Tag Archivio per: libri

Mughini: «Il design? Meglio degli uomini»

Quante vite ha Giampiero Mughini. Scrittore, giornalista, commentatore televisivo, analista di costume, appassionato di sport, tifoso juventino. Meno noto è come cultore di design, collezionista, accumulatore di oggetti di pregio. Ecco, dunque, Il Muggenheim – Quel che resta di una vita (Bompiani). Godibilissimo vagabondaggio tra cultura dell’immagine, bibliofilia, riviste e rivolte giovanili, Quartiere Latino, arredi d’autore, fumetti, cesure generazionali, rock progressivo, prime edizioni prestigiose, fotografia e iconografia erotica, divorzi professionali. «È inaudito che in Italia non esista un museo dedicato ai Settanta e dintorni», si legge nell’introduzione. «O forse no, forse quel museo in Italia esiste. A casa mia. Scarno, povero, da riempire nove o dieci stanze in tutto. Ma c’è». Eppure, prosegue adagiato nella poltrona prediletta, opera di Gaetano Pesce, «Il Muggenheim è nient’altro che un libro».

Un’autobiografia artistico-esistenziale?

Assolutamente questo.

Com’è nata la passione per il design?

Al liceo o all’università nessun professore aveva mai pronunziato la parola design. Ventenne nei primi anni Sessanta, furibondi di creatività italiana, ho iniziato a incuriosirmi delle cose che mi erano vicine. Il cinema, il fumetto, il rock, le avanguardie culturali… Quanto al design ho imparato a preferire una lampada a un’altra, una sedia a un’altra.

Poi vennero gli anni parigini?

Nelle vie del Quartiere Latino c’era una libreria una porta sì e una porta no. Lì è esploso l’amore per i libri come oggetto, la carta, la copertina, la grafica…

Il design è un’ossessione, una religione, una malattia?

Una religione no, perché gli dei non si vedono e non si toccato e invece la poltrona su cui sono seduto sì.

Si definisce «bibliofolle».

Sono pazzo dei libri. Soprattutto delle prime edizioni, perché quello è il momento in cui il libro sfida il mondo. E spesso quella prima sfida la perde. Talvolta vince le successive. Al momento della sua morte, nel 1928, Italo Svevo aveva venduto sì e no 300 copie. Oggi quando nel mondo si parla di letteratura del Novecento, Svevo compete con i grandi autori internazionali. Per me possedere una sua prima edizione è un’esperienza ai limiti dell’erotismo. Anzi, data la mia età, forse qualcosa di più.

Il gusto per l’estetica supera la passione per la politica?

Sì, se s’intende la competizione tra Pd e M5s o tra Lega e Fratelli d’Italia. Non quando si devono fare scelte decisive, come quelle guidate da Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Ugo La Malfa, Bettino Craxi o suggerite da Matteo Renzi. Per il resto la politica la scruto da lontano. L’estetica la respiro a pieni polmoni tutti i giorni.

In quegli anni c’era una ricerca ideale diversa da quella che viene dalla politica?

Altroché. S’imparava dalle cose della vita, innanzitutto dalle sconfitte. A 17 anni, avendo vinto quelli siciliani, partecipai ai campionati italiani di ginnastica artistica a Novara e mi accorsi che i ragazzi che s’erano addestrati nelle palestre del Nord erano di tanto più forti di me. Dieci anni dopo scappai dal Mezzogiorno arretrato con seimila lire in tasca. Fu il mio primo gesto «rivoluzionario», senza protezioni di partiti o di logge di alcun tipo. L’altro grande evento della mia vita è stato uscire dall’extraparlamentarismo di sinistra. Raschiarne via la cultura mi costò altri anni, fino al Compagni, addio del 1987. Ecco perché oggi non concedo più nulla alle fesserie ideologiche.

Per esempio?

Sono allibito dinanzi al fatto che il populismo sia così duro a morire. In Francia il 21% ha votato per la sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Incredibile.

Include Mélenchon tra i populisti?

Il socialismo di cui parla non significa nulla. Nelle democrazie industriali avanzate su 100 euro percepiti da ciascuno di noi 50 vanno allo Stato. Il socialismo esiste già. Le diseguaglianze? Sono inevitabili: uno non vale uno.

Gli anni Settanta sono generalmente disprezzati per il soffocamento ideologico, lei ne decanta la creatività e il fuoco artistico.

Nelle strade della Bologna del 1977 c’era il rock non la classe operaia. Non era vero che tutto nascesse nella fabbrica. I germi del cambiamento possono attecchire in un’industria come la Ferrari o in una band come gli Skiantos.

La stanza alla quale è più affezionato è quella dei Cinquanta?

Il design non è come la tua donna, si possono amare più epoche. I Cinquanta pulsano del rapporto con l’estetica di Ico Parisi che, quando lo conobbi, tutti lo avevano dimenticato. Ora i suoi mobili sono all’apice delle quotazioni internazionali.

Nel libro omette la vendita della collezione di libri futuristi: capitolo troppo privato o troppo doloroso?

Certamente un lutto. Era la seconda o terza collezione d’Italia. Erano libri che non leggevo più. Pur a malincuore, decisi di venderli per iniziare nuove avventure dell’anima.

Non l’avrà venduta perché una giornalista le disse che aveva una biblioteca di destra?

Quella giornalista sosteneva che fossi di destra perché possedevo un centinaio di volumi di Filippo Tommaso Marinetti e solo cinque o sei di Eugenio Scalfari. Le risposi che il numero di quelli di Scalfari era più che sufficiente

Scrive che gli arredi e i libri sono più affidabili degli esseri umani: bilancio amaro.

L’amarezza più dolorosa. A volte la solitudine l’ho cercata, difesa e proclamata orgogliosamente. Altre volte è stata eccessiva. In buona parte è derivata dall’andare  in contrasto con la mia generazione. Avevo fondato Il Manifesto e me n’ero andato pochi mesi dopo. Per due anni il telefono non ha squillato. Lunghi silenzi anche dopo che mi dimisi da Panorama nel 2005 perché non c’era sintonia con il nuovo gruppo dirigente del settimanale. E tanto più dopo gli anni trascorsi con un grandissimo direttore com’è stato Claudio Rinaldi. Non andavamo d’amore e d’accordo su tutto, ma avevo una stima totale per lui. Quando gli proponevo un pezzo su qualcosa che lui non conosceva di prima mano, mi rispondeva: «Di quante pagine hai bisogno?».

Si avverte una certa estraneità anche verso il presente.

Non penso sia colpa del presente. C’è che non sono adatto alla comunicazione via social e alla continua esibizione del proprio sé stesso da cui è dominata.

È un’estraneità colmata da pochi amici: Roberto D’Agostino, Francesco De Gregori, Oliviero Diliberto. Cosa glieli rende tali?

D’Agostino lo conosco da 40 anni e quando creò Dagospia, mentre molti alzavano il sopracciglio, il primo giorno gli mandai una lettera d’affettuoso incoraggiamento. Non è un amico, è un fratello.

De Gregori?

L’ho conosciuto nel momento giusto, una ventina d’anni fa. La nostra è un’empatia sentimentale e intellettuale.

Diliberto?

Condividiamo la bibliofollia, amicizia totale. Da capo di Rifondazione comunista non mi piaceva proprio, forse quello che frequento adesso è suo fratello gemello.

Antonio Ricci, invece, è un bibliofilo rivale?

E molto più potente di me, guadagna 20 volte quello che guadagno io. Credo sia il maggiore collezionista d’Europa della produzione lettrista e situazionista francese.

C’è un Mario Draghi prima e dopo le elezioni per il Quirinale?

Capisco il ragionamento, ma lo respingo. Più che altro la situazione del governo non induce all’ottimismo perché ciascuna delle sue componenti fa di tutto per farsi notare. Se uno vale uno, nutro crescenti riserve sulla democrazia di massa. Mi lascia esterrefatto che in Francia la distanza tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen sia solo di 4 punti.

Che cosa le fa pensare che mentre in tutti i sondaggi la maggioranza degli interpellati è contraria all’aumento della spesa per le armi, governo e grandi media marciano nella direzione opposta?

Nel rapporto tra Pil e spesa militare l’Italia è solo al 102esimo posto della classifica mondiale. Non possiamo essere i pezzenti dell’esercito europeo di cui tanto si parla. La Russia ha 10.000 carri armati, la Francia 400, noi 120. Non credo sia una buona idea aumentare la presenza di truppe della Nato a Est. Ma nel caso, l’Italia dovrebbe fare la sua parte. Detto questo, non voglio affatto una nuova guerra fredda.

Quella in corso è molto calda.

Lì è caldissima. Penso che Silvio Berlusconi faceva benissimo a dialogare con Vladimir Putin. La Russia ha accanto la Cina e l’India e andiamo verso un mondo in cui l’Occidente non sarà più maggioranza.

Sembra anche a lei che con la pandemia e la guerra nei media si è affermato un conformismo intollerante?

Sulla guerra sono in parte d’accordo. Seguo e rispetto le riflessioni del professor Alessandro Orsini o quello che scrive il generale Fabio Mini sul Fatto quotidiano. Sulla pandemia invece la questione è semplice: essere vaccinati è una condizione di gran lunga migliore che non esserlo.

Gli ospiti in Rai dovranno essere giustificati da comprovata competenza.

E chi la decide se non il conduttore? Il professor Orsini ha una competenza comprovatissima. Sono rimasto allibito quando ho saputo che è scattata la riprovazione nei confronti di una persona di assoluta levatura intellettuale e morale come Lucio Caracciolo.

 

Panorama, 20 aprile 2022

Il mondo di Boban: calcio, viaggi notturni, libri e fede

Una mia intervista a Zvonimir Boban del dicembre 2014 per Style, il magazine del Giornale. All’epoca Boban era uno dei «talent» di Sky Sport, «il più severo opinionista di calcio della televisione italiana», prima di diventare vicesegretario generale della Fifa presieduta da Gianni Infantino, e di essere chiamato da Paolo Maldini e Ivan Gazidis a ricoprire l’incarico di Chief Football Officer del Milan. Forse sarà un’intervista un po’ datata, ma c’erano già i viaggi notturni in auto da Zagabria a Milano e un’idea abbastanza delineata di futuro: «Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà…». Poi parlava dei suoi cinque figli, dell’amore per i libri e della sua formazione cristiana. Una chiacchierata per capire il tipo… Raro nel calcio di oggi. E non solo.

 

Zvonimir Boban arriva in jeans e chiodo nero vissuto. Ha sulle spalle 630 chilometri di autostrada, ma la cera è buona. «Sono cinque ore di guida, non mi pesano», sorride. Di lì a poco andrà in onda per commentare il posticipo di Serie A su Sky Sport Uno. Solitamente riparte la mattina dopo, sempre in macchina – «Non c’è un aereo comodo, devi andare a Malpensa, fare il check-in…». Stavolta, causa impegno di famiglia, partirà appena finito il post-partita con Ilaria d’Amico, Giorgio Porrà, Luca Marchegiani e Massimo Mauro. Altri 630 chilometri, di notte. Nella reception di Sky ogni due metri lo ferma qualche ragazzo per una foto con lo smartphone. Lui sorride e si presta. Ma per parlare ci rifugiamo nella sala longue dove, in una domenica di partite a raffica, si vedono quelle del pomeriggio.

Zvone Boban è il più severo opinionista di calcio della televisione italiana. Il più imprevedibile, diverso da tutti. Non è severo per motivi di natura tecnica, per lo stop impreciso o la diagonale fatta male. Il suo è un rigore particolare. «Prima di tutto è una libertà che mi è permessa qui dentro», dice. «Poi deriva dal fatto che non c’è tempo da perdere anche nel dare opinioni. Infine è una questione di sincerità, l’ambizione di dire sempre quello che si pensa. Credo che questi dovrebbero essere i pilastri del giornalismo. Non voglio usare parole grosse, ma credo che su queste cose si dovrebbe basare non solo il giornalismo, ma la nostra vita e anche la nostra società. Il giornalismo forte schietto maturo ci può migliorare. È quello che ho imparato quando sono stato, per quattro anni, amministratore delegato di un quotidiano sportivo in Croazia». Si potrebbe tradurre sinteticamente come guerra alla banalità. Ai luoghi comuni. Qualcuno osserva che Boban è ipercritico e non gli va bene niente. Che: tolti Pelé Maradona e Ronaldo sono tutti brocchi. «Non è vero… Desidero solo elogiare il bel gioco. Ma si ricordano più facilmente le critiche. Nel giornalismo televisivo ci sono troppi superlativi. L’errore più frequente è dispensare patenti di fuoriclasse. Non è una critica dire che invece uno è un ottimo giocatore».

Piedi per terra, realismo, niente iperboli, Boban va dritto per dritto. Il calcio di oggi è preda di «un processo di hollywoodizzazione. Basta vedere questi ragazzi. Tatuaggi, tagli di capelli improbabili, quelle recite dopo un gol. Roba da popstar. Non è neanche colpa loro. Sono più vittime che protagonisti. Ma dovrebbero saperlo le persone che gli stanno attorno. Il calcio è un riflesso della società in cui viviamo, la cultura del selfie. Lo sport non riesce a isolarsi. Le società hanno perso carisma e autorità. L’ingranaggio è spietato: allenamento, partita, interviste. Non è facile orientarsi, non si pensa troppo, non si riflette su se stessi. Anche ai miei tempi si viveva su un piedistallo, in una dimensione surreale. Poi, a carriera finita, ogni giorno è un piccolo dramma per rientrare e raggiungere gli altri nella realtà. Credo sia un buon lavoro far capire che lo sport ha dei contenuti. Che si può imparare il rispetto degli altri, la cultura della solidarietà e del sacrificio».

La vita di campo non gli manca. Ha fatto il corso da allenatore, ma non ci crede più di tanto. «Ho una famiglia numerosa, cinque figli, non posso isolarmi dalla vita che ho creato. Il calcio resta sempre il mio mondo. Rimarrò tutta la vita Boban il calciatore e ne vado orgoglioso. Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà… però mi piace quello che faccio, mi piace il giornalismo. Quando ci sono eventi importanti come i mondiali scrivo su Sportske Novosti,  la Gazzetta dello sport croata. Anziché parlare con i giornalisti, scrivo direttamente io. E mi diverto».

La verità è che Zvone Boban è troppo. Ha troppi interessi, troppe passioni per limitarsi al calcio. Era ancora trequartista del Milan quando s’iscrisse alla facoltà di storia dell’Università di Zagabria. Sosteneva gli esami senza frequentare. Appesi gli scarpini si è laureato e ha preso il dottorato. Da un po’ di tempo segue letteratura comparata. «Amo i libri. Ogni libro migliora il mondo. Come si fa a stare senza libri? Leggo perché “so di non sapere”. Ho cominciato da ragazzino. Un mio zio mi regalò Il Gabbiano Jonathan Livingstone. Poi Il piccolo principe, Siddhartha», sorride. «Poi ho letto i russi, i francesi, gli italiani… E via così… Oggi sto leggendo un libro su Venezia di Predrag Matvejevic che ti porta in una dimensione diversa di questa magnifica città… Linguaggio semplice, caldo, pieno di una Venezia sorprendente».

Sulle televisioni scorrono le immagini dei match delle 18: «Bel gol», s’interrompe. «Guarda come ha colpito il pallone, ha voltato il piede perché la palla non scappasse verso l’alto… Un po’ come si fa nel tennis, quando si colpisce in top spin». A differenza di molti suoi ex colleghi, che terminata l’attività agonistica si sono dedicati al golf, Boban pratica il tennis. «Per il golf ci vuole troppo tempo, intere giornate. A me piace sudare, lottare. Il tennis è uno sport straordinario, l’esatto contrario del calcio. Devi farcela da solo, devi reggere la pressione psicologica. E poi c’è tutto: tecnica, tattica, atletica, concentrazione, autocontrollo. Sì, in Croazia e in Serbia ci sono tanti campioni. Abbiamo la testa giusta e una certa capacità di soffrire. Tutto è cominciato da Ivanisevic. Cilic, Djokovic, la Ivanovic dimostrano lo straordinario talento dei popoli della ex Jugoslavia… Adesso sta esplodendo Coric. Ma non c’è una vera scuola tennistica slava. Sono tutti progetti familiari. Abbiamo fame, siamo disposti ad andar via di casa, ad allenarci tanto, vivere in albergo. È una vita separata, quasi ascetica».

Calcio, giornalismo, letteratura, tennis, la famiglia. Come fai a tenere insieme tutto? «Dormo poco, vado a letto alle tre di notte, anche dopo. Era così anche quando giocavo, più o meno…». Parliamo dei tuoi cinque figli, quattro adottati. «Io e mia moglie abbiamo cominciato presto. La più grande adesso ha 19 anni. Poi abbiamo preso un maschietto e poi due gemelli, un maschio e una femmina. Infine è arrivata una figlia naturale. Ma nell’educazione la biologia non ha alcuna influenza». A proposito di educazione, che cosa vorresti prendessero da te? «La nostra formazione cristiana ci porta a dare molta importanza ai figli ed è giusto. Ma loro prima di essere figli sono esseri umani che diventeranno persone autonome. Perciò ci vuole equilibrio. Vorremmo che ci amassero di più. Ma non possiamo pretendere che ci amino come li amiamo noi. Noi genitori siamo solo delle piattaforme per la realizzazione dei loro bisogni. Che cosa vorrei trasmettere loro? Questa passione per la vita. La voglia di essere buoni, di avere rispetto, di non essere egoisti. Di lasciare una buona traccia in questo mondo. Ci riempiamo di tante cose e non lavoriamo su noi stessi, sulla nostra crescita interiore. Stiamo perdendo la cultura cristiana dalla quale veniamo. Spero che i miei figli prendano questa strada. Che non significa dematerializzarsi. Spero che sappiano costruirsi un futuro dignitoso». Tua moglie che cosa dice di tutto questo? Non protesta che vieni a Milano tutte le domeniche? «Mia moglie Leonarda si occupa dei ragazzi. Ha un locale con altre amiche. Ma sta molto a casa. No, non mi crea alcun problema per le mie attività. Ci siamo incontrati da ragazzi, in un’epoca in cui i ruoli erano un po’ più chiari… Mi piace giocare una specie di tressette ed esco spesso. Per noi è normale. E poi dopo il “carcere calcistico”, mi sembra giusto. Quando rimango a casa guardiamo qualche film con i bimbi». E poi? «Loro a letto e io a leggere…».

Style, magazine del Giornale, dicembre 2014