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«Da Giuda a Curon, la vita e il cinema sono horror»

Ho appena finito di vedere Curon: bella cupa.

«Anch’io vi leggo, La Verità è un giornale diverso e molto vivo. Un po’ come una biscia».

Ecco Luca Lionello: visione, originalità, inclinazione pulp. Faccia e temperamento perfetti per una serie gotica come quella di Netflix, ambientata sul lago di Resia (Val Venosta, Alto Adige), dove il campanile che sbuca dall’acqua crea un set naturale: inquietante come l’immagine scelta da lui per descrivere La Verità, e che considera un complimento: «Aldilà del simbolo del serpente, la biscia ha colori fluorescenti e sorprendenti, che in natura non si trovano. E poi è imprevedibile… Insomma, oggi è il mio pomeriggio fortunato».

Cos’altro lo fa essere tale?

«È una bella giornata e di sicuro ci sarà un bel tramonto romano. Colleziono tramonti, con delle fotine…».

Per Instagram, come tanti?

«No. Sono un modesto studioso di quello che accade nel cielo. Potrei parlarle della qualità della luce, anche il cinema è fatto di luce e cambia da film a film. Ma non vorrei tediarla. Diciamo che sono un contadino delle nuvole… Potrei definirmi così».

Parlare con Luca Lionello, figlio di Oreste, icona del Bagaglino e sublime doppiatore di Charlie Chaplin, Marty Feldman e Woody Allen, è come avventurarsi su un sentiero di montagna, con quel fremito d’incognito che si mescola all’euforia della scoperta. Sposato, padre di Maja e Ori, nomi con una storia lunga così, Lionello è un attore estraneo ai circuiti della cinematografia mainstream: il Giuda Iscariota interpretato in The Passion di Mel Gibson è un eloquente biglietto da visita.

Chi è Thomas, il padre pieno di ombre che interpreta in Curon?

«Dovrei avere una risposta pronta, invece mi sento di dire che non lo so chi è. Ha una personalità forte e una psicologia definita e, aldilà dell’horror o del fantasy, compie azioni terribili».

Addirittura.

«Diciamo sconvolgenti. Sembra un mascalzone solitario, ma fa tutto per un bene supremo, come dicono all’Onu. Però gli voglio molto bene».

Curon è una meditazione sul doppio, con due gemelli rovesci della stessa medaglia. È anche una riflessione sulla scelta tra bene e male?

«La metafora la tratteggia la professoressa quando racconta la leggenda per la quale in ognuno di noi c’è un lupo buono e un lupo malvagio. Noi diamo da mangiare a quello buono, ma a volte ci sbagliamo perché le cose non sono come ci appaiono. Ovvero, la vita è una tragedia e non sempre sappiamo come prenderla. A Curon le ombre si inseguono perché questo lago è misterioso».

Aldilà delle citazioni di Stephen King, l’hotel con un solo inquilino, il ruolo dei ragazzi e la loro passeggiata nel bosco che ricorda Stand by me, è una storia lugubre e sinistra.

«Il campanile fa pensare a qualcosa che non quadra perché il suo posto sembra sbagliato. In realtà, è l’acqua che non dovrebbe stare lì (una diga costruita 70 anni fa creò il lago artificiale che sommerse il paese di Curon ndr). Ai ragazzi è affidato un ruolo salvifico, ma poco dopo la scena del bosco si profila la tragedia. Le storie che s’intrecciano hanno regole precise».

Una di queste è che la religiosità sconfina nella superstizione? Anche i componenti della famiglia con le pareti di casa tappezzate di crocifissi hanno tutti un lato oscuro.

«È una sensazione reale che mi ha ricordato quei film western nei quali c’è sempre il cappellano con la Bibbia in mano che dice messa nella casetta di legno. È la coperta suprema che serve a velare tutto. Il crocifisso non è un simbolo di allegria. Nella serie è un alfabeto che fa da sfondo, come nei boschi di quelle valli punteggiate da edicole votive e crocifissi che rappresentano una cultura molto presente».

Il sacro è un mistero che a Curon inclina al gotico?

«Sì, anche se non mancano le sorprese. Alfred Hitchcock dice che se mostri un fucile poi quello deve sparare. Invece il fucile che ho sempre in mano io non spara un colpo perché il mio personaggio è strano e ci sarebbe molto da raccontare».

Materia per la seconda stagione?

«Queste cose le decide il pubblico. Da quello che so è stato un bel successo e sarebbe un peccato lasciare tanta gente delusa».

Com’è stato interpretare Giuda in The Passion di Mel Gibson?

«Potremmo scrivere dei libri. Finora non ne ho quasi mai parlato… Una mattina, mentre ero fuori con il mio cane, mi chiama un’agente di una delle maggiori società di casting del mondo. Aveva visto L’italiano, un film del 2002 nel quale recitavo una piccola parte. Voleva delle informazioni. Qualche tempo dopo mi richiama per dirmi che presto avrei dovuto incontrare un regista importante per un film molto ambizioso».

E lei?

«Sono scappato da Roma e mi sono rifugiato a Frattura vecchia, il paesino terremotato dell’Abruzzo dove avevamo girato L’italiano».

Finalmente arrivò il provino…

«Avvenne in una chiesa romana del 1100, un luogo buio, ornato di affreschi medievali. Gibson vedeva attori da tre anni. A me chiese solo se avevo altri impegni in vista, perché voleva esser sicuro che fossi a sua disposizione. Più che un contratto, era una comunione d’intenti senza una data di fine lavorazione».

Recitare in The Passion è stata un’esperienza irripetibile?

«Per un attore Giuda è più stimolante di Amleto. Che Dio mi perdoni, è persino più interessante che interpretare Gesù. Per volere di Gibson spesso Jim Caviezel indossava il mio naso. Il regista aveva fatto un calco perché Gesù e Giuda avessero lo stesso profilo e nel buio del Getsemani potessero confondersi».

Conferma che Gibson volle che una delle mani che inchiodano il Nazareno alla croce fosse sua?

«Confermo. The Passion è stato qualcosa più di un film. Flagellare Gesù per un paio di mesi, il tempo per girare quella scena, ti rimane dentro. Ti trovi in una realtà che se non la vedi rimane letteraria. Nella vita la sofferenza non la reggiamo, poi se entri in un ospedale ti accorgi che la realtà è complicata. Alla fine, la vita è un horror».

Non sempre, dai. Cos’altro è successo sul set?

«In questi giorni che si è ricordato Alberto Sordi mi è venuto in mente che Gibson volle ricostruire il Getsemani nello Studio 5 di Cinecittà. Per dare la luce giusta si usava un lenzuolo bianco, ma un giorno al direttore della fotografia qualcosa non quadrava perché ci avevano scritto sopra: <Grazie Alberto>. Era morto Sordi e qualcuno lo salutava a quel modo. Appreso il fatto, Gibson interruppe le riprese e mandò tutti a casa: “Oggi state con Alberto”, disse».

Ha mantenuto i rapporti con lui?

«È l’unica persona che conosco alla quale non rompo le scatole. Ogni tanto si leggono indiscrezioni sul seguito di quel film. Dovrebbe riguardare la resurrezione».

Qual è stato il lascito più importante di suo padre?

«Innanzitutto il cognome, che non è poco. È stato il mio primo maestro, mi ha lasciato libero di scegliere perché era molto intelligente e si è fidato della mia responsabilità».

Il doppiaggio è scuola d’arte o di artigianato?

«Il doppiaggio è il cavallo di Troia e bisogna avere molta cura, perché t’insuffla un’altra cultura e tu ne sei conquistato».

Quale altra cultura?

«Quella italica. Una certa difficoltà dell’inglese in Italia è figlia del doppiaggio».

Che cosa s’impara, l’immedesimazione nell’altro, a non essere egocentrici?

«Il doppiaggio è una grande palestra. Si impara a ottenere un risultato, come ci arrivi non ha importanza. Però bisogna raggiungere la meta con qualsiasi mezzo».

Quale meta?

«Essere credibili. Quando recito parto sempre dal concetto di concerto e uso il mio strumento come un pianoforte: nel doppiaggio è la voce, nel cinema il corpo».

I doppiatori sono figli del cinema americano, del Piano Marshall e di una pensata di Giulio Andreotti, sottosegretario di Alcide De Gasperi?

«Sì. Il Piano Marshall per l’Italia contemplava anche 300 film americani all’anno doppiati in italiano. Siamo ancora qui da allora».

Quando suo padre impersonò proprio Andreotti al Bagaglino il cerchio si chiuse?

«Fu una nemesi, come si dice in questi casi».

Dopo Curon a quale progetto sta lavorando?

«Alla regia di una storia di animazione che ha a che fare con l’esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi. È tratta da Il volo delle foglie, il primo romanzo di Fabio Teriaca, un chiropratico con la passione dell’arte e della letteratura. L’animazione è un mondo molto complesso e sofisticato, ma anche un luogo di grande libertà».

Per uno che interpreta ruoli come i suoi che cos’è la paura vera?

«La paura è un allarme esterno come il dolore è un allarme interno. Perciò dobbiamo tenercela cara. Anche perché, essendo un sentimento ancestrale, se cerchi di gestirlo perdi solo tempo. Non è un interruttore che accendi e spegni».

Le piacevano i balconi canterini e gli slogan tipo «andrà tutto bene»?

«Assolutamente no. Però qualcosa si doveva fare, non dico un esorcismo collettivo… Nessuno ci aveva insegnato a gestire situazioni così. Anch’io mi sono affacciato a battere le mani, ma mi piaceva di più la città silente».

Un soggetto perfetto per una serie tv o un film?

«Una sorpresa nella tragedia. Perché alla fine ci siamo resi conto che non c’era da salvare il mondo, ma l’uomo. Se continuiamo a buttare plastica nel mare ci rimane un quarto d’ora di vita. Il pianeta resta, noi siamo di passaggio. Sordi diceva che a Roma si deve camminare in punta di piedi e chiedendo permesso per non violentarla».

In un momento così la politica ha mostrato la giusta attenzione verso il mondo dell’arte?

«La politica è stata la prima a rimanere spiazzata. Anche un bambino avrebbe capito che non bastava chiudere solo i voli diretti dalla Cina. Se non ci fossero stati gli attori, le cose sarebbero andate peggio. L’attore fa compagnia perché racconta delle storie. È un mestiere che tende al sacro perché consola e aiuta a condividere. Senza le storie che ci arrivano dall’arte, dal cinema, anche da internet la situazione sarebbe stata ancora più drammatica. Invece gli italiani si sono dimostrati meravigliosi».

Gli italiani come popolo, più dei politici?

«Certo che sì, palla avanti e pedalare. Chi lo sapeva che eravamo così pronti ad assorbire e accettare?».

 

 

La Verità, 27 giugno 2020