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«Inter, Milan e Juve in pole Pochi talenti? La Figc…»

Anche quest’anno Sandro Piccinini sarà il telecronista di Prime Video per la Champions League, rinnovata a 36 squadre. Insieme a Massimo Ambrosini commenterà la miglior partita del mercoledì in un appuntamento che, con la folta squadra di inviati e talent, si propone sempre più di qualità. Per concentrarsi totalmente sull’evento, l’ex conduttore e telecronista Mediaset ha rinunciato anche alla collaborazione con Rds Radio Serie A. Ma visto che oggi, con Genoa-Inter e Milan-Torino, parte il campionato, qui parliamo soprattutto di cose italiane.
Sandro Piccinini, qual è la tua griglia scudetto?
«Al momento, metterei Inter, Milan e Juve in prima fascia. Poi Napoli, Atalanta, Roma e Fiorentina, mentre il Bologna mi sembra un po’ in difficoltà».
L’Inter privilegerà la Champions e il Mondiale per club?
«Non credo. Il primo obiettivo rimane il campionato. La Champions non è un traguardo da fissare adesso. Troppe incognite legate a sorteggi, infortuni e calendari. Se non sei il Real Madrid cominci a pensarci in primavera».
L’Inter ha preso Taremi e Zielinski, ma i titolari sono quelli dell’anno scorso: rischi?
«Sì, non è facile ripetersi. Su Chalanoglu e Lautaro Martinez non ho dubbi, qualcuno ce l’ho sul fatto che si confermi Thuram… L’Inter non è giovanissima; i ricambi ci sono, ma un paio di rinforzi di qualità servirebbero. Scarseggiano i soldi, servono le idee».
A Giuseppe Marotta non mancano.
«Ma non sempre si indovina, l’anno che sbagli due acquisti sei in difficoltà. L’Inter ha confermato le sue colonne e il nuovo proprietario, Oaktree, ha brillantemente risolto il nodo del rinnovo di Lautaro Martinez».
Considerato lo scarto dell’anno scorso, tra le rivali chi si è avvicinata di più?
«Potenzialmente, il Milan. Mi pare che Ibrahimovic cominci a incidere come dirigente. Gli acquisti sono mirati, giocatori utili nelle zone in cui c’era bisogno. Morata è una buona idea. Vedo una squadra equilibrata, con più fisico e più ordine».
La Juventus vuol fare la rivoluzione passando dal gioco speculativo di Massimiliano Allegri a quello liquido di Thiago Motta. Quanto tempo avrà a disposizione, ricordando i precedenti di Maurizio Sarri e Andrea Pirlo?
«È il duo John Elkann Cristiano Giuntoli ad aver voluto la rivoluzione. Sarri era un’idea del solo Andrea Agnelli, ma i giocatori non la condividevano. Stavolta si cambia anche metà della rosa. Le rivoluzioni hanno bisogno di tempo, ma Elkann e Giuntoli lo sanno. A essere impazienti saranno i tifosi, soprattutto i nostalgici di Allegri».
Il rischio è notevole, considerando la lista dei giocatori messi fuori rosa?
«Quando si inizia una transizione così impegnativa la pazienza è indispensabile. Non è che da domani la Juventus giocherà come il Bologna».
L’acquisto di Koopmeiners aiuterà?
«È fondamentale, ma parliamo di grosse cifre. Non sarà facile per la Juventus vendere i giocatori che ha messo sul mercato».
Il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, contesta spesso l’irregolarità del campionato perché si concede l’iscrizione a club con bilanci discutibili, leggi Juventus, ma poi gli vende puntualmente gli elementi migliori, l’ultimo è Nico Gonzalez.

«Chiamiamola realpolitik. Comisso fa gli interessi della Fiorentina. Se vuole monetizzare vendendo un giocatore e l’offerta migliore la fa la Juve, cosa dovrebbe fare?».
Il presidente della Figc Gabriele Gravina dice che i club devono rispettare le regole, ma all’estero le norme prevedono dure sanzioni per chi le viola. Perché in Italia non è così?
«È chiaro che se ci fossero stati controlli severi alcune società non sarebbero incorse nei problemi che hanno avuto. È evidente che, con tutto il rispetto della Covisoc (la commissione che verifica l’equilibrio economico e finanziario delle società ndr), qualcosa è sfuggita».
Bisogna correre ai ripari?
«Si deve. Se si guarda al monte ingaggi e ai bilanci degli ultimi due anni, molte società hanno cambiato comportamento. L’epoca dell’ingaggio di Cristiano Ronaldo è finita, lo conferma anche questa campagna acquisti. L’Atalanta e il Bologna hanno fatto da modelli».
Con la nuova Champions League e il nuovo Mondiale per club previsto a giungo, le squadre più titolate giocheranno più di 60 partite: troppe?
«Sia la nuova Champions che il nuovo Mondiale per club servono a portare soldi alle casse delle società. Ma questo non deve indurle ad avere rose di 40 giocatori. Si può vendere l’anima al diavolo, ma fino a un certo punto. Anche perché a rimetterci sono gli stessi giocatori. All’inizio della scorsa stagione c’era un Bellingham strepitoso che nella fase finale della Champions e agli Europei non si è visto. Pensiamoci: il calcio deve rimanere uno spettacolo per il pubblico, ma tutti dovrebbero essere disposti a guadagnare un po’ meno. Se guadagnano 10 milioni l’anno invece di 12, i giocatori possono accontentarsi».
Il campionato a 18 squadre aiuterebbe?
«Sarebbe un primo passo, ma da quanto ne parliamo?».
A Napoli altra rivoluzione con Antonio Conte?
«Aurelio De Laurentiis l’aveva già fatta qualche anno fa quando pensò di risolvere tutto chiamando Carlo Ancelotti. Poi, però, la campagna acquisti fu deludente. Conte si è già lamentato… Ha grande autostima, ma sa che gli servono giocatori adeguati al progetto. Non basta certo Lukaku… Se con i soldi della vendita di Osimhen arrivano quattro giocatori in linea con le sue richieste, il Napoli può cambiare faccia».
L’Atalanta vista con il Real Madrid è pronta per lo scudetto o si accontenterà di qualificarsi alla Champions?
«Oltre alle idee, adesso l’Atalanta ha i soldi arrivati dai successi nelle coppe. Lo si è visto dalla rapidità con cui ha preso Retegui dal Genoa e Brescianini dal Frosinone. Credo debba convincersi di essere pronta per il vertice, senza disperdere troppe energie nelle varie competizioni».
Quante chance dai alla Roma di Daniele De Rossi, Soulé e Dybala?
«Difficile che Dybala rimanga, troppo alto quell’ingaggio per 20 partite l’anno. Con Tiago Pinto, la Roma si era affidata al carisma di José Mourinho, salvo poi allontanarlo dicendo che la squadra era da Champions. Ora, però, la stanno smantellando… Il nuovo direttore sportivo, Florent Ghisolfi, dimostra di avere buone idee. Ha preso Dobvik, il capocannoniere del campionato spagnolo, Soulé dalla Juventus e Le Fèe dal Rennes. Sono contento per De Rossi perché si sta attrezzando una squadra all’altezza delle ambizioni che merita».
Perché nella formazione titolare del Milan rischiano di non esserci italiani?
«Non ci vedo una filosofia, ma affari più convenienti. Quando i giovani italiani di Milan Futuro saranno pronti giocheranno».
La prestazione della Nazionale agli Europei ha evidenziato una grave carenza di talenti, per esempio a confronto con la Spagna: cosa deve cambiare nel nostro calcio?

«Dobbiamo fare due ragionamenti. Il primo riguarda la Federazione e la gestione delle scuole calcio sul territorio nazionale. In Germania ci sono 400 centri federali che vanno alla ricerca capillare dei ragazzini migliori. Da noi il reclutamento è approssimativo e l’accesso al calcio selettivo. Non tutte le famiglie possono permettersi 500 600 euro l’anno per iscrizione, scarpe, divise e allenamenti tre volte la settimana… Né si può accollare tutto alle società, che sono soggetti privati. La Federazione come spende i suoi fondi? Se non interviene a questo livello, molti talenti, magari figli di immigrati, resteranno a giocare nel cortiletto».
Il secondo ragionamento?
«Riguarda la Nazionale. Spagna a parte, nettamente più forte, abbiamo giocato male con tutti e siamo stati dominati dalla Svizzera che, certamente, non ha un calcio migliore del nostro. Premettendo che Luciano Spalletti è un grande allenatore, qualcosa non ha funzionato tra lui e la squadra, o sul piano umano o sul piano delle indicazioni tattiche. Non è che ci ha eliminato il Brasile».
Un anno fa la spesa degli emiri aveva spaventato molti addetti ai lavori, oggi ci sono meno timori?

«Era spaventato chi non capiva che quel mercato portava incassi e risolveva parecchi problemi. Purtroppo, è una risorsa che durerà poco perché gli emiri cominciano a capire che da loro il calcio non crescerà più di tanto; per motivi storici, di territorio e climatici. E anche per una certa influenza delle donne: considerate le condizioni di vita locali, mogli e fidanzate non vogliono sentir parlare di Arabia».
Invece l’ex Ct Roberto Mancini giusto un anno fa seguì il richiamo dei petrodollari.
«Come nel caso di Dybala, parliamo di giocatori e allenatori che hanno avuto tutto dal calcio europeo e vanno monetizzare a fine carriera. Sarebbe diverso se parlassimo di Bellingham o Thiago Motta. Mancini ha approfittato del nome che si è fatto e dei privilegi concessi dalla Federazione, compreso l’ampio staff di collaboratori. Pur riconoscendo la priorità del mercato, quella scelta non mi piacque, penso che Mancini avrebbe dovuto avvertire Gravina».
Poteva essere il momento giusto anche per le dimissioni del presidente della Figc? Come prevedi andranno le elezioni del 4 novembre?
«Se si fosse dimesso subito dopo Mancini sarebbe sembrata una fuga di massa. Mi pare che, in quel contesto, Gravina si sia mosso bene, sorpreso dalla scelta egoistica dell’ex Ct. Però, dopo il fallimento di questi Europei, che segue le due mancate qualificazioni mondiali, sì: dovrebbe trarne le conseguenze. Credo sia questione di tempo. Non sarà facile trovare l’alternativa».
La stampa sportiva è troppo militante?
«Spesso si sa prima cosa scriveranno i giornali perché seguono le inclinazioni dei tifosi. Poi c’è anche un motivo economico. Siccome le vendite calano, si taglia la qualità e, per far quadrare i conti, si inseguono i social e i siti schierati per agganciare i tifosi più accesi. Con il risultato che, a volte, la testata storica scrive più o meno la stessa cosa del blog più becero».
Che cosa vuol dire che Massimiliano Allegri, Stefano Pioli e Maurizio Sarri sono ai box?
«È un discorso generazionale ed economico. Molti presidenti cercano allenatori giovani e meno costosi. Una volta il vecchio guru era più ricercato. Ma non si può mai dire, magari domani Allegri trova un grosso club all’estero… Poi c’è un rinnovamento in atto, portato da tecnici inclini a sperimentare. Spesso si dimentica che il calcio dovrebbe essere uno spettacolo, altrimenti il telespettatore guarda gli highlights perché l’intera partita annoia».
Un nome rivelazione di questa stagione?
«Per ora direi Soulé: in una grande può fare il salto di qualità definitivo».

 

La Verità, 17 agosto 2024

Quella volta che Gigi Riva disse no anche a me

Una decina d’anni fa, quando Gigi Riva era prossimo alla settantina, provai a intervistarlo per Rivista Undici di Giuseppe de Bellis. Lui mi ascoltò, ma declinò garbatamente, ribadendo la sua ritrosia in favore di quelle priorità che ne confermavano la statura. Da quel breve dialogo ricavai un ritratto per il sito di Rivista Studio che, forse, ha ancora qualche senso, oggi che ne piangiamo la morte.

Non leggeremo lunghe interviste a Gigi Riva in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 7 novembre. No: dovremo arrangiarci con quello che sappiamo e ricordiamo di lui, leggendario Rombo di Tuono. Raramente un soprannome è stato così aderente alla realtà e insieme così evocativo come quello coniato da Gianni Brera dopo Inter-Cagliari 1-3, 25 ottobre 1970, doppietta di Luigi Riva da Leggiuno, Varese. Quell’anno Gigi giocava con lo scudetto sulla maglia appena conquistato, l’unico mai vinto dal Cagliari. Nella squadra allenata da Manlio Scopigno, fumatore più accanito di lui e perciò tollerante, c’erano anche Albertosi, Cera, Domenghini, Gori: un concentrato di baldanza, applicazione, sacrificio e tecnica. Rombo di Tuono era un’immagine calzante, l’iperbole perfetta per descrivere la sua esuberanza fisica, la potenza del tiro da fermo e in corsa, la coordinazione nelle rovesciate, l’imperiosità dello stacco aereo, lo sconquasso che provocava irrompendo nelle aree affollate. Lo sapevano bene gli stopper (non «i centrali»)… Rosato, Castano, Burgnich. Giocavano con una scimmia sulle spalle. Dov’è Gigi? Da dove sbuca?

Riva è stato uno dei più grandi attaccanti di sempre del calcio italiano. Tuttora titolare del record di gol segnati in Nazionale, 35 in sole 42 partite, disputate nel corso di una carriera costellata di infortuni e interrotta dopo l’ennesimo, a soli 31 anni, durante Cagliari-Milan (1-3). Era il febbraio 1976. Il solito Brera gli dedicò una sorta di coccodrillo sportivo, un tributo innamorato. «Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Sei anni prima, in quel famoso 1970, oltre allo scudetto e alla classifica dei capocannonieri, vinta anche nel ’68 e nel ’69, aveva conquistato il secondo posto al Mondiale messicano – sconfitta in finale dal Brasile dopo la storica vittoria sulla Germania – e il terzo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro Gerd Müller e Bobby Moore. L’anno prima invece aveva sfiorato il successo, superato di soli quattro voti da Gianni Rivera, primo italiano a vincerlo.

Un grande attaccante, dunque. Sicuramente il migliore a difendere la propria vita privata. Non leggeremo mega interviste. Niente celebrazioni. Niente monumenti. «No, guardi. Hanno cominciato a telefonarmi già qualche settimana fa… I maggiori quotidiani. Anche dall’estero, giornali francesi inglesi. E le radio…». La voce ha sempre quel timbro metallico che, abbinato al volto scavato solido prominente, ti spiazza quel tanto da costringerti ad ascoltare. Il carisma di una persona è fatto di tante piccole cose. Un tono di voce, lo sguardo, il parlare dosato, una garbata ma decisa ritrosia. «Ho detto di no a tutti, per non far torto a nessuno. Avrei dovuto passare ore al telefono». Non si è ammorbidito nemmeno davanti ai miei accenni personali: quell’Italia-Germania, prima partita vista a notte fonda, questioni di fuso, al fianco di mio padre, suo grande ammiratore.

Il no ai grandi giornali e alle televisioni di oggi riporta alla mente il gran rifiuto degli anni d’oro, quando Inter Milan e soprattuto Juventus tentarono in tutti i modi di accaparrarselo. Puntuale il tormentone arrivava come una malattia estiva da calciomercato. All’epoca negarsi alla Juve era praticamente impossibile. Incomprensibile. Cocciuto, quel Riva. Cocciuto e strano. «Quando giocavamo in trasferta, a Milano, a Torino, ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord». Erano pullman di tifosi che arrivavano dalla Germania o dall’Olanda, «nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio». La Costa Smeralda non esisteva, l’Aga Khan non aveva ancora trasformato l’isola in una meta di moda. «E noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Come potevo andarmene?». Così, come un «Bartleby, lo scrivano» del calcio, Gigi pronunciò il più definitivo dei suoi «preferirei di no». Era un uomo del nord che aveva scelto la Sardegna come terra d’elezione. Terra schiva, ombrosa e leale come lui.

Essere Gigi Riva non è il mestiere più facile del mondo. Non lo è da sempre. Quando il padre Ugo muore, 1953, Luigi ha nove anni. La mamma Edis lavora in una filanda e fa le pulizie per arrotondare. Ma le rinunce sono tante. A cominciare dalla spensieratezza. Gigi viene mandato in collegio dai preti, a Viggiù, a Varese, anche a Milano. Scappa più volte. Non sopportava «il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». Direttori e presidi convocano la madre perché si riprenda quel ragazzo refrattario all’obbedienza, allergico allo studio, introverso, nostalgico dei boschi, degli amici e delle partite all’aria aperta.

Un altro no lo pronuncia a 16 anni, finalmente uscito dal collegio, quando i dirigenti del Laveno voglio acquistarlo dal Leggiuno. All’ultimo momento si sono fatti avanti i padroni del Varese, serie B, allenato da Ettore Puricelli, che oltre a un posto in fabbrica gli promettono un motorino. Ma è tardi, le donne di casa, la madre e Fausta, una delle tre sorelle, si oppongono e Gigi finisce al Laveno. Poi al Legnano, dal quale, nell’intervallo di Italia-Spagna juniores che si disputa all’Olimpico, il presidente Arricca lo acquista per 37 milioni, soffiandolo a Dall’Ara, patron del Bologna. È il 13 marzo 1963, il Cagliari milita in serie B e l’anno prima, ultima di una serie di disgrazie, se n’è andata anche la mamma, stroncata da un cancro. Il giorno del funerale, 5 luglio 1962, l’unica sorella sana rimasta è in ospedale a partorire. Così, men che diciottenne, tocca a Gigi accompagnare da solo il feretro al camposanto.

Nel decennio di grandi cambiamenti che inizia e che contagia anche il calcio, Riva è l’espressione di una forma di ribellione atipica, introversa. Non ha il tratto eccentrico e beat di Luigi Meroni, un comasco trapiantato a Torino, pittore e artista dandy, morto tragicamente in un incidente stradale. Né il carattere antisistema di Gianni Rivera, un piemontese integrato a Milano, leader della contestazione di regole e gerarchie sclerotizzate. La sua è una ribellione esistenziale, trattenuta, taciturna. Che affonda in quell’adolescenza di dolori e rinunce. E Cagliari è il posto giusto dove macerare quella ribellione orgogliosa che si sposa col temperamento schivo, ma solido e terragno di quei posti. Qualche anno dopo quello scudetto, Albertosi, Domenghini, Cera se ne vanno uno alla volta, chi al Milan, chi alla Roma, chi altrove. Se ne va anche Scopigno. Lui resta: «Mi piaceva la gente, mi piaceva la terra; potevi fare il primo bagno già ad aprile, andare a pesca, a funghi in campagna, non c’era lo stress della grande città né la noia e i pettegolezzi della provincia».

Nel 2001, in un’intervista al Giornale all’interno di una serie in cui alcune personalità svelavano il loro «film della vita», Riva raccontò del Dottor Zivago con Julie Christie. «Era un film in cui c’era tutto, vale a dire bravi attori, bei costumi, belle scene, una storia che ti prendeva. Un altro elemento era la natura. Come accompagnatore della Nazionale sono stato spessissimo nell’ex Unione Sovietica. Nei prossimi mesi andremo in Ucraina, in Lettonia, in Estonia… Lì gli spazi, le distanze, i paesaggi sono un qualcosa che ti lascia senza fiato. Aggiunga alla natura Julie Christie e il cerchio si chiude, è perfetto. Lei non era soltanto una brava attrice e una bella donna, era molto di più». La Nazionale l’ha abbandonata poco più di un anno fa con due parole: «Sono stanco». Le trasferte gli costavano, gli acciacchi lo limitavano, non voleva fare «il dirigente che zoppica». E poi c’era lo stress, la tensione di stare a bordo campo, il Lexotan per mantenere la calma. Anche ai tempi del Cagliari era così. Se era squalificato, la domenica pomeriggio, anziché andare in tribuna saliva in auto e andava a farsi un giro a Costa Rei. Poi s’informava sul risultato. Allo stadio continua a non andarci. Legge i quotidiani, il Corriere, la Gazzetta, l’Unione Sarda. Guarda la partita il giorno dopo. Frequenta qualche amico. Tutte le sere cena da Giacomo, «che ha un ristorante di pesce, ma a me fa il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia». Prandelli aveva provato più volte a convincerlo a tornare nello staff della Nazionale. Ci fosse stato lui a parlare con Balotelli e Cassano magari qualcosa sarebbe andata diversamente. Di sicuro la gestione del disastro. In quell’intervista sul cinema raccontò che tra gli attori prediligeva Clint Eastwood: «Parla poco e non ti delude». Il suo ritratto. Il ritratto di gente più che mai indispensabile al calcio di oggi. Raccontò anche che non andava più al cinema da quando avevano vietato fumare nelle sale. Perciò, ora, ero curioso di sapere quante sigarette fuma. E quanto gli manca Gianni Brera. Ma lui ha preferito di no: «Festeggerò con i miei figli», ha detto gentile. »È la cosa che m’interessa di più».

 

Rivista Studio, 6 novembre 2014

«Vedo sempre Napoli, sirene arabe per Mancini»

Maurizio Pistocchi, volto storico dello sport di Mediaset, posta sui social video di spiagge da sogno che scatenano l’invidia di chi lo segue. Calette sarde, da dove, in attesa della ripresa del campionato, si gode gli ultimi giorni di vacanza e il successo di vendite di Juventopoli. Scudetti falsati & altre storie poco edificanti (Piemme), il libro che ha scritto con Paolo Ziliani, collega del Fatto quotidiano con il quale ha a lungo collaborato nei programmi della tv commerciale.

Pistocchi, che cosa sta succedendo nel calcio?

«Il calcio italiano è nella stessa situazione del Paese: senza risorse e senza idee».

I petrodollari si stanno comprando tutto?

«La Saudi league fa quello che facevamo noi negli anni Novanta, quando i migliori calciatori venivano in Italia non perché avessimo il campionato migliore del mondo, ma perché avevamo i soldi. Lo stesso si può dire della Premier league di adesso. I calciatori vanno dove sono pagati meglio e di più».

Cinquant’anni fa il calcio ha scoperto l’America e poi la via della Cina: che cos’ha di diverso il vento d’Arabia?

«Arriva da un Paese ricchissimo che ha investito in tutti i business più importanti del pianeta. Saudi Aramco, promotore della Saudi league, possiede più di 500 miliardi di dollari e un progetto di sviluppo sia della Lega calcistica che dell’intero Paese. È un progetto molto ambizioso, in vista dell’organizzazione dei Mondiali».

Ostacoli sul percorso?

«Certamente si scontrerà con tanti pregiudizi. Nonostante le offerte ultramilionarie, molti giocatori hanno declinato l’invito a causa di un ambiente che limita le abitudini dei calciatori occidentali. Le mogli, spesso protagoniste dello star system, non si sentono a proprio agio in un Paese in cui la donna ha un ruolo diverso».

È stupito che il segno della croce con cui Cristiano Ronaldo ha festeggiato il gol che ha qualificato la sua squadra alla finale della Champions non abbia causato contestazioni?

«Ronaldo è stato scelto come front-man di tutta la Lega, perciò non mi aspetto limitazioni ai suoi comportamenti. Se gliele imponessero se ne andrebbe. Credo abbia chiarito fin dall’inizio le sue libertà».

Fino all’anno scorso l’Arabia attraeva giocatori a fine carriera, come mai ci sono andati Koulibaly, Milinkovic Savic o Kessie?

«Gli ingaggi sono di gran lunga più alti. Finora nella Saudi league sono stati investiti 600 milioni di euro, ma per una realtà così ricca sono briciole. Se Mohammad bin Salman vuole costruire una Lega tecnicamente forte e seguita dal grande pubblico questa strada è giusta solo in parte. Servono scuole e centri di istruzione dove i migliori allenatori del mondo possano insegnare calcio. Sono partiti dall’alto, chiamando giocatori già affermati, ma perché non resti un fatto episodico adesso devono costruire le fondamenta».

Di fronte a una realtà così potente è romanticismo difendere storia e identità dei club?

«Sarebbe bello che in un mondo dove la valutazione professionale delle persone è determinata dal denaro il calcio si distinguesse. Le storie alla Gigi Riva o alla Giacinto Facchetti non esistono più. L’ultimo dei mohicani è stato Francesco Totti. Alcuni anni fa, quando passò dal Barcellona al Real Madrid, Luis Figo fu soprannominato pesetero, da peseta. Oggi sono tutti peseteros».

Che cosa pensa del caso Lukaku?

«Penso che si stia esagerando. Nel mondo, tutti i giorni, centinaia di professionisti lasciano un team o un ufficio per guadagnare di più o perché non si sentono valorizzati. Lukaku ha diritto di andare a giocare dove crede. Dopo che si è esposto con dichiarazioni smentite dai fatti, potrà spiegare il perché oppure no. Penso che la sua volontà sia stata determinata dalla gestione di Simone Inzaghi: se uno è un giocatore davvero fondamentale non lo si tiene in panchina nella partita più importante della stagione».

Quanto influiscono in queste decisioni i procuratori?

«I procuratori guadagnano dai trasferimenti dei giocatori, ma chi decide sono sempre i giocatori. A volte sono le società a spingere per le cessioni perché servono a sistemare i conti. Il calciatore può rifiutarsi, con il rischio di produrre una frattura difficilmente sanabile».

Zlatan Ibrahimovic che ha giocato in tutti i club europei più titolati non ha mai vinto la Champions league.

«Ibrahimovic è un campione straordinario, ma individualista. Il povero Mino Raiola ha fatto un grande lavoro per valorizzarlo, fin dai tempi dell’Ajax. Ma nel calcio il talento dev’essere funzionale alla squadra. Messi e Ronaldo si mettono a disposizione della squadra, Ibrahimovic è enorme per forza fisica e tecnica, ma la squadra dev’essere al suo servizio».

Cosa pensa della cessione al Newcastle di Sandro Tonali che doveva essere il perno del Milan del futuro?

«È una di quelle situazioni un po’ obbligate nelle quali il club caldeggia l’affare per finanziare parte della ricostruzione. Il Milan sta allestendo una squadra molto interessante, con giocatori di talento come Reijnders, Loftus-Cheek e Chukwueze. Vedremo se Pioli saprà darle un’identità e renderla protagonista dopo la delusione dell’anno scorso».

E dell’Inter che ha acquistato Cuadrado, il più inviso degli avversari?

«Cuadrado è uno dei giocatori più forti della Juventus degli ultimi cinque anni. Credo che sul piano tecnico sia un’operazione ottima. Però parliamo di un calciatore che ha avuto comportamenti poco sportivi. Sta a lui essere intelligente e togliersi di dosso la fama di simulatore e provocatore».

Il caso Lukaku, la cessione di Tonali e l’acquisto di Cuadrado: questo calcio procede a dispetto dei tifosi?

«Il tifoso oggi non può più essere quello degli anni Ottanta o Novanta. Oggi si tifa la maglia, la squadra, lasciando perdere se possibile l’aspetto affettivo del rapporto con i giocatori».

C’è troppo poca considerazione dei tifosi nel sistema calcio?

«I tifosi sono come il parco buoi della Borsa. Pagano gli abbonamenti allo stadio e alle tv e acquistano il merchandising. Invece si dovrebbero inserire nell’azionariato delle società come ha fatto il Bayern Monaco».

Si aspettava che fossero giudicati diversamente i comportamenti che con Paolo Ziliani raccontate in Juventopoli?

«Sì. Con Paolo, professionista che stimo da molti anni, abbiamo fatto un gran lavoro. Mi auguravo che una volta tanto la legge fosse davvero “uguale per tutti”. Perché il Chievo è sparito, invece in questo caso sono state fatte valutazioni diverse? Detto ciò, rispetto i verdetti e credo nel superiore interesse della giustizia. Ma chi legge il nostro libro si renderà conto che quanto è successo quest’anno ha avuto un epilogo per certi versi sconcertante».

Siccome la Juventus è il vero potere forte della Serie A si finisce sempre per condonarla?

«Quest’anno c’è in ballo il rinnovo dei contratti tv. Essendo gli juventini in maggioranza tra i tifosi, lo sono anche tra gli abbonati di Sky e Dazn e tra i lettori dei giornali. Sono una quota irrinunciabile. Tanto più considerando che il nostro calcio, con un fatturato di 4 miliardi e debiti per 6, dovrebbe portare i libri in tribunale. Rinnovare i diritti tv in un momento così spaventava al punto che le varie offerte sono state secretate e saranno svelate solo a ottobre. Questa situazione è stata la premessa per giungere a una sentenza politica».

La Juventus ha un bilancio in rosso ma, per fare un esempio, dopo aver bocciato Arthur, Paredes, Zakaria e McKennie ora Allegri vuole Amrabat.

«L’allenatore dovrebbe essere un manager che, come in tutte le aziende, non può licenziare a destra e a manca senza ottenere risultati».

Cosa pensa dell’informazione sportiva italiana?

«Di informazione vera e propria se ne fa poca e si contribuisce molto poco alla crescita della cultura sportiva del Paese».

Perché Luciano Spalletti si è fermato dopo aver vinto lo scudetto?

«Per la mancanza di feeling con Aurelio De Laurentiis e per il timore di deludere i tifosi. A Napoli è particolarmente difficile vincere, l’ultima volta era accaduto con Diego Armando Maradona. Molti segnali facevano pensare che la squadra non si sarebbe rinforzata. Spalletti ha fatto qualcosa di straordinario, penso che alla fine abbia fatto la scelta giusta».

Carlo Ancelotti fa bene ad andare ad allenare il Brasile?

«Ad Ancelotti, persona fantastica e grandissimo allenatore, manca vincere con una nazionale. Il Brasile spesso non ha vinto perché ha interpretato alcune competizioni in maniera goliardica. Ma ricordiamoci che è pentacampeão, ha vinto più di tutti. Vedo bene Ancelotti alla guida di una nazionale che pratica un calcio giocato con allegria e divertimento».

La convince di più Stefano Pioli o Simone Inzaghi?

«Nessuno dei due».

Chi la convince?

«Maurizio Sarri, Luciano Spalletti, Roberto De Zerbi, Davide Ballardini».

Cosa pensa delle difficoltà delle nostre nazionali?

«Molti anni fa Roberto Baggio preparò un progetto che voleva riqualificare tecnicamente il calcio italiano partendo dai centri di formazione come quelli attivi in Germania e in Francia. Quella relazione giace nel cassetto dei presidenti federali che si sono succeduti da allora. Si sa che le rifondazioni mettono in discussione posizioni consolidate. Perciò si continua a vivere di improvvisazioni».

Pochi giorni fa sono stati ampliati i poteri di Roberto Mancini.

«Mancini ha dovuto lavorare in una situazione di grande difficoltà. Basta considerare che, a parte Immobile, la classifica dei cannonieri è tutta composta da calciatori stranieri. Non abbiamo più attaccanti di livello mondiale come ai tempi di Vieri, Inzaghi, Totti, Del Piero e Luca Toni. Fonti ben informate mi assicurano che per Mancini sia pronto un contratto molto danaroso nella solita Arabia».

Le piace Gianluigi Buffon capo delegazione?

«Siamo passati da Gigi Riva a Gianluca Vialli a Buffon, che è stato un grandissimo portiere. Non altrettanto si può dire di lui sul piano etico e comportamentale».

Cosa pensa di squadre come il Milan o l’Atalanta con uno o due calciatori italiani?

«È triste, ma è la conseguenza di una situazione generalizzata. Una volta la Juventus dava sei o sette giocatori alla Nazionale, oggi ha un portiere polacco, tre difensori brasiliani e solo due calciatori italiani, Chiesa e Locatelli».

La sua griglia per lo scudetto?

«È composta dal Napoli, dal Milan che ha preso giocatori interessanti, dall’Inter che è forte ma per me gioca con un sistema che la limita, dalla Juve che si può concentrare sul campionato. Questa è la mia griglia, con il Napoli un gradino sopra se tiene Osimhen».

 

La Verità, 12 agosto 2023

Perché «Er gol de Turone» non va mai in archivio

Lui, Maurizio «Ramon» Turone, il suo gol non l’aveva mai rivisto in questi 40 anni e più. Per non acuire la percezione netta dei romanisti di essere stati defraudati di una rete valida e della probabile conquista dello scudetto, stagione 1980-81, invece andato alla Juventus. Lo ha fatto in occasione di Er gol de Turone era bono, documentario di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet, presentato alla Festa del cinema di Roma e riproposto domenica su Rai 1 (ora su Raiplay). È domenica 10 maggio 1981, dopo un intero campionato a rivaleggiare, al Comunale di Torino si gioca Juventus-Roma, ultima occasione della squadra di Paulo Roberto Falcao e allenata da Nils Liedhom di scavalcare la Juventus di Zoff, Gentile, Cabrini… con Giovanni Trapattoni in panchina, al momento avanti di un punto. I bianconeri sono ridotti in dieci per l’espulsione di Beppe Furino quando, al 27° del secondo tempo, Turone insacca su imbeccata di Roberto Pruzzo. L’arbitro Paolo Bergamo convalida la rete, ma il guardalinee Giuliano Sancini tiene la bandierina alta per il fuorigioco.

Attraverso le testimonianze dei protagonisti, gli juventini Cesare Prandelli e Andrea Marocchino, i romanisti Falcao, Pruzzo e Conti, i ricordi di Enrico Vanzina e Paolo Calabresi, tifosi della Roma, dei giornalisti sportivi, compreso Gianni Minà che intervista Giulio Andreotti, il documentario, inclinato da parte romanista, presenta il «cold case» del calcio italiano. In realtà, sebbene ci fossero già stati segnali di direzioni arbitrali discutibili, tipo quelle di Concetto Lo Bello, il gol di Turone è il peccato originale, la matrice di una serie di episodi successivi in partite decisive per l’assegnazione del titolo, tutti dello stesso segno (dal rigore negato all’Inter per il fallo dello juventino Juliano su Ronaldo, al gol non visto di Muntari in un Milan Juventus, fino alla mancata espulsione di Pjanic in un altro Inter Juventus). È questo il motivo per cui quell’annullamento non sarà mai acqua passata. All’epoca non c’era il Var, unica tecnologia che avrebbe potuto redimere quel peccato originale (non ancora come s’è visto di recente i falli di mano). C’erano solo i suoi antenati, la moviola di Carlo Sassi e il Telebeam di Giorgio Martino, significativamente di opinioni opposte. Era un altro calcio, con altre strumentazioni. Tuttavia, una continuità rimane, ben espressa da Luca Beatrice: «La Juventus ha vinto negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta… sempre. Le altre vittorie sono anomalie». Al quale, con sagacia irriducibile, ribatte Gian Paolo Ormezzano: «I gol segnati alla Juve sono sempre buoni».

 

La Verità, 31 marzo 2023

«Al nostro calcio malato serve la cura Armstrong»

Sarebbe il leader perfetto del Paj, Partito anti Juventus. Che lui correggerebbe in Pcp, Partito calcio pulito. Un partito che ha un certo seguito tra le tifoserie, un po’ meno sui media ufficiali che, pur con mille, giuste prudenze, ci informano sull’inchiesta che la Procura di Torino ha aperto sui bilanci della Juventus football club. Gag a parte, Paolo Ziliani è il massimo fustigatore del malcostume (juventino) nel gioco più amato dagli italiani. Laureato in psicologia a Padova, inizia come giornalista al Guerin sportivo, passa al Giorno, dov’è autore di un’esilarante rubrica sui cronisti di Novantesimo minuto. Infine approda a Mediaset. Attualmente collabora con il Fatto quotidiano, vive buona parte dell’anno a Cascais, in Portogallo, e nel 2020 ha pubblicato Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli (Indiscreto), un libro che aveva previsto molte delle accuse di cui si legge in questi giorni.

Ziliani, lei è il giornalista sportivo meno stupito del mondo?

«Potrei rispondere di sì, per farmi bello, ma direi una bugia. Salvo pochi casi clinici, 99 giornalisti sportivi su 100 sanno perfettamente cos’è successo e cosa succede nel calcio italiano. Semplicemente, di norma preferiscono raccontare Alice nel paese delle meraviglie».

Che cosa aveva previsto di ciò che sta accadendo alla Juventus?

«Io non prevedevo: osservavo e scrivevo. Senza prove, perché non sono un magistrato e non posso intercettare, perquisire, mettere cimici. Ma faccio un esempio. Oggi i pm torinesi contestano alla Juventus la galassia di “club amici”, parola di Arrivabene, come Sampdoria, Sassuolo, Atalanta, Empoli, Udinese che colludono con la Juventus in giochi di mercato spericolati e altro. Bene. Nel luglio 2020 scrivevo per il Fatto quotidiano di Audero acquisto più costoso della storia della Samp, di Mandragora acquisto record per l’Udinese, di Sturaro per il Genoa, di Zaza per il Sassuolo, di Orsolini per il Bologna, di Cerri per il Cagliari. Tutti giovani pagati alla Juventus come fuoriclasse. Di pezzi-denuncia come questo ne ho scritti cento».

Tra plusvalenze fasulle, manovre occulta-stipendi e scritture private, come quella di Cristiano Ronaldo, quali sono i reati più gravi?

«Tutti. Quelli finanziari perché la Juventus, truccando sistematicamente i bilanci, ha falsato ogni stagione il principio dell’equa competizione. Agnelli comprava chi voleva, Higuain, Ronaldo, De Ligt, Vlahovic, mentre la concorrenza cedeva i campioni senza poterli sostituire; e i reati etici, imperdonabili. Per dire, Fabio Paratici faceva la campagna acquisti per la Juventus, ma condizionava anche quella di Atalanta, Sassuolo e altri club. Chiedo: c’è uno scudetto pulito nei nove vinti dalla Juventus dal 2012 al 2020?».

Il peccato originale di questa seconda inchiesta è stato l’acquisto fuori misura di CR7?

«Direi che l’operazione Ronaldo, che tra ammortamento e stipendio costava 81 milioni a stagione, ha portato tutti alla disperazione anche perché la squadra giocava male e naufragava regolarmente in Champions, il sogno a occhi aperti di Agnelli. Ma era scandaloso tutto, Alex Sandro che guadagna 6 milioni, Arthur che ne guadagna 7».

Come funziona la carta privata di Ronaldo, che adesso chiede il pagamento di quasi 20 milioni?

«Nel marzo 2020, in pieno Covid, la Juventus raccontò la balla dei giocatori che rinunciavano a quattro mensilità per un risparmio a bilancio di 90 milioni. Ma non era vero, tre stipendi sarebbero stati pagati poi a fari spenti, fuori bilancio. La manovra venne ripetuta anche l’anno dopo e quando Ronaldo nell’agosto 2021 se ne andò era creditore di 19,9 milioni. Della carta-Ronaldo hanno parlato con terrore alcuni dirigenti intercettati; ora il portoghese è venuto allo scoperto chiedendo il pagamento pattuito. Quello che ieri era il messia della Juventus, oggi potrebbe essere colui che le dà il colpo di grazia».

John Elkann sapeva, come scrive Dagospia, o ha fatto dimettere il Cda per evitare gli arresti al cugino Andrea Agnelli?

«Elkann sapeva e gli andava bene tutto, perché quelli della Real Casa pensano solo ai propri interessi. Ha però sottovalutato il delirio di onnipotenza che si è impossessato del cugino Andrea facendolo uscire di senno. Il senso d’impunità tipico di quella stirpe ha fatto il resto. Ora Andrea Agnelli è stato buttato a mare».

Cosa le fa pensare la citazione di Nietzsche usata dall’ex presidente: «E quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non potevano sentire la musica»?

«Siamo alla patologia; non per niente i magistrati parlano di “contesto criminale di allarmante gravità”. Con Agnelli sono avvenute cose immonde: la ’ndrangheta che gestisce la curva, il tifoso-collaboratore finito giù da un ponte in piena inchiesta, gli striscioni su Superga introdotti allo stadio, l’esame farsa di Luis Suárez, l’idea abortita della Superlega con tradimento dei 245 club dell’Eca da lui presieduta, l’orrido scandalo di oggi. Una danza macabra».

De Ligt e De Sciglio hanno confermato l’esistenza dell’accordo per il rinvio degli stipendi. De Sciglio potrà giocare ancora nella Juventus?

«Non glielo auguro. La tifoseria, quella che in piena Calciopoli ringraziava Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Roberto Bettega con lo striscione “Il fine giustifica i mezzi: grazie Triade”, ha già iniziato a linciarlo al grido di infame, sbirro e traditore. Spero che il ragazzo possa andarsene a giocare altrove, per il suo bene».

In Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli denuncia il comportamento compiacente dei media italiani. È iniziato con l’arrivo di CR7 in Italia o viene da più lontano?

«Comportamento compiacente è un eufemismo. Nel libro cito a piene mani, a centinaia, esercitazioni di adulazione e servilismo – capolavori nel genere – da far impallidire l’Istituto Luce. I media italiani nei tre anni di Ronaldo sono stati, come da sempre, disgustosi».

C’è connivenza anche da parte di altri organismi e istituzioni?

«Si potrebbe chiedersi se ci sono Paesi in cui scudetti e titoli sono ricordati col nome di un arbitro piuttosto che di un campione. Non ci sono. Noi abbiamo invece gli scudetti di Bergamo, Ceccarini, Tagliavento, Orsato, le Champions di Calvarese, le Supercoppe di Mazzoleni, sempre con la Juventus protagonista e beneficiata. Una combinazione che ha dell’incredibile».

Il 26 ottobre del 2021 lei ha postato una foto su Twitter con sua moglie e suo figlio e ha smesso di cinguettare fino a pochi giorni fa: cos’era successo?

«È una ferita grande: difficile parlarne. Diciamo che la parte marcia del mondo del calcio, dopo avermi portato in tribunale una dozzina di volte, allenatori, dirigenti, arbitri, giocatori, capi Ufficio Inchieste eccetera, ha pensato bene di scatenare sulla mia famiglia la più classica delle shitstorm, infamità che niente avevano a che fare con la mia sfera professionale. Barbarie pura».

Ora ha ripreso l’attività social perché è meno minacciato?

«L’ho ripresa perché oggi stanno emergendo le illegalità e gli scandali che per anni ho denunciato quasi in totale solitudine. Nelle carte di Torino non c’è nulla di cui non abbia scritto. Ora attendo l’esito dei processi fiducioso in quello penale, meno in quello sportivo della giustizia Fjgc, come l’ho ribattezzata dopo il caso Suarez, e ho riaperto il libro. Ultimo capitolo, poi lo chiuderò».

Che lei sappia, anche altri colleghi sono stati monitorati?

«Ho lavorato a Mediaset con Maurizio Pistocchi e lui è stato un altro bersaglio di questo calcio in cui i giornalisti liberi hanno vita difficile».

La sua crociata anti Juventus è una monomania?

«Nel 1983 lavoravo al Giorno di Milano una mia inchiesta, in coppia col collega Claudio Pea, sulla partita combinata Genoa-Inter 2-3, diede vita all’apertura di un’inchiesta penale a Genova, magistrato Roberto Fucigna, sulle scommesse clandestine fatte da tesserati sul pareggio poi saltato e a un’inchiesta sportiva. Per salvare dalla B per illecito Inter e Genoa la Figc introdusse per l’occasione la formula dell’assoluzione per insufficienza di prove non contemplata dall’ordinamento sportivo. L’Italia aveva appena vinto il Mundial ’82, ci ho scritto un libro – Non si fanno queste cose a 5 minuti dalla fine – mi permetto di dire: da leggere. Non ce l’ho con gli juventini, ma con i disonesti».

Se la Juventus è la punta dell’iceberg vuol dire che se si tocca la società torinese cade tutto il sistema?

«Se la Juventus viene punita, ma punita davvero, il sistema del calcio italiano rinasce. Oggi facciamo pena, per non dire schifo, al mondo».

Il fatto che ci siano altri club coinvolti è la conferma che il sistema calcio fatica a reggersi sulle proprie gambe?

«I club coinvolti sono quelli che gravitano nella galassia juventina. La fatica a reggersi sulle proprie gambe è solo di chi non è capace di amministrare i propri conti. Per esempio, oltre alla Juventus, il Barcellona, guarda caso due club che vogliono la Superlega. Il Bayern Monaco, al contrario, benissimo amministrato e vincente in Europa, chiude i bilanci in attivo da  29 anni».

Che cosa rischia la Juventus?

«Di andare fuori dall’Europa per un paio di anni. In quanto a noi, sarebbe importante radiare Agnelli e Paratici e far ripartire la Juventus dalla serie D. Se poi la famiglia Agnelli liberasse il club dalla sua morsa secolare, allora potremmo davvero parlare di rinascita del club».

Il modello di giustizia sportiva cui rifarsi sono i sette Tour de France tolti a Lance Armstrong perché vinti da dopato?

«Sì, ma non succederà».

Sapeva che Zdenek Zeman era tifoso juventino?

«Sì. E soprattutto che è un uomo onesto».

Lei vive molti mesi dell’anno a Cascais: com’è il mondiale del Portogallo visto dal Portogallo?

«È dai tempi di Eusebio che non c’era una fioritura di campioni come oggi. I portoghesi sono un popolo umile: i loro idoli giocano all’estero e ritrovarli insieme in nazionale a un mondiale per loro è una festa. Comunque vada».

E quello di Cristiano Ronaldo?

«Di Ronaldo si sono stufati anche qui. È sui giornali più per i suoi abusi edilizi e per le discutibili gesta extra calcio che altro».

Massimiliano Allegri può essere l’uomo della rinascita?

«Assolutamente no. Per lui è bravo chi vince e fesso chi perde. Con questi presupposti non si va da nessuna parte».

Molti tifosi bianconeri staranno patendo: cosa direbbe loro?

«Che all’origine di tutte le disavventure c’è il motto “Vincere è la sola cosa che conta”. Come direbbe Fantozzi, una cagata pazzesca».

 

La Verità, 10 dicembre 2022

«Milan, Inter, Juve? Invece vedo in cima la Roma»

Domanda secca, Ivan Zazzaroni: chi vince lo scudetto?

«La Roma. Lo dico per esclusione, perché sarà una stagione imprevedibile, con 50 giorni d’interruzione».

Però lei dice Roma, perché le piace Mourinho o perché ha fatto una buona campagna acquisti?

«Mi piace molto Mourinho. La Roma ha fatto una buona campagna, ma incompleta, prendendo un paio di ottime pedine. Se vincesse sarebbe miracoloso. Però, ripeto, questa è un’annata strana».

Ivan Zazzaroni, direttore responsabile del Corriere dello Sport-Stadio e del Guerin sportivo, storiche testate del Gruppo Amodei (anche Tuttosport, Autosprint, Motosprint, Auto e In Moto) va controcorrente e i quarant’anni di giornalismo sportivo sulle spalle vengono in aiuto. Se i suoi colleghi pronosticano Inter, Milan o Juventus, lui dice Roma e si vedrà. Conduttore dal 2004 con Fabio Caressa di Deejay Football Club su Radio Deejay, già commentatore di Tiki Taka e, da dopodomani, di Pressing del lunedì su Italia Uno, è apprezzato dal pubblico extrasportivo come giurato di Ballando con le stelle su Rai 1.

Sono settimane di griglie e podi, direttore: campionato anomalo con i Mondiali in mezzo?

«Molto anomalo, perché costringe le squadre a due ritiri diversi. Alcuni giocatori, purtroppo gli  stranieri, torneranno dal Qatar carichi o scarichi in funzione del risultato. Chi avrà disputato semifinali e finale avrà pochi giorni per ripartire. Io sono stato da subito contrario a questo mondiale perché la Fifa si è svenduta, come spesso fa».

Giudizio pesante.

«Si interrompe una stagione per fare un mondiale per ragioni finanziarie, politiche ed elettorali. Come succede con la Coppa d’Africa».

Cioè?

«Si era arrivati alla decisione di giocarla a fine stagione come la Coppa America, ma poi la nuova società di marketing cinese ha imposto la competizione nella stagione migliore per la Cina, cioè in gennaio».

Ha ragione Aurelio De Laurentiis a dire che non prenderà più giocatori africani?

«Totalmente. Un club perde calciatori importanti per due mesi, al netto di possibili infortuni».

Anche per i Mondiali in Qatar hanno prevalso interessi economici e politici?

«Tutti sanno che non è giusto giocare un Mondiale che spezza la stagione. La Fifa per statuto dovrebbe tutelare il calcio e i suoi attori, e invece distrugge questo sport, minandone la regolarità. Falsandolo alla radice. Qatar 2022 si farà – è troppo tardi per fermarlo, troppi i miliardi e gli interessi, troppe
le vittime – non lasciamoci però ingannare dalle campagne moralizzatrici, o dai proclami populisti. Questi signori pensano al potere, “il bene del calcio” non è mai una priorità».

Cosa la fa pensare che l’Italia sia fuori per la seconda volta consecutiva?

«L’impresa è stata vincere gli Europei. È giusto che siamo fuori perché non facciamo nulla per migliorare. Il nostro calcio è alla deriva sia dal punto di vista finanziario che tecnico. Ma temo che continueremo a parlarci addosso».

Spietato.

«Prendiamo quelli che hanno vinto gli Europei un anno fa. Lorenzo Insigne e Federico Bernardeschi sono andati a Toronto, Giorgio Chiellini a Los Angeles, Leonardo Bonucci ha la sua età, Gigio Donnarumma è molto criticato, Domenico Berardi non ha avuto offerte, Ciro Immobile non si muove dalla Lazio».

Responsabilità dei club?

«Ognuno pensa ai cavoli propri, nessuno ha un senso generale del sistema. Chi tenta strade nuove prima o poi viene segato. Sono molto scettico».

Ripartiamo dall’ultimo campionato, contano più le idee dei soldi?

«No. Prima dell’ultimo campionato nessuno si era rinforzato, l’Inter aveva perso Hakimi e Lukaku, la Juventus Cristiano Ronaldo, il Napoli aveva trattenuto giocatori da vendere. Poi, certo, il Milan ha fatto meglio».

Lo scudetto l’ha perso l’Inter?

«Certo. E anche il Napoli con i 6 punti ceduti all’Empoli e la sconfitta in casa con la Fiorentina».

Il Milan ha vinto con i giovani, qualche giocatore carismatico e una politica di risparmi.

«Sicuramente è una strada. Però contestualizziamola in una stagione in cui le altre hanno avuto problemi. La Juventus ha perso i 30 gol di Ronaldo. La Roma non aveva fatto un vero mercato. Il Milan ha mostrato motivazione, spirito di gruppo e qualità in giocatori come Leao e Theo Hernandez».

Cosa vuol dire che l’Inter ha ripreso Lukaku e la Juventus Pogba?

«Lukaku è stata una grande opportunità, mai visto un giocatore venduto a 115 milioni e ripreso per 8 più bonus. La Juve può comprare solo se vende. Lo stesso la Roma che ha preso Dybala a parametro zero».

È il risultato delle politiche degli anni scorsi?

«Delle non politiche… Delle spese folli che hanno creato gravi problemi di bilancio, acuiti dalla pandemia».

La Juventus si è indebolita o rafforzata?

«Indebolita sia numericamente che qualitativamente. Per vincere lo scudetto bisogna fare 75-80 gol. Questa Juve può arrivare a 60, attribuendone 25 a Vlahovic. Dybala e Morata in un stagione grigia ne hanno fatti 19. I nuovi Kostic e Di Maria non so quanti ne garantiranno».

Tornerà Federico Chiesa e c’è Kean.

«Chiesa rientrerà a gennaio. Kean è sul mercato».

A centrocampo Locatelli e Zakaria sono stati aggiunti a McKennie, Rabiot, Arthur, poi ha preso Pogba, ma ora serve anche Paredes: il problema non sarà un altro?

«La Juve insegue il momento. Ha preso Vlahovic e Zakaria a gennaio, spendendo gran parte del budget. È vero che c’è stato l’aumento di capitale di 400 milioni, però se fai operazioni come queste non puoi più spendere a giugno. Infatti, ha preso a zero Pogba e Di Maria per innestare qualità, ma forse senza avere un progetto di lungo respiro».

Il Milan più che spendere investe?

«Sì, continua la politica dei giovani perché i suoi dirigenti sanno quello che vogliono in funzione di quello che hanno. Frederic Massara è uno dei migliori direttori sportivi in circolazione. Giovani ne hanno sbagliati pochi: Tonali, Leao, Theo, Kalulu, Tomori… E se non stai nei loro parametri ti mollano, come si è visto con Donnarumma e Kessie».

Kessie dovrebbe giocare nel Barcellona.

«Se supera i problemi di bilancio. Negli ultimi anni il Barcellona ha preso Coutinho, Dembélé, Griezman, Depay spendendo 500 milioni. Messi percepiva 53 milioni netti a stagione. Il Barcellona è tutelato perché si chiama Barcellona, se si chiamasse Real Saragozza sarebbe già fallito».

È giusto che questi club vogliano la Superlega?

«Il principio non è sbagliato, ma è stato presentato male».

Sarebbe una competizione poco democratica?

«Quando in Italia la Juventus vince 9 campionati di fila, in Spagna vincono sempre Real Madrid e Barcellona, in Portogallo Benfica e Porto, in Gran Bretagna Manchester City o Liverpool, in Francia il Paris Saint-Germain cosa c’è di democratico?».

Ai romantici piacciono storie come l’Atalanta.

«All’interno di campionati antidemocratici ci sono società come l’Atalanta, il Sassuolo, il Chievo di una volta. Ma anche la nuova Super-champions si mangerà i campionati. Gli unici furbi sono gli inglesi perché, con poche eccezioni, i loro soldi rimangono in casa».

Ma la Champions la vince il Real Madrid.

«Il Real ha scoperto dopo alcune partenze di avere grandi giocatori come il Benzema de-ronaldizzato e Vinicius. E ha ritrovato un allenatore come Ancelotti che sa gestire queste situazioni. L’anno scorso, dopo che Allegri si è accordato con la Juve invece di andare a Madrid, Carlo si è proposto a Florentino Pérez e ha vinto Liga, Champions e Supercoppa. A volte i progetti nascono in modo curioso».

Perché i tifosi interisti ce l’hanno con lei?

«Perché il mio giornale ha anticipato i problemi economici, puntualmente confermati, di Steven Zhang. Grazie al lavoro di Alessandro Giudice, il nostro analista finanziario, avevamo informazioni dalla Cina. Ma se sfiori una società subito qualcuno ti accusa di volerla destabilizzare. L’abbiamo talmente destabilizzata che poi l’Inter ha vinto il campionato».

Non la contestano per un modo diverso di sottolineare le sconfitte di Inter e Juve?

«Non mi pare di enfatizzare quelle dell’Inter e minimizzare quelle della Juve. Sono identificato come nemico, leggo certi striscioni… I miei giudizi non sono condizionati dall’ammirazione che nutro per alcune persone».

Chi sono?

«Mourinho, Massimiliano Allegri, Carlo Ancelotti, Sinisa Mihajlovic, Gian Piero Gasperini, Maurizio Sarri e naturalmente Roberto Mancini che è un vincente da 40 anni. Diciamo che ho buoni rapporti con parecchi allenatori. Ma se vincono vincono, se perdono perdono».

La favola del Monza?

«Intanto mi fa piacere perché risiedo a Monza. Galliani è sempre avanti, adesso si è inventato l’obbligo d’acquisto condizionato: se ci salviamo il giocatore resta, se no torna a casa. Dopo aver comprato l’impossibile negli anni Ottanta ha capito che i tempi sono cambiati. Difficile che un giocatore straniero accetti l’acquisto condizionato, perciò hanno preso soprattutto italiani».

Dove arriva?

«Galliani dice che l’obiettivo è il decimo posto, ma in cuor suo punta al sesto. Non è uno da traguardi piccoli».

Molti dicono che Mediaset sia filo-interista come la Gazzetta dello Sport e il Corriere della Sera mentre il gruppo Amodei sarebbe filo-juventino come Sky e che per questo il Milan sarebbe sottovalutato.

«Il Corriere dello Sport non è filo-juventino, ma guarda alle piazze di Roma, Lazio e Napoli. Poi essendoci  Stadio siamo attenti anche a Bologna e Fiorentina. Tuttosport è il giornale di Torino. Non è vero che il Milan è poco considerato, il suo scudetto ha fatto la fortuna della Gazzetta. Le vittorie condizionano le vendite. Quando la Roma ha vinto la Conference League abbiamo venduto 40.000 copie solo nel Lazio».

Il più grande allenatore italiano?

«Ancelotti: per quello che ha vinto, per quello che è e per quello che è rimasto. Carletto è la semplificazione  e l’aristocrazia del calcio. L’anno scorso ha battuto Psg, Chelsea, Liverpool e City. Dopo la finale di Parigi gli hanno chiesto come aveva vinto? E lui: “Il portiere ha parato, il centravanti ha segnato”. Un maestro».

Il più grande giocatore italiano?

«Sono baggista da sempre. In Dybala rivedo un po’ di Roberto».

 

La Verità, 13 agosto 2022

 

«Bravo Mancini, ma non si vince tanto senza bomber»

Dài, fammi le domande». Con l’entusiasmo e la vitalità che lo accompagnano a 83 anni, José Altafini gioca all’attacco anche nelle interviste. «Sto guidando, ma possiamo provare. Aspetta che metto il bluetooth…».

Dove sta andando?

«A Bergamo, per un appuntamento di lavoro. Collaboro con un’azienda che produce campi in erba sintetica».

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l’uomo deve lavorare fino all’ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l’auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po’ di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c’è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride).

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano».

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov’è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l’altra me l’hanno data a Caldonazzo, dov’è nata la nonna materna».

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile».

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l’amore. L’Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l’allegria, la gente affettuosa».

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l’Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l’aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta».

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance».

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent’anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c’erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti».

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L’ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: “Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita”. Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C».

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l’addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L’attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelé e Cruijff».

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri».

S’impose con la ginga, che cos’era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un’invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre».

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c’era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso».

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c’erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan».

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L’altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice».

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori».

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c’è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare».

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell’andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all’età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci».

Ha inventato il golaço.

«L’ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: “Josè, oggi che manuale di calcio usi?”. “Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?”. Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima…».

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori».

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po’ di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: “Scusa ragazzo, dovevo farlo”. La semplicità e la modestia non s’impara sui libri».

Quella semplicità c’è ancora?

«Non c’è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla…».

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani… non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa».

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale di un bomber?

«Il goleador ha l’istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure… Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: “Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?”».

Chi è l’allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi».

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l’Inter è più forte dell’anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa…».

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».

 

La Verità, 20 novembre 2021

«Ecco chi vince la Serie A e i miei giocatori preferiti»

Mario Sconcerti è il commentatore più autorevole di calcio. Lucido, imparziale, con una scrittura molto personale. Qualche settimana fa ha osservato sul Corriere della Sera: «Sul campionato sta ormai pesando l’esame inganno di Suarez. Il giocatore ha confermato la falsità del test, i professori anche. E allora? Sono passati tre mesi. Si può ancora fare finta di niente?». Di mesi ora ne sono passati cinque. Siamo colleghi, parliamo di sport, ci diamo del tu.

Come definiresti il calcio al tempo del Covid?

«È un calcio che ha perso brillantezza, fondamentalmente più lento. Non solo in Italia, dovunque».

Il motivo è l’assenza del pubblico?

«Certamente. Perché il pubblico partecipa, con il suo rumore, avverte i giocatori di cosa succede alle loro spalle, commenta la bravura del gesto».

Si spiegano così i tanti gol in Serie A?

«L’assenza del pubblico alleggerisce i giocatori e favorisce i maggiori errori delle difese. La crescita del numero dei gol è iniziata quando i punti per la vittoria sono diventati tre. Da otto anni superiamo stabilmente i mille gol a campionato. Per ritrovare più di mille gol bisogna risalire agli anni Cinquanta di Gunnar Nordahl».

Ora si è scalato un altro gradino?

«Il salto maggiore è stato subito dopo il lockdown e a inizio campionato. Adesso la media si è assestata, ma sempre su livelli molto alti».

Come spieghi la bagarre tra Antonio Conte e Andrea Agnelli?

«È chiaro che c’è un vissuto alle spalle».

Cioè?

«Le ruggini risalgono al quarto anno alla Juventus, dopo i tre scudetti vinti. Conte iniziò il ritiro estivo, ma poi disse che non se la sentiva di continuare e Agnelli fu costretto a cambiare allenatore. Una società non dimentica facilmente quando viene mollata in corso d’opera».

I temperamenti non aiutano?

«Né Agnelli né Conte sono personaggi facili. In questo caso penso che Conte sia stato provocato durante tutta la partita da qualcuno che stava alle sue spalle, dietro la panchina».

Conte ha chiesto più educazione, merce rara.

«Parole che si dicono a caldo. Nessuno sui campi di calcio è in grado di dare lezioni di educazione a qualcun altro».

Si è fatto tutto quello che si poteva in termini disciplinari?

«Se si poteva fare sarebbe stato fatto. Al massimo si sarebbe trattato di una squalifica di una giornata».

Da una rissa all’altra, ho letto che ti sei divertito a vedere quella tra Zlatan Ibrahimovic e Romelu Lukaku.

«Mi ha divertito lo scontro tra i due giocatori più grossi del campionato. Ero curioso di vedere come andava a finire, sapendo che non poteva succedere niente perché c’erano trenta persone intorno a fermarli».

C’è un’inchiesta della procura della Figc.

«È un’inchiesta d’ufficio, non si può dare quel tipo di spettacolo. Quando parliamo di calcio, dobbiamo ricordarci che si tratta di un’attività basata sui calci. Se qualcuno subisse per strada un intervento in scivolata sporgerebbe denuncia contro l’aggressore. I giocatori di calcio firmano una clausola compromissoria per la quale non possono fare causa per qualcosa che avviene sul terreno di gioco. Poi, ogni situazione ha i propri limiti. Mettersi rabbiosamente testa contro testa è un atto che deve finire lì».

Che cosa pensi del caso Suarez?

«Mi appare straordinario per due motivi. Il primo è la clamorosa ingenuità di campagna commessa dai professori dell’università di Perugia che hanno agito come tifosi. Un’ingenuità riconosciuta perché sono tutti rei confessi. La seconda stranezza è che siano passati sei mesi e nessuno abbia fatto un passo avanti. Mi sembra una vicenda più grossolana che seria, anche se c’è stato un protocollo forzato per diventare cittadini italiani».

Esistono i poteri forti nel calcio?

«Esistono, come da tutte le parti. Quando si identifica la Juventus con i poteri forti del calcio si scambia la sua abitudine a dettare la strada con una forma di potere».

Il confine è sottile.

«Non dobbiamo dimenticarci che la Juventus ha la stessa proprietà da cento anni. Se guardiamo gli altri poteri forti, Milan e Inter hanno cambiato tre presidenti nell’ultimo quinquennio. Cento anni di continuità nell’assetto societario significano continuità di rapporti, di esperienza, di capacità gestione di situazioni delicate. La Juventus ha un patrimonio che la rende oggettivamente più forte di chi continua a cambiare proprietà».

C’è troppo tifo nelle telecronache, nei talk show, nei commenti?

«Il calcio è cambiato quando le partite sono sbarcate in tv. Prima era praticamente clandestino perché tutti potevano vedere solo la propria squadra allo stadio. Più che il tifo è aumentata la competenza del pubblico. Adesso vedi calcio, lo impari e lo confronti, in più hai dei buoni maestri che te lo spiegano. Ora il tifoso sa quando è giusto che la sua squadra perda perché è competente».

Gianni Brera come racconterebbe le squadre multietniche di oggi?

«Per come l’ho conosciuto io, credo sarebbe in difficoltà. Non tanto perché pensava che fossimo noi i veri neri della situazione, in quanto nazione povera…».

Aveva un approccio geoculturale, se non vogliamo dire razziale, basato sulla superiorità atletica del centro e nord Europa…

«Oggi le sue profezie sono confermate, l’Europa è il centro del calcio nel mondo. Siamo i colonizzatori del calcio, abbiamo costretto i giocatori degli altri paesi a venire a imparare da noi. Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia e Italia hanno scolarizzato i giocatori a livello mondiale. Brera sarebbe in difficoltà per un altro motivo».

Quale?

«Penso alla discussione che c’è adesso: dici una cosa e qualcuno dall’altra parte dell’Italia ti contesta. Brera era abituato a parlare da solo, non c’era la rete, non c’erano i social. Oggi è più complicato rimanere autorevoli».

A volte mi perdo qualche tua metafora filosofica. Parlando di Juventus-Inter: «È stato un lungo lasciarsi senza darsi dolore, saltando i dubbi della partita».

«Era una partita segnata dal risultato dell’andata. Quello è il mio modo di scrivere, una scrittura spontanea che può piacere a volte di più a volte di meno. In quella frase c’è più slancio poetico che filosofico. Cerco parole, concetti, modi di ragionare dovunque, perché fuggo dalla gergalità del calcio. Alla fine sono contento di aver trovato un mio linguaggio».

Perché nel 2016 hai lasciato Sky per la Rai?

«Mi sembrava che alla mia età, dopo 14 anni a Sky, due anni in Rai potessero dare qualcosa alla mia storia. Ed è stato così».

Tornando sui poteri forti. Come valuti il fatto che Marcello Nicchi sia presidente degli arbitri dal 2009?

«Considero gli arbitri la parte migliore del calcio. È impossibile che portino avanti un complotto perché sono una lobby nella quale tutti competono. Lo scopo di ognuno di loro è arbitrare la partita più importante. Tra avversari non si allestisce un complotto per favorire qualcosa o qualcuno».

È già accaduto.

«I disonesti ci sono dovunque, anche tra i giornalisti. O tra i giocatori che vendono le partite».

Undici anni di presidenza dell’Aia sono tanti?

«Sono due mandati e mezzo. Vediamo che cosa succede alle prossime, imminenti, elezioni. Gli arbitri sono la parte migliore perché la più selezionata. Sono 50.000, ma in Serie A ne arrivano una decina all’anno. Dopo di che sono un mondo a parte, come la magistratura».

Bell’esempio.

«Fra gli arbitri però non c’è solidarietà di categoria: se uno sbaglia, gli altri sono contenti perché lo scavalcano».

Ti aspettavi la tenuta del Milan?

«È certamente una sorpresa. Gli innesti di Ibrahimovic e Ante Rebic sono stati fondamentali per trasformare una squadra di ragazzi in una squadra di uomini. C’era un grande valore assoluto, Gigio Donnarumma e Theo Hernandez sono giocatori di livello europeo».

Mancava la mentalità vincente?

«Mancava la completezza del carisma».

Chi gioca il miglior calcio in Italia?

«La squadra che mediamente gioca meglio è il Milan, quella più pronta per vincere è l’Inter».

Perché l’Atalanta ha improvvise cadute?

«Perché pratica un gioco molto dispendioso, sono dappertutto».

Cristiano Ronaldo sta alla Juventus come Lukaku all’Inter e Ibrahimovic al Milan?

«Sì, anche come Immobile alla Lazio».

Ronaldo vince quasi senza la squadra, mentre la squadra senza di lui fatica a vincere?

«Il peso di Ronaldo è aumentato perché è mancato Dybala, non c’è un centravanti come Gonzalo Higuain e Alvaro Morata è buono, ma normale. La differenza balza agli occhi perché parliamo del più grande attaccante del dopoguerra».

C’è molta distanza tra il calcio italiano e quello degli altri campionati europei?

«Ce n’è abbastanza. Abbassando il livello di tutti, il Covid ci ha fatto avvicinare al calcio inglese e tedesco, mentre quello spagnolo è in ristrutturazione. Siamo abituati a pensare che vincano le squadre più brave, invece vincono le più ricche. Nel momento in cui non possono investire, Real Madrid e Barcellona vincono meno, esattamente com’è successo a Milan e Inter. Il campionato inglese è il migliore perché è il più ricco».

A proposito di poteri forti.

«Il calcio è uno spettacolo, non uno sport. C’è un mercato nel quale non tutti sono nelle stesse condizioni. Nei 100 metri si parte tutti dalla stessa linea e il più veloce vince. Nel calcio la bravura si acquista e, di solito, vince chi ha più margine di spesa».

Che europeo prevedi per l’Italia?

«Un buon europeo, se riusciamo a essere, come spesso siamo stati, rapidi nel gioco, cioè diversi. Però finora abbiamo battuto avversari non difficili e ci aspettano verifiche a livelli più alti».

Sei favorevole alla Superlega?

«Per ideologia sportiva, sono per dare più uguaglianza possibile alle squadre. La Superlega è la negazione dell’uguaglianza».

Chi è il miglior giocatore di questo campionato?

«Nicolò Barella».

Chi vincerà lo scudetto? Ti concedo delle percentuali.

«40% il Milan, 30% a testa Inter e Juve».

Chi è stato il miglior giocatore italiano di sempre? Accetto un podio.

«Paolo Maldini, Valentino Mazzola e Roberto Baggio».

Nel mondo, per estetica e fantasia io voto Johan Cruyff, tu?

«Per estetica e fantasia scelgo Maradona. Cruyff lo voto come maestro universale del secolo perché ha giocato ad altissimo livello cambiando il calcio e insegnandolo: Guardiola ha imparato da lui. Mentre Maradona e Pelè si sono fermati a loro stessi».

 

La Verità, 13 febbraio 2021

«La gestione degli arbitri italiani è una monarchia?»

Buongiorno Robert Anthony Boggi. Qualche giorno fa è tornato a parlare dopo un lungo silenzio. Che cosa gliel’ha fatto rompere?

«La telefonata di un giornalista di un’emittente radiofonica napoletana che mi ha fatto delle domande».

Rispondendogli, ha scatenato un putiferio.

«E stento a spiegarmelo. Ho semplicemente detto che, se in passato c’è stata Calciopoli con 44 arbitri, è più facile che si ripeta con 20. Non era un’accusa o un sospetto. In tutte le categorie professionali ci possono essere persone che sbagliano. Non so niente degli arbitri in attività, la mia era una considerazione statistica: è più facile gestire o controllare 20 arbitri che 44. Una riflessione teorica».

Che però si situava in un contesto di tensioni tra le società e gli arbitri, soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente della Fiorentina Rocco Commisso al termine della partita con la Juventus.

«Non entro nel merito, il presidente della Fiorentina risponde delle sue affermazioni. Un errore ci può essere. Però, realisticamente, i sospetti sulla Juventus mi sembrano esagerati. È talmente più forte, anche senza bisogno di favori, da aver vinto otto scudetti di fila. Gli arbitri sono persone egoiste: a loro interessa soprattutto far bella figura e far dire che hanno arbitrato bene, senza favoritismi. Sono più comprensibili le lamentele delle società di serie B, dove la Var non c’è».

Un altro arbitraggio contestato è stato quello di Milan Juventus di Coppa Italia.

«Ho trovato sbagliata la concessione del rigore alla Juventus. Con la vecchia regola non sarebbe mai stato concesso. Ma questo dipende dalle nuove norme introdotte dall’Ifab (International football association board ndr) più che dal singolo direttore di gara. Commettendo un grave errore, a mio avviso, è stata stabilita la punibilità del tocco di mano se il braccio è allargato dal corpo, anche prescindendo dalla volontarietà. Ma se un calciatore salta e corre, può succedere che le braccia non siano aderenti al busto. Infatti, oggi sono molto quotati i bravi difensori sprovvisti di braccia… Ci vuole il buon senso degli arbitri».

In alcuni casi c’è in altri no.

«E qui dovrebbe intervenire la Var. Bisogna mettere nel conto di poter sbagliare. Quando ti chiamano a rivedere l’azione devi andarci, altrimenti è giusto che le colpe ricadano sull’arbitro».

Nato a New York da madre americana, residente a Napoli, 65 anni, Robert Anthony Boggi è stato arbitro internazionale dal 1996 al 1999, prima di dimettersi nel 2000 causa disaccordo con il programma dei designatori Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto orientato al professionismo. Qualche anno dopo, nel 2006, si è dimesso da designatore di serie C per contrasti con l’allora presidente dell’Associazione italiana arbitri, Cesare Gussoni. Nel 2012 ha conteso a Marcello Nicchi la presidenza dell’Aia, uscendo sconfitto. Nella stagione successiva si è dimesso da osservatore arbitrale di serie A. Per le dichiarazioni contenute un’intervista radiofonica è stato querelato dall’Aia. «E non ne ho capito il motivo. Su Calciopoli mi pare di aver chiarito, tutte le altre affermazioni le avevo già fatte all’assemblea per l’elezione alla presidenza dell’associazione del 2012».

È un tipo fumantino o dalle dimissioni facili?

«Per come la penso io sono un atto di forza, la prova che si è liberi fino in fondo. Nella lettera di dimissioni da arbitro del 2000 avevo già detto tutto. Calciopoli era già intuibile: non volevo mettere a repentaglio la mia vita né cedere a compromessi».

Che tipo di compromessi?

«Se qualcuno che sta sopra vuol promuovere dalla serie C alla B un arbitro a scapito di un altro che a me sembra più meritevole non mi resta che dimettermi. Ebbi la conferma che ero nel giusto quando, dopo che Pierluigi Collina lo vide, quel direttore di gara non arbitrò più, mentre il mio candidato fece per molti anni l’assistente di linea internazionale e avrebbe potuto farlo anche da arbitro».

Venivano promossi arbitri per ragioni diverse dal merito?

«Dopo la prima ondata di Calciopoli, hanno riportato in auge la loro mentalità che non era meritocratica».

Lei dice che Calciopoli si poteva vedere. Da che cosa?

«Con Bergamo e Pairetto i direttori di gara dovevano andare tutti i giovedì a rapporto a Firenze. Ho fatto due più due e non sbagliavo. Perché devi controllare così tanto le persone se non per plagiarli? L’ho scritto nella mia lettera di dimissioni due anni prima che tutti se ne accorgessero».

Perché era contrario al professionismo degli arbitri?

«Non è che fossi contrario, volevo sapere chi mi avrebbe pagato. Un conto è essere un dipendente della Federazione italiana gioco calcio, un altro esserlo della Lega delle società che sono una parte, per quanto importante. Non puoi prendere lo stipendio da chi devi controllare in campo. Non so se adesso sia ancora così».

I professionisti sono potenzialmente più ricattabili?

«Quando si finisce di arbitrare a 44 45 anni ci si deve inventare un nuovo mestiere. Improvvisamente, si passa da 200.000 euro l’anno a niente. Quando ho iniziato io se non avevi un mestiere non ti facevano arbitrare. Fra uno che non lavora e uno che lavora preferisco sempre il secondo che il lunedì mattina deve spendere la sua faccia in ufficio o in azienda».

Che cosa pensa di Net Insurance sponsor dell’Aia?

«Non vedo cosa ci sia di male, avranno preso tutte le precauzioni del mondo».

Tra i soci c’è Ubi Banca che ha collocato in Borsa i titoli della Juventus per l’acquisto di Cristiano Ronaldo.

«Al massimo può essere una questione di opportunità, ma è difficile che in questi fondi non ci sia una piccola percentuale legata a qualche società. Credo abbiano fatto tutte le verifiche, altrimenti sarebbero degli ingenui. Anche perché queste decisioni vengono vagliate dalla federazione».

Come si è arrivati al fatto che solo 20 arbitri dirigono la serie A?

«È stata una scelta, quando si è deciso di dividerla dalla B. Ai miei tempi i giovani stavano con i più esperti e imparavano da loro. Siamo cresciuti con Rosario Lo Bello, Luigi Agnolin, Paolo Casarin… C’erano molti più arbitri e il peso della responsabilità era distribuito».

Gli arbitri di adesso sono migliori o peggiori rispetto ai suoi tempi?

«Atleticamente sono più forti oggi. Però credo si divertano poco, li vedo tesi, impauriti. Arbitrare dovrebbe essere un piacere, hanno anche la fortuna di avere l’aiuto della macchina…».

Che però considerano un nemico.

«Invece dovrebbe essere un amico. Quello che conta è arrivare alla verità non come ci si arriva. La Var è un aiuto a fare la cosa giusta. Se hai il dubbio su un rigore te lo togli subito».

S’influenzano partite e campionati con le ammonizioni date o no, le espulsioni date o no, i falli fischiati o no…

«Quando arbitravo, la mattina della partita non leggevo mai le formazioni delle squadre. Andavo in campo senza sapere chi era diffidato e chi no, per essere più libero di testa. Credo facciano così anche i miei colleghi di oggi».

Ammonire un giocatore della Juventus è più difficile che ammonire un giocatore del Brescia?

«È più facile ammonire chi deve essere ammonito. Di me dicevano che odiavo Paolo Montero. Una volta a Cagliari, alla sesta volta che lo cacciavo, mi scusai. Ma lui mi disse: <Non ti devi scusare di niente, stai facendo il tuo mestiere>».

La Var è riuscita a rasserenare le tifoserie?

«Un po’ sì, anche se bisogna precisare le regole sul fallo di mano. Sul gol non gol e sul fuorigioco ora c’è certezza. Dev’essere ridotto il tempo di valutazione, ma ci si arriverà. Io seguo il calcio inglese più di quello italiano, con l’eccezione dell’Atalanta. In Premiere, se un giocatore subisce un fallo non fa scene o proteste inutili. Il ricorso alla Var è ridotto e lo stesso arbitro è accettato come un <male necessario>».

Concorda con la proposta di concedere uno o due challenge a partita a ogni allenatore?

«Certo, se hai un dubbio ti metti l’animo in pace. Non rimane il tarlo di aver perso per un episodio mal valutato. La concederei non solo in area, anche per i casi di ammonizione o espulsione».

A cosa si deve il fatto che l’Italia abbia un solo arbitro tra i top mentre ci sono tre spagnoli, tre inglesi, due francesi, olandesi?

«Avranno dirigenze arbitrali più lungimiranti».

Il torinese Roberto Rosetti, presidente degli arbitri Uefa, non è riuscito a inserire anche Gianluca Rocchi.

«Mi pare che sia all’ultimo anno».

C’è un contenzioso con l’Ajax per l’arbitraggio contro il Chelsea.

«Sì, ma non ho visto la partita. Anche Daniele Orsato è all’ultimo anno. Il fatto più preoccupante è che, a differenza di quando ne avevamo tre o quattro, ai prossimi Mondiali rischiamo di non avere neanche un direttore di gara italiano. Non credo che siano diventati di colpo scarsi, ma più probabilmente che ci sia una programmazione sbagliata».

Nicchi si candiderà alla presidenza dell’Aia per la quarta volta?

«Credo di sì. Da quanto ho capito all’ultima riunione dei presidenti delle sezioni arbitrali è stato cambiato il regolamento per cui ora si può essere eletti anche per il quarto mandato. Una volta era vietato il terzo. Il cambiamento è stato approvato all’unanimità, per alzata di mano. Nicchi è un fuoriclasse: in un Paese in cui ci si divide in modo bizantino su tutto, è riuscito ad avere il consenso unanime di quasi 200 persone».

Cosa non la convince?

«I troppi mandati e i pochi arbitri di serie A. Ci vuole ricambio a tutti i livelli, tanto più in un settore come questo. Concentrare il potere a lungo sulla stessa persona non è prudente. Bisogna favorire l’avvento dei quarantenni».

Il presidente della Figc Gabriele Gravina ha chiesto meno arroganza ai direttori di gara: è una figura in grado di correggere gli eccessi?

«Il presidente della Figc è un amante del calcio che cerca di trovare la quadratura nell’interesse dello sport. Spero basti. Mettersi contro un’associazione dove c’è unanimità non dev’esser facile neanche per lui».

 

La Verità, 23 febbraio 2020

«Non ho fretta di tornare, aspetto Apple e Amazon»

Sandro Piccinini è appena tornato da Londra: una delle mete del suo anno sabbatico? «Per la verità, da qualche tempo Londra è la mia seconda città», racconta il telecronista sportivo ex Mediaset. «Ho cominciato a conoscerla per lavoro, poi ci ho preso casa e mi sono fatto degli amici. È una città immensa, caotica, piacevole. La Brexit? Non so se ne risentirà, è abbastanza forte per conservare tutta la sua attrattiva. C’è sempre sullo sfondo una possibile retromarcia, un nuovo referendum e la possibilità che Boris Johnson cada. Londra è sempre Londra». Miami, Cuba, Shangai, Hong Kong sono state le altre mete di quest’anno di pausa, iniziato dopo i Mondiali di Russia 2018 e trasmessi in esclusiva da Mediaset. Di cui Piccinini, sessantunenne romano, ha commentato la finale tra Francia e Croazia.

Parlando di retromarce, alcune partite di Champions League torneranno su Canale 5: e tu?

«Io e Mediaset ci siamo lasciati dopo 30 anni di matrimonio felice. Nell’ultimo giorno di lavoro ho commentato la finale mondiale. Difficile tornare insieme dopo una separazione consensuale. L’anno sabbatico è finito, ma è molto probabile che si prolunghi. Sia perché, avendo guadagnato abbastanza posso aspettare senza frenesie una proposta stimolante, sia perché il mercato televisivo è piuttosto ingessato».

Qual è stato il vero motivo della separazione?

«Continuando la metafora sentimentale, quando ci si separa dopo 30 anni non è elegante svelare il motivo. Anche le coppie migliori hanno voglia di cambiare».

Possibili ripensamenti?

«Tutto è possibile, ma li ritengo improbabili. Mi avrebbe sorpreso se mi avessero chiamato per la Champions».

Altre strade?

«La Rai non può assumere esterni da un giorno all’altro. Sky ha quasi più telecronisti che partite e Dazn è una realtà appena nata. Inoltre, io sono una figura ingombrante il cui innesto può provocare malumori che non sempre i direttori subiscono volentieri. Credo bisognerà attendere il nuovo contratto dei diritti, quando qualche nuovo marchio di streaming potrebbe ricorrere alle prestazioni di un telecronista sufficientemente popolare».

C’è qualcosa che accomuna gli addii a Mediaset di Ettore Rognoni, storico direttore dello sport, di Piccinini, voce principale del calcio, di Carlo Pellegatti e di quello, prossimo, di Maurizio Pistocchi?

«Direi di no. Isolerei la situazione di Rognoni, un dirigente che appartiene alla stagione di Carlo Freccero direttore di Italia 1, Giorgio Gori di Canale 5 ed Enrico Mentana capo del Tg5. Persone difficilmente sostituibili. Gli altri casi sono diversi tra loro. Pellegatti è andato in pensione. Pistocchi vive un dissidio con l’azienda e mi dispiace, ma è ancora lì. Dal 1996 io ero free lance e rinnovavo annualmente il contratto, fino alla separazione».

Come hai trascorso l’anno sabbatico?

«Sono stato benissimo. Molti avevano pronosticato: dopo due o tre mesi le partite ti mancheranno. Magari succederà, ma finora non è accaduto. Ho viaggiato anche in Italia, visitato bei posti, alcune mostre, ho condotto una vita più rilassata, come in una lunga vacanza. Sì, qualche sera mi è mancata la partitona di Champions, ma ti assicuro: nessun attacco di panico. Prolungare questa vacanza per adesso non mi dispiace».

È comprensibile che dopo 1800 telecronache se ne avverta la mancanza.

«In realtà sono di più. Le ho contate fino a duemila poi basta, non so se siano 2100 o 2200».

La più avventurosa?

«Bisogna tornare ai tempi delle tv locali, quando feci una cronaca senza vedere la partita».

Cioè?

«Lavoravo a Teleregione, un’emittente romana. A Firenze c’era Fiorentina-Lazio e a quell’epoca radio e tv locali non erano ammesse nella tribuna stampa con i telefoni fissi. I cellulari non esistevano. In settimana io e Raffaele Pellegrino, ora produttore al Tg5, facemmo un sopralluogo accorgendoci che nel bar della tribuna centrale c’era un telefono a gettoni. Purtroppo sugli spalti gli spettatori seguivano la partita in piedi e da quel telefono si vedevano solo le loro nuche».

Quindi?

«Inventammo il nostro sistema: ci munimmo di un sacchetto con 400 gettoni e di tanti foglietti da compilare con scritto “tiro di…”, “fallo di…”, “dribbling di…”. Pellegrino guardava la partita, aggiungeva i nomi dei calciatori e mi portava dieci foglietti alla volta. Intanto io facevo la mia radiocronaca di fantasia alla quale aggiungevo le note dei foglietti. In pratica, dicevo i fatti con uno o due minuti di ritardo».

Nessuno se ne accorse?

«Non c’erano le pay tv e le partite in diretta a smascherarci. Solo Tutto il calcio minuto per minuto, che però si collegava sporadicamente. Il problema era il gol, infatti speravamo finisse zero a zero. Invece vinse la Fiorentina 3 a 0. Alla fine della partita mi ritrovai con una decina di gettoni e un mal di testa feroce».

La telecronaca più difficile?

«Juventus Milan, finale Champions League del 2003, 20 milioni di telespettatori su Canale 5. I calci di rigori fecero l’80% di share, chissà che cosa guardava il residuo 20%. Fu una telecronaca stressante di una partita equilibrata, noi eravamo la tv del presidente del Milan. Ma non arrivò mezza telefonata di protesta».

Quella più emozionante?

«Francia Croazia del Mondiale 2018, che arrivò al termine di un mese di telecronache, esperienza entusiasmante anche se non c’era l’Italia di mezzo».

Il più grande telecronista di sempre?

«All’inizio mi piaceva Giuseppe Albertini della tv della Svizzera italiana, poi telecronista del Mundialito Fininvest. In assoluto però prediligevo Enrico Ameri, l’unico sempre in sincronia con l’azione, capace di trasmettere il pathos del pubblico».

Nelle telecronache di oggi l’eccesso di protagonismo dei commentatori si sovrappone all’evento?

«Si parla troppo. I telecronisti stanno ridiventando radiocronisti. In tv non si deve dire tutto quello che già si vede, basta accompagnare l’azione, magari dicendo il nome del giocatore. Troppe parole soffocano il telespettatore. Telecronista, seconda voce, bordocampista: un diluvio. Per distinguersi, si eccede».

Un nome in positivo?

«Massimo Callegari, che lavora in Mediaset e a Dazn. Mi sembra quello più misurato e vicino al mio stile. Conosce i tempi del calcio, avendolo giocato».

Ti mancano i programmi, tipo Controcampo?

«Non particolarmente. La mia passione è per la telecronaca, i programmi sono stressanti. Ora, non facendone da tempo, potrei sperimentare nuove idee. Ma ci vorrebbero le persone giuste».

Il programma preferito?

«Il più delle volte dopo il novantesimo cambio canale. Il Club di Fabio Caressa è tranquillo, forse troppo. Non mi dispiacciono quelli di Federico Buffa e Giorgio Porrà, ma non è che corro a casa per non perderli. Sono programmi perfetti per arricchire l’offerta delle pay tv».

Chi sono stati i tuoi maestri?

«Ameri, di cui conservavo le cassette audio. Poi ho rubacchiato qua e là. Da Rognoni a Fabio Galimberti, direttore di TeleRoma56, dove approdai dopo quel Fiorentina Lazio. E poi Michele Plastino, che mi ha insegnato a stare in studio».

È stata l’estate delle rivoluzioni: come vedi Maurizio Sarri alla Juventus?

«Bene, se la società è convinta della scelta. Se fai la rivoluzione devi crederci, come dimostrò Berlusconi quando prese Arrigo Sacchi. Sarri è un grande allenatore e i giocatori sono fortissimi. Quando un allenatore propone metodi nuovi i campioni possono avere un attimo di smarrimento. Ma siccome alla Juventus c’è la cultura del lavoro non vedo pericoli».

Antonio Conte all’Inter?

«Stesso discorso. Conte ha lavorato bene in situazioni diverse e ha le carte in regola per continuare a farlo. Io penso che le partite le vincano i giocatori, ma lui è maniacale e pretende dedizione totale. Molti dicono che l’Inter si è mossa benissimo sul mercato, per me si è mossa bene».

La Roma che lascia andare Francesco Totti e Daniele De Rossi?

«James Pallotta ha dimostrato di saper essere brutale e di non farsi condizionare dalla mozione degli affetti. È accaduto quando Totti ha smesso di giocare. E con De Rossi che avrebbe potuto essere utile alla causa un altro anno o due».

Ieri è partito il campionato: preferisci sbilanciarti sul podio finale o dare i voti al calciomercato?

«Il calciomercato non è ancora finito, quindi… La Juve mi sembra un gradino sopra Napoli e Inter che vedo sullo stesso livello».

Mauro Icardi a chi farebbe più comodo?

«Al Napoli. Ma anche alla Juventus, perché l’Higuain di adesso… Ma servirebbe più al Napoli, anche per l’entusiasmo che porterebbe».

La Juventus vincerà la Champions?

«È una competizione in cui la fortuna ha un ruolo fondamentale. Sorteggi, infortuni, arbitraggi. Tutte le ultime 20 vincitrici hanno goduto di un momento favorevole. Pensiamo al Chelsea di Di Matteo, massacrato dal Napoli nei gironi eliminatori. La Juventus può arrivare in fondo, ma tante squadre si stanno rinforzando. Per esempio, se il Barcellona prende Neymar…».

Concordi con Mourinho che a proposito del Var ha detto che «solo i ladri possono essere contrari alle telecamere di sicurezza»?

«Concordo, anche se capisco chi non ama il Var al 100%. In Manchester City Tottenham al 94° un gol è stato annullato perché il pallone ha sfiorato una mano. A volte l’eccesso di zelo mortifica lo spettacolo. Ma nessuno tocchi il Var, sempre meglio del far west di prima».

Quanta strada farà l’Atalanta in Champions?

«Dipende molto dal sorteggio. È una squadra solida, entusiasta, che ha fatto una buona campagna acquisti. Ma in Champions tutti giocano con questo spirito».

Il Milan arriverà quarto?

«Vediamo le ultime mosse di mercato, Leao è un ottimo acquisto. Dipende da quanto la società sosterrà Marco Giampaolo. È un grande test anche per Paolo Maldini».

Dove farà il telecronista Sandro Piccinini?

«Fra due anni, spero in un nuovo grande gruppo dello streaming, tipo Amazon o Apple, ai quali potrebbe servire un telecronista popolare. Prima la vedo dura. Aspetto, tranquillo».

 

 

La Verità, 25 agosto 2019