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«Canto contro l’Europa che impone leggi assurde»

Dopo 50 anni di carriera in cui ha scritto per sé, per i Decibel e per grandi interpreti della musica italiana, e dopo 40 vite (senza fermarmi mai), la ricca autobiografia pubblicata da La nave di Teseo, Enrico Ruggeri conserva l’energia per creare un album come La caverna di Platone, da oggi disponibile in digitale, in cd e in doppio vinile (con 5 bonus track). Tredici brani schietti, tra citazioni personali e memorie, attraversati da una gran voglia di autenticità, e che non disdegnano di prendere posizione sulla guerra, sugli inganni del pensiero ufficiale e sull’Europa.
Non bisogna mai sentirsi appagati, Ruggeri?
«Essere appagati non è una bella situazione per un artista. Credo di avere ancora tante cose da dire e raccontare».
L’album si apre con Gli eroi del cinema muto, un brano commovente ma non nostalgico, che tratteggia le figure di quegli attori che rendevano tutte le sfumature dei sentimenti «senza una sola battuta»: un bel punto di vista rispetto alla società parolaia attuale.
«È il mio pezzo preferito».
Perché?
«Mi sono commosso anch’io, scrivendolo, perché è una bella storia. Quando è arrivato il sonoro la generazione di super-divi degli anni Dieci, Venti e Trenta del secolo scorso è stata spazzata via dal futuro. Quasi nessuno è sopravvissuto a quello tsunami. È un pezzo malinconico ed epico, in cui mi pare di aver dosato bene gli ingredienti. Sono contento che l’album inizi con un “Benvenuti” (a questi eroi)».
Trasmettevano la gamma dei sentimenti senza parlare.
«Con lo sguardo dovevano comunicare una sensazione. Arte complicata».
Figure che sono un monito per il nostro presente alluvionato di parole?
«Siamo immersi in un diluvio di parole superflue. Grandi testi ce ne sono sempre meno, sproloqui sempre di più».
Il leit motiv del brano successivo, Il Poeta, dedicato a Pier Paolo Pasolini dice: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare». È questa la lezione che deriva dalla sua vicenda?
«Ma anche da quella di Socrate o dai tanti bruciati sul rogo, da Oscar Wilde a Ezra Pound, fino a Pasolini. Dagli intellettuali scomodi. Come si dice oggi, Pasolini era un personaggio divisivo. Come se uscire dalla narrazione corrente sia in sé stesso un difetto. Invece, i grandi erano e sono divisivi, perché esserlo significa stimolare il dialogo e il confronto. Giorgio Gaber era divisivo, Pasolini super divisivo, persone che non piacevano a tutti».
Nel brano successivo «piovono rose e spade nel cielo di Milano», anche se «non si vede il sole…». Milano è l’avanguardia italiana, possiamo esserne soddisfatti?
«Dal punto di vista della vitalità sì, da tanti altri no. È una città divisa, qui lo dico nell’accezione peggiore, esasperata, violenta. Tuttavia, resto ottimista perché ha in sé un humus di collegamento con il futuro che mi fa ben sperare».
Qual è il suo sguardo sulla morte di Rami Elgaml e i fatti che ne sono seguiti?
«È una brutta storia, strumentalizzata, sulla quale è difficile prendere posizione. Diciamo che le regole vanno rispettate. Ma purtroppo oggi è difficilissimo fare gli agenti o i carabinieri in una città come Milano, dove si deve sempre stare attenti. C’è un’esplosione sociale qui, come in tutta Europa, e purtroppo si specula. Vedo più la caccia all’errore che alla soluzione».
E di come vengono trattati carabinieri e poliziotti cosa pensa?
«Gente che guadagna poco più di mille euro al mese non si merita di essere attaccata. Sto citando Pasolini».
Nella canzone pacifista Zona di guerra, ripete «qui Dio non c’è».
«È una canzone che parla del fatto tragico di per sé della guerra. Ancora più atroce quando colpisce una città abitata da bambini, come a Gaza, perché diventa una strage di innocenti».
«Qualunque sia, Dio non c’è».
«È un posto dove ci sono il Dio dei cristiani, il Dio degli ebrei e quello degli islamici: comunque sia, non c’è. Non si vede».
Che rapporto ha con il sacro?
«Sono un credente, con tutte le perplessità e le fatiche di essere un credente. Ma lo sono».
La caverna di Platone che dà il titolo all’album parla dell’«ultima ingannevole illusione»: qual è questa illusione?

«Pensiamo che ci stiano mostrando la verità, invece ce ne sono mille. Siamo come i prigionieri della caverna che vedevano solo una proiezione del mondo reale e poi scoprono che non esiste una verità assoluta».
Siamo ingannati?
«Più che altro siamo smarriti: leggi una cosa, poi vedi il contrario. Anche sui social si combattono guerre e rischiamo di restare vittime delle tante versioni che ci danno».
Anche l’amore tra un uomo e una donna può essere un’illusione?
«È un’illusione bellissima, che ci porta avanti. Non si può stare da soli, la vita è condivisione e l’amore è la forma più intensa di condivisione».
Poi c’è un brano enigmatico che parla di un problema che accomuna tutti, puoi essere un barbone o un’ereditiera, un tossico o il padrone del sistema: qual è questo problema?
«È il male di vivere, il bisogno di felicità che non dipende da fattori esteriori e passeggeri. Altrimenti non si spiegherebbe perché a New York vanno tutti dallo psicanalista, mentre nell’Africa nera dove si muore di fame, la figura dello psicanalista non c’è».
Invece, «il problema» c’è anche lì?
«Sì, ma lì hanno anche altri problemi. Ognuno ha priorità dettate dal proprio stato psicologico e dalla propria condizione sociale».
La ricerca della felicità accomuna il barbone e l’ereditiera?
«È difficile da raggiungere, indipendentemente dalla collocazione nella scala sociale del mondo».
In Das Ist Mir Wurst (Non mi importa ndr) mette a confronto la storia della grande Europa con le sue cattedrali e i suoi teatri, con «l’Europa delle banche, delle multinazionali, dei centri di potere, della manipolazione del pensiero» che «non è la mia Europa».
«Sono due concezioni opposte. Quand’ero bambino sentivo parlare del sogno di un’Europa comunitaria, unita dalla cultura e dalla fratellanza. Invece, viviamo in un luogo in cui all’improvviso ci danno delle regole. Una mattina ci svegliamo e se proviamo a bere da una bottiglietta d’acqua non si stacca più il tappo, poi dobbiamo cambiare la macchina e mettere il cappotto alla casa perché ce l’ha chiesto l’Europa. Questa Europa è una somma di leggi cervellotiche, non decise dai cittadini. È la protervia del potere ai danni della gente».
Canzone coraggiosa.
«Mi è venuta così e non sono tornato indietro».
La bambina di Gorla è dedicata a sua madre?
«Mia madre insegnava tre giorni alla settimana nel quartiere Gorla a Milano. Per fortuna sua e mia, perché altrimenti non sarei nato, la bomba su quel quartiere cadde in un giorno in cui non aveva lezione. Naturalmente è un racconto che ho ascoltato fin da quando ero bambino. La giornata della memoria per rendere omaggio a quei bambini dimenticati si celebra il 29 ottobre».
Lei ha scritto molte canzoni per le donne e sulle donne. Come prima più di prima parla della solitudine di una donna nel difendere il suo amore: pensa che oggi il contrasto ai femminicidi che funestano la nostra quotidianità sia efficace?
«È un po’ strumentale. Si parla di patriarcato, ma in realtà il patriarcato era una situazione in cui l’uomo aveva un potere tale che la donna non poteva andarsene. Il patriarcato è stato un errore storico grave, ma oggi è diverso. Soprattutto, i giovani non sanno accettare un “no”. Perché sono abituati ad avere tutto. Così succede che se lei ne va con un altro l’uomo impazzisce: piuttosto che con un altro, meglio con nessuno. Mi sembra che sia la disabitudine alla sconfitta, l’incapacità a metabolizzarla, a produrre tante di queste situazioni».
In Cattiva compagnia, dice: «Se soffri di solitudine probabilmente sei in cattiva compagnia… Perdendo occasioni, mi sono seduto lontano dai buoni»: è la sua storia artistica?
«Direi di sì. Raramente sono stato parte di una maggioranza, ho sempre fatto la mia corsa da un’altra parte, sia artisticamente che concettualmente».
Torna in mente il ritornello della canzone su Pasolini: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare».
«Si gira attorno a quell’argomento, andando controcorrente si paga un prezzo salato».
Mi fa un esempio?
«Non appartenendo a nessuna corrente musicale, non rientro nei circoli di quelli che si invitano tra loro. Al contrario, nel mio programma musicale (Gli occhi del musicista, in onda su Rai 2 ndr) ho invitato Davide Van De Sfroos, Eugenio Finardi, Cristiano De André, gente che non va mai in tv».
Cultura alta e bassa: Gloria di Umberto Tozzi ha la stessa dignità della Locomotiva?
«Sono due canzoni diverse. La Locomotiva ha un bellissimo testo e basta, Gloria ha un testo meno pregnante, ma è cantato e arrangiato benissimo. Giocano in due campionati diversi».
La canzone impegnata è più pregiata o no?
«Le componenti di una canzone sono tante. Spesso quella d’autore non ha grande musica e ha arrangiamenti un po’ sciatti, poi c’è l’interpretazione. Io ho cercato di scrivere bei testi, lavorando parecchio per proporre arrangiamenti innovativi. Nella categoria della canzone d’autore tra coloro che hanno dato importanza agli arrangiamenti mi vengono in mente Franco Battiato e Fabrizio De André con Mauro Pagani».
In Benvenuto chi passa da qui, cantata con suo figlio Pico Rama, dice: «C’è un bambino in me, chiede solo di essere amato per quello che è». Anche in Il cielo di Milano c’è un bambino che giudica noi adulti. Che padre è Enrico Ruggeri?
«Un padre che fa fatica a fare il padre perché oggi è un ruolo compresso, travolto di tanti fattori. Pico ormai ha 34 anni, ma con i due adolescenti è più difficile. Una volta una spiegazione e l’esempio del padre contavano per 80% nella formazione di un ragazzo, adesso contano il 10%. Siamo una voce in mezzo a mille».
È un padre amico?
«In teoria non bisognerebbe esserlo. Sono un padre civile e cordiale, ma pronto a intervenire».
Arrivederci e addio, che parla del nostro rapporto con il tempo, chiude l’album: che cosa vuol dire questo doppio saluto?
«Vivendo il presente, non sappiamo mai se il nostro saluto è un arrivederci o un addio».

 

La Verità, 17 gennaio 2025

Cattelan cerca la felicità cazzeggiando

Tanti anni fa, forse troppi perché Alessandro Cattelan possa ricordarlo, c’era un gioco per bambini che si chiamava «Fuoco fuochino». Considerato il suo linguaggio pop ludico, è un gioco che all’eterno golden boy della tv italiana potrebbe piacere. Consisteva nel nascondere un oggetto e farlo trovare al rivale, guidandolo con espressioni come «acqua» «diluvio» «alto mare» quando si era distanti dal tesoro, o «fuochino» e «fuoco» se ci si stava avvicinando. In Una semplice domanda (Fremantle) su Netflix, Cattelan cerca la felicità ponendo una serie di domande e cercando risposte dialogando con persone che potremmo definire realizzate (Roberto Baggio, Paolo Sorrentino, Gianluca Vialli, Geppi Cucciari, Elio, Francesco Mandelli). L’idea non è male e il modo di realizzarla ha tratti divertenti perché la cifra di Cattelan è il cazzeggio e anche qui riesce a parlare di argomenti tosti buttandola sul ridere. A casa di Baggio (la sua malinconia), dopo essersi sottoposto a una breve seduta di meditazione buddista si fa confidare la difficoltà di ricominciare una vita dopo la fama, il successo e qualche rimpianto. La cornice sono migliaia di stampi di anatre da caccia di cui il Divin codino è collezionista. In un altro episodio Cattelan si chiede con aria compunta se «nei momenti bui possiamo davvero trovare la felicità in Dio?». E subito dopo, da ragazzo cresciuto a pane e tv, annuncia euforico: «Benvenuti a 4 religioni», un mini talent con rappresentanti dell’islam, dell’ebraismo, dell’induismo e un prete, che aggiudica il titolo di miglior religione. Dal canto suo, Sorrentino (la sua ironia) rivela che gli piace «la religione cattolica» perché è ben congegnata in quanto i divieti e le regole creano le premesse di una vita rassicurante. Poi certo, «credere in Dio è un’altra cosa». Già… Fuochino o annegamento imminente? Ma ecco «la prova Aldilà». C’è felicità nel dolore? chiede Cattelan a Vialli mentre giocano a golf, «grande metafora della vita». Da quando ha scoperto di avere il cancro, Vialli (la sua ritrovata ingenuità) ha realizzato che il tempo è molto più prezioso, che alle sue figlie vuole trasmettere ciò  che conta e che è arrivato il momento di «fare le cose che mi piacciono, lasciando perdere le stronzate». Annunciando di aver imparato la lezione, Cattelan si butta in piscina con cinque ragazze per fare la sirena con una monopinna di nylon. Fate voi… Poi, con Geppi Cucciari, si chiede se l’amore renda felici. Due le ipotesi considerate: un corso per fidanzati in vista del matrimonio in chiesa e una coppia di attori porno. Buttarla in ridere è anche un po’ buttarla in vacca?

 

La Verità, 23 marzo 2022

Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020

«Quell’accento sul mio nome è introvabile»

Piero un po’ mi rovina la carriera. Sa com’è… “Ah, lei è la mamma di Chiambretti…”, e addio poesia. Insomma, la mamma prevale sulla poetessa e la prosa sulla poesia. Devo rassegnarmi». Ci riesce?

«Devo farlo: lui è anche il mio editore», scherza ma non troppo la signora Felicita Chiambretti, alla quinta raccolta di poesie appena approdata in libreria. Si intitolano Farfalle di verso, con la numerazione successiva dei volumi. Libriccini raffinati, poesie brevi, un po’ ermetiche. Elegante poetessa, la mamma di Chiambretti è una signora pronta alla battuta ma fiera della propria indipendenza. Mi riceve nella sua casa di Torino, dove vive in compagnia di una festosa Chihuahua, di nome Minni.

Il suo nome, signora, invece da dove viene?

«Ce l’aveva una mia zia, sorella di mio padre».

Chi erano i suoi genitori?

«Mia mamma si chiamava Natalina e faceva l’infermiera. Mio padre, Giovanni, lavorava nell’industria meccanica».

Sorelle, fratelli?

«Due sorelle, una è ancora viva. Ero la primogenita».

Felicita era un augurio senza l’accento?

«A volte mi chiamavano Feli, però io insistevo per il nome completo, perché annuncia qualcosa che va oltre».

Com’era il rapporto con i suoi genitori?

«Non andavamo d’accordo. M’incolpavano sempre di qualcosa, ero convinta che non mi amassero».

Addirittura.

«Sì, quest’idea si è radicata in me fino a determinare una rottura».

Il rapporto si è ricomposto quando è diventata adulta?

«Non proprio. Fino a quasi 20 anni ho vissuto ad Asmara, poi sono venuta in Italia. Loro sono rimasti lì, con le mie sorelle».

Fino a vent’anni sempre con loro?

«In prima media ho voluto andare in collegio perché non stavo bene. Erano poco affettuosi, non ricordo che mi prendessero in braccio o mi premiassero per qualche buona azione. Dalle suore mi trovavo bene, anche loro erano severe, però il giusto».

Che suore erano?

«Comboniane, la casa madre è a san Pietro in Cariano, vicino a Verona, ogni tanto ci andavo a trovare suor Giandomenica».

Anche da loro ha deciso di staccarsi?

«Sono venuta in Italia da sola, a 19 anni. Ero incinta. Mi hanno mandato qui e io ci sono venuta volentieri. Sono andata ad Aosta, dalla nonna materna che viveva con la zia».

Che lavoro faceva?

«Ero segretaria all’Alleanza assicurazioni a Moncalieri. Prima giravo le filiali, poi mi sono stabilita a Torino».

Com’è cresciuto Piero?

«Viveva con me. Stavamo bene insieme. Quando è morta la zia, la nonna è venuta con noi e si prendeva cura di lui. Per me era tutto, anch’io ero una mamma severa».

Che figlio era?

«Era andato a Londra, poi sulle navi da crociera teneva degli spettacoli. Aveva fatto il Dams a Bologna, non era certo studioso. Diceva che la sua mente anticipava quello che stava per dire il professore. Era indisciplinato, con quell’ironia che ha anche adesso nel suo lavoro».

Quando ha scoperto la poesia?

«Già da giovane leggevo gli scrittori inglesi del Settecento, mi piaceva molto John Keats. Poi mi sono avvicinata agli americani del Novecento».

Tra gli italiani?

«Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo di Ed è subito sera».

Quando ha ha iniziato a scrivere?

«Quando sono andata in pensione non potevo restarmene inattiva. Ho pensato di riprendere la poesia, di studiarla… Scrivo perché mi leggano, ma è soprattutto una catarsi personale, per quello che tiro fuori da me stessa. Adesso ci aiuta anche l’editore Franco Cesati di Firenze. Il guadagno non è per me, ma per gli ospedali e le onlus. Quelli che hanno letto i miei libri, anche i critici, dicono che sono molto belli».

La destinazione dei fondi la decide prima o dopo aver composto le sue liriche?

«La decido alla fine. Mi faccio consigliare da persone di cui mi fido. Ho aiutato la ricerca sul cancro e dei centri ospedalieri».

Chi è Antonello cui dedica questo quinto volume?

«Un carissimo amico, un filosofo, figlio di Tony De Vita. Ci siamo conosciuti a dei corsi di buddismo, ha scritto tutte le prefazioni».

Dell’ultima ho capito quasi niente.

«È un professore di lettere molto bravo».

Un filo astratto?

«Ha una mente libera. Quest’ultimo libro è più difficile e più introspettivo degli altri. Riflette il periodo complicato dal quale sono uscita, un anno di malattia, a letto, quasi senza mangiare».

Ha sofferto di depressione?

«No, è cominciato tutto una sera che sono andata alla trasmissione di Piero. Ricordo che c’era ospite Fabrizio Corona. Mi sono sentita male, forse è stata un’ischemia… un embolo mi ha fatto perdere anche l’udito da un orecchio».

Perché non mangiava più?

«Non avevo fame, soffrivo allo stomaco. Mangiavo un po’ di mandorle, anche bere bevevo poco. Mi sono fatta visitare da un oncologo… Invece, il cardiologo mi ha rimproverato perché non l’ho consultato, ha detto che mi avrebbe fatto delle flebo, ma io non volevo che mi portassero in ospedale. Stavo sempre a letto».

Poi che cos’è successo?

«Non so. Abbiamo seguito una terapia omeopatica a base di erbe, niente di chimico. Poco alla volta ho ripreso a mangiare e ho cominciato a stare meglio».

Le poesie risentono di questa esperienza? Nella dedica a De Vita scrive che è giunta con lui «ad amar l’oscurità».

«Lui è più saturnino io sono più solare. Queste poesie sono difficili anche a livello filosofico e religioso. È stata un’esperienza drammatica, non amavo più nessuno, sentivo la morte vicina. Ancora adesso non sto bene del tutto, porto un pacemaker, ho problemi alla spina dorsale. Ma mi sento protetta dall’alto…».

In che modo?

«Credo in qualcosa che è oltre noi. Una realtà trascendente, non mi chieda se è il Dio cristiano, musulmano o ebraico. Ho avuto una vita strana, in questi mesi ho pensato tanto alla morte. Volevo andare sottoterra, ma ora ho deciso che mi farò cremare».

In «Misteriosamente me stessa» scrive di non avere certezze di chi sia veramente e accenna a «fiocchi di neve» intravisti nella camera oscura.

«Sono risonanze interiori, sentimenti ancestrali. Dopo una malattia così, tante convinzioni si sono smarrite. È come se l’anima si fosse svuotata. Incombe la paura».

In un’altra poesia parla di un passato incompatibile rispetto al presente segnato da «abiure di amici dal cuore ingannevole». Ha avuto delusioni da persone care?

«Ho allontanato tante persone che trovavo ingannevoli. Mi parlavano in un modo e si comportavano in un altro. Non sono una che si autocommisera. Anche quando io e il padre di Piero ci siamo lasciati non ho pianto. È che non accetto le ipocrisie. Vedevo persone non trasparenti, così mi sono tolta il sovrappeso».

Un’altra citazione: «Non riesco a spiegarmi per quale motivo il fuoco sia più potente dello spirito che si è dichiarato onnipotente».

«Il fuoco è l’inferno che è più potente dello spirito».

Vince l’inferno?

«Magari in me. C’è un senso di disperazione, la paura della fine. Lo scrive anche De Vita nella prefazione: “Come ogni realtà terminale acquista coscienza quando un decorso arriva alla fine”».

Sono poesie percorse dalla disillusione?

«È un libro che rispecchia un momento triste. Non sono tutte pessimiste anche se c’è sempre una vena di malinconia».

Quando scrive?

«Di notte, anche fino alle 5. Poi vado a dormire».

Che cosa le dà il buddismo?

«Dice che la sofferenza dev’essere eliminata. Mi aiuta a non attaccarmi ai desideri e ai beni materiali, al denaro. Perché si può perdere tutto».

Quando Piero iniziò ad aver successo e lei lo mise in guardia dicendo che il padre avrebbe potuto farsi vivo, lui come le rispose?

«Disse: “Io non conosco nessuno, ho una madre che mi ha fatto anche da padre”».

Il padre era ad Asmara?

«Sì. Lavorava all’università Cattolica. Non si è più fatto vivo, ma nemmeno io con lui».

Che cosa le piace di più dei programmi di suo figlio?

«Piero è un professionista. So quanto si impegna e quanto ci mette, anche a casa lavora, scrive. Se uno dà uno sguardo ai palinsesti, scappa. Io guardo solo Piero. Mi piace molto lo studio, la scenografia mobile. Oggi è peggiorato tutto, è scaduta anche la lingua italiana, l’informatica uniforma tutto».

E cosa le piace di meno?

«Qualche volta scappa la parolina, ma non è così grave. È l’insieme che conta. Piero è un professionista, potrebbe insegnare tv».

Fra tutti i suoi programmi qual è il suo preferito?

«Il Laureato mi piaceva molto, quando faceva le interviste… E anche Markette».

Da donna indipendente che cosa pensa del femminismo?

«Per alcune battaglie è stato importante. Abbiamo vissuto sempre sotto il potere dell’uomo e ancora adesso non abbiamo ottenuto la piena parità nelle professioni e negli stipendi».

Condivide tutte le azioni delle donne?

«Salvo quando eccedono e diventano maschi. Gli eccessi non vanno mai bene. Oggi non ci sono più le femministe, sostituite da tutte quelle sigle complicate che neanche si capiscono. Le donne devono conquistare ancora degli spazi, ma ci vuole equilibrio, altrimenti si rischia di peggiorare».

Che cosa le suscita il Natale?

«Una certa malinconia. Per me si fa troppa festa, il consumismo rischia di cancellare il senso del sacro dalla nostra vita. Lo dico da credente non praticante».

Perché malinconia?

«Al pensiero che ci sono tante persone anziane come me, sole».

Mentre lei è fortunata e devolve l’incasso dei libri a chi ha più bisogno.

«Certo, ma si vorrebbe fare di più».

Con chi lo trascorre il Natale?

«Con Piero, la nipotina, mia sorella e sua figlia. Poche persone, ci scambiamo i regali. Pranziamo insieme, quasi sempre a casa di Piero».

Prepara lui il pranzo?

«Piero? A malapena sa farsi il caffè, è sempre vissuto in giro. A volte andiamo in uno dei suoi ristoranti…».

Una volta Piero mi ha detto che la felicità è un’idea inventata dalla Chiesa, concorda?

«Io dico che non esiste, non esiste in questo mondo».

È difficile aggiungere l’accento al suo nome?

«Non c’è e non ci può essere. Mi basta Felicita».

 

La Verità, 22 dicembre 2019