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Chissà perché non si fa Tutto chiede salvezza 3

Incuriosisce parecchio quale possa essere la motivazione della rinuncia a produrre la terza stagione di Tutto chiede salvezza, la serie di Netflix la cui prima edizione, era stata tratta nel 2022 dall’omonimo romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani 2020) di Daniele Mencarelli. La notizia è arrivata da Francesco Bruni con un post sul suo profilo Instagram: «Rispondo alle vostre innumerevoli domande per dirvi che purtroppo non ci sarà una terza stagione di #tuttochiedesalvezza. Noi scivoliamo con discrezione dietro il sipario come Matilde, ringraziando voi, che ci avete accompagnato e sostenuto con continuo, incredibile affetto», scrive il regista e sceneggiatore, esprimendo gratitudine anche al produttore Picomedia e a Netflix Italia che ha diffuso le due stagioni. Insomma, un fulmine a cielo terso che ha colto di sorpresa tutti, non ultimo lo stesso Mencarelli. Dopo il successo di pubblico e di critica della prima stagione che narrava il ricovero nel reparto di psichiatria di un ospedale romano di Daniele (Federico Cesari), e l’intenso rapporto che s’instaurava tra lui, gli altri pazienti e il personale sanitario, anche la seconda stagione – realizzata con lo stesso cast tecnico e con l’innesto in quello artistico di Drusilla Foer (Matilde) e Valentina Romani (Angelica) – ha avuto ottimi riscontri, debuttando al secondo posto e permanendo a lungo nella top dieci della piattaforma. Anche questi nuovi episodi contenevano momenti poetici e di vera commozione. E, a far intendere che ci sarebbe stato un seguito, il finale lasciava aperti diversi interrogativi sul futuro dei protagonisti. Daniele sarebbe tornato con la compagna (Fotinì Peluso) o avrebbe proseguito la storia con Angelica? Matilde avrebbe trovato serenità o sarebbe stata risucchiata dalla disperazione. E Alessandro (Alessandro Pacioni) avrebbe finalmente ripreso a camminare? «Noi sceneggiatori lo sappiamo, e chissà che un domani non troveremo il modo di raccontarlo, speriamo non al bar», conclude Bruni, lasciando aperta la possibilità che qualche altro editore si faccia avanti.

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Dopo gli esigui ascolti anche di giovedì scorso (1,2% e 206.000 telespettatori), stasera andrà in onda l’ultima puntata dell’Altra Italia di Antonino Monteleone. È l’ennesima vittima del giovedì sera di Rai 2, una specie di Triangolo delle Bermude della tv, dove negli anni si sono inabissati Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea con Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo con Ilaria D’Amico. Monteleone tornerà in primavera con un nuovo programma in seconda serata.

 

La Verità, 31 ottobre 2024

Una zattera di marginali in cerca di un’àncora

È la serie più commovente e tra le meglio recitate del momento, la seconda stagione di Tutto chiede salvezza visibile su Netflix, prodotta da Picomedia, diretta da Francesco Bruni, sceneggiata da Daniele Mencarelli, autore del romanzo autobiografico (Premio Strega Giovani del 2020) cui è liberamente ispirata (soprattutto la prima stagione). Dopo le dimissioni dal reparto dell’ospedale psichiatrico dov’era stato ricoverato in Tso per aver picchiato il padre, ritroviamo Daniele (Federico Cesari) alle prese con la causa con Nina (Fotinì Peluso) per l’affidamento di Maria, la figlia di pochi mesi. Per di più, dopo gli studi da infermiere, torna per un tirocinio di cinque settimane nel reparto dov’era stato paziente. Vi ritrova il burbero ma buono Pino (Ricky Memphis) ora suo tutor, il dottor Mancino (Filippo Nigro) e la responsabile dell’ospedale (Raffaella Lebboroni), mentre dei vecchi degenti, Giorgio (Lorenzo Renzi) è il giardiniere della clinica, Alessandro (Alessandro Pacioni) sopravvive nel suo stato catatonico e ricompare anche Madonnina (Vincenzo Nemolato). La nuova situazione fa emergere le fragilità perduranti in Daniele, non facilitato nella vita privata dalla preoccupazione dei genitori presso i quali continua a vivere e dal boicottaggio della madre di Nina (Carolina Crescentini)… Tra i nuovi pazienti lo destabilizzano soprattutto il giovane Rachid (Samuel Di Napoli), algerino e promessa incompiuta del calcio, che pretende favori e privilegi a colpi di ricatti, e Matilde (Drusilla Foer), spietata nichilista, frustrata dalla sua controversa condizione e dalla morte di un amante che Daniele le ricorda per la sensibilità e il candore con cui condivide il dolore degli altri. Nel guazzabuglio psico-sentimental-esistenziale di una maturazione incerta c’è spazio per la poesia, passione non segreta di Daniele, e l’incontro con Angelica (Valentina Romani), la figlia di Mario (Andrea Pennacchi), precipitato dalla finestra nella prima stagione. Tutto compone un dramedy che a volte strappa il sorriso e, più spesso, muove alla commozione narrando il vagare di una zattera di marginali alla ricerca di un’àncora salvifica.

Post scriptum Era inevitabile che, dopo l’imbarazzante 0,99% di share (169.000 spettatori) si cambiasse la programmazione (non ancora ridefinita) di L’altra Italia di Antonino Monteleone, per le prime tre puntate trasmesso senza successo il giovedì sera su Rai 2. Più che l’improbo confronto storico con Michele Santoro, qualunque approfondimento piazzato in quel presidiatissimo orario sconta il fatto di arrivare per terzo, dopo due talk show già ben consolidati.

 

La Verità, 20 ottobre 2024

Mencarelli ci porta nella ribellione di un padre

Ci sono pochi autori che ti attraversano l’anima come Daniele Mencarelli. Forse c’è solo lui. Perché è questo che fa anche con l’ultimo romanzo, Fame d’aria (Mondadori), il quarto dopo la trilogia autobiografica composta da La casa degli sguardi, esordio pluripremiato e amato da pubblico e critica, Tutto chiede salvezza, Premio Strega giovani e ispirazione di una fortunata serie Netflix e, infine, Sempre tornare, Premio Flaiano. Da poeta qual è, Mencarelli parla al cuore, senza preamboli. Mette al centro il dramma della persona. Nei primi tre era sé stesso, alle prese con le dipendenze più devastanti, provocate dall’urgenza di un senso, dall’indomita ricerca della felicità, dall’insopportabilità del dolore degli altri. Senza patteggiamenti: niente basta a colmare il nostro desiderio, niente lenisce la solitudine del cuore in cerca di un perché.

In Fame d’aria il protagonista è Pietro, un padre cinquantenne che percorre l’Italia con suo figlio, Jacopo, affetto da una forma estrema di autismo. Esausta di chilometri la Golf sulla quale viaggiano si ribella e i due sono costretti a fermarsi per ripararla in un paesino del Molise. Il pezzo di ricambio arriverà solo lunedì e l’imprevista sosta nella locanda di Agata diviene obbligata. Nel borgo in via d’estinzione ci sono anche una farmacia e Oliviero, il meccanico in pensione che si occuperà della Golf. Infine, c’è Gaia, una ragazza tornata a casa per accudire la madre malata. Fine. Non c’è altro, non succede niente… Eppure, sarà una sosta fondamentale. A volte siamo costretti a fermarci. Per sedare, per riparare la nostra ribellione. Come si deve riparare un’auto che non vuole saperne di proseguire.

Nel vuoto assoluto di quel borgo Mencarelli fa accadere tutto. Jacopo non parla, emette sempre lo stesso lamento. Per qualsiasi cosa ha bisogno di Pietro. Vivono in simbiosi. Il padre lo lava, lo pulisce, lo veste, lo soccorre quando fugge sotto la pioggia. Ma è un padre esasperato. Che non si aspetta nulla. Che rifiuta la compassione e tronca le domande con una formula che spiega che suo figlio è affetto da autismo a basso funzionamento: «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso». Pietro è carico di rabbia contro il mondo che non si accorge. Contro Dio che sembra non rispondere. L’ultima parola ce l’ha il dolore. La vita ne è intrisa. Intrisa di solitudine. A differenza della moglie, fisicamente distante, che è riuscita ad accettare quella situazione, lui continua a sbattere contro quel perché.

Ridotta all’osso, la storia di Fame d’aria è tutta qui, nella rabbia e nelle domande di Pietro. Nell’incapacità di una misura più grande. Nell’impossibilità della carità. Un padre si dibatte nel profondo e coltiva un progetto, cercando di nasconderlo, senza riuscirci. È una storia con qualcosa di recondito e di non detto che s’insinua tra le pieghe del dramma. Una storia che fa venire alla mente certe ribellioni bibliche, certi commoventi rifiuti del destino. Mencarelli non si perde in descrizioni. Scarnifica il racconto. Rende essenziali i dialoghi. In quel borgo destinato allo spopolamento, dove il progresso si è fermato e non s’intravede un futuro, simbolicamente anche l’unica chiesa è chiusa. Però lì, dove non succede niente, c’è comunque il cielo, contro il quale si alza la ribellione di Pietro. E ci sono delle persone semplici che la vedono e la raccolgono. Come sembra raccoglierla anche il cielo…

«Porto su Netflix l’eroe della sensibilità»

Sarà visibile in ottobre su Netflix Tutto chiede salvezza, la serie tratta dal libro omonimo di Daniele Mencarelli che vinse il Premio Strega Giovani del 2020. Il romanzo racconta la settimana di ricovero in Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) nel reparto di psichiatria di un ospedale romano vissuta dall’autore nel 1994. Mencarelli sarà interpretato da Federico Cesari, i suoi cinque compagni di stanza saranno Andrea Pennacchi (Mario), Vincenzo Crea (Gianluca), Vincenzo Nemolato (Madonnina), Lorenzo Renzi (Giorgio), Alessandro Pacioni (Alessandro). Nel cast anche Ricky Memphis (l’infermiere Pino), Filippo Nigro (uno dei medici), Michele La Ginestra (il padre di Daniele), Fotinì Peluso (l’amica Nina) e Carolina Crescentini (sua madre). Regista della serie è Francesco Bruni, uno dei maggiori sceneggiatori del cinema italiano (ha scritto, fra gli altri, tutti i film di Paolo Virzì, oltre al Montalbano televisivo), qui alla sua quinta regia, la prima di un’opera a episodi per una piattaforma digitale.

Com’è nato questo progetto?

«Ho letto il romanzo nel 2020 e, arrivato a pagina 50, ho chiamato Mencarelli per esprimergli tutto il mio apprezzamento. Gli ho chiesto se i diritti cinematografici fossero ancora liberi, ma erano già di Roberto Sessa (produttore di Picomedia ndr) che li aveva acquistati per farne un film».

A quel punto?

«L’ho chiamato, proponendomi. Un mese dopo mi ha ritelefonato dicendo che aveva deciso di produrre una serie e che io potevo dirigerla in quanto mi ero già occupato di tematiche giovanili».

In effetti, da Scialla! Stai sereno in poi…

«Le ho frequentate spesso. Sia in Scialla! che in Tutto quello che vuoi, il film che ha rivelato Andrea Carpenzano, i protagonisti sono due ragazzi attratti dalla criminalità».

Tornando al romanzo di Mencarelli?

«Essendo il racconto di una settimana di Tso, ho proposto che la serie si sviluppasse in sette episodi, uno per ogni giorno di ricovero».

Alla pagina 50 aveva già visto l’opera?

«È una sorta di punto d’arrivo della mia produzione, che parte dalla leggerezza di Scialla!, passa attraverso Tutto quello che vuoi, con Giuliano Montaldo nella parte di un anziano affetto da Alzheimer, fino a questa storia di un ricovero psichiatrico. Nella quale, senza scomodare Qualcuno volò sul nido del cuculo, ci sono quei momenti leggeri, tipici della convivenza tra persone, diciamo così, eccentriche. Insomma, mi sentivo nel mio».

Lei ha sceneggiato i film di Paolo Virzì, di Mimmo Calopresti, di Roberto Faenza oltre al Commissario Montalbano, ma ne ha diretti solo quattro. Perché per questo progetto si è rimesso dietro la cinepresa?

«Ormai la mia strada è questa. Mi sto sempre più appassionando al set, alla situazione collettiva delle riprese. In passato, non ero visto come un competitor, mentre oggi, dopo quattro film, se suggerisco qualcosa ai registi, è un altro regista che parla. La regia è un’esperienza totalizzante. Se ci arrivi dalla scrittura padroneggi tutto il percorso. Come quando da piccolo fai il presepe a Natale e vai a comprare anche le statuine. Se sei sceneggiatore e regista crei un mondo dall’inizio alla fine».

Che cosa l’ha colpita di Tutto chiede salvezza, una storia ambientata dentro un reparto di psichiatria?

«L’idea che un ragazzo di vent’anni possa camminare su un crinale stretto tra sanità mentale e malattia psichiatrica. Leggiamo i giornali, seguiamo le cronache. A Trastevere, il quartiere dove vivo, ne vedo tanti. È un luogo di ritrovo giovanile, un osservatorio privilegiato dove tutte le sere si scatenano risse, crisi di panico, arrivano ambulanze. Si ha la percezione di un’emergenza. Dopo la pandemia, certi eccessi sono diminuiti. Ma basta leggere un giornale per vedere quanto questi due anni abbiano acuito una sensazione d’impotenza, di mancanza di prospettive tra i giovani, sempre più convinti che studiare sia inutile e che un titolo di studio sia carta straccia. Questa è la prima generazione che starà peggio dei suoi genitori».

Però il libro di Mencarelli è stato scritto prima della pandemia.

«La storia è ambientata nel 1994, ma l’abbiamo trasposta nel presente».

Quindi post pandemia?

«Nell’anno di uscita del libro, anche Daniele è stato d’accordo nell’attualizzarla. Ma non ci sono riferimenti temporali precisi e nemmeno alla pandemia. Se Mencarelli avesse raccontato la sua vicenda nel 1994, l’anno in cui l’ha vissuta, non avrebbe avuto l’impatto che ha avuto. Probabilmente questa eco è dovuta al fatto che ha intercettato una situazione attuale. I giovani si sono riconosciuti».

La tematica del disagio giovanile e dell’eccesso di sensibilità era già presente 30 anni fa?

«Nei primi anni Novanta mi sembrava che fossimo tutti un po’ più sereni. Forse perché ero ancora immerso in una realtà provinciale dove tutto era più tranquillo. Adesso sono arrivati i social media a complicare la situazione. In particolare aumentando la differenza tra il sé vero e autentico e la sua rappresentazione. Ci si vende sempre come persone che stanno bene, performanti e che fanno una bella vita. Prima e più ancora della diffusione dell’odio e dell’attività degli haters in rete, questa menzogna, portata avanti a dispetto della realtà, crea un disagio, una bipolarità, difficilmente gestibile. In più, i social hanno radicalizzato la percezione di essere delle pedine, persone seguite, teleguidate, influenzate nelle scelte di vita e commerciali».

Veniamo da anni di sofferenze e restrizioni, dal cinema e dalla tv ci si aspetta un po’ di spensieratezza, invece…

«Non faccio questo tipo di calcoli. Non guardo le indagini Istat prima di buttarmi in un’opera. Cosa sarà, il mio ultimo film con Kim Rossi Stuart, raccontava di una reclusione sanitaria a causa della leucemia ed è uscito durante la pandemia».

È la prima volta che dirige una serie tv.

«Avevo chiamato Sessa pensando a un film. Quando lui ha parlato di una serie ho accettato. Credo sia la prima volta che Netflix concede a un autore italiano di essere sia sceneggiatore che regista. Se mi avessero proposto di firmare solo alcuni degli episodi avrei declinato».

Come mai nel suo cinema il confronto con la sofferenza è così presente?

«Dall’Alzheimer alla leucemia al disagio psichico, ho fatto filotto. La cosa buffa è che in tutti tre i casi si tratta di commedie. Forse per questa serie il termine è un po’ forzato».

Viene definita un dramedy.

«È il termine corretto, commedia e dramma. Di solito, quando vedo nella narrazione la possibilità di un momento leggero mi viene istintivo coglierlo a patto che non infici la verosimiglianza del racconto».

Insiste su queste tematiche per una motivazione autobiografica?

«È un po’ come chiedere a un musicista perché suona così. Ho sempre frequentato la commedia con un sottofondo drammatico. Anche nei film di Virzì. Un film drammatico che si nega momenti umoristici si fa un torto. Ho una specie di campanello d’allarme: mi chiedo se sto facendo troppo il cretino o se sto appesantendo la gente. È una sorta di antifurto interno. Nella serie si ride, le due cose s’illuminano a vicenda: l’umorismo rende accettabile il dramma e il dramma nobilita l’umorismo».

In questi giorni, dopo due anni di restrizioni, si ripete che i giovani hanno il diritto di divertirsi e dimenticare: possiamo dire che è una storia coraggiosa?

«Sì, certo. Tuttavia, va anche detto che quando il desiderio di libertà e, usiamo la parola vera, di sballo, a lungo compresso, si libera, può accadere che si finisca per rovinarsi il divertimento. In molti casi vedo che la sfrenatezza del desiderio di vivere si trasforma in un boomerang che ritorna addosso con violenza. Lo dico avendone fatte di tutti i colori da ragazzo – mi divertivo parecchio, stavo in giro di notte – pur non essendo mai stato in un commissariato di polizia».

Come tratterà la parte del racconto che contiene critiche al personale medico e infermieristico?

«C’è una critica alla situazione del sistema sanitario. Soprattutto alla carenza di servizi, il condizionatore che non funziona, la carta igienica che manca, a una parte del personale che è poco motivata. I due medici sono antitetici, uno è empatico l’altro severo. Sono persone messe negli avamposti del malessere e lo fronteggiano con i mezzi che hanno a disposizione. In filigrana si può leggere la vecchia diatriba fra manicomi e non manicomi, contenzione e non contenzione, che sembrava superata con l’esperienza di Franco Basaglia e dei suoi epigoni e che invece adesso è rimessa in discussione».

La domanda di senso, la ricerca di felicità che anima il protagonista viene recepita quasi come un disturbo patologico?

«Non è una riflessione sulla ricerca della felicità, miraggio irraggiungibile. È un discorso sulla sensibilità di persone nate senza le difese nei confronti del dolore altrui, un sentimento che li attraversa e li fa stare male. Questo tipo di sensibilità può portare a una patologia psichiatrica. Ma in un certo senso è un superpotere, un superpotere della sensibilità. Daniele, che anche nella serie si chiama come l’autore del romanzo, è un supereroe della sensibilità. Solo che deve capire che la sua è una forza, una virtù, non una debolezza».

Però tutto chiede «salvezza»: che cosa può salvare oggi?

«La compassione. L’accettazione dei propri limiti. La comprensione nei confronti degli altri. Non posso spoilerare il finale. Cito Mencarelli: “Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato. È semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi. Salvezza è quindi lasciarsi attraversare dal dolore”. Rimanendo vivi, possibilmente».

 

La Verità, 4 agosto 2022

Bompiani: «Ci siamo abituati al monopensiero»

Impaesamento. È la parola con la quale Ginevra Bompiani inizia La penultima illusione, appena pubblicato da Feltrinelli. «Un viaggio fra molte vite». La sua, innanzitutto: di scrittrice, editrice, traduttrice, docente, donna attiva nel sociale. Poi quella del padre Valentino, fondatore della casa omonima, uno dei maggiori editori e scopritori di talenti del secolo scorso. Dell’ex marito, il filosofo Giorgio Agamben. Degli amici Umberto Eco, Elsa Morante, Italo Calvino, Giorgio Manganelli. E infine, ma forse prima di tutte, quella di N, la ragazza somala di 17 anni che ha accolto nella sua casa romana, diventandone tutrice legale, prima che scoppiasse la pandemia.

L’impaesamento di N è andato a buon fine?

Non esattamente. L’impaesamento si contrappone allo spaesamento, all’estraneità che deriva dalla diversità. Pensavo che mostrare la bellezza e l’arte di una civiltà potesse aiutarla a superare questa estraneità. Non è stato e non è facile. Anche perché sono arrivati il Covid e i lockdown che hanno prodotto un azzeramento della cultura. Quando andammo alla mostra di Raffaello prima di entrare in ogni stanza dovevamo attendere sulla soglia il suono di una campanella…

Che cos’è la diversità?

In Bellezza variegata Gerard Manley Hopkins scrive: «Gloria sia a Dio per le cose screziate». La diversità è un regalo, anche se è infinita. Anzi, forse proprio per questo. Ogni volta che getti un ponte che unisce segmenti diversi, ne spuntano altri di nuovi.

Essere una persona vissuta in mezzo ai libri e faticare a persuadere alla lettura una ragazza di 17 anni è uno scacco della realtà?

È uno scacco dell’immaginazione. Ognuno ha la propria: la nostra è nutrita dai libri, altre sono alimentate dal paesaggio, dalla magia, dalla religione… dalle botte prese. È l’immaginazione la vera diversità.

Produrre libri e promuovere autori e scrittori è stato il suo lessico familiare: quando è diventata una scelta personale?

La prima esperienza è stata quando, tornando da Parigi, io e Giorgio Agamben abbiamo proposto a mio padre la collana di letteratura fantastica il Pesanervi. In Italia era considerata di destra e quindi era snobbata. Noi, avendo vissuto a Parigi, avevamo uno sguardo diverso. L’idea era di Agamben e io l’ho sposata e realizzata minuziosamente.

Prima c’era stato il periodo degli «incantatori» Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia: gli scrittori della sua formazione?

Li conobbi la prima volta durante una vacanza romana con la mia famiglia. Frequentavamo Adriana Asti, moglie di mio cugino Fabio Mauri e amica di Elsa Morante. In quel mese fatato conoscemmo lei, suo marito e Pasolini. Avevo 17 anni e fu una folgorazione. Anche Agamben era amico della Morante e di Pasolini, perciò in anni successivi tornai a incontrarli, in modo corale. Poi conobbi e frequentai a lungo Italo Calvino, Giorgio Manganelli…

Tra gli scrittori di oggi vede qualcuno che possa reggere il confronto con loro?

Direi di no. Ma questo non vuol dire che non ci siano grandi scrittori. Credo che oggi la scrittura non sia più lacrime e sangue com’era allora. Qualcosa a cui lo scrittore si dava totalmente, in una dedizione di ricerca della verità e passione. Adesso vedo maggiore disinvoltura, un lavoro collettivo in cui contano molto i consigli degli editor. Allora era impensabile che qualcuno cambiasse una virgola di Elsa Morante.

Nessuno può confrontarsi con gli incantatori?

Uno scrittore lacrime e sangue di oggi è Daniele Mencarelli, che peraltro è nato come poeta a «nottetempo». Poi purtroppo non c’ero più e se lo sono lasciati sfuggire.

La velocità della posta elettronica al posto di quella cartacea e gli agenti che decidono invece degli editori riducono la qualità della letteratura?

Sono uno svantaggio per la qualità e un vantaggio per la funzionalità. In Bompiani si leggevano i cataloghi, si scriveva una lettera, la risposta arrivava dopo 15 giorni e avevi un’opzione di due mesi. Dopodiché facevi un’offerta. Nel 2002, quando è nata «nottetempo», tutto era diventato fulmineo. Facevi la tua richiesta di lettura, ti rispondevano in cinque minuti e passavi la notte sul libro. Se la mattina dopo presentavi la prima offerta eri fregato perché partiva l’asta.

Con gli agenti letterari cos’è cambiato?

Nel 2002 andai alla Fiera di Londra, memore di quella di Francoforte degli anni Sessanta. Dopo aver cercato invano gli editori, ho capito che dovevo salire al piano di sopra. Dove non c’erano libri, ma tanti tavolini con una bandierina ai quali si incontrava un agente che, se non aveva già venduto il libro, ti dava la possibilità di acquistarlo offrendo più dei concorrenti. Tutto senza leggerlo. Il rapporto affettivo e intellettuale che aveva mio padre con i suoi autori era preistoria. Con chi aveva un agente nasceva un ménage à trois. Come editore l’ho sofferto, ora come autore me lo godo.

Qual è stata l’originalità di «nottetempo»?

Nel 2002 mi ricordai di una conversazione con mio padre che, dopo aver ceduto la Bompiani, voleva creare una nuova casa editrice, ma non sapeva se farla per i giovani o per i vecchi. Ci pensai e decisi di farla per i sessantenni come me. Persone che leggono semisdraiate, magari di notte, senza tanta luce. Pensai a libri comodi, con caratteri grandi, margini ampi, libri leggibili e leggeri non nel senso della facilità, ma nel senso di Robert Louis Stevenson che, non a caso, fu il primo autore pubblicato. Anche nella saggistica, pubblicammo filosofi e scienziati che con una buona conoscenza dell’italiano si potevano capire.

Cosa pensa del fatto che con la pandemia si legge di più e che, secondo alcuni, Amazon favorisce i piccoli editori che faticano nella distribuzione?

Temo che siano miglioramenti provvisori. Con l’espansione di Amazon la dimensione vincente è il grandissimo, non il grande. Rizzoli, Mondadori e Giunti boccheggiano, progredisce solo Amazon. Insieme con i piccoli editori ci siamo battuti contro gli sconti librari che la sinistra pensava o fingeva di pensare fossero a favore del popolo dei lettori. Invece favorivano solo le grandi catene editoriali, perché gli editori e le piccole librerie indipendenti non potevano farcela a prezzi ribassati.

Come per gli scrittori, mi dica il nome di un editore che le piace.

Tra i tanti che lavorano bene citerei Iperborea, nata dall’idea di Emilia Lodigiani che ha pensato di pubblicare la letteratura del nord e per farlo ha imparato le lingue scandinave. Dopo di lei suo figlio: hanno scoperto e portato in Italia una letteratura che era sconosciuta.

Invece con il Manifesto che non pubblica più né Agamben né lei per le posizioni sul Covid ha litigato.

E me ne duole perché era un rapporto che durava da tanto tempo. Il Manifesto era considerata la casa editrice di sinistra. È stata una grande delusione vedere che di fronte al Covid si è appecoronato esattamente come tutti gli altri giornali e se c’è qualche eccezione non è lui, ma il Domani o magari Avvenire.

Avrei in mente anche un’altra testata.

Parlo dei giornali di sinistra, anche se forse non c’è più. Mentre la destra c’è, ma io non la amo per niente.

Nel libro scrive che viviamo in una «imitazione di dittatura che fa contrapporre ai cori sui balconi la diffidenza a tu per tu e una rabbia ottimista».

È stato instaurato il monopensiero e tutti si sono adattati. Salvo un esiguo numero di persone, grandi filosofi, scienziati e medici premi Nobel, che vengono trattati come mentecatti perché non si allineano. Il monopensiero si adopera alla creazione del nemico, quel disgraziato che non si vuole vaccinare. Sono vaccinata e qualcuno cerco di convincerlo perché non si condanni alla non vita alla quale costringono chi non possiede il green pass. Senza il quale ora non si può più neanche entrare sotto gli archi della Stazione Termini.

Cosa vuol dire che guariremo della malattia, ma non della cura?

A parte che bisogna vedere se guariremo… La virologa Maria Rita Gismondo diceva pochi giorni fa che se una persona si ammala e non vuole andare in ospedale deve morire a casa perché non può procurarsi le medicine. Pensare di non curare i no vax giustifica il confronto con il nazismo.

Cosa significa, come scrive, che «pensare è diventato sinonimo di negare: negare la verità comune, consensuale e consentita. Negare la fiducia alle disposizioni rinfuse diventa subito negare l’esistenza della malattia»?

È chiaro che la malattia c’è e le epidemie sono pericolose, non solo perché fanno ammalare e morire le persone. La spagnola durò dal 1918 al 1922: ricordiamoci cosa successe nel 1922 in Italia e in Russia e quando datano i primi tentativi di Hitler in Germania. Lo spavento dell’epidemia e la ricerca di una gestione autoritaria generarono le dittature. Perciò facciamo attenzione ai troppi unanimismi.

Che cos’è la penultima illusione?

L’ultima dovrei raccontarla dopo morta. Qualunque illusione è penultima perché ha davanti a sé una possibile caduta e una possibile nuova illusione. Mi illudo su ciò che faccio, che non è mai così fantastico come avrei voluto. Ma: sempre meglio qualcosa che niente.

 

Panorama, 26 gennaio 2022

Ma i guru da quarantena non parlano di salvezza

Brulicano peggio dei ribelli alla clausura. Si dibattono. Si affannano. Alla frenetica ricerca di parole, di soluzioni, di ricette, di decaloghi per contrastare la disgrazia. Per dirci come dobbiamo comportarci. Per dare a tutti le chiavi interpretative della tragedia. Ogni giorno c’è un nuovo maestro del pensiero. Un intellò che ci trasmette ciò che ha imparato. Come dobbiamo vivere e affrontare la pandemia. Come dobbiamo vivere e affrontare la paura. Chiusi nel nostro rifugio. Al confino domestico. Perché «dopo» il mondo sarà migliore, assicurano. Noi stessi saremo migliori, più solidali, altruisti, empatici. Sapremo apprezzare anche quello che prima ci infastidiva. In forza di cosa è difficile a dirsi. Per quanto si dia da fare, di fronte alla disgrazia che accomuna i destini dell’intero pianeta la cultura mainstream, umanitarista, filantropica, positivista mostra tutta la sua insufficienza. La sua pochezza. C’è la versione volontaristica di Alessandro Baricco, il guru dei guru, che su una doppia di Repubblica ha constatato, infastidito, che «abbiamo troppa paura di morire». Suvvia, la paura della morte va gestita, controllata, organizzata nella comunità. Sfugge il come. Però, facciamoci coraggio, ha esortato l’autore dei Barbari, «è il momento dell’audacia». Perché la pandemia è solo un livello più elevato del Game. Basta fare l’aggiornamento. Poi c’è la versione tra l’ombelicale e l’autocommiserante di Antonio Scurati, riconosciutosi nella generazione dei cinquantenni «in coda per il pane». Uomini e donne «tristi, incongrui a loro stessi… arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia». Il quale, pur ammettendo «la fine di una certa idea di modernità», ha decretato che se «un’epoca è finita, un’altra comincerà». Anche lui, tuttavia, senza riuscire a suggerire una strada, qualcosa che mostri un cambio di passo. Infine, c’è la versione narcisistico nichilista di Sandro Veronesi, considerata la messe di recensioni devote al suo Colibrì, probabile successore di Scurati allo Strega, il quale ha dichiarato che il virus siamo noi, noi specie umana: «A che cosa serviamo, ormai, noi uomini sulla terra? Perché dovremmo continuare a vivere, noi, dopo che la Madre terra si è sbarazzata di altre migliaia di specie inutili o dannose?». Ben venga il coronavirus, quindi, e facciamo piazza pulita di questa escrescenza nociva, di questa piaga purulenta e nefasta che è la specie umana. Non è bello il mondo popolato di farfalle e gladioli?

No. Parole nuove non se ne leggono né se ne ascoltano nelle pensate degli intellettuali cool. È vero, si parla molto del «dopo» e del «quando». Perché è chiaro che ci sarà un prima e un dopo. Il Covid-19 stabilirà una cesura temporale. Ma grazie a cosa il dopo sarà migliore non si riesce ad intuirlo. Leggendo certi distillati sembra di trovarsi davanti a un acquario. O all’orchestrina del Titanic che suona senza avvedersi che il pensiero unico si avvicina pericolosamente all’iceberg. Nessuno che si fermi per farsi qualche domanda. Solo risposte, ricette. La presunzione dell’intellò non flette nemmeno di fronte a un microrganismo invisibile che ci sta gettando nel panico. Il superomismo di cui abbondano i nostri giornali risulta patetico e velleitario nella convinzione che, per aggiornare il computer del mondo, bastino «le piccole cose», «la solidarietà», «essere insieme». E tutto andrà bene. Per chi resterà.

Autocritiche zero. Allora proviamo a fare un passo indietro a fine Novecento, senza menarla troppo. Trent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino il Nuovo ordine mondiale ha fatto decollare la globalizzazione. Il paradiso terrestre era dietro l’angolo. Certo, c’erano le guerre asiatiche, ma c’era anche un gendarme che dettava l’agenda. C’erano le Nazioni unite, erano conflitti tutto sommato locali. Intanto, nell’Occidente progredito, passavamo dall’inseguire la società perfetta all’inseguire l’esistenza perfetta. Nascita e morte quando decidiamo noi e come vogliamo noi. A illuderci che l’Eden fosse a portata di mano è arrivata la rivoluzione digitale. Così ci siamo ancor più convinti di essere invulnerabili, onnipotenti, capaci di programmare tutto. Mondo perfetto, stiamo arrivando.

Poi invece son successi alcuni fatti imprevisti. Senza aprire il file «Migrazioni» o il file «11 settembre», c’è stata prima la crisi finanziaria di Wall Street (2008), il cui smaltimento appare tuttora remoto. E adesso quella di Wuhan, che vi si sovrapporrà, e vedremo come andrà a finire. Inizia perciò a insinuarsi il sospetto che queste crisi non siano solo incidenti di percorso, ma effetti non collaterali della cultura dominante.

Questa prova ci cambierà, si ripete. Ed è probabile. Ma che cosa ci garantisce che sarà in meglio? L’uomo rimane un essere limitato, ce lo spiega la morte e ce lo dovrebbe spiegare questa situazione. La scienza e la tecnologia progrediscono e grazie a dio continuano a farlo. Ma, con tutto il nostro impegno, alla fine quello che ci inventeremo non potrà non riprodurre il nostro limite ultimo. La nostra ambiguità. Il pensiero unico contemporaneo rimuove questo dettaglio, dibattendosi nell’acquario. In quella che tanti poeti hanno chiamato «stanza». Il perimetro della ragione intesa come misura delle cose. Un perimetro che, per quanto lo allarghiamo, a un certo punto finisce.

Forse l’unica vera lezione che dovremmo apprendere è una buona dose di umiltà. Ora che siamo blindati dentro le nostre stanze possiamo capirlo. Per quanto progrediamo, per quanto esploriamo, tutto ciò che facciamo, alla fine, s’imbatterà nel limite. «Fermatevi e sappiate che io sono Dio», recita il salmo 46. Solo un Altro che bussa alla porta può farci uscire dall’isolamento.

L’ultimo libro di Daniele Mencarelli s’intitola Tutto chiede salvezza (Mondadori). La parola che la cultura contemporanea non sa pronunciare è questa. Non è una parola astratta, una categoria filosofica, una pensata di qualche intellettuale ambizioso. È un incontro. L’ha pronunciata anche papa Francesco nella memorabile piazza san Pietro deserta: «Nessuno si salva da solo». Già. Prima ancora che per un fatto sociologico, perché per salvarci serve un Salvatore. Il romanzo di Mencarelli è il diario autobiografico del Trattamento sanitario obbligatorio cui fu sottoposto dopo che in un accesso di follia si era scagliato con violenza contro il padre. Lo presero e lo portarono nel reparto psichiatrico. Un giorno suona il campanello della stanza dov’è ricoverato insieme ad altri cinque malati reclusi. «Apro. A un centimetro dal mio viso mi ritrovo mio padre. Il suo stupore più grande del mio… Restiamo a guardarci, ognuno fa dell’altro il suo speciale inventario… Mio padre allarga le braccia… Ci abbracciamo». Come sarà stato quell’abbraccio?

Nelle ricette che leggiamo quotidianamente la parola salvezza non compare. Io stesso la pronuncio con pudore e zero meriti. Perché è una parola che contempla l’iniziativa di un Altro. Perché è un dono, un atto gratuito di Dio… Protesi verso i nostri traguardi, non riusciamo ad accorgerci di questo atto. A riconoscerlo nel desktop dei nostri computer. Perché non ci riusciamo? Semplice, perché Dio siamo noi.

 

La Verità, 31 marzo 2020

«Pulire i cessi mi ha salvato dall’alcolismo»

Una lettura indimenticabile. Una storia commovente. Una scheggia di redenzione. È tutto questo La casa degli sguardi (Mondadori), il romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, poeta alcolista che rinasce a vita nuova pulendo cessi, lavando vetri, spazzando linoleum con la cooperativa in servizio all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma (appena celebrati i 150 anni), il posto del dolore più ingiusto al mondo nel quale, al culmine della disperazione, lo introduce l’amico poeta Davide Rondoni, e dove s’imbatte nella capacità di «fronteggiare l’orrore per sfondarlo». È l’immagine, per lui insostenibile, di un bambino di tre anni dal volto sfigurato e di un’anziana suora che avvicina il suo viso alle ferite tremende e le bacia incurante di tutto: «Tu sei il bello di mamma e papà, vero? Ma non sentite che risata che c’ha? Questo dentro non ha l’argento, ha l’oro, l’oro vivo». Gli resterà impressa quell’immagine di gratuità assoluta senza riuscire a rimuoverla: «Ho visto qualcosa di umano e al tempo stesso straniero, come un rito proveniente da una terra lontanissima…». La casa degli sguardi è un libro su un gruppo di spazzini e facchini che condividono le fatiche e «gli agguati della vita». Un libro che si legge d’un fiato, aggrappati alle montagne russe di Daniele, tra notti di «dimenticanza» dietro «il bicchiere bianco» e notti spese a scrostare piastrelle coperte di escrementi. Un libro che, senza passaggi nei talk show più scintillanti, tranne una bellissima intervista di Monica Mondo per Soul di Tv2000, con poche ed entusiastiche recensioni perché chi lo ha letto ne è rimasto folgorato, ha vinto il premio Paolo Volponi, il Severino Cesari opera prima e si è classificato secondo al premio Wondy per la letteratura resiliente.

Oggi Daniele Mencarelli vive ad Ariccia per stare vicino ai genitori, ha 44 anni, due figli e un ufficio da editor della fiction di Rai 1.

Chi sono i lottatori cui è dedicato il libro?

«Le persone che non si risparmiano e non si fanno sconti. Negli ospedali psichiatrici o al Bambino Gesù ne ho conosciute tante. La vera lotta non è quella preordinata, ma quella in cui ti trovi, per strada, e che ti coglie sempre impreparato».

Come quella iniziata con la sua deriva?

«Fino ai 14-15 anni ero riuscito a fingere di essere come gli altri. Dai 17 la parte più ribelle e incontrollabile di me ha preso il sopravvento. Avevo fatto la prima vacanza con i miei amici sulla riviera romagnola. Dopo una nottata di bagordi, infastidito dai loro scherzi, ho deciso di tornare ad Ariccia a piedi e in autostop».

A piedi o in autostop?

«Entrambi. Sono partito il 16 agosto, dimenticando documenti e denaro nel marsupio dell’unico maggiorenne del gruppo. Trascinavo sulla Via Emilia una valigia verde. La seconda macchina che si fermò era una Peugeot 205 cabrio: “Tu sei l’uomo più fortunato del mondo, vado a Ciampino”, pochi chilometri da casa. Rifiutai il passaggio perché volevo stare da solo in giro per l’Italia, scrivevo poesie dalla terza media. Arrivai due settimane dopo».

Il motivo della sua dissoluzione?

«Ero una persona fragile. Che viveva tutto senza filtri e faticava ad accettare il dolore degli altri, la distanza di Dio, l’idea della morte. Ancora adesso non mi rassegno al fatto che una persona come mia madre debba morire».

Nei periodi peggiori dormiva sui gradini davanti alla sua camera.

«La mia stanza era su un piano rialzato, pochi scalini per arrivare al bagno. Nell’ultima fase avevo il delirio alcolico, non controllavo i bisogni corporali, faticavo a reggermi in piedi. Mia madre era come una sentinella… A proposito di lottatori… Sempre stata comunista, ma qualcuno mi ha detto che quell’immagine ricorda Maria ai piedi della croce».

Davanti a genitori così provava vergogna?

«Loro mi hanno insegnato due cose fondamentali: il lavoro e il rispetto degli altri. Con questa educazione mio fratello e mia sorella hanno fatto la loro strada. Io restituivo preoccupazioni, tormenti. Il senso di colpa era altra sofferenza. Oggi si cercano sempre le responsabilità fuori di noi: il contesto sociale, le cattive compagnie, i professori ostili…».

Chi crea questa tendenza?

«Una mentalità buonista fondata sulle attenuanti. Gli psicologi, gli assistenti sociali, i media, anche le persone comuni che incontro alle presentazioni, c’è il ritornello tipo “ma forse i professori… gli amici sbagliati…”. L’aguzzino è sempre qualcun altro. Nel mio libro è chiaro che il cattivo che fa soffrire gli altri sono io. L’ipertrofia del giudizio, giudicare gli altri e assolvere noi stessi, è una cosa un po’ grillina: onestà, onestà… Mentre il mondo lo cambi cominciando da te stesso».

È la cosa più difficile?

«Perché richiede d’invertire il metodo del giudizio. Nella rivoluzione cristiana si mette sé stessi davanti alla pietra da scagliare. Questo cambia anche i rapporti con gli altri. Lo vedo quando incontro i ragazzi nelle scuole: ti ascoltano in un altro modo se sei disposto a mettere sul piatto i tuoi errori».

Torniamo alle sostanze e all’alcol.

«Erano il mio modo di curarmi, per non soccombere a quello che vedevo e non riuscivo a sostenere: il dolore, il bisogno d’amore, la sproporzione del desiderio…».

Lei è una persona sensibile come tutti i poeti, perché rifiuta questa espressione?

«La sensibilità è una pseudo virtù che mettiamo ovunque, ma non si sa bene in cosa consista davvero. Ci sono due tipi di poeti: l’avanguardista solipsista e il sentimentale intimista. Non mi ritrovo in nessuno dei due. Nella poesia c’è tutto: la sete d’infinito, la morte, Dio, l’amore… Ma non servono aggettivi».

E il mito del poeta maledetto l’affascinava?

«È una mitologia seduttiva e posticcia che, paradossalmente, neutralizza il dramma autentico dell’artista. L’idea che le sostanze e l’alcol favoriscano l’ispirazione è un’invenzione di marketing per vendere dischi e libri. Lo dico per esperienza, la dimenticanza porta all’esaurimento creativo. La fonte ispirativa dell’artista è il rapporto con la realtà».

Come ha fatto a resistere al Bambin Gesù? Anche sua madre dubitava.

«Sapeva quali effetti aveva il dolore degli altri su di me e mi vedeva debole e imbarbarito. Non immaginava quale forza poteva darmi la scrittura».

Anche un certo orgoglio non l’ha fatta soccombere, giusto?

«Per punire il raccomandato, il primo giorno mi mandarono a pulire dei cessi terrificanti. Avevo l’alibi per dare ragione a mia madre. Decisi di misurarmi con i miei limiti. È stato l’inizio della rinascita. La realtà è provocazione, il primo passo è cimentarsi, duellare con lei, anche se è un cesso immondo. Quando eviti il confronto e ti rintani nella tua stanza sei sempre soccombente».

I compagni le dicevano che ci avrebbe fatto l’abitudine: il cinismo è una difesa?

«Non so fare il callo alla vita, nel bene e nel male. Gli anticorpi come l’alcol diventano un muro di gomma, qualcosa che ti distanzia».

La sofferenza dei bambini è la prova che Dio non esiste?

«Davanti al dolore dei bambini hai due strade: o sperare ancora di più o augurarti che muoiano presto. Ma è un atteggiamento che stride con la natura stessa dei bambini. Per loro speri sempre il meglio. È come in guerra: ci sono la preghiera o la bestemmia, non la negazione di Dio che è un’altra cosa. Il Bambino Gesù mi ha avvicinato alla fede in modo quasi animalesco».

Nel libro si legge che «il bianco della pagina è un ultrasuono» che chiede e chiama.

«La scrittura è qualcosa di spietato, esigente, senza mediazioni. Avere in dote la possibilità di raccontare il dolore degli altri per me è quasi una missione, un onore. Non riesco a immaginare niente di più edificante».

Che cosa pensò quando il presidente del Bambin Gesù le propose di scrivere un libro sull’ospedale?

«Ho capito la grandezza della libertà. Solo un uomo libero accoglie un ragazzetto sconosciuto in divisa da operaio e gli offre la possibilità di scrivere un libro da regalare ai dipendenti. Come quella suora che ha visto la bellezza in quel bambino martoriato dalla malattia, così Francesco Silvano ha visto qualcosa che stava oltre, contraddetto dagli occhi. È una capacità che hanno solo gli uomini di fede».

Com’è passato dalle pulizie al Bambin Gesù alla fiction di Rai 1?

«Alla presentazione di una raccolta per ClanDestino venne Eleonora Andreatta (oggi capo di Rai fiction ndr) e mi propose di collaborare come lettore dei copioni. “Guardi che sono un operaio”, dissi. Aveva letto le poesie di Bambino Gesù: “Non si preoccupi, m’interessa il suo sguardo. Poi la Rai ha i corsi…”. Nei primi tempi facevo le notti in ospedale e poi venivo in Viale Mazzini».

Ora il Bambin Gesù lo frequenta da genitore?

«Al primo figlio era stata diagnosticata una patologia semi autistica. Stiamo seguendo un protocollo, sono spesso lì».

Storia circolare?

«Tempo circolare (poesie 2019-1997) sarà il titolo del libro che uscirà in aprile da Pequod edizioni».

Torna alla poesia e abbandona la prosa?

«In gennaio, sempre da Mondadori, dovrebbe uscire Tutto chiede salvezza, basato sull’esperienza di quando, a vent’anni, mi svegliai in un reparto psichiatrico per un trattamento sanitario obbligatorio. L’argomento è la malattia mentale. Mi sembra che cresca una certa medicalizzazione dell’esistenza. Preciso: non c’entro nulla con i no vax».

Mi fa un esempio di medicalizzazione dell’esistenza?

«Si fa un gran parlare di nevrosi, disturbi, psicosi. Un ragazzo che inizia a interrogarsi sulla vita e non è più produttivo a scuola viene subito spedito dallo psicologo. È accaduto a mio figlio. Quando disse a una neuropsichiatra: “Non capisco perché mio padre deve morire, sono arrabbiato con Dio”, lei ci convocò: “Chi parla di Dio in casa? Dio è un dato ambientale”. Sottolineo: mai parlato di Dio con mio figlio. Una volta uno così lo si mandava a lavorare e a farsi le ossa, com’è accaduto a me».

La Verità, 24 marzo 2019