore importante come Massimo Fini abbia detto che per salvare la vita ai settantenni e ottantenni si mette a repentaglio quella dei giovani: che muoiano pure i vecchi. Nella nostra società circola con leggerezza un’opinione nichilista e cinica nei confronti delle persone più fragili, come gli anziani. Dal pensare che non vale la pena far vivere alcune categorie deboli alla loro soppressione concordata, il passo può diventare breve».

La proposta di questo referendum viene dopo il dibattito sul ddl Zan che a sua volta segue quello sullo ius soli: a sinistra i diritti civili hanno definitivamente soppiantato i diritti sociali?

«È una domanda che a volte mi sono fatto anch’io. Ma oggi mi pare che lo slittamento sia stato frenato; penso, ad esempio, alle politiche del lavoro del Ministro Orlando. Il fatto è  che i dritti di libertà sono diritti tanto necessari quanto “facili” perché non costano e si esercitano subito dopo la proclamazione. Mentre i diritti sociali costano, creano conflitti e sviluppano i loro benefici in tempi più lunghi. Credo che una forza di sinistra debba esprimere equilibrio tra diritti e doveri e tra  diritti individuali e diritti sociali».

L’identità di genere percepita sui cui si basano alcuni articoli del ddl Zan è un concetto sufficientemente solido per costruire un’architettura legislativa?

«Sarebbe necessaria una discussione che superi la logica dei numeri. Mentre alcuni aspetti mi convincono, preferirei un ragionamento più complessivo sulle discriminazioni nelle scuole».

Mi pare di capire che è contrario all’istituzione della giornata scolastica contro l’omotransfobia?

«Preferirei una giornata contro tutte le discriminazioni. Credo che ai ragazzi dobbiamo insegnare che il meccanismo delle discriminazioni, di tutte le discriminazioni, scatta quando si inizia a pensare che qualcuno sia diverso da te e abbia meno diritti di te per il fatto stesso di essere diverso».

L’insistenza sui diritti civili evidenzia un distacco dalla quotidianità della maggioranza, fatta di problemi di gestione della salute, di difficoltà ad arrivare a fine mese, di problematiche legate alla pressione fiscale?

«Mi pare che in questa fase si stia costruendo un equilibrio. Mi riferisco alla difesa della salute o alle tematiche del lavoro».

Il nuovo fronte è la coltivazione della cannabis a uso privato. Sembra anche a lei che il Pd proponga continuamente nuove questioni divisive per mettere in difficoltà una parte della maggioranza e omologare il governo alla propria linea?

«Governano insieme forze che hanno idee diverse su molte questioni, ma prevale il senso di responsabilità. La coltivazione di quattro piante di  cannabis a uso privato fa certamente effetto. Ma mi sembra più importante lo ius soli. Credo che il diritto di avere la cittadinanza italiana di ragazzi nati in Italia, che frequentano scuole italiane e tifano per squadre di calcio italiane sia un diritto diverso da quello di coltivarsi le piantine in terrazza. Lo ius soli attiene ai moderni diritti di libertà».

Ritiene che le gravi storture messe in luce dalle rivelazioni di Palamara avrebbero meritato degli interventi più energici degli organi direttivi della magistratura?

«Più che espellerlo dalla magistratura… Palamara non ha rivelato misteri inediti, ma ha messo per iscritto un sistema corrotto di cui molti magistrati già parlavano nelle loro chat. Oggi occorre un intervento legislativo per evitare che la magistratura rimanga un corpo totalmente autoreferenziale rispetto al resto della società e dell’ordinamento costituzionale».

La riforma della giustizia di Marta Cartabia assolve a questo compito o è solo una mediazione rispetto alla riforma Bonafede per ottenere i fondi del Recovery plan?

«I fondi del Recovery plan riguardano la riforma della giustizia civile, non di quella penale. La riforma del ministro Cartabia ha una visione strategica seria, apprezzata da tutti gli operatori. Adesso occorre mettere mano all’ordinamento giudiziario che non riesce a rispondere alle trasformazioni del ruolo della magistratura».

Una necessità da tempo parcheggiata nella lista dei desideri.

«Occorre pensare a interventi con una logica costruttiva, non punitiva. La magistratura non è più quella degli anni Cinquanta quando sono stati introdotti il Csm e l’attuale struttura di governo. Se non si interviene c’è il rischio che la società venga amministrata dal sistema della giustizia penale».

Come giudica l’operato del ministro Lamorgese in occasione del rave party di Mezzano anche alla luce delle ultime rivelazioni sulla «scorta» al convoglio di camper in avvicinamento al luogo dell’evento?

«Prima di esprimermi vorrei conoscere l’esatto stato delle cose».

Pensando al caso Durigon e alle espressioni del professor Tomaso Montanari sulla Giornata del ricordo delle foibe che cosa serve per una vera riconciliazione con il nostro passato?

«Bisogna che ciascuno rispetti le memorie dell’altro. Rispettare non vuol dire condividere, ma rispettare. E le memorie  di tutti devono stare dentro l’ordinamento costituzionale».

Perché a suo avviso ci s’innamora ciclicamente di tanti piccoli messia come Roberto Saviano, Michela Murgia, Fedez, Montanari ai quali attribuire una funzione supplente nel dibattito politico?

«Il pensiero di sinistra nasce dalla critica hegeliana del reale. Perciò il pensiero critico dello stato delle cose, di cui le persone da lei citate sono espressione, è sempre fortemente apprezzato. Poi, certo, il reale non basta criticarlo, va anche ricostruito».

Non è perché la sinistra è più vicina alle élite di quanto lo fosse un tempo?

«Avendo governato abbastanza a lungo negli ultimi anni è inevitabile che i ceti più forti si siano avvicinati alla sinistra. Quando ha governato la destra è accaduto il contrario. Il problema non è  che il Pd prenda i voti nelle Ztl; deve  avere anche il consenso delle persone svantaggiate con politiche adeguate a conquistarlo. Quanto alla distanza dal reale dei partiti di sinistra, nutro qualche dubbio considerando che la maggioranza degli 8.000 comuni italiani è governata da giunte di sinistra o con componenti di sinistra, dove ogni giorno i cittadini chiedono concretezza».

 

La Verità, 11 settembre 2021

 

«I nuovi diritti rimuovono il dato della natura»

Perle nella conchiglia di un linguaggio piano, ma denso e profondo. Sono le risposte del cardinal Camillo Ruini, 89 anni, 17 dei quali trascorsi come presidente della Conferenza episcopale italiana. Insieme con Gaetano Quagliarello ha pubblicato da Rubbettino Un’altra libertà – Contro i nuovi profeti del paradiso in terra. Un dialogo sulla società contemporanea e il ruolo della Chiesa, curato da Claudia Passa. Un dialogo che il cardinale ha preferito non allargare ad altri argomenti nevralgici, come l’incontro con Matteo Salvini e il dibattito sul celibato dei sacerdoti.

La riflessione che conduce con Gaetano Quagliariello prende le mosse dall’Evangelium vitae nella quale Giovanni Paolo II attribuiva le minacce alla vita all’estensione del concetto di libertà individuale. A un certo punto osserva che, confermata l’attualità di quell’enciclica, «oggi la situazione si è appesantita». In che cosa vede questo appesantimento?

«Lo vedo in particolare, per quanto riguarda l’Italia, sul versante della fine della vita, dove purtroppo si è fatto spazio al suicidio assistito e all’eutanasia, pur cercando di evitare queste parole».

Con la crisi delle ideologie e del marxismo in particolare, anziché «perseguire la costruzione della società perfetta si cerca l’esistenza perfetta». Ne è una conferma la trasformazione dei partiti comunisti in partiti radicali di massa. È da qui che nascono i «nuovi diritti» e la rivoluzione antropologica in atto?

«I cosiddetti nuovi diritti e la rivoluzione antropologica nascono da una parte dall’assolutizzazione della libertà individuale, per la quale i desideri diventano diritti, dall’altra parte dallo sviluppo scientifico e tecnologico che ha reso possibile una trasformazione dell’uomo ottenuta non per via economica e politica, come pensava Marx, bensì intervenendo direttamente sulla nostra realtà biologica. Il fallimento dell’utopia marxista, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione sovietica, ha spinto molti marxisti a trasferire dalla società all’individuo la loro ricerca del paradiso in terra, come aveva previsto Augusto Del Noce».

È un’errata concezione della libertà individuale che autorizza l’uomo a disporre della vita e della morte attraverso l’interruzione della gravidanza e le pratiche eutanasiche?

«Direi di sì. Si tratta sempre di una falsa assolutizzazione della nostra libertà, come se ci fossimo dati la vita da soli e avessimo imparato da soli a comportarci da persone libere».

In materia di eutanasia, dal caso di Eluana Englaro a quello di Alfie Evans fino a quello di Dj Fabo, abbiamo assistito alla supplenza o invadenza di organismi giuridici in assenza di normative. Pensa si debba ammettere una presenza troppo flebile della comunità cristiana e delle massime gerarchie su questi temi?

«Penso sia giusto distinguere: avremmo potuto e dovuto fare di più, ma non si deve dimenticare che in molti casi, compresi quelli da lei citati, la Chiesa ha parlato chiaro e forte, anche se molti mezzi di informazione hanno preferito ignorare la sua voce».

Un esempio di libertà sganciata dalla responsabilità è dato dal fatto che, mentre si considera intoccabile il diritto all’aborto, si vogliono aver figli ricorrendo alle biotecnologie e all’utero in affitto?

«Il vero problema è che non si considera il figlio come una persona, ma come qualcosa di cui i genitori possono disporre, sopprimendolo se non è gradito, o invece procurandoselo in qualsiasi modo, anche con il ricorso all’utero in affitto».

Già nel 2005 Papa Benedetto XVI mise in guardia dalla «dittatura del relativismo». Oggi questo comportamento si è rafforzato sulla spinta del pensiero politicamente corretto, nuova «religione secolare»?

«Il relativismo fa certamente parte del “politicamente corretto”. La “dittatura del relativismo” pretende che il relativismo sia l’unico atteggiamento giusto e valido, cadendo così in una curiosa contraddizione perché proprio il relativismo sarebbe giusto in sé e non relativo ai nostri punti di vista».

C’è il pericolo che attraverso il politicamente corretto si affermino le dittature delle minoranze?

«Non si tratta soltanto di un pericolo, ma di una cosa che si è verificata varie volte, in particolare riguardo alla concezione del matrimonio e della famiglia».

I nuovi diritti hanno in comune la relativizzazione o l’annullamento del dato di natura?

«Purtroppo sì. L’idea di fondo è che una natura umana propriamente non esista e che noi siamo integralmente plasmati dall’ambiente in cui viviamo, dalla nostra cultura, dalle nostre scelte».

Come interpretare la tendenza a equiparare i rapporti omosessuali a quelli eterosessuali aperti alla procreazione e la diffusione crescente della teoria del gender?

«È un aspetto della dittatura del relativismo. L’omosessualità è sempre esistita e nel corso della storia il matrimonio si è configurato nelle forme più diverse, pensiamo alla poligamia e anche alla poliandria. Mai nessuno però aveva pensato a un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Che oggi lo si rivendichi come una conquista di civiltà è il segno della profondità della crisi che ci attanaglia».

Il diritto a emigrare sembra contare più adesioni del diritto a crescere dove si è nati. L’emergenza migratoria dev’essere affrontata con l’accoglienza senza limiti o attraverso la pianificazione della politica?

«Non si tratta solo di un’emergenza, ma di un fenomeno di lungo periodo. Per governarlo bisogna coniugare le esigenze della solidarietà e dell’accoglienza – non dimenticando mai che per un cristiano ogni uomo è un fratello – con quelle del rispetto della legalità e della sicurezza dei cittadini, reprimendo le organizzazioni criminali che prosperano sull’emigrazione clandestina, sullo spaccio della droga e sullo sfruttamento della prostituzione. Sviluppare una cultura dell’accoglienza non significa affatto rinunciare ai nostri valori, senza dei quali non c’è futuro per noi».

Il multiculturalismo è un valore in sé stesso?

 «La molteplicità delle culture è un dato di fatto, da accogliere positivamente, ma non è un valore in sé, tanto meno il valore primo e il criterio decisivo a cui fare riferimento. In particolare per i credenti in Gesù Cristo il valore primo non può essere altro che Cristo stesso: proprio da lui impariamo ad amare il nostro prossimo, compresi coloro che la pensano diversamente da noi».

Un’altra emergenza è la salvaguardia del pianeta che nelle sue forme più intransigenti arriva a equiparare l’uomo alle altre specie animali, quando a non a considerarlo nocivo per la terra. Fatto salvo il rispetto del pianeta, come ritrovare equilibrio nel rapporto con l’ambiente?

«Rispettare e salvaguardare il nostro pianeta è oggi un’esigenza prioritaria, una questione di vita o di morte per l’intera umanità. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’equiparazione dell’uomo agli altri animali. Per la fede cristiana l’uomo è l’unica creatura visibile fatta a immagine di Dio. Ma anche su un piano semplicemente razionale la singolarità dell’uomo emerge chiaramente: è sufficiente pensare a quel fatto imponente che è lo sviluppo della cultura. Sia la fede sia la ragione ci dicono inoltre che dobbiamo impiegare questa nostra superiorità non per distruggere il resto della natura, ma per custodirlo».

L’ambizione di realizzare l’esistenza perfetta, che escluda imprevisti, dolore, handicap, si basa sulla presunzione di onnipotenza della scienza?

«La scienza autentica – in concreto i veri uomini di scienza – conosce meglio di noi i limiti della scienza stessa. Un’esistenza perfetta rimane comunque un’illusione pericolosa, che si ritorce contro di noi».

A suo avviso come può essere letta l’esplosione del coronavirus e il senso di insicurezza che comporta? Che riflessione ci impone sulla scienza, sulla caducità dell’uomo, sull’accettazione del limite?

«L’esplosione del coronavirus è un enorme imprevisto che condiziona la nostra vita e ci ha obbligati a modificare repentinamente i nostri modi di vivere, di lavorare, di rapportarci a vicenda. Certo, è una conferma di quel che ho appena detto sui nostri limiti. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: proprio questa pandemia sollecita l’impegno di tutti, ci fa meglio comprendere l’importanza della solidarietà, mette in luce un coraggio, una dedizione, una capacità di sacrificio che ci ha sorpreso positivamente. Così il coronavirus è un grande appello a essere migliori: detto con le parole del Vangelo, un appello a convertirci».

E che riflessione suggerisce sulla globalizzazione?

«L’intensificazione dei rapporti e degli scambi a livello mondiale contribuisce certamente alla rapida diffusione di questa epidemia. Non dimentichiamo però che cent’anni fa il contagio della “spagnola” non fu meno violento».

Dall’esplosione dell’epidemia conviviamo con la paura. Solo una presenza portatrice di speranza può aiutare a vincerla, come accadde agli apostoli sulla barca con Gesù mentre il mare era in tempesta. In un momento così crede che la Chiesa dovrebbe far sentire di più la sua voce ai credenti e a tutti i cittadini?

«Di fronte al coronavirus, e in genere di fronte ai mali che ci minacciano, come credenti chiediamo nella preghiera l’aiuto di Dio. Questa semplice richiesta ci fa riscoprire un aspetto fondamentale della nostra fede, che Dio cioè non è soltanto un Signore lontano e un po’ astratto, ma è il Padre che si cura di noi e che tiene nelle sue mani le vicende del mondo».

In conclusione, se dovesse suggerire una parola o un esempio ai cristiani del Terzo millennio, che cosa direbbe?

«Preferisco limitarmi all’esempio, che è quello datoci da Giovanni Paolo II. Gli sono stato vicino per vent’anni, ho visto come egli viveva alla presenza di Dio e perciò non aveva paura ed esortava tutti a non avere paura e a fidarsi di Dio. Viviamo in anni difficili, per la Chiesa e per l’Italia, e spesso ci siamo allontanati da Dio, ma Dio non si è allontanato da noi: la nostra vita e la nostra speranza possono e devono fondarsi su di Lui».

  La Verità, 15 marzo 2020

L’omaggio delle Iene a Nadia è una festa della vita

Si fa presto a dire «spettacolarizzazione della morte». A cavillare sulla calligrafia del… come chiamarlo, omaggio, ricordo, abbraccio virtuale proposto l’altra sera dalle Iene alla loro prima uscita stagionale, dopo la morte di Nadia Toffa avvenuta il 13 agosto scorso. Si possono avanzare alcuni rilievi formali a questo commovente ricordo messo in scena dalle cento iene di Italia 1 (ore 21.35, share del 14.9%, 2,5 milioni di telespettatori). Togliamocele subito da davanti queste perplessità secondarie. Il discorso affidato ad Alessia Marcuzzi, per esempio, conduttrice con Nicola Savino di questa edizione dello show, forse non la più autorevole o carismatica della squadra. Per quanto discutibile, lasciare che a introdurre il filmato di Nadia fosse una dei due conduttori, è stata una scelta ancorata a un criterio oggettivo. Poi la retorica della «guerriera», parola abusata in questi mesi per raccontare l’impari battaglia. Parola selettiva, di fronte alla malattia. E quelli che sono privi di questa forza, di questo spirito indomito? Nell’abbraccio alla sofferenza devono rientrare anche quelli che guerrieri non sono e non riescono a esserlo per mille motivi. Domandina: chi ha braccia così larghe? Infine, le assenze per motivi di lavoro di Ilary Blasi e Teo Mammucari tra le cento iene presenti, le più anziane e passeggere, le meno memorabili e riconoscibili, a causa del tempo che ci cambia tutti.

Però, fatta la tara delle questioni formali, dobbiamo andare alla sostanza e apprezzare il coraggio e la capacità di rischio messa in campo da Davide Parenti e il suo branco. La vicenda dolorosa di Nadia ha commosso l’Italia da quando volle rivelare la prima volta di avere «il cancro, come lo chiamava lei», e un numero crescente di persone ha potuto apprezzare la forza d’animo con la quale questa ragazza ha condiviso il suo dramma. Sempre con il sorriso e uno sguardo positivo, senza nascondersi la realtà e il dolore profondo. Per un attimo l’abbiamo rivista sprigionare tutta la sua vitalità negli ingressi in studio, prima della malattia. Poi l’abbiamo rivista segnata dalle terapie, ma non negli occhi e nel sorriso. «Non è importante quanto vivi, ma come vivi», ha sottolineato nel video girato per condividere gli ultimi tempi. È la sua eredità. Grazie a lei e alle Iene, l’altra sera è andata in scena una inusitata e sorprendente festa alla vita. In un tempo in cui la morte è il più grande dei tabù, e nel quale, non a caso, si continua a discutere di suicidio assistito e di eutanasia, una serata così fa bene al cuore.

La Verità, 3 ottobre 2019

Paola Severini: «Così ho portato l’handicap tra i lustrini»

Cattolica praticante con la tessera del Partito radicale. Amica di vescovi, di preti importanti e di protagonisti della solidarietà. Giornalista, scrittrice, conduttrice radiofonica e produttrice televisiva. Già moglie di Antonio Guidi, ex ministro per la Famiglia del primo governo Berlusconi, poi moglie dello storico Piero Melograni, scomparso nel settembre 2012. Fondatrice della Cooperativa Superangeli, poi trasformata in Srl, collettore d’informazione sul mondo del volontariato. A lungo consigliere dell’Agenzia nazionale delle Onlus, organismo della Presidenza del consiglio dei ministri. Autrice di Le mogli della Repubblica (Marsilio), nel quale ha raccolto le confessioni, tra le altre, di donne come Carla Pertini, Livia Andreotti, Linda D’Alema, Clio Napolitano, libro saccheggiato da molti colleghi incapaci di ottenere le stesse interviste. A tempo perso segretario generale del Comitato internazionale Viva Toscanini. È lei ad aver fatto esibire, gratuitamente, i Ladri di carrozzelle nell’ultima serata del Festival di Sanremo. Tutto questo e molto di più è Paola Severini Melograni. L’intervista è un tentativo di arginare un fiume in piena.

Cominciamo da Sanremo?

«È stato un successo. I Ladri di carrozzelle hanno avuto una grande vetrina, all’inizio dell’ultima serata. Tutto è stato declinato nel modo giusto e dobbiamo ringraziare Carlo Conti».

Com’è riuscita a portarli all’Ariston?

«Ho stalkerizzato la Rai e loro hanno ceduto».

Memori dell’esperienza dell’anno precedente, quando, sempre gratuitamente, sullo stesso palco salì il pianista Ezio Bosso?

«Grazie a quell’esibizione Bosso, già artista gigantesco, è divenuto una stella internazionale».

Di recente è stato ospite di Paolo Bonolis su Canale 5 e prima anche Sky Arte ha trasmesso un suo concerto.

«Gliel’ho detto: ora è un artista molto richiesto. Ma il mio lavoro si è fermato dopo Sanremo».

I Ladri di carrozzelle hanno avuto grande visibilità.

«Enorme. Ho ricevuto valanghe di mail e messaggi. 13 milioni di telespettatori non si hanno tutti i giorni. Poi, a quello del Festival, ho aggiunto il pubblico di Striscia la notizia. Antonio Ricci è un amico…».

E quindi?

«L’ho chiamato e gli ho proposto di ricordare che il primo a mandarli in onda era stato lui. Detto fatto. Un paio di giorni dopo, quando Bruno Vespa ha ospitato Conti, si è rivista l’esibizione».

Erano già stati a Striscia?

«Nel 2004. I Ladri di carrozzelle esistono da metà degli anni Ottanta. Io li ho conosciuti nel 1989, quando ero moglie di Antonio Guidi. Avevo incontrato Paolo Falessi, il fondatore, quel signore alto che all’Ariston suonava la chitarra. Negli anni la band è cambiata, alcuni sono andati via, altri sono morti. Nel 2004, siccome non mi riusciva di portarli al Festival, proposi a Ricci di fare un anti Sanremo. Lui capì al volo e per una settimana fece Saneremo. I Ladri si mettevano le parrucche, cambiavano look e ogni sera si fingevano cantanti diversi».

Tutte rose e fiori al Festival?

«Non proprio. Mi è molto dispiaciuto che la Rai li abbia mandati a dormire a Imperia. Ho fatto una scenata. Pensavo dovessero essere trattati come gli altri e non credo che Zucchero o Fiorella Mannoia abbiano dormito a Imperia».

I Ladri di carrozzelle con Paola Severini a Sanremo

I Ladri di carrozzelle con Paola Severini a Sanremo

Quindi anche spine.

«Qualcuna. Comunque, tutto bene. Domenica abbiamo concluso con un pranzo della Caritas e i boy scout hanno servito ai tavoli. È venuto anche qualcuno della Rai. Sanremo non finisce con le collane di Maria De Filippi o il vestito di Diletta Leotta».

A proposito…

«A proposito, niente moralismi. Per dire, io so e ripeto che il sesso è importante e fa bene anche agli handicappati. I Ladri di carrozzelle cantano una canzone intitolata Malattia Pat che sta per patata (“Ma quanto bene fa, è un rimedio universale, guarisce da ogni male”). Ma altresì sono convinta che in certe situazioni la forma sia sostanza. Soprattutto se si vuole portare un messaggio. Rispettare il contesto in cui sei è un fatto di educazione: non vai dal Papa in minigonna».

Dell’abito della Leotta si è parlato, della sua band?

«Pochino: ho ancora molto da lavorare. Alla fine della nostra conferenza stampa era comparso anche il dg della Rai Antonio Campo Dall’Orto, l’unica alla quale abbia partecipato, e c’erano tutte le testate. Ma non ho visto grandi uscite sui giornali».

Sanremo a parte, dove quest’anno si è rischiata un’overdose sociale, non crede che la televisione debba migliorare su certi argomenti?

«Condivido la battaglia di Fiorello contro gli eccessi di morbosità di certi programmi. Personalmente li evito, soprattutto da quando vedo che sono monopolizzati da quella che chiamo la compagnia della morte, Alessando Meluzzi, Roberta Bruzzone. Con loro perderei sempre».

Pochi giorni prima del Festival l’ex batterista Piero Petrullo si è tolto la vita: com’è stata assorbita quella tragedia?

«Piero soffriva di dolori lancinanti continui in seguito a un incidente stradale che lo aveva reso paraplegico. Nonostante i progressi fatti, analgesici e morfina sono soggetti all’assuefazione e perdono efficacia. Da sette anni, a causa dei dolori, Piero aveva rinunciato a suonare. Ma non è stato lasciato solo, era assistito dai parenti. Due giorni prima di compiere quel gesto, Falessi gli aveva parlato. Sembrava tranquillo. Non ha lasciato niente di scritto. La sua morte ci ha molto provato e abbiamo chiesto a Conti di ricordare che “Stravedo per la vita” era dedicata a lui. C’è qualcosa di misterioso in questa tragedia che dobbiamo rispettare. Mi è accaduto altre volte di vivere da vicino gesti inspiegabili».

Per esempio?

«Conoscevo Carlo Lizzani, una persona piena di vita. Non mi sarei mai aspettata che si suicidasse. Conoscevo anche Mario Monicelli, ma meno. Mio marito Piero era stato amico di suo padre Tomaso, che si tolse la vita. E pensava che anche che Mario l’avrebbe fatto».

Una cattolica praticante con la tessera radicale cosa pensa dell’eutanasia?

«Forse la mia definizione più corretta sarebbe cattosocialista, ma non è importante. Non mi piace la parola eutanasia, l’ho detto anche a Mina Welby, madre di Piergiorgio. Sono per la morte dignitosa per tutti. È anche un’invocazione del Veni creator spiritus: “Dona morte santa”. La morte santa è una buona morte».

Approva coloro che vanno a morire nelle cliniche svizzere?

«Non approvo. Personalmente farò testamento biologico, non voglio l’accanimento terapeutico. Nemmeno la Chiesa lo vuole. Com’è stato confermato anche pochi giorni fa in occasione della morte di Dino Bettamin, il macellaio di Montebelluna malato terminale di Sla. Bisogna sapere che questi malati muoiono soffocati. La sedazione profonda non è una pratica eutanasica perché non si staccano le macchine».

Quindi si occupa anche di altro: non è una specie di sacerdotessa dell’handicap.

«Ho cominciato a interessarmi a questi temi a 14 anni, quando mi sono fidanzata con Guidi. Ho conosciuto i maggiori luminari nel medicina e della psichiatria, da Franco Basaglia, di cui Guidi era allievo, a Gilles Deleuze. E i grandi protagonisti della solidarietà, da monsignor Ersilio Tonini, un vero padre spirituale, a Vincenzo Muccioli, da don Pierino di Eugenio, direttore dell’Eco di San Gabriele, ad Andrea Riccardi ed Ernesto Olivero. Nel 2000 ho fondato Angelipress, l’agenzia che informa Camera e Senato sui temi del volontariato. Siamo assillati perché ci prendono per un supermarket delle disgrazie. Ma spesso questo assillo ci permette di fare cose meravigliose».

Paola Severini con Piero Melograni, morto nel 2012

Paola Severini con Piero Melograni, morto nel 2012

Me ne dica una.

«La legge sul Dopo di noi, approvata in Parlamento nel giugno scorso con un consenso trasversale. Una legge che stabilisce la possibilità di unire soldi pubblici e privati per costruire qualcosa per gli handicappati gravi rimasti senza genitori. Le sarà capitato di leggere le cronache delle famiglie con disabili. Quando genitori e parenti si avvicinavano alla fine, il loro futuro era nero e finiva in tragedia. Questa legge, che non è perfetta, dà una prospettiva a queste persone».

In tutto questo che cosa c’entrano i radicali?

«C’entrano perché sono sensibili alle minoranze. Li vedo, lavorano con i malati e nelle carceri…».

Come i cattolici.

«Infatti, si lavora fianco a fianco. Poi io sono favorevole alle unioni civili, ho visto grande dedizione nelle coppie dello stesso sesso. Mentre sono contraria all’utero in affitto. Prima e più che contro la Chiesa, l’utero in affitto è un insulto all’umanità, perché non tiene conto di ciò che succede tra una donna e il nascituro nei nove mesi in cui sono lo stesso corpo».

Perché è finito il matrimonio con Guidi?

«Non mi amava più e se n’è andato. Da lui ho imparato molto e insieme abbiamo avuto tre splendidi figli: Valentino che ha 43 anni, Valerio, 33, e Diletta di 31».

E il rapporto con Piero Melograni com’è iniziato?

«Aveva un figlio, non suo, nato dal precedente matrimonio di Margherita Guzzinati, di cui si prendeva cura. Ci siamo conosciuti e perdutamente innamorati. Ogni giorno, per cinque anni, finché è stato bene, mi ha fatto trovare al risveglio un biglietto d’amore sul cuscino».

Che cosa trae dal lungo impegno nel Terzo settore?

«Quando entri in questo mondo non lo puoi più lasciare. Sento molto vicini a me quelli che papa Francesco, che ammiro, chiama gli scarti della società. È brutto usare questa espressione, ma rende la situazione. Poi sì, ci sono anche le onlus inaffidabili. Detto questo, parlando degli handicappati, non dobbiamo farci prendere dal sentimentalismo: non è che perché sono così sono per forza buoni, generosi e altruisti. Come tutti, possono avere difetti o essere egoisti».

Perché molte cooperative che operano nel campo dell’immigrazione sono scorrette?

«Perché lì c’è liquidità immediata e manca un’adeguata selezione del personale. Sono amica di Alberto Panfilio, il sindaco di Cona, in provincia di Venezia, dove all’inizio di gennaio è morta una giovane donna ivoriana nel centro accoglienza. In un paese di 300 abitanti erano arrivati 1400 profughi assistiti da ragazzine alle prime armi. A Capri, invece, 20 immigrati sono stati respinti. Non si fa così l’accoglienza».

E come si fa?

«Con i ricollocamenti, come in Germania. Si verificano quelli che ci servono e si prendono, gli altri si ricollocano».

Integrandoli.

«Certamente».

In che modo?

«Bisogna scegliere le persone in grado di gestire questa emergenza e che conoscono la situazione delle popolazioni. L’Italia non può essere la discarica d’Europa. Il ministro Marco Minniti ha esperienza di sicurezza, non di accoglienza e integrazione. Il prefetto Mario Morcone anche. Farei Commissario straordinario Emma Bonino per i ricollocamenti in Italia. E utilizzerei l’esperienza e la conoscenza di Romano Prodi per i rapporti con i Paesi africani».

Flavio Insinna. «Perché no lui a Sanremo?»

Flavio Insinna. Dice Paola Severini: «Perché no lui a Sanremo?»

Ancora cattolici e radicali. L’anno prossimo cos’ha in mente per Sanremo?

«Prenderò contatti con l’entourage di Paolo Bonolis, se sarà lui a condurlo, come si dice. Ho letto che ha una figlia disabile, penso che sarà attento. Anche uno come Flavio Insinna lo sarebbe e sono sicura che sarebbe anche un ottimo presentatore del Festival».

Ha altri artisti da proporre?

«Bobo Rondelli che canta insieme con un ragazzo down. Vada su Youtube».

Tra i tanti politici e artisti che frequenta chi l’ha colpita di più negli ultimi tempi e perché?

«Il presidente Sergio Mattarella ha aperto la tenuta di Castelporziano, un’oasi destinata alla stretta cerchia del Quirinale, ai portatori di handicap. Quelli gravi sono invasivi e possono essere disgustosi. Ho visto Mattarella lasciare che gli sbavassero addosso».

 

La Verità, 19 febbraio 2017