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«Se si dimentica la famiglia la selezione sarà spietata»

Una militante della moderazione, ma pur sempre una militante. Non più giovanissima, Paola Binetti conserva l’innocenza degli ideali e, sebbene nel settembre 2022, dopo quattro legislature, non sia stata rieletta (nella sua circoscrizione la lista di Noi moderati non superò il 3%), la si trova al lavoro nell’ufficio della Camera dell’Udc: «Continuo a occuparmi dei temi che ho sempre seguito. Per me, la politica è servizio alla ricerca di soluzioni ai bisogni della gente». Neuropsichiatra, saggista, esperta in materia di bioetica, qualche giorno fa nella sala capitolare del Senato, «strapiena», è stato presentato il suo Elogio della moderazione. Nella moderna dialettica politica (Cantagalli), appena uscito.

Professoressa Binetti, come definirebbe la moderazione?
«È un atteggiamento che deriva dalla convinzione nei propri valori, dal desiderio di condividerli con gli altri e dalla ricerca dei toni che favoriscano questa condivisione al fine della realizzazione di un progetto. La politica non è solo idee, ma anche concretezza e collaborazione per raggiungere dei risultati».
L’invito alla moderazione è un auspicio, una mozione d’ordine, un programma di governo o un’utopia?
«È una conditio sine qua non se si vogliono davvero realizzare riforme solide».
Che seguito può avere questo invito in una società ad altissimo tasso ideologico come la nostra?
«Può anche cadere nel vuoto. Ma se ciò avvenisse si allargherebbe la distanza già enorme tra il Paese e la classe politica».
È una battaglia donchisciottesca?
«Diciamo che conserva il valore dell’utopia e, in una certa misura, della speranza. Credo ancora che si possano cambiare le cose».
Gran parte della comunicazione, tipo i talk show, inclina dalla parte opposta.
«Questo dimostra le responsabilità del mondo dell’informazione. Alla presentazione del libro al Senato alcuni dei relatori hanno raccontato che quando vengono invitati ai talk show sono esortati a non essere troppo buoni perché l’audience si regge sulla conflittualità».
Un altro avversario della moderazione sono i social media, il posto in cui il conflitto diventa odio.
«L’esercizio dell’odio è un sasso che rotola e diventa valanga. Si basa su un’informazione lacunosa e una cultura fatta di slogan. Bisognerebbe rileggere una volta in più ciò che si è scritto prima di postarlo».
Walter Veltroni ha scritto un pamphlet intitolato Odiare l’odio, come per stabilire una gerarchia dell’odio sano e tollerabile.
«Senza la virtù del perdono è difficile praticare la moderazione e andare per primi incontro all’altro. Guardiamo ciò che accade tra Palestina e Israele: vige un’idea di giustizia rivolta a sé stessi e che sa solo pretendere».
Chi sono i moderati in Italia?
«Non necessariamente il gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi. Più ci si avvicina al centro e più, teoricamente, ci si avvicina alla moderazione. Questo luogo lo individuo, storicamente, nell’Udc. È un modo di fare politica che permette di dialogare con gli altri in base alle proposte e ai valori che si presentano. Coloro che si oppongono per principio, come talvolta fanno le opposizioni, sono per definizione non moderati».
Qualche indicazione in positivo?
«In Forza Italia ci sono tanti moderati. All’interno di Fratelli d’Italia, un tempo identificati come destra-destra, anche. Nel Pd c’è una componente a disagio di fronte a certe scelte attuali. Sostanzialmente, l’Italia è un Paese moderato perché attento a temi fondamentali come il lavoro, la scuola e la salute, che tutti vogliamo migliorare».
Ma con l’introduzione del sistema maggioritario per favorire l’alternanza si penalizza la rappresentanza.
«Alla presentazione del libro, Giancarlo Giorgetti ha detto che è nel governo come ministro perché i voti li prende Salvini. A volte è l’elettore a privilegiare chi buca lo schermo, ma poi, per governare, servono persone moderate».
Il tentativo di ricreare il centro di Matteo Renzi e Carlo Calenda è una delusione dalla quale è difficile riprendersi?
«È stata una grande delusione perché è apparso chiaro che le differenze principali sono legate alla personalità di entrambi: uno stile di vita con poca moderazione e una gran voglia di affermazione personale oltre la proclamazione di alcuni principi condivisi».
Nella lotta alle diseguaglianze si è proclamata l’abolizione della povertà mentre in realtà si è penalizzato il lavoro?
«Innanzitutto, penso che in questo contesto di consumismo esasperato dobbiamo recuperare tutti una certa sobrietà. Per esempio, apprezzo la legge europea che invita a riparare i cellulari, evitando l’obsolescenza programmata e la frenesia di avere quello di ultima generazione. Poi è corretto sanare le situazioni di povertà vera, sapendo che “i poveri li avrete sempre con voi”. La povertà si può lenire, non abolire del tutto».
Un approccio ideologico ci ha illuso che fosse possibile?
«Era il tallone d’Achille del reddito di cittadinanza. Equiparando le politiche del lavoro alle misure di contrasto alla povertà ai giovani conveniva accedere al sussidio invece di andare a lavorare».
Com’è possibile che la politica per la famiglia «nucleo fondativo della nostra società» sia il terreno della collaborazione tra conservatori e progressisti se una certa cultura lavora per smembrarla?
«Ha ragione. Crescono le famiglie cosiddette mononucleari e le coppie che scelgono di non sposarsi. Ma la verità è che la vita si allunga e si allungano le stagioni in cui dipendiamo dagli altri. La composizione della popolazione è illustrata dalla piramide rovesciata, più vecchi e meno giovani. In assenza del welfare famigliare chi si prenderà cura degli anziani? Serviranno eserciti di badanti. Per fortuna è stata approvata la legge 33/2023 che prende atto di questa emergenza. La riscoperta della famiglia sarà obbligatoria, altrimenti i costi sociali ricadranno tutti sullo Stato».
Serve una politica più efficace per incrementare la natalità?
«Assolutamente. E non solo perché non nascono più bambini e si devono tramandare cultura, storia e identità. La scienza ha aggiunto anni alla vita e condizioni migliori per i malati. Disabilità e cronicità saranno le nuove povertà. Ma l’assenza della famiglia produrrà costi insostenibili per lo Stato e creerà una selezione spietata».
Può esserci dialogo se per la sinistra la teoria gender, definita «il pericolo più brutto» da Francesco, è il cardine dei diritti civili?
«Il primo dato intangibile è il rispetto della persona qualsiasi sia il suo orientamento sessuale. Le discriminazioni non vanno tollerate. Ma ciò non significa che si possano negare i valori fondativi della convivenza civile costruita negli anni. La famiglia e la vita sono alla base di tutte le società».
Ma il presidente francese Emmanuel Macron e l’Unione europea operano in direzione opposta.
«L’errore più grave è stato non inserire nella Costituzione europea il richiamo alle nostre radici elleniche e cristiane. Fu la Francia a opporsi maggiormente. Esiste una frontiera che chiamiamo valori non negoziabili. Sono pochi, ma ci sono e ci impegniamo a difenderli, senza colpevolizzare le donne che abortiscono. A loro che, per vari motivi, fanno scelte diverse, vanno tutta la nostra empatia e solidarietà. Ma non possiamo negare che quell’embrione, se lo si lascia in pace, in nove mesi diventa un bambino. Non a caso l’intestazione della legge 194 è “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”».
Quanto può favorire il dialogo per la costruzione del bene comune la continua richiesta di abiura del fascismo a esponenti del governo?
«Si abiura a un giuramento, ma la generazione che governa è tutta post-fascista e non ha mai prestato alcun giuramento».
Perché quando un post-comunista va al governo nessuno gli chiede l’abiura del comunismo?
«Perché avremmo una nuova guerra civile. Non chiedo a nessuno di abiurare un credo di un secolo fa, mi basta la sua vita, quello che è ora».
Il tratto distintivo di questa cultura è essere anti?
«Noi tentiamo di essere proattivi, cercando di capire di cosa hanno bisogno le persone accanto a noi».
Perché i diritti su cui si insiste oggi, eutanasia, suicidio assistito, aborto, sono imperniati sulla morte?
«Ci vuole coraggio a vivere perché la vita è bellissima, ma non è sempre facile. Sono felice che nel 2010 sia stata approvata la legge 38 per l’accesso alle cure palliative delle persone che soffrono fino all’ultimo momento della vita. L’accompagnamento alla vita gli uni degli altri è lo scopo di una società realmente solidale».
Crede anche lei che esista un’élite culturale che si ritiene superiore e pregiudichi il dialogo alla pari?
«Sì, c’è qualcuno che si ritiene più uguale degli altri come ne La fattoria degli animali di George Orwell. La forza che ci spinge a migliorare è il riconoscimento delle nostre fragilità».
Ha ragione Matteo Salvini quando dice che nelle opposizioni prevale la politica dei No: No-Tav, No-Tap, No-Ponte eccetera?
«Assolutamente. È un’opposizione sterile, non animata da proposte positive. Il bambino di tre anni si afferma attraverso il no. I manuali di psicologia evolutiva lo chiamano “l’alba del principio d’identità”».
Come spiega che oggi su questi temi molti vescovi anziché partire dalla dottrina sociale della Chiesa parlano del salario minimo e contrastano gli accordi con Paesi terzi per l’accoglienza ai migranti?
«È difficile anche per i vescovi distinguere tra missione spirituale e scelte personali e politiche. Oltre la dottrina sociale, la carità ci guida a perseguire e difendere ciò che conta davvero. Nell’ultimo capitolo della Dignitas infinita si suggeriscono i comportamenti relativi alle contraddizioni contemporanee, dall’immigrazione al gender, dall’utero in affitto alla violenza digitale. I cattolici, e i loro pastori in primis, dovrebbero tener conto di tutte queste situazioni, non limitarsi ad alcune».
Il centro come aggregazione politica è una chimera?
«Se lo si intende come partito, sì. Se lo si intende come luogo del confronto, può essere il punto di sintesi della democrazia. Non è l’inciucio, non è il governo di larghe intese. Vediamoci in centro a prendere un caffè. È il posto della mediazione, della ricerca e della condivisione del bene comune».

 

La Verità, 4 maggio 2024

«Il neofemminismo? Arma per imporre il gender»

Idee chiare e concetti scolpiti senza troppi se e ma. Per capirci, la bio nel risvolto di copertina di Presidenta Anche no! – Resistere al fascino del neo femminismo (Il Timone), il suo primo libro, recita: «È sposata, felicemente e indissolubilmente». Raffaella Frullone, classe 1981, bergamasca con sangue campano, lavora per Tv2000 e InBlu2000 e collabora con il mensile Il Timone.

Si sta preparando a festeggiare l’8 marzo?

«Certo, quest’anno ho pure scritto un libro sul tema. È il mio contributo alla causa. Anzi, il mio contro contributo».

Contro contributo?
«Vorrei gettare un sasso oltre il pensiero unico che avvolge l’8 marzo».

Niente mimose?

«Sono una donna all’antica e se qualcuno mi regala dei fiori li accetto volentieri. Ma non parteciperò al rito collettivo di associazioni come Non una di meno che, come sempre, proclameranno lo sciopero produttivo e riproduttivo. In più, quest’anno ci sarà un nuovo bersaglio».

Quale?

«Il patriarcato. Tutto nasce da ciò che è accaduto dopo l’omicidio della povera Giulia Cecchettin. È stato un crescendo di manifestazioni. Il patriarcato è il principale male del mondo, più ancora di Vladimir Putin e del riscaldamento globale».

Non c’entrava?

«Secondo me Filippo Turetta, l’ex fidanzato, è l’esatto contrario di ciò che s’intende per virilità, forza e coraggio. È un esempio di uomo devirilizzato, tanto da lasciarsi andare alle sue passioni, senza dominarle».

Non parteciperà alle manifestazioni dell’8 marzo, ma almeno ammetterà che esiste una disparità retributiva fra i sessi?

«A dire il vero, non mi pare ci siano contratti che declinino gli stipendi in base al sesso. Mi baso su dati oggettivi. Gli uomini scelgono maggiormente percorsi cosiddetti Stem, ovvero legati alle discipline scientifiche, matematiche e ingegneristiche, le più pagate, e meno scelte dalle donne. Un altro dato oggettivo è che se una donna ha più figli lavora di più in casa, mentre un uomo con più figli lavora di più fuori per mantenere la famiglia. Non vedo disparità di genere nei trattamenti economici».

Perché la parità passa dal linguaggio?

«Perché modificando il linguaggio si cerca di modificare la realtà. Non si dice più “aborto”, ma “interruzione della gravidanza”, non si dice “utero in affitto”, ma “gestazione per altri”».

Facciamo un passo indietro: perché oggi si parla di parità di genere e non di sesso?

«Perché si vuole distinguere il sesso biologico con cui nasciamo, dall’identità di genere, cioè la percezione che ciascuno ha di sé e che dipende da fattori culturali. Ma se si introduce questa distinzione poi si è costretti a chiedersi quanti sono i generi».

Quand’è stata la prima volta che si è imbattuta nella parola gender?

«Era il Duemila, frequentavo il primo anno di Lingue a Bergamo e scoprii che il corso di letteratura inglese era tutto sul gender. Non avevo mai sentito questo termine prima di allora, ma di colpo presero a spiegarci che la nostra identità era un prodotto della cultura e che bisognava superare il maschile e il femminile. Dopo qualche anno il gender era ovunque».

C’è un momento di svolta preciso in cui è diventato prioritario anche a livello internazionale?

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, le conferenze dell’Onu del Cairo e di Pechino lo misero al centro dell’agenda mondiale. E il gender equality divenne un concetto cardine».

Cosa si prefiggevano quelle conferenze?

«Una serie di rivoluzioni, politiche, socioeconomiche, demografiche, ambientali ed educative per creare un nuova etica mondiale».

Perché a un certo punto è iniziata la battaglia per la desinenza in «a»?

«Spesso chi utilizza “ministra”, “assessora” o “sindaca” lo fa in buona fede, pensando di non discriminare e di dire una cosa corretta. Per lo stesso motivo si toglie l’articolo davanti al cognome femminile. Ma questo è solo un tassello del mosaico».

In che senso?

«In Italia le prime battaglie per la desinenza sono iniziate negli anni Ottanta sulla scorta del testo Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini. Attraverso le modifiche della lingua si portavano avanti le battaglie femministe per l’aborto e il divorzio».

Poi la desinenza femminile non bastava più perché rispondeva a una logica binaria dei sessi?

«Era riduttiva e bisognava superare il binarismo. Con la percezione, i generi hanno iniziato a essere parecchi».

Almeno 58 secondo Facebook, così è arrivato l’asterisco.

«A forza d’inventare generi, per chi non s’identificava in quelli definiti, hanno messo il +. A quel punto è diventato necessario l’asterisco. Per identificarsi in qualcosa che, a sua volta, non è identificabile».

E soprattutto impronunciabile.

«Così è arrivata la scwha».

Anch’essa foneticamente complicata.

«Un suono nel mezzo di tutte le vocali, scritta come una “e” rovesciata».

Un altro salto di qualità è quando il Cambridge Dictionary decide di allargare il significato di woman?

«Nel 2022 ha integrato la definizione di donna con le persone transgender. Prima era “essere umano adulto di sesso femminile”, poi si è aggiunto “adulto che vive e si identifica come femmina anche se può aver avuto un altro sesso alla nascita”. La Bibbia della lingua inglese tentava d’imporsi sulla scienza e l’evidenza, cambiando ciò che la natura crea. Ma a questo punto si apre una serie di scenari».

Tipo?

«Tipo un uomo che, con bombardamenti ormonali e interventi chirurgici appare donna, vince il concorso di Miss Olanda. O, ancora più grave, atleti maschi, cosiddetti trans, che gareggiano nelle gare femminili».

Ora, però, nei Paesi anglosassoni c’è una frenata alla deriva transgender per gli adolescenti: in Italia?

«In diverse strutture sanitarie si somministrano i bloccanti della pubertà, illudendo ragazzi e ragazze di poter cambiare sesso. E illudendoli che assumendo questi farmaci smetteranno di soffrire a causa della propria identità sessuata. È curioso che quando si tratta d’importare novità dall’America e dall’Inghilterra siamo sempre pronti. Ma ora che ci sono ragazzi che denunciano i danni subiti con questi trattamenti, come mutilazioni e capacità riproduttiva compromessa, procediamo imperterriti».

La causa di queste situazioni?

«Non si vuole guardare alla vera natura del dolore di questi ragazzi che è psicologica ed esistenziale».

È un fenomeno certificato?

«Ci sono pochi studi sia all’estero che in Italia».

Il fenomeno della «carriera alias» nelle scuole è documentato?

«Anche qui è difficile avere dei numeri. Centinaia di istituti utilizzano la “carriera alias” che consente a un ragazzo minorenne di essere chiamato con il cosiddetto nome d’elezione secondo il genere da lui prescelto. È curioso che se arriva in ritardo a scuola, quello stesso minore deve presentare la giustificazione della mamma. Questa concessione, oltre a essere un abuso amministrativo è un messaggio pericoloso perché si dice a un ragazzo che soffre per la sua sessualità che il suo corpo e il suo nome sono sbagliati. Ma nessuno nasce in un corpo sbagliato».

Tornando alle donne, lei scrive che il modello vincente di questi decenni è quello promosso da Cosmopolitan. Chi è la «Cosmo girl»?

«Cosmopolitan è un colosso editoriale tradotto in 35 lingue e rivoluzionato da Helen Gurley Brown, il suo storico direttore, che negli anni Ottanta depurò la rivista dai temi famigliari e legati al matrimonio, introducendo le linee guida della donna moderna. Per affermarle non si doveva esitare a inventare esperti e storie inesistenti. La nuova donna doveva essere indipendente, emancipata, sessualmente disinibita e svincolata da qualsiasi legame. In pratica, una single perfettamente rispondente all’oggetto delle fantasie maschili».

Il modello Cosmopolitan, di Sex and the city, Vanity Fair e decine di serie tv, ha creato il neofemminismo: in cosa differisce dal femminismo storico?

«Il filo rosso che collega le due stagioni sono le istanze legate ai diritti riproduttivi, aborto, fecondazione assistita, utero in affitto. La vera differenza è che prima si lottava per l’aborto e il divorzio perché non c’erano. Oggi c’è un’ipersensibilità attorno a queste presunte conquiste sebbene nessuno le discuta».

Non hanno ragione le neofemministe a temere che venga ridiscussa la legge 194?

«Mi piacerebbe che ce l’avessero, ma non c’è nessuno che intende metterla in discussione, purtroppo. Per conto mio andrebbe abolita».

Allora, se nessuno vuole ridiscuterla, perché lo temono?

«Perché l’aborto è un dogma intoccabile. Se solo si prova a dire qualcosa che non sia di totale appoggio si scatena il putiferio. Come accadde quando, nel giugno del 2022, la Corte suprema americana decise di affidare ai singoli Stati l’applicazione della legge sull’aborto. I titoli dei nostri giornali adottarono toni apocalittici».

Cosa pensa dell’uomo rappresentato nella comunicazione pubblicitaria?

«Mentre negli spot imperversa il mammo, nei media in generale l’uomo è sommerso di accuse di sessismo e mascolinità tossica, causa di tutti i mali. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se qualcuno parlasse di femminilità tossica. L’uomo che sparecchia la tavola esiste da un pezzo, perciò queste rappresentazioni arrivano a saldi finiti. Non viviamo più in famiglie in cui il padre rientra la sera e si siede a tavola, disinteressandosi completamente di ciò che è successo in casa».

Cosa pensa del caso Chiara Ferragni?

«Carrie Gress, una filosofa americana, dice che il femminismo è “un brand ideologico di grande successo”. Chiara Ferragni si è messa a servizio della causa neo femminista come si è visto un anno fa sul palco di Sanremo: diritti riproduttivi, donna che si autodetermina, “pensati libera”. Parliamo di un’imprenditrice con decine di milioni di seguaci e un fatturato da capogiro. Non mi pare fosse oppressa. Oggi attraversa un momento di crisi nella vita privata e famigliare che, per altro, sono sempre state sotto i riflettori secondo una rigorosa logica di marketing. Chissà se ora che qualche nodo è venuto al pettine starà riflettendo sull’efficacia di quel modello».

Che spazio vede per una diversa femminilità nei media?

«Dobbiamo constatare una discrepanza tra la realtà e la sua rappresentazione. Non credo che una femminilità più pacata sia minoritaria, anzi. Moltissime donne credono nella famiglia, si sacrificano per i propri cari, dipendono da un uomo senza troppe frustrazioni. Piuttosto, questo tipo di donna non buca e non viene rappresentata perché i media sono in gran parte in mano a un ceto professionale che sposa la formula Cosmopolitan».

 

 La Verità, 2 marzo 2024

 

La normalizzazione gender e la noia di quelle drag

Alla fine il chiacchieratissimo Non sono una signora ha trovato la vetrina della prima serata di Rai 2 (giovedì, ore 21,25, share del 6,6%, 990.000 telespettatori). Registrato nell’autunno scorso per volere di Stefano Coletta, già direttore dell’Intrattenimento primetime e autore seriale di flop oltre che di farciture gender del palinsesto, ecco che lo show prodotto con Fremantle e ispirato al format Make up your mind, è stato tolto dal freezer dove l’aveva congelato Carlo Fuortes. Siamo in estate, i palinsesti sono zeppi di repliche e di isole della tentazione, se non ora quando? Mai, verrebbe da dire. Purtroppo, programmarlo in questa stagione sebbene prodotto con costi da palinsesto di garanzia, significa mettere a bilancio una perdita economica secca. Il fatto che lo sdogani la nuova dirigenza può servire a contenere il danno prodotto dalla precedente e, forse, una fetta di polemiche.

Non sono una signora è un game show con cinque personaggi noti che si travestono da drag queen e si cimentano con tacchi vertiginosi, corsetti femminili, glitter e parrucche vistosissime. I concorrenti si espongono all’esame di ben due giurie. La prima composta da tre drag professioniste, Vanessa Van Cartier, Maruska Starr ed Elektra Bionic, chiamate a giudicare le prove di catwalk (camminata sui tacchi) e lip synk (canto sincronico di brani famosi). La seconda formata da Filippo Magnini, Mara Maionchi, Sabrina Salerno e Cristina D’Avena, «gli investigatori del glitter» – le pensate degli autori – impegnati a scoprire, grazie ad alcuni indizi, le identità nascoste sotto il pesantissimo trucco e parrucco. A condurre le sgraziate danze delle «regine» c’è Alba Parietti, anche lei impegnata a emanciparsi dall’abituale ruolo di ospite multiuso per assurgere a quello di padrona di casa.

Una volta scelta la drag vincente, i giurati devono indovinare chi è la sconfitta che, nel laboriosissimo backstage, svela finalmente la sua identità. Così, si assiste alla trasformazione di Rocco Siffredi, che si lancia in un pistolotto anti omofobia, Patrizio Rispo, Sergio Muniz e Lorenzo Amoruso, ex calciatore di Fiorentina e Rangers Glasgow (curiosamente ospite in contemporanea di Calciomercato L’originale su Sky Sport).

Il problema è che, vincolato dall’orario di messa in onda, lo show deve rinunciare alle punte di malizia e insolenza tipiche dell’ambiente. Con il risultato che, fatta salva l’ironia di Magnini e Salerno, tutto lo sforzo di costruzione dell’apparato e delle simbologie, dal trash alla galleria degli eccessi, si traduce nel noioso tentativo di normalizzare il gender in tutte le sue variopinte varianti.

 

La Verità, 1 luglio 2023

«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022

«La lettura per dovere salverà i nostri ragazzi»

W la scuola. A un certo punto del suo Contro Pinocchio (Einaudi), titolo da pamphlet più che da memoir, al culmine di una serie di ricordi e citazioni mandate a memoria, Aurelio Picca annota: «Non stiamo a scuola. Abbasso la sguola. W la scuola». Scritto così, con la doppia vu, come si faceva da ragazzini mezzo secolo fa (di solito la vu era rovesciata). E infatti «scuola» sembra rimbalzare da un’altra era. Anacronistica, lontana. Una cosa con i banchi affiancati. La lavagna. La maestra con la messa in piega. Preistoria, in tempi di Dad e Whatsapp. «Oggi la scuola non esiste più, è tutta burocrazia», sbotta Picca dalla sua casa tra gli ulivi sopra Velletri. E nel tono della voce, nell’incalzare del pensiero si avverte tutta la sua carica nervosa, corporale.

Parlavamo della scuola.

«È un grande parcheggio, un tempo di attesa. Chi ci va per imparare? Nessuno. Si va per relazionarsi…».

O per postare i video su TikTok.

«Appunto. Quando ho insegnato, per qualche anno, li facevo leggere e scrivere, leggere e scrivere… Li facevo imparare a memoria i canti di Dante. Adesso arrivano alle superiori che leggono scorrendo le parole con l’indice».

E lei vorrebbe far leggere Cuore di Edmondo De Amicis?

«No, voglio che imparino l’italiano. Che capiscano che cos’è una comunità, una memoria comune, un’appartenenza a una storia. Tanto per cominciare, tornerei a una solo maestra».

Partita persa.

«Probabile. Ma servono insegnanti che sappiano anche loro leggere e scrivere e insegnino la nostra letteratura, non quella americana tradotta. Alessandro Manzoni è modernissimo. Bisogna tornare alla lettura per dovere, che non vuol dire imposta, ma seriamente motivata. In officina se devi usare il tornio devi imparare come si fa. Se vuoi capire chi siamo noi italiani, devi passare dalla letteratura che ce lo dice».

Non Pinocchio, come dice il titolo del libro.

«Si sa come sono i titoli, servono a catalizzare. Più che contro Pinocchio è un libro contro tutti».

Non ci facciamo mancare niente.

«Contro la globalizzazione che ha preso un bel colpo dalla pandemia. Contro il Novecento inteso come secolo breve, che invece non è ancora finito. Contro gli italiani che pensano ancora all’Italia dei borghi e dei souvenir, non certo all’Italia del silenzio e della visione che ho visto da ragazzino».

Pinocchio non le piace perché è un burattino senz’anima?

«Intanto devo dire che ho letto la prima versione nella quale non diventa mai bambino. Lo attacco perché non sta nella realtà, non si fa male a giocare, non c’è la carne. Infatti, non ci dicono di che legno è: faggio, rovere, castagno? Sembra una storia virtuale. Con il legno vero da ragazzini ci facevamo le spade…».

Pinocchio ha ispirato trattati di teologia, di pedagogia, di filosofia perché ha la doppia natura: contestarlo vuol dire privarsi di un pezzo di storia.

«Tutto è partito da una riflessione su cosa far leggere a scuola. Rispetto all’ignoranza dei ragazzi di oggi che non conoscono la storia e la geografia e viaggiano sul computer, Pinocchio non dà risposte. Così, all’inizio abbiamo pensato a un saggetto polemico».

Che poi è diventato un memoir sull’infanzia.

«Faccio la spola tra le memorie letterarie e quelle reali del protagonista. Non è che non veda la metafisica di Pinocchio. Dice persino “Babbo mio vieni a salvarmi”… Solo che non sta nella realtà. Le botteghe dei falegnami non ci sono più, oggi neanche un adulto sa la differenza tra un faggio e un frassino».

Lei preferisce Cuore e I ragazzi della via Paal.

«Cuore è stato scritto a fine Ottocento e ha l’entusiasmo della patria giovane, dell’Italia finalmente unita. Tutta la vita si svolge nell’aula scolastica, dove ci sono i mestieri, gli artigiani, la manualità, le classi sociali. Nei Ragazzi della via Paal invece tutto accade nel campetto, il posto dello scontro con la banda dell’Orto botanico. Che per Ernesto Nemecsek diverrà la sua tomba. Qui la patria è da costruire, è una visione sul futuro che riguarda i ragazzi, ma pure i grandi».

Lei parla dei mestieri, del fabbro e del falegname, ma oggi siamo nell’era digitale.

«Per questo è un libro contro la globalizzazione. Chi si fa i mobili dal falegname? Si va all’Ikea. Non è solo il problema delle merci, dei prodotti, ma pure delle persone. La globalizzazione è standard, interscambio che annulla le differenze, cultura gender avanzata. Non vuole la famiglia, ma single che consumano, che si buttano nella movida, che viaggiano e fanno tutto online».

Dopo il Covid, la guerra in Ucraina ha sancito un altro stop.

«Il Covid ha decretato la caduta della prima globalizzazione, la guerra è il funerale definitivo».

Scrive: «La Russia è il cuore più grande del mondo. Non a caso è il Paese che ragiona in maniera superiore agli altri con il cuore e la vita che vi scorre». Se la legge qualche autore di liste di proscrizione le dispone un Tso d’urgenza.

«’Sti cazzi, dicono a Roma. Se fosse ancora vivo Carl Gustav Jung direbbe che gli americani non possiedono un inconscio collettivo, perché ce l’avevano gli indiani che non ci sono più. L’inconscio collettivo ce l’ha l’Europa cristiana, l’Europa dei miti. Quello più potente ce l’ha la Germania e ha le sue radici in Wotan, il dio della guerra. L’inconscio della Russia si fonda nella cristianità e nella spiritualità, nell’eterna pulsione dei barbari».

Tutto questo per dire cosa?

«Che in questa guerra conta, sì, la struttura, cioè l’economia. Ma contano pure le antropologie e le diverse idee di futuro. Non voglio parlare di guerre di religione, ma mi sembra che si affaccino delle questioni che riguardano il come si deve vivere. Del resto la questione della Russia e dell’Asia viene da lontano».

Lontanissimo.

«Con Giustiniano, Bisanzio era la seconda Roma. Già allora si voleva creare un mondo eurasiatico includendo la Russia. Per alcuni Mosca è la terza Roma. Nella modernità l’unico che ha avuto l’idea di inglobarla e ha parlato di Eurasia è stato Charles De Gaulle che era tutt’altro che atlantista. Voglio dire che non possiamo respingere la Russia, relegarla nell’Oriente».

Finché però c’è uno come Vladimir Putin che invade un Paese sovrano è un’operazione che risulta difficile.

«Putin e la Russia sono due cose diverse. Né noi possiamo risolvere il problema giustiziando Putin perché, a prescindere da lui, la Russia resterà una presenza imprescindibile a tutti i livelli. Hanno fatto fuori gli zar ed è arrivata l’Unione sovietica, è caduta l’Unione sovietica ed è arrivato Putin. La Russia è un’entità culturale complessa con cui fare i conti. Che in qualche modo ci fa da specchio, come noi europei facciamo da specchio alla Russia. In questo confronto reciproco emergono le rispettive contraddizioni».

Nel frattempo, nelle università e nei teatri si cancellano gli scrittori, gli artisti e le opere russe.

«È una bestemmia solo porre il problema».

Mentre lei decanta un passato innocente e carnale, la cancel culture vuole setacciarlo con il perbenismo patinato.

«Stiamo assistendo a un’operazione di cinismo culturale che vuole costruire l’uomo post-umano. Il cyborg, il gender. Meno è cosciente di sé e più l’uomo del Terzo millennio è preda della manipolazione e del controllo».

E recide il suo essere creatura.

«Anche il suo mistero, la sua unicità. Siamo esseri uno diverso dall’altro. Invece si vuol rendere tutto uguale e insapore, uniformando gusti e desideri. Basta guardare la pubblicità, gli ammiccamenti, la convergenza sugli stessi gadget. È la distruzione del sacro, dove creatura e natura si incontrano rispettando le diversità. Siamo a un passo dall’apocalisse, dalla fine dell’umanità».

Spariscono anche l’affettività e il sesso?

«Siamo nel post-pornografico. Si parla di sesso perché non si fa più. La prima cosa che ti mandano sono le foto nude, non si ha più il coraggio dell’incontro. Oppure è solo narcisistico, una pulsione drogata, performativa, sbrigativa. Anche il sesso richiede tempo».

Chi sono i «ragazzi-futuro»?

«Prima o poi, defunta la globalizzazione e visti gli effetti del post-umano, qualcuno, una minoranza, comincerà ad avere a noia l’iPhone e il virtuale e inizierà ad avere una visione».

Scrive che Franti è l’antesignano di Billy Boy di Arancia meccanica: il bullismo di oggi non è nuovo?

«C’è sempre stato. Ma si era allenati a combattere da soli perciò non lo si diceva in casa. Era un rito d’iniziazione, una sorta di apprendistato. Caso mai oggi è aumentata la perversione, la serialità della violenza».

Cosa cercano le baby gang che stuprano in gruppo, agiscono come cosche, si radunano con i social per picchiarsi?

«Esprimono un’impotenza. Una volta ci si batteva uno a uno, corpo a corpo. Adesso in gruppo perché da soli manca il coraggio. Il gruppo copre un’inadeguatezza. Si va in palestra, ci si costruisce una forza utile ad alzare pesi, ma inutile nel quotidiano».

Il sesso virtuale, la pubblicità standard, le palestre, la movida…

«Tutto si uniforma e appiattisce. Anche il turismo e la ricerca della bellezza diminuiscono la possibilità di scelta. Tutti in fila al museo, alla mostra gettonata. La fruizione è schiacciata sull’attualismo e sulle esperienze della maggioranza. Si leggono libri come si guardano i format e si guardano le serie come si leggono i libri. I talenti che portano vera creatività non servono alla cultura globale perché tutti devono somigliare a tutti».

Con la guerra in Ucraina si parla molto di bambini mentre se ne fanno sempre meno.

«È indiscutibile che la morte dei bambini sia la tragedia assoluta. Ma in questo parlarne vedo ipocrisia e cinismo, perché poi nelle relazioni quotidiane, il primo obiettivo è che i bambini non disturbino gli adulti. C’è ancora qualche madre che la mattina prepara al figlio lo spuntino da consumare a scuola? Quello era un gesto rivoluzionario; si fa prima a comprare la merendina industriale».

Le parole salvifiche del libro sono innocenza e patria: dove le rintraccia nella realtà?

«Nella scelta dei rapporti. Nel dire no a questa ondata che travolge l’umano. È una scelta che si paga con la solitudine. Che però, a volte, aiuta a leggere i fatti. Sebbene io pensi che ci sono uomini che nascono con la grazia e la conservano per sempre e altri no, lo sguardo dell’innocenza non spetta più a noi adulti. Forse l’innocenza sta nella libertà di mostrare la propria fragilità. Il che vuol dire anche esser disposti a donarsi. Al contrario del mondo globale che vuole prendere. E mostra solo forza, giovinezza, perfezione».

 

La Verità, 7 maggio 2022

 

 

«Il ddl Zan punta a rieducare i nostri figli»

Dottor Alfredo Mantovano, ci sono novità dalla Feltrinelli? Il libro da lei curato per l’editore Cantagalli Legge omofobia: perché non va è arrivato negli store della catena?

«Forse è un po’ presto perché, dopo il blocco riscontrato una settimana fa, c’è stato il chiarimento tra l’editore, il distributore e la rete delle librerie. Ci vuole qualche giorno perché la distribuzione sia a pieno regime, ma confido che ciò avvenga presto. Feltrinelli si è scusata perché il libro non era acquistabile nei suoi punti vendita».

Secondo lei si tratta di un fatto casuale o è sintomo di qualcos’altro?

«Lo dico senza puntare l’indice, ma credo rifletta un contesto culturale per il quale, se di discriminazione si vuole parlare, riguarda chi solleva perplessità anche articolate verso certi assiomi».

Pacato nel linguaggio e frastagliato nel ragionamento, alle sintesi a effetto Alfredo Mantovano preferisce la citazione di documenti e precedenti giuridici. Leccese, 63 anni, più volte parlamentare nelle liste di centrodestra, ripetutamente sottosegretario dell’Interno, nel 2013 ha scelto di tornare in magistratura, e di dedicarsi agli studi e all’attività del Centro Rosario Livatino, di cui è vicepresidente.

Il ddl Zan contro l’omofobia è scritto male o maliziosamente?

«Senza fare processi alle intenzioni, il testo è un blocco unico perciò non emendabile».

Qual è la sua critica principale?

«I punti più controversi, come l’identità di genere, sono proprio quelli più ideologici. Ma non c’è disponibilità a rivederli perché per i promotori sono qualificanti. Il testo è fatto in modo che se si toglie una parte cade l’impalcatura».

Per esempio?

«Poniamo di eliminare l’articolo 7 che istituisce la Giornata contro l’omolesbobitransfobia. E poniamo che, una volta approvata la legge, un’associazione Lgbt chieda di spiegare la teoria gender in una scuola. Il preside che si appellasse alla necessità del consenso dei genitori, come prevede la legge vigente, potrebbe essere coinvolto in un procedimento giudiziario, perché la sua cautela verrebbe letta come discriminazione. In queste condizioni, secondo lei quanti sarebbero i presidi disponibili a opporsi seriamente?».

Perché l’articolo 1 ridefinisce sesso, orientamento sessuale e identità di genere?

«Queste definizioni sono state introdotte dopo i rilievi di genericità sollevati nel dibattito alla Camera. Ma il rimedio è peggiore del male perché la genericità è aumentata. Il problema non è solo l’eventuale sentenza di condanna, ma ciò che succede prima. Per esempio, un Pm può ottenere intercettazioni telefoniche e ambientali e misure restrittive della libertà. In questa situazione nessuno proverà a esprimere un’opinione dissonante e l’effetto censura o omologazione è assicurato».

L’identità di genere presidiata da sanzioni a cosa mira?

«A mettere in sicurezza le conquiste degli anni e dei mesi passati. Benché la Cirinnà sia legge da 5 anni sopravvive il diritto di non condividere l’equiparazione tra unioni omosex e famiglia basata su uomo e donna. Allo stesso modo, benché sia giurisprudenza, si può eccepire anche sulla stepchild adoption. Con l’approvazione del ddl Zan, guai a chi le metterà in discussione».

In Italia l’adozione di coppie omogenitoriali non è ancora legge e il ddl Zan non la prevede. La maternità surrogata è uno step ulteriore, sebbene messo in calendario dalle famiglie arcobaleno.

«Due mesi fa le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno legittimato l’iscrizione all’anagrafe come proprio di un bambino ottenuto all’estero presumibilmente attraverso la maternità surrogata. Non è uno step ulteriore, un piede sul gradino c’è già. Si potrebbe evitare di salirci anche con il secondo se il Parlamento varasse una legge che vietasse il ricorso alla maternità surrogata oltre che in Italia anche all’estero».

La magistratura supplisce alla latitanza della politica?

«È una legge della fisica: il vuoto viene sempre riempito».

La legge Zan è motivata da una reale emergenza?

«L’emergenza è solo mediatica. Se il ministero dell’Interno non dice stupidaggini, dal 2010 l’Osservatorio contro le discriminazioni conta una media di 26,5 segnalazioni all’anno. In termini numerici è poco meno di quello che per il bullismo accade in una singola scuola in un anno».

Eppure la politica discute di questo: un’isteria?

«Isteria è un’espressione un po’ forte. Personalmente, quando ho visto il concerto del Primo maggio mi aspettavo di sentir parlare di morti sul lavoro che ci sono, o di mondo del lavoro prostrato dalla pandemia. Invece ho sentito parlare di un’emergenza che non c’è. Non solo per i numeri del ministero dell’Interno, ma anche perché in caso di aggressione motivata dall’orientamento sessuale la risposta repressiva è già immediata. Ci sono l’arresto e il procedimento penale».

I movimenti Lgbt vogliono affermare la cultura gender per via giudiziaria?

«Lo dicono i suoi promotori: la legge dev’essere uno strumento di educazione. Più corretto sarebbe dire di rieducazione».

Qualsiasi espressione critica nei confronti degli omosessuali, tipo «disapprovo i matrimoni gay» o «gli omosessuali non devono poter adottare» è omofoba?

«Basta vedere che cosa succede negli ordinamenti dove norme simili sono già in vigore. In Spagna nel 2014 il cardinale Sebastian Aguilar fu iscritto nel registro degli indagati proprio per aver pronunciato frasi di questo tipo. Negli Stati Uniti c’è una casistica imponente di perdita di posti di lavoro e di chiusura di esercizi commerciali da parte di chi esprime delle critiche».

C’è differenza tra espressione omofoba e omonegativa?

«È una distinzione presente nella legislazione attuale per la quale, se mi esprimo in modo offensivo nei confronti di una persona omosessuale, sono giustamente sanzionato. Ma questa distinzione scompare con la legge Zan perché tutto sarà considerato omofobo».

Quali sono i precedenti di reati d’odio nel codice penale?

«I reati previsti dalla legge Mancino. Ma qui il riferimento alla razza e all’etnia non è generico come quello all’identità di genere nel testo Zan».

Walter Veltroni ha scritto un libro intitolato Odiare l’odio: c’è un odio più legittimo di un altro?

«Le rispondo così: il diritto penale si basa sul fatto. Qui siamo nel campo dello stato d’animo. Cioè, un conto è giudicare un furto che è un dato oggettivo, un altro è pretendere di giudicare l’intera vita del ladro».

Si punisce uno stato d’animo senza una precisa connessione fattuale?

«Esatto, lo stato d’animo non è qualcosa di ben definibile, come un fatto concreto».

Le problematiche delle persone omosessuali sono il preambolo dell’affermazione di questa filosofia?

«Più che un preambolo sono un pretesto».

Concorda con il sociologo Luca Ricolfi secondo il quale il ddl Zan «è una sorta di cavallo di Troia perché introduce articoli non essenziali alla difesa degli omosessuali»?

«È così. Il quadro sanzionatorio è già completo in ogni sua articolazione. Non esiste nessuna necessità di implementarlo».

L’identità di genere è un passo verso una ridefinizione antropologica?

«Tre anni fa si è posta a carico del servizio sanitario la molecola che blocca lo sviluppo ormonale degli adolescenti che hanno problemi di percezione della propria sessualità. Con la legge Zan un genitore che manifesti al figlio perplessità per l’assunzione della triptorelina o il medico di famiglia che ne illustri gli effetti collaterali potrebbero essere perseguiti penalmente».

Attraverso la sanzione si attua un meccanismo intimidatorio verso chi dissente?

«Quale medico rischierà un processo penale e una sanzione disciplinare provando a contestare questa normativa?».

All’articolo 4 il ddl Zan salvaguarda la libera espressione delle opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee.

«È il capolavoro di questo testo per due ragioni. La prima perché è singolare che si introducano delle sanzioni penali e poi intervenga una clausola di salvezza dalle stesse. Questo rivela che anche il promotore avverte il rischio di un’applicazione arbitraria delle norme. E poi perché, nella fattispecie, si ribadisce qualcosa che è già previsto dall’articolo 21 della Costituzione».

Come va interpretato l’inserimento della tutela delle persone disabili in questo ddl?

«È il fatto che indigna di più perché tutti conosciamo i problemi che affliggono la quotidianità dei disabili. Il riferimento alla disabilità c’è solo nelle norme penali e non nell’assistenza in giudizio come persona offesa e riguardo alle iniziative nelle scuole».

È una foglia di fico?

«Il fatto che si chiami a sostegno la condizione di persone che non c’entrano nulla con l’impianto della legge dimostra che i promotori sono consapevoli della debolezza dei loro argomenti».

Come va interpretata l’istituzione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia?

«Come abbiamo visto il 17 maggio questa giornata c’è già e coinvolge le più alte cariche dello Stato. La novità introdotta dalla legge è la celebrazione nelle scuole con annesso sostegno finanziario».

Parlavamo di rieducazione.

«Fin dall’età più bassa».

Qual è la vera posta in gioco?

«Una diversa idea di uomo. Il transumanesimo, l’autodeterminazione assoluta. Questa non è una faccenda per giuristi o per un ramo del Parlamento, ma qualcosa che deve far riflettere tutti, al di là dei ruoli istituzionali».

La Chiesa e il mondo cattolico si fanno sentire abbastanza?

«Una parte del mondo cattolico si fa sentire. Anche da parte dei pastori ci sono stati pronunciamenti espliciti. Ma i media mainstream ne riportano solo la parte più morbida. I cattolici dovrebbero accedere direttamente al magistero di Francesco. Che, in materia, si è espresso con chiarezza».

Come giudicherebbe questa legge Rosario Livatino, appena commemorato al Quirinale?

«Per capire il suo pensiero basta rileggersi la conferenza su “Fede e diritto” in cui dice che il diritto dev’essere fondato sul rispetto della natura dell’uomo. Spero che anche Livatino non diventi un santino, ma venga considerato per ciò che ha fatto e detto realmente».

 

La Verità, 22 maggio 2021

«Ddl Zan scritto male: i desideri non sono diritti»

Dirigente del Pd, valdostano, formato nelle comunità di base, militante dei diritti delle persone omosessuali, presidente dell’Arcigay dal 2007 al 2010 e ora di Equality Italia, Aurelio Mancuso è l’estensore dell’appello per la modifica del disegno di legge Zan sull’omotransfobia firmato da oltre 450 personalità dell’area del Partito democratico e di Italia viva, dalla regista Cristina Comencini all’ex presidente dell’Istituto Gramsci Beppe Vacca, dalla filosofa Francesca Izzo all’ex sindacalista Giorgio Benvenuto.

Perché il vostro appello è rivolto al presidente della commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari?

«Chiediamo di essere auditi almeno al Senato, visto che alla Camera non è avvenuto».

Risposte?

«So che la nostra richiesta verrà presa in esame».

C’è un comitato promotore?

«Il soggetto propulsore è una chat su whatsapp di persone di centrosinistra nata sul tema della maternità surrogata. Il lavoro su questo tema è sfociato nell’appello per la modifica del ddl Zan».

Perché la definite «una legge pasticciata»?

«Perché era nata per estendere le aggravanti previste dalla legge Reale-Mancino alle persone gay, lesbiche e trans».

Invece?

«Invece dall’iter della Camera si è via via trasformata in una legge che interviene sul sesso, sulle persone disabili e l’identità di genere. Si è appesantita a causa delle spinte nel Pd e nei 5 stelle».

Il punto che più disapprovate è il ricorso all’identità di genere?

«I punti di dissenso sono due: il modo di intendere il sesso e l’uso dell’espressione “identità di genere”. Sul primo punto è incredibile che le donne siano trattate come una minoranza. Qualche giorno fa in una videoconferenza sul Corriere.it Alessandro Zan ha detto che la legge può combattere anche la misandria».

L’ha evocata per stabilire una sorta di par condicio delle discriminazioni?

«Ma così ha equiparato la misoginia, che è un crimine, con la misandria, che ha rarissimi riscontri nella realtà».

Per i sostenitori del ddl il sesso va messo in relazione ai diritti, cioè a un’ideologia?

«È una componente della condizione umana sottoposta all’autodeterminazione da mettere in relazione alla sfera dei diritti. Noi firmatari dell’appello siamo convinti che questa visione, di derivazione anglosassone, non possa trasformarsi in una legge dello Stato».

Veniamo al secondo punto, l’identità di genere.

«Fino a qualche anno fa questa espressione riguardava i transessuali, persone che intraprendevano dolorosi percorsi di transizione, normati anche dalla legislazione italiana. Oggi sulla spinta dei movimenti Lgbt si sta affermando il concetto di genere percepito».

Semplificando, in base a come mi sento in un determinato momento decido se entrare in un bagno o in uno spogliatoio maschile o femminile?

«Ognuno è libero di sentirsi come gli pare, ma l’autopercezione non può diventare legge. Un conto è cambiare le norme sulla transizione che sono del 1982, un altro è dare dignità legislativa alla fluidità a seconda di come ci si alza al mattino. Le faccio un esempio…».

Prego.

«In Messico, siccome la percentuale minima di candidature femminili alle elezioni non era stata rispettata, una lista di soli uomini si è autoproclamata composta di tutte donne. Ripeto: ognuno può percepirsi come vuole, ma lo Stato ha le sue regole».

Diversamente dovrebbe fare una legge per ognuno dei numerosi generi ipotizzati dai movimenti Lgbt.

«Tutti siamo liberi di sentirci secondo i nostri desideri, ma i desideri non sono automaticamente diritti».

Un altro elemento controverso riguarda il linguaggio che potrebbe favorire atti discriminatori.

«In Europa e in America si è deciso di estendere le aggravanti che riguardavano le persone discriminate dalle dittature nazifasciste e comuniste alle persone gay, lesbiche e trans. Questo è l’alveo culturale».

Perché in Italia non basta integrare la legge esistente con le aggressioni a sfondo sessuale?

«Le varie maggioranze di destra e di sinistra che si sono susseguite non hanno mai voluto o avuto la forza di approvare le estensioni alla legge Mancino. Io resto dell’idea che la legge contro l’omotransfobia serva. Il problema è che questa è scritta male».

Scritta male o maliziosamente? Non crede che la tutela delle minoranze nasconda una minaccia alla libera espressione?

«Anche qui c’è da correggere un errore madornale. Tutto ciò che si dice contro gli omosessuali viene tacciato di omofobia. Invece, se dico che sono contro il matrimonio gay o che i gay non dovrebbero poter adottare dei bambini non uso espressioni omofobe, ma omonegative. Invece dire “i gay devono essere tutti bruciati” è istigazione all’odio».

Parlare di padre e madre è discriminatorio verso i bambini di persone omogenitoriali?

«Capisco alcune preoccupazioni però penso che il buon senso e i limiti garantisti del ddl eviteranno degenerazioni giuridiche. Dire che la famiglia è composta da padre e madre appartiene all’espressione del libero pensiero».

Non è troppo ottimista considerando che in tanti documenti al posto della desinenza che indica il sesso si inizia a usare l’asterisco?

«Io non lo uso e sono convinto che chi intenterà cause su questi temi le perderà. Insisto: se la legge l’avessi scritta io avrei puntato sulla prevenzione più che sulle sanzioni. Ricordiamoci che le vere vittime dell’omotransfobia sono le persone trans, uccise per strada perché obbligate a prostituirsi».

Lei parla di prevenzione, ma all’articolo 7 il ddl prevede l’istituzione della Giornata contro l’omotransfobia: lo scopo è l’indottrinamento gender dei bambini nelle scuole?

«La Giornata internazionale contro l’omofobia c’è già dal 2004. Quello che mi preoccupa degli articoli 7 e 8 è che nelle scuole si vada a propagandare la maternità surrogata e il self-identity. Siccome sappiamo che nel movimento Lgbt ci sono associazioni che propugnano la maternità surrogata, nell’appello chiediamo che questa propaganda sia vietata. Come, per esempio, ha fatto la regione Emilia Romagna governata dal centrosinistra, che in un comma ha precisato di non concedere contributi alle associazioni che promuovono la gestazione per altri».

Qualche giorno fa Marilena Grassadonia, esponente di Sinistra italiana e presidente delle Famiglie arcobaleno, ha detto che la legge Zan è solo il primo passo e che i successivi sono l’autocertificazione di genere e l’utero in affitto.

«Rispondo con una provocazione: se Arcigay e le altre associazioni Lgbt approvassero questo programma io riproporrei il matrimonio egualitario e la riforma della legge sulle adozioni. Purtroppo oggi, a causa della polarizzazione che spacca il fronte politico, è impossibile costruire percorsi riformisti. Anziché parlare dei diritti dei bambini, i veri soggetti deboli, si parla della gestazione per altri perché si privilegiano i desideri degli adulti».

Non si fa prima a rimettere al centro la famiglia?

«Con attenzione. La famiglia è anche una grande questione sociale. Io mi sono battuto per aiutare quelle numerose proponendo di aumentare gli assegni. Perché il centrodestra quando ha governato non ha approvato il quoziente famigliare? Oggi si fanno pochi bambini non per motivi ideologici, ma per motivi economici».

Con la Giornata contro l’omotransfobia arriveremo all’indottrinamento gender dei paesi anglosassoni?

«Sono stato in centinaia di scuole e ho constatato che pongono giustamente dei paletti. Nel nostro appello c’è scritto che bisogna promuovere l’educazione sessuale e alla salute all’interno di un lavoro curriculare sistematico. Non si deve fare propaganda. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti ci si sta accorgendo dei danni causati dall’uso dei bloccanti della pubertà e si comincia a fare marcia indietro».

Perché ha sottoscritto un appello all’Onu contro l’utero in affitto?

«Perché ritengo che comprare, vendere, o anche donare un bambino, come ipocritamente qualcuno dice, leda il diritto proprio del bambino. Se viene abbandonato lo aiutiamo. Ma decidere per contratto che vada a una coppia, etero o omo non m’importa, è una violazione del suo diritto a conoscere la madre che l’ha tenuto in grembo nove mesi. Il secondo aspetto criminale è che ci sono donne obbligate dai mariti e dalla condizione sociale, per esempio nell’Est europeo e nel Sud del mondo, usate come contenitore per fabbricare i figli dei ricchi».

La nostra società decide che si può sopprimere un embrione nel grembo materno e allo stesso tempo che lo si può impiantare a pagamento.

«Io difendo la legge 194, se mai andrebbe pienamente applicata. Ma il discorso ci porterebbe lontano. Sebbene creda che il desiderio di essere genitore vada rispettato, non è un diritto riconosciuto. Altrimenti le costituzioni lo prevederebbero. Se c’è questo desiderio diffuso di genitorialità, perché nel nostro Paese, dove ci sono bambini ancora negli istituti, non si mette mano alla legge sulle adozioni?».

Come spiega il fatto che Enrico Letta ha fatto del ddl Zan una delle battaglie prioritarie del Pd?

«Capisco che Letta sia arrivato quando il treno della legge era già partito, ma quando uno diventa segretario del più grande partito del centrosinistra avrebbe il dovere di ascoltare chi da più di un anno studia e lavora su questi temi».

Nel Pd non c’è confronto sull’argomento?

«Non c’è stato un vero dibattito, decidono gli eletti senza un’adeguata discussione. Per altro in un partito che è nato da culture diverse. È molto difficile riconoscersi su questi temi nel Pd».

Sono credbili coloro che dicono di approvare il ddl per poi migliorarlo? Questa legge comporta un salto di paradigma?

«Se la legge sarà approvata così vedremo come si comporterà il Pd negli step successivi. Quando, cioè, si comincerà a discutere di utero in affitto e di autocertificazione di genere. Vedremo se è già diventato un partito radicale di massa».

La discussione del primo maggio, giorno dei lavoratori, sul ddl Zan non è la prova che è già così?

«Diciamo che lo sta diventando. Ma anche questo è frutto di una tendenza sovranazionale. Da una parte c’è il sovranismo, dall’altra una serie di visioni minoritarie. In mezzo sono rimasti i riformisti e i liberali, schiacciati dalla polarizzazione dei rispettivi campi. Difendo Fedez che si è esposto, ma non può essere il santone del Pd. Lui fa il cantante e promuove le sue attività commerciali. Magari ce lo troveremo in politica. Se ci è arrivato Grillo…».

 

 

La Verità, 15 maggio 2021 (versione integrale)

La sofisticatezza di Guadagnino sa d’ideologia

Spiace, ma tocca dissentire. Dagli osanna diffusi, dai cori entusiastici, dagli ooohh di meraviglia. I media si sono sperticati: «Una serie mozzafiato» (Vanity Fair), «Un affresco vivente e finemente dettagliato» (The New York Times), «Sbalorditiva, a dir poco bellissima» (Rolling Stone), tanto per citare qui e là. Purtroppo no, non condivido tanta esaltazione. We are who we are – Siamo ciò che siamo di Luca Guadagnino l’ho trovata irritante e indisponente. Non solo per ciò che racconta. Soprattutto per l’operazione ideologica che contiene. Per il modo di fare cinema e televisione. Scientificamente intellettuale, astratto, programmaticamente altero. Un modo che, intervistato da Marco Giusti per Dagospia, il regista di Chiamami col tuo nome ha spiegato citando Bernardo Bertolucci: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Tutto chiaro, no? Lo spunto dell’opera non è la vita, ma la nostra idea, la nostra pensata per il cinema. Che, attraverso esercizi di stile più o meno riusciti, porta a narrare qualcosa che ci sta a cuore.

Una coppia di lesbiche con figlio al seguito precipitata dentro una base militare: non è una bella pensata? Non è un’idea pittoresca? Che dà la sveglia a un ambiente retrogrado come quello dell’esercito, sebbene americano. Credevate che i battaglioni dei marines fossero uno degli ultimi posti dove il bianco e nero sono ancora tali senza troppe sfumature e distinguo? Vi sbagliate. Ecco una bella centrifuga di opposti che fa saltare il banco delle convenzioni e dimostra che il mondo gender è avanti e i militari sono indietro. Che la fluidità e la scelta di genere sono il futuro e la famiglia tradizionale opprime le libertà ancor più delle gerarchie dell’esercito. È la trovata di Guadagnino per We are who we are, otto episodi in onda su Sky Atlantic (coprodotti da Sky e Hbo con The Apartment di Wildside, entrambe del gruppo Fremantle, e Small Forward) tra gli applausi generali della critica mainstream.

Unghie smaltate, capelli ossigenati, abbigliamento queer e auricolari perennemente innestati nelle orecchie, il protagonista Frazer (Jack Dylan Grazer) si aggira irrequieto tra gli edifici dell’enclave militare citando poeti sparsi. Siamo nel 2016, durante la campagna per le presidenziali americane, e la di lui madre (precedente matrimonio, inseminazione artificiale o maternità surrogata?), interpretata da Chloë Sevigny, è il nuovo capo della base, accolto con evidente disappunto dall’ufficiale nero e trumpiano (Kid Kuli), uso a tirare di boxe con la figlia Caitlin (Jordan Kristine Seamon), coetanea di Frazer.

La pensata è astrusa e artificiale, ma la trama è costruita ad arte. Con simili genitori, infatti, non è difficile immaginare che Frazer e Caitlin abbiano qualche problema di identità e finiscano per familiarizzare, scambiandosi vestiti, confidenze sulla loro irresolutezza, condividendo il rasoio per tagliare la prima peluria sopra le labbra. È questa indeterminatezza sessuale con le sue sfumature miste tra mascolinità e femminilità il centro della storia. Una volubilità per la quale, tanto per rendere la complicazione della vicenda, si è coniato l’ossimoro «normalità trasgressiva».

Nell’intervista citata Guadagnino ricorre spesso all’aggettivo sofisticato e precisa che la sua «arte è far sembrare improvvisata una serie ultra-scritta». Stia tranquillo, nessuno l’aveva sospettato. E non solo perché, tra gli sceneggiatori, oltre a Francesca Manieri c’è il premio Strega Paolo Giordano. Ma perché tutto, dall’idea di partenza fino all’ultima ripresa, è evidentemente studiato. In una scena del terzo episodio, la madre-comandante flirta con il suo attendente sul quale ha poco prima riflettuto a voce alta: «È il mio tipo, ma non il mio genere». Stupito, Fraser osserva poco distante insieme a Caitlin, tagliata a metà dall’inquadratura. Chi è davvero colpito dalla stranezza della madre è lui. We are who we are è questo esercizio di ambiguità e doppiezza, reso anche dai movimenti della cinepresa, senza mai un centro riconoscibile. Provvisorie e oblique le riprese, sfalsate le voci rispetto ai volti. Spesso qualcuno parla, pensa a voce alta senza comparire. L’effetto è un senso d’instabilità, volubilità, fuggevolezza. Oltre che nell’abbigliamento e nel minimalismo da bidet, la fluidità è resa dall’assenza di un fulcro visivo. L’occhio del regista rallenta sugli indumenti raggrumati a bordo piscina, sulle bottiglie di birra e di whisky vuote e sui posaceneri pieni dopo lo sballo post matrimonio improvviso e improvvisato tra il milite in partenza per la missione e la bella del posto. Quella parte di Laguna popolare che rimane sullo sfondo della storia. E dove, volendo fare un bagno di realtà, la sofisticatezza di Guadagnino probabilmente risulterebbe in tutta la sua artificiosità. Chissà che cosa direbbero gli avventori di un’osteria di Chioggia o i pescatori del porto di una coppia di lesbiche con figlio in una base militare americana.

 

La Verità, 20 ottobre 2020

Una storia d’amore nella quale ci ritroviamo tutti

Si legge d’un fiato senza perdere una parola perché parla di noi. Una grande storia d’amore di Susanna Tamaro (Solferino) è un romanzo schietto, solido, struggente. Che appiccica alla pagina con una scrittura scorrevole come un sorso d’acqua fresca. O come il sangue nelle nostre vene. Niente di più vitale. Eppure niente di più gratuito e, allo stesso tempo, di considerato ovvio, scontato, dovuto. Se per l’autrice questo libro è un ritorno alle origini di Va’ dove ti porta il cuore, al flusso del racconto che ha per protagoniste due persone che si mettono reciprocamente in gioco di fronte al destino, per il lettore è un ritorno a casa, alle domande fondamentali, il bisogno d’amore, la ricerca della felicità. Un posto dell’anima nel quale ci si riconosce, si ritrova la bussola delle cose che contano, lontano dalle mode, dalla fatuità, dalla superficie. Niente nuove ideologie, niente nuovi diritti, teorie gender o integralismi ambientalisti. Solo una storia d’amore tra un uomo e una donna: sembra poco, ma di questi tempi, a suo modo, è tanto.

Come in tutta la letteratura di Tamaro, anche qui il mistero da sondare sono le persone.

Edith – che significa «Colei che cerca la felicità» – e Andrea – «Fin da bambino sentivo l’esigenza di raggiungere il cuore vero delle cose» – si incontrano un giorno d’estate su un traghetto che da Venezia fa rotta sul Pireo. Lei, trasgressiva e sarcastica, è diretta in Grecia per festeggiare la maturità appena raggiunta. Lui, ligio e disciplinato, di dieci anni più vecchio, è il capitano della nave. Anche se il primo incontro è uno sfregare di spigoli – o forse proprio per questo – è destinato a lasciare nei pensieri di entrambi tracce che riaffioreranno nelle successive coincidenze. Ma in Una grande storia d’amore, nessuno di questi incontri, di questi «imbattimenti», è casuale. Pur nella palese differenza di temperamento e oltre l’attrazione reciproca, la ricerca di un di più, il non accontentarsi dell’effimero li porta a riconoscersi e a intrecciare i loro passi. Ora, molti anni dopo, mentre non sappiamo dove sia Edith e se ci sia ancora, troviamo Andrea nella grande casa su un’isola del Tirreno, «roccaforte di ricordi». Il suo racconto è un’altalena di prendersi e lasciarsi, di partire e tornare, da soli o accompagnati. Perché le inquietudini, il non appagamento, le perdite, i lutti, le resistenze all’amore, i malintesi e l’ambizione di farsi da sé portano strappi, fughe, sbagli. Come una figlia inattesa da una storia che prometteva e che invece era un bluff. O come la deriva nella quale annegare il dolore di un’assenza incolmabile.

Romanzo di pochissime persone come la maggior parte di quelli di Tamaro, appena i genitori e i figli dei due protagonisti, Una grande storia d’amore è ugualmente un libro di ampio respiro, che include la natura, le api di Edith, i cetacei di Andrea, la prospettiva del tempo. Una storia disseminata di perle sapienti, mimetizzate nel flusso di memoria di Andrea. A proposito del rapporto tra genitori e figli, paragonato a quello della metà del Novecento, quando la ribellione alla strada tracciata era una sfida seria e «si doveva essere davvero sicuri della nuova scelta per compiere un gesto di rottura», perché «i genitori avevano ancora il potere di ripudiarti per una decisione di vita non gradita». Oppure riguardo al dogma della natura che si autogestisce e che produce spontaneamente armonia. Bastava guardare il giardino incolto per accorgersi che «l’idea della saggezza autogenerante della terra poteva imporsi soltanto in un tempo in cui la maggior parte delle persone viveva in ambienti artificiali», non certo quando l’uomo doveva lottare per il cibo e la sopravvivenza. Son pagine in cui ricorre il verbo «domare», utile anche di fronte al disordine o agli istinti e alla rabbia distruttiva. Non c’è ideologia in tutto questo, ma quel buon senso che deriva dall’ascolto del cuore profondo, esercizio ben noto all’autrice. Come quando, a causa di una di quelle sviste nelle quali si può cadere per bisogno d’amore, Edith si trova con «un problema in più» nella pancia. E allora può bastare il suggerimento discreto di una madre – «di solito la vita porta con sé altra vita» – a evitare altri traumi e a credere nel futuro. Un romanzo che riflette sul senso del perdono, sulla possibilità di ricominciare dopo che si è subìto un torto, una slealtà, una ferita che ancora sanguina. Su come riabbracciare un figlio che se n’è andato, trafitto dal dolore. Un romanzo che contiene l’idea che la vita non è una passeggiata tra fiori e cristalli, ma una sfida continua, una provocazione quotidiana a chi siamo e a chi vogliamo essere. Senza alibi o pretese da scaricare all’esterno, sulla società, sui diritti da rivendicare, su ideologie vecchie e nuove. Un romanzo che dice semplicemente che è «difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro». Perché, come scriveva il filosofo Romano Guardini, «nell’esperienza di un grande amore, tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».

 

La Verità, 6 ottobre 2020

«La scuola che preparano ci porterà in una distopia»

Gli uomini di potere lo sanno: quando si mettono le mani sull’educazione, ci si appropria del futuro». Elisabetta Frezza non ci mette molto ad andare al sodo. Cinque figli, solidi studi giuridici e inguaribile tendenza all’approfondimento, autrice dell’introvabile MalaScuola. Gender, affettività, emozioni: il sistema “educativo” per abolire la ragione e manipolare i nostri figli (Leonardo Da Vinci), questa elegante signora di Padova intervistata spesso da Byoblu.com di Claudio Messora, nasconde dietro occhi azzurri una lucidità metallica. Al recente appello contro la scuola che sta trasformando lo studente in «paziente», scritto sotto l’egida del Ciatdm (Coordinamento internazionale associazioni per la tutela dei diritti dei minori), sottoscritto da associazioni, politici, presidi e professionisti, e indirizzato al premier, ai ministri dell’Istruzione e della Salute e ai presidenti di Camera e Senato, nei giorni scorsi è seguita una comunicazione nella quale si chiede «al presidente del Consiglio pro tempore l’immediato scioglimento del Comitato tecnico scientifico» e, tra le altre cose, si diffidano le autorità scolastiche dall’assumere qualsiasi iniziativa sanitaria in assenza del consenso della famiglia.

Iniziative durissime, signora Frezza.

«Sì, non è il momento delle sfumature. Ma mi conforta il fatto che abbiano trovato larga adesione. Stiamo ottenendo grandi riscontri, centinaia di mail di genitori e professionisti della scuola».

Che cosa l’ha spinta a scrivere questi appelli?

«Prima di tutto le misure annunciate per il ritorno a scuola: l’obbligo a tenere comportamenti conformi, il distanziamento, l’uso delle mascherine, i corridoi a senso unico alternato, che costringeranno gli scolari a seguire regole demenziali».

Per esempio?

«Ne ho avuto un assaggio con l’iscrizione di mio figlio al ginnasio, in occasione del sorteggio per smistare i ragazzi nelle classi. Una lunga fila di genitori in attesa della misurazione della temperatura, poi il lavaggio delle mani con il gel, l’autocertificazione sanitaria, la firma con penna personale per non veicolare il contagio. Ho visto questa gente docile e assoggettata, come fossimo improvvisamente precipitati in una distopia. Paradossalmente, se le autorità scolastico-sanitarie avessero chiesto di fare 10 flessioni, una piroetta e cantare Bella ciao nessuno avrebbe eccepito».

Perché da avvocato è da tempo in prima linea sui temi della scuola?

«Qualche anno fa mi sono cancellata dall’albo degli avvocati. Da madre di cinque figli ho assistito al degrado progressivo dell’istituzione scolastica e la mia formazione giuridica mi ha portato a guardarci dentro».

Che scuole hanno frequentato?

«Una piccola materna ed elementare privata che ora sta per chiudere. Poi scuole medie e liceo classico statali».

Il degrado di cui parla in cosa consiste?

«Fino a qualche anno fa, un po’ per inerzia del sistema un po’ perché resistevano alcuni bravi insegnanti, la struttura reggeva. Poi, gradualmente ma scientificamente, è stato smantellato pezzo per pezzo quell’impianto gentiliano che ha fatto della scuola italiana un modello di eccellenza sulla scena mondiale, per sostituirlo con una scuola ad impostazione spiccatamente aziendalista e mercatista».

Questo degrado si sta accentuando con l’emergenza sanitaria?

«L’epidemia è il pretesto che arriva al momento giusto. È l’ultimo ordigno che dà il colpo di grazia a un edificio già diroccato, permettendo di introdurre maggiore controllo sanitario e sociale. E di realizzare il definitivo annichilimento culturale».

Addirittura?

«Stiamo assistendo a un’evidente sostituzione dei contenuti: via le materie fondamentali, avanti l’ideologia. E poi l’ipertrofia digitale. L’abbiamo sperimentato già durante la quarantena con la didattica a distanza. In casa, con cinque figli connessi davanti allo schermo e muniti di cuffie sembrava di essere in una stazione spaziale. Si rende lo scolaro dipendente dalla protesi tecnologica, destinata alla fine a prendere su di lui il sopravvento. Pensiamo solo all’atrofia di tante attività manuali ed espressive a partire dalla scrittura. La navigazione ha sostituito la consultazione. Tutto viene smaterializzato».

È un processo irreversibile?

«Temo di sì. Anche l’introduzione dei nuovi banchi-autoscontri è funzionale. Il tavolo è scomparso e quel piccolo appoggio che lo sostituisce non può certo ospitare un quadernone, un libro di testo, magari il vocabolario. Sono fatti apposta per rendere definitiva la didattica 2.0 o 3.0 con la lavagna interattiva multimediale e il tablet. E non è l’unica conseguenza».

Le altre?

«Isolano ulteriormente lo scolaro. La figura del compagno di banco scompare, con tutto quello che significa anche dal punto di vista psicologico oltre che didattico».

Questa modifica dell’apprendimento si estende anche ai contenuti?

«Vedremo come sarà la nuova educazione civica che, approvata nell’agosto scorso, entrerà in vigore da quest’anno».

Un’idea non ce l’ha?

«Il nome della materia ci è familiare. Ma finora era una materia ancillare della storia, con l’obiettivo di fornire i rudimenti del diritto costituzionale. La nuova educazione civica sarà invece un contenitore di mainstream e comprenderà l’insegnamento di varie “educazioni”, tra cui l’immancabile educazione alla legalità o alla cittadinanza globale – e pazienza se si tratta di un meraviglioso ossimoro – e allo sviluppo sostenibile. In definitiva sarà un altro strumento volto a formare una massa di cittadini standardizzati e obbedienti».

Chi non concorda con l’educazione alla legalità?

«A dirla così nessuno. Ma da che mondo è mondo ci sono leggi ingiuste. Basti pensare a quelle razziali, per fare un esempio. Nella formula “educazione alla legalità” viene oscurata e assorbita l’idea di giustizia e il suo valore oggettivo che trascende la legge positiva. È un altro stratagemma per inculcare l’obbedienza all’autorità costituita, a prescindere da qualsiasi vaglio di ragione. Invece, se la storia ci ha insegnato qualcosa, a partire da Antigone, la legge ingiusta non va ciecamente obbedita, anzi, va combattuta proprio in nome di un principio superiore di giustizia».

Non sta disegnando uno scenario troppo cupo?

«Questo processo viene da lontano e ora sta solo accelerando. L’introduzione del modello aziendalista ha trasformato la scuola delle conoscenze in scuola delle competenze. Oggi non bisogna sapere, ma saper fare. Tutto ciò che non è utile può essere eliminato, a partire dalla storia o dalla filosofia».

Com’è avvenuta questa trasformazione?

«Con la buona scuola sono stati introdotti criteri di valutazione arbitrari, disancorati dalle materie di insegnamento. Si parla di soft skills, o competenze trasversali che riguardano le relazioni, il “benessere gruppale”, il “problem solving”, attitudini interdisciplinari che scardinano la centralità della didattica e dello studio».

Un altro spiraglio aperto all’ideologia?

«Al monopensiero obbligatorio. Quello che poi si articola in varie aree tematiche ed è improntato all’ambientalismo spinto, al genderismo, al pansessualismo, allo scientismo, all’omofilia, all’eurofilia, all’inclusività e chi più ne ha più ne metta. Tutti contenuti veicolati attraverso programmi e libri di testo aggiornati, progetti assortiti che spesso e volentieri entrano nelle scuole in groppa a esperti esterni, estranei al corpo docente, anche all’insaputa dei genitori».

Il suo libro intitolato MalaScuola è nato come critica alla «buona scuola» del governo Renzi?

«Fu un docente di teologia a incuriosirmi sul fenomeno gender, quando questo era ancora fuori dai radar, ben prima della epifania della legge renziana. Ben presto ho constatato quanto e come nella scuola si diffondevano i corsi di educazione alla sessualità e all’affettività. Quando poi ho letto il testo della legge 107 nell’estate del 2015, insieme a una collega, ho smontato il marchingegno introdotto con il comma 16».

Che sarebbe?

«Attraverso una sorta di matrioska normativa, cioè con un doppio rinvio, concatenato e permanente, la norma è di fatto soggetta a un periodico aggiornamento, realizzato attraverso semplici atti amministrativi che sfuggono a ogni controllo parlamentare perché elaborati da funzionari incardinati nel Dipartimento delle Pari Opportunità, in ossequio alla normativa europea».

Una cosa che porta lontano.

«Tutto è cominciato alle conferenze Onu del Cairo e di Pechino del 1994 e 1995. Nelle quali, come ha documentato Dale O’Leary nel suo The Gender Agenda, sono state pianificate scientificamente, con mezzi e risorse potentissime, la diffusione dell’ideologia gender, la decostruzione della famiglia e la promozione della cultura omosessualista».

Tornando alla scuola?

«Con il progetto Polite (Pari opportunità nei libri di testo ndr), l’accordo siglato tra l’Associazione italiana editori e il dipartimento delle Pari opportunità, si punta a correggere tutti i libri di testo secondo i dettami della teoria di genere, eliminando da antologie e sussidiari i contenuti politicamente scorretti in favore di altri allineati alle nuove ideologie».

La sua analisi non è esattamente un’iniezione di speranza: non sarà un tantino complottista?

«Vorrei fosse così. Purtroppo la documentazione che abbiamo a disposizione è così chiara ed esplicita da impedire ogni fantasia complottista. Lo dimostra l’impegno delle tecnocrazie internazionali come la nostra Fondazione Agnelli, dove – guarda caso – l’ex ministro Valeria Fedeli siede nel Cda. Queste centrali sono già sintonizzate sull’Agenda Onu 2030, un concentrato di filosofie mondialiste. Di cui il Global compact on education, il grande evento che si svolgerà in Vaticano il prossimo 15 ottobre sarà la summa teologica. In quell’occasione verrà sottoscritto un patto educativo globale in vista di un nuovo umanesimo. Non a caso la stessa identica espressione usata da Conte nel discorso d’insediamento del governo giallorosso».

 

La Verità, 1 agosto 2020