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«Minacciato perché tento di difendere l’italiano»

Trasversali, trasversalissimi. Lui, Massimo Arcangeli, e l’appello di cui è promotore. Da raffinato linguista, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Cagliari, critico letterario, fondatore e direttore artistico del Festival della lingua italiana e autore del testo della petizione «Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra» (consultabile su Change.org e sottoscritto tra gli altri da Massimo Cacciari, Edith Bruck, Paolo Flores d’Arcais e Ascanio Celestini), Arcangeli attraversa la geografia politica e mediatica da sinistra a destra senza scomporsi. La voce di Wikipedia che lo riguarda però è un filo datata e tra le collaborazioni giornalistiche che gli attribuisce, oltre alla Stampa, L’Unione sarda e Repubblica, compaiono solo testate di sinistra, alcune defunte: Il Manifesto, L’Unità e Liberazione. «Andrebbe aggiornata perché sono anche blogger per Il Fatto quotidiano e Il Post e collaboro con Il Messaggero, Il Giornale e Libero».

A che punto è la vostra petizione contro l’adozione della o dello schwa nella lingua italiana… A proposito, che articolo va usato?

«Un paio d’ore fa eravamo a 18.500 firme, ma le adesioni continuano a crescere. Quanto all’articolo che dovrebbe accompagnare la schwa dovrebbe essere la elle con la e rovesciata: lə».

Un rebus trovarla sulla tastiera.

«In alcuni dispositivi di ultimissima generazione, pochi, si trova. Ma poi c’è il problema del plurale, i gli le, che si scrive l3».

Formalismo contro buon senso?

«E moltiplicazione dell’inutile. Perché bisogna distinguere anche la fonetica: questi segni o simboli dovrebbero essere pronunciabili e distinguibili. Lo schwa semplice per il singolare deve differire dallo schwa lungo per il plurale».

Roba da logopedisti.

«Circolano podcast che istruiscono sulla pronuncia».

Da cosa è nata l’idea, qualcosa di preciso vi ha fatto rompere gli indugi?

«Ci pensavo da quando, nel giugno scorso, ho letto sull’Espresso un articolo di Michela Murgia contro Giorgia Meloni scritto interamente con lo schwa. La desinenza neutra, finora rimasta nell’ambito dei social, approdava all’informazione tradizionale. Di recente ero tornato sull’argomento con un post su Facebook quando lo storico Angelo D’Orsi, mi ha proposto di lanciare una petizione».

Lo scopo è impedire l’adozione di formule linguistiche arbitrarie in documenti ufficiali?

«Bloccare la possibilità di una qualsiasi commissione pubblica di adottare questo tipo di segni grafici».

C’è un caso preciso che contestate?

«In sei verbali concorsuali per la funzione di professore universitario una commissione del Miur (ministero Istruzione università e ricerca ndr) è ricorsa all’uso di decine di schwa normale o lungo. È un pericolosissimo precedente che non si può lasciar passare sotto silenzio. La petizione obbligherà il ministero a risponderne».

Finora avete avuto qualche replica?

«Aspettiamo di raggiungere 20.000 firme prima di presentarla. Se sarà accolta quegli atti saranno dichiarati nulli. La legislazione in materia è molto complessa. Speriamo si arrivi a stabilire che non si può scrivere un verbale di un atto pubblico in questo modo».

Segnali dal ministero?

«Solo Maurizio Decastri, un componente della commissione ha scritto un articolo sul sito del Corriere attribuendosi goffamente la responsabilità dell’iniziativa. In realtà, non è il presidente della commissione, ma un semplice membro».

Perché è così importante il caso di questa commissione del Miur? In fondo è un fatto isolato…

«Il fatto grave è che s’intende adottare queste formule per evitare l’uso del maschile sovraesteso e sostituirlo con l’uso del femminile. Però, anziché scrivere i candidati e le candidate, oppure gli autori e le autrici, si ricorre allo schwa. Se passa questo precedente, chiunque può sentirsi autorizzato ad applicare queste formule anche a prescindere dall’esistenza di identità non binarie».

Qual è la sua conclusione?

«La commissione che, guidata dal presidente, ha optato collegialmente per l’adozione di queste espressioni lo ha fatto con un intento politico che nulla a che fare con la lingua, allo scopo di modificarla sostituendo l’esigenza di pochi alla necessità di molti di poter leggere un atto pubblico in italiano. Questo è bene ricordarlo: non si tratta di una circolare interna, ma di un atto pubblico».

Qual è la «pericolosa deriva» che citate nella petizione?

«Proprio il fatto che, in nome di una minoranza, al di là del merito e della necessità di difendere le identità di genere non binarie, si possa modificare una norma linguistica consolidata alterandone le espressioni. Non si tratta di mere correzioni lessicali, ma di formule che investono le strutture profonde dell’italiano. In una recente intervista al Corriere della Sera un filosofo americano notoriamente non binario pretese che l’intervistatrice rispettasse la sua identità definendolo filosof*. Ma in italiano articoli, verbi, pronomi, aggettivi si accordano con il sostantivo. La conseguenza è un delirio che mina l’intero sistema linguistico».

Come si regolano gli altri Paesi?

«In Francia il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer ha inviato una circolare nella quale, pur incoraggiando l’uso del femminile per le professioni, tipo sindaca o ministra, ha chiesto di evitare il ricorso ad altre formule creative che potrebbero rendere più difficoltoso l’apprendimento della lingua per i dislessici».

Nei paesi anglosassoni?

«Negli Stati uniti e in Gran Bretagna c’è chi insiste per l’adozione del “loro” singolare. La popstar Demi Lovato pretende che le si dia del “loro”. Sul suo esempio, ho intercettato qualche richiesta analoga anche in Italia».

In tempi andati, in presenza di un rapporto di subalternità, si usava dare del voi.

«Anche Dante scriveva “Lo mio maestro”. Ma parliamo di un’altra lingua. Ora in Germania si prova a diffondere una nuova pronuncia. Qualcuno quando si rivolge al proprio collega o colleghi, kollegen o kolleginen, per specificare l’indeterminatezza di genere aggiunge un asterisco dopo la g, pronunciato con un colpo di glottide. Ma siamo alle acrobazie glottologiche».

Per proteggere i diritti della minoranza non binaria si trascurano quelli della minoranza dei dislessici?

«E di altre componenti neurotipiche, come i disgrafici. Più si aumentano i segni più si rende difficoltosa la lettura e la scrittura per queste categorie. In che proporzione ancora non si sa, in quanto mancano studi in materia».

Tra i sottoscrittori ci sono nomi sorprendenti…

«C’è stata un’adesione trasversale, anche di molte donne come Edith Bruck, Barbara De Rossi e Cristina Comencini».

Perché?

«Perché questi usi vanno anche contro le donne. Il neutro inclusivo voluto dagli schwaisti di vocaboli come direttore o pittore o lettore richiede la e capovolta al posto di direttrice, pittrice, lettrice, espressioni femminili che sono frutto di secoli di battaglie sociali e culturali».

L’adesione è trasversale anche a dispetto di chi ritiene che la difesa dell’italiano sia patrimonio di pericolosi reazionari?

«C’è una trasversalità anche politica. Angelo D’Orsi che ha sempre militato nella sinistra estrema, è stato l’ispiratore della petizione. Forse anche i vecchi comunisti sono diventati improvvisamente reazionari. A dispetto dei fautori dello schwa che vorrebbero politicizzare il dibattito, stiamo parlando di italiano e di norme linguistiche, non dell’adesione a una presunta ideologia».

Non a caso i più sensibili sono i linguisti.

«Hanno aderito i più insigni a livello nazionale come Francesco Sabatini, Luca Serianni, il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini».

Qual è stata la reazione dei media?

«In Italia, a parte Repubblica tutti i quotidiani se ne sono occupati. In Germania ne ha scritto Die Tagespost e in Gran Bretagna il Times e il Telegraph hanno rilevato che l’intellighenzia italiana si oppone allo schwa».

La reazione della minoranza in questione qual è stata?

«Abbiamo avuto critiche feroci. L’università si conferma un ambito corporativo e difende i suoi privilegi. I docenti dicono che siamo reazionari e che la lingua deve modernizzarsi. Ce lo aspettavamo. Abbiamo aperto il vaso di Pandora, finora nessuno aveva avuto il coraggio di esporsi in questo modo».

Michela Murgia?

«Ha riscritto la petizione in modo che apparisse stupida: “L’apericena? No, grazie”. Senza portare argomentazioni di contenuto, perciò non merita attenzione».

Ha ricevuto minacce?

«Mi è arrivato di tutto».

Anche espressioni aggressive?

«È un buon eufemismo. Ho esperienza di dibattiti culturali anche aspri e sapevo di espormi. Ma non immaginavo che si arrivasse al punto che ho constatato, e di cui sto discutendo con i miei avvocati».

Quella che voi chiamate deriva è iniziata con genitore 1 e genitore 2 nei documenti ufficiali?

«Il collegamento è la derivazione dagli eccessi del politicamente corretto. Ma l’impegno per lo schwa è precedente. In un articolo del 2015 Luca Boschetto, un informatico, cominciò a parlare di italiano inclusivo. Poi creò il sito apposito, mettendo in rete le sue proposte. Un altro salto si è verificato con l’articolo della Murgia per L’Espresso già citato».

Come giudica il fatto che al Festival di Sanremo la fluidità sia stata linguaggio dominante.

«Non mi ha sorpreso. Sanremo ha assemblato in modo furbesco tendenze già in atto, inclinando amore, sesso e look nell’accezione della fluidità».

Come giudica i testi delle canzoni?

«Mediamente banali, privi di ricerca espressiva. Me ne occupo da una decina d’anni e dell’ultima edizione salverei i brani di Giovanni Truppi, di Dargen D’Amico e di Fabrizio Moro».

L’anno scorso hanno vinto i Måneskin e ora Mahmood e Blanco: inevitabilmente la fluidità modificherà anche l’italiano?

«È quello che non deve avvenire. Un conto è accompagnare un processo culturale o sociale, un altro brandire la grammatica come un’arma. La lingua ha tempi diversi».

A proposito di tempi, il politicamente corretto, la cancel culture e il linguaggio woke sono il nostro futuro?

«Sono il nostro presente, purtroppo. La cancellazione ci sta privando di Dante, Ovidio, Shakespeare solo per citare i primi nomi che mi vengono. Il dogmatismo intollerante è una deriva molto pericolosa».

 

La Verità, 11 febbraio 2022

«Insegno a scrivere con l’aiuto di Brian Eno»

Giulio Mozzi è nato a Camisano Vicentino nel 1960 e vive a Padova. Dopo il liceo, grazie a un corso per dattilografi, è entrato in Confartigianato. Nel 1989 si è fatto assumere come magazziniere alla Libreria internazionale Cortina. Dal 1993 ha iniziato a tenere corsi di scrittura creativa. In quello stesso anno ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti. Nel 1996 La felicità terrena è finalista al premio Strega. Dal 1997 la scrittura e «attività collegate» diventano la sua professione. È stato consulente di importanti case editrici, da Theoria a Einaudi, attualmente lo è di Marsilio. Ha fondato Vibrisselibri, bollettino di letture e scritture online, creato la Bottega di narrazione e scoperto o consacrato alcuni tra i maggiori talenti narrativi degli ultimi anni (tra loro Tullio Avoledo, Leonardo Colombati, Vitaliano Trevisan). Su YouTube si trovano sue lezioni e bizzarri video come Tutta la verità su Giulio Mozzi, 90 secondi in cui scorrono avvertenze e titoli di coda senza che si veda un’immagine o si legga una nota biografica.

Siccome a volte risponde con un’altra domanda, intervistarlo è un gioco enigmistico, una caccia al tesoro con tante retromarce. Come lo è la lettura di Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, sagace saggio, appena pubblicato da Sonzogno, sull’arte della narrazione, e composto da 200 massime stampate in grassetto sulla pagina di destra e brevemente spiegate su quella di sinistra.

Perché il suo libro non ha le pagine numerate?

«Perché sarebbe stato brutto da vedere. Il suo modello non sono altri libri, ma un mazzo di carte».

Com’è nata l’idea?

«Un giorno, sul treno diretto a Venezia per andare in Marsilio, riflettevo sul fatto che per le mie lezioni uso le Strategie oblique di Brian Eno e Il piccolo libro delle risposte di Carol Bolt. Sono curiosi manuali i cui suggerimenti, anche se non immediatamente utili, fanno pensare. Perché non fare qualcosa del genere per la letteratura di narrazione? mi son detto. In casa editrice Patricia Chendi mi ha subito incoraggiato. La sera a casa, in un’unica sessione di lavoro, ho buttato giù 170 pagine di massime».

Senza sbirciare le Strategie oblique?

«Tutt’altro. Per coerenza, ho pescato dal mazzo e mi è uscita questa carta: “Preparazione lenta… esecuzione veloce”. La mia preparazione sono 25 anni di scuola di scrittura e le massime sono uscite in poche ore. Quanto più sono “vuote”, tanto più sono versatili. Il segreto è nel fatto che il lettore si accosta con atteggiamento confidente a un gioco che mette in moto l’immaginazione».

L’Oracolo manuale serve per incoraggiare o per dissuadere alla scrittura?

«Serve per mettere alla prova. Poi è il lettore, potenziale scrittore, a decidere».

Non sono troppi gli scrittori o aspiranti tali in circolazione?

«Qual è il criterio per determinarlo? L’incremento nel numero dei lettori e degli scriventi è una conseguenza dell’alfabetizzazione universale. Se qualcuno pensa che sia un male sono problemi suoi».

Ci sono quasi più scrittori che lettori in Italia.

«Li ha contati? Se no, è una supposizione priva di sostanza».

Ha sostanza il fatto che pile di libri restino intonsi negli scaffali e che l’Italia abbia un indice di lettura tra i più bassi d’Europa?

«Sono problemi dell’industria editoriale non degli scrittori».

Quanti vivono davvero di scrittura?

«Non conosco le dichiarazioni dei redditi dei miei colleghi. Tanti vivono di attività connesse, io per primo. Non è scritto da nessuna parte che la scrittura debba essere una professione di cui campare. Ha senso che lo sia per i giallisti, gli autori di noir o di fantascienza, per altri generi ce l’ha di meno».

Le scuole creano scrittori d’allevamento?

«Bisognerebbe prendere un po’ di libri scritti da persone passate per le scuole e vedere se è davvero così».

Secondo lei?

«Non lo so perché è un lavoro che non ho fatto. Si dovrebbero considerare i libri scritti, non solo quelli pubblicati, perché su questi interviene il lavoro degli editori».

Ho condiviso un tweet che diceva: «Sono l’unica persona che conosco che non ha scritto un libro e non si è fatta un tatuaggio»: meglio un brutto libro scritto in meno e un bel libro letto in più?

«Il fatto che ci siano i divorziati non significa che sia insensato innamorarsi. Quanta gente ogni giorno cucina per sé, per la famiglia, per gli ospiti senza essere uno chef? Togliamo alla scrittura l’aurea che l’avvolge, è una cosa normale come cucinare o fare due chiacchiere al bar. Dopo di che ogni scritto avrà la circolazione che si merita. L’industria deve selezionare e pubblicare opere belle o di successo per pagare gli stipendi. Meglio ancora se sono sia belle che di successo».

Come le venne l’idea di creare una scuola di scrittura nel 1993?

«Me lo chiesero quelli del circolo Arci Lanterna magica, non ci avevo pensato io. Sono il rampollo di una famiglia colta, ho sempre parlato italiano e scritto bene. A scuola la principale differenza tra chi scriveva bene e chi male era il reddito, ma gli insegnanti dicevano che la scrittura è un dono, c’è chi ce l’ha e chi no».

Invece, non è un dono?

«Sì, della cultura di famiglia e del reddito. Sono figlio di biologi, non di letterati. Siccome la scuola ha abdicato a questo compito, bisognava che qualcuno se lo assumesse. Da quando ho iniziato a insegnare le cose sono cambiate e anche la scuola è tornata a preoccuparsi della scrittura».

Quanto sono determinanti le radici e il posto in cui si nasce?

«Mi ricordo bambino, seduto sul tappeto del salotto di casa a Sottomarina di Chioggia. I miei genitori leggevano il Corriere della Sera, Epoca e Grazia, mio fratello maggiore il Corriere dei piccoli, mia sorella Michelino e io Miao. La televisione arrivò tardi, ascoltavamo molta musica e la mia aspirazione era crescere per cominciare a leggere Michelino, poi il Corriere dei piccoli…».

Come scopre talenti letterari?

«Le racconto un aneddoto. Il 30 aprile 1988 lavoravo ancora in Confartigianato ed ero a Roma per un convegno. Un pomeriggio libero entro in una libreria e m’incuriosisce un libriccino di poesia: l’autrice è romana ed è nata nel 1970, perciò ha pubblicato quei versi a 17 anni. Vado alla Sip per consultare la guida telefonica trovando che in città solo otto persone hanno il suo cognome. Dopo un’ora sto bevendo il caffè offerto dalla madre. Lei rincasa poco dopo, è stata dalla parrucchiera per prepararsi al diciottesimo compleanno per il quale la zia le ha regalato quella pubblicazione da un editore a pagamento. All’inizio è diffidente davanti a un estraneo piombato in casa… Ma da lì comincia un rapporto epistolare che dura tuttora, migliaia di lettere. Lei è Laura Pugno, poetessa e scrittrice entrata nella cinquina del Campiello e direttrice dell’Istituto di cultura italiana di Madrid. Queste vicende mi appagano».

Perché?

«Perché quando leggo qualcosa di bello mi appassiono e cerco di stabilire un rapporto. Non mi sono mai particolarmente emozionato per la pubblicazione dei miei libri, ma la prima volta che ne ho preso in mano uno che avevo patrocinato mi sono fatto un pianto».

Cosa intendeva dire quando, intervistato da Pangea, ha confessato che la sua migliore qualità «è aver smesso di scrivere»?

«I giocatori d’azzardo più abili sono quelli che sanno fermarsi al momento giusto. Negli anni precedenti avevo pubblicato molti racconti e mi sembrava di aver finito. Così mi sono cimentato con altri generi».

Come in 10 buoni motivi per essere cattolici?

«Sì. Dopo una conversazione con una persona che, pur professandosi cattolica praticante, sosteneva che la Chiesa non annunciava la resurrezione della carne, con Valter Binaghi – già autore di Re nudo, convertito e grande amico – abbiamo deciso di scrivere questo libello. Avevamo realizzato che il cristianesimo è la religione più sconosciuta d’Italia».

Coraggiosi, chissà che reazioni.

«Un po’ di rumore e qualche discussione con Michela Murgia».

I romanzi che restano nascono da una tecnica o da esperienze forti, conflitti, solitudini, ossessioni?

«Rispondo a una domanda che non mi ha fatto: la tecnica è insegnabile e può essere oggetto di un’attività didattica, tutto il resto è educabile e può essere oggetto di una pedagogia».

La pedagogia c’entra con l’essere, la didattica con l’esercizio.

«Il lettore di romanzi dà credito a una storia che sa essere inventata. L’autore di romanzi dà credito a una storia che inventa o almeno trasfigura».

Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell’italiano?

«Ogni lingua evolve. La natura sintetica della lingua italiana è stata stabilita attraverso atti di governo. Mentre constatiamo che c’è un’osmosi interessante tra italiano e dialetto, la capacità di assorbire le lingue di chi viene in Italia – romeni, albanesi, asiatici – è piuttosto ridotta».

In compenso, grazie alla tecnologia e alla pubblicità, ormai parliamo tutti l’italenglish.

«Che nell’italiano entrino parole di altre lingue non è né un bene né un male, ma un dato di fatto. Poi c’è il gusto personale, per il quale io stesso tendo a sfrondare – francesismo – certi neologismi di uso comune e di scarsa efficacia. Ma non si possono fare leggi per impedire l’uso di parole straniere. Alessandro Manzoni parlava in milanese e in francese, ma la lingua in cui scriveva era un’altra. Possiamo accusarlo di aver contribuito alla distruzione del lombardo perché scriveva in una lingua inventata da lui con influssi di fiorentino?».

Quali sono gli ultimi grandi romanzi italiani?

«Direi Il quinto evangelio di Mario Pomilio, da poco ripubblicato, Tanto gentile e tanto onesta di Gaia Servadio, primo romanzo postmoderno scritto in Italia, e La messa dell’uomo disarmato di Luisito Bianchi, romanzo resistenziale teologico di 800 pagine. Li prediligo per l’innovazione formale e per la potenza della storia. Sono estranei al canone novecentesco, ma questo non è un problema mio».

 

La Verità, 28 aprile 2019