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Perché Bisteccone andava bene e Lele Adani no?

Due parole, in chiusura, sulla querelle Lele Adani. Raramente un commentatore sportivo ha diviso quanto Daniele Adani, etto Lele. C’è chi lo vorrebbe silenziare per sempre e chi vorrebbe beatificarlo, in Sudamerica, Argentina e Uruguay soprattutto. I n fatto di telecronache e commenti, io ho gusti diversi. Per dire: mi piaceva molto Paolo Rosi, il suo tono che sapeva essere epico pur restando compassato. Come quando commentò l’ultimo drammatico giro di pista della maratoneta Gabriella Andersen Schiess alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Barcollante, al limite dello svenimento, eppure determinata a tagliare il traguardo sebbene 15 minuti dopo l’arrivo della vincitrice. Paolo Rosi era stato un ottimo rugbista, vincitore di due scudetti e anche capitano della Nazionale e quando commentava l’atletica, il rugby e il pugilato trasferiva il pathos di quegli sport senza increspare la voce. Un altro che ho amato molto è stato Sandro Ciotti. Per la ricchezza del vocabolario e la capacità di tratteggiare gli avvenimenti con veloci pennellate. I non più giovani come me ricorderanno «ventilazione inapprezzabile», un capolavoro della sottrazione. Ecco la parola. Raccontare sottraendosi: per lasciare la ribalta ai fatti, agli avvenimenti. Altri due che ho molto amato sono stati Rino Tommasi e Gianni Clerici, una combinazione irripetibile di tecnica e poesia, di conoscenza e letteratura, sui quali sono stati scritti diluvi di elogi ai quali non serve aggiungersi. Alla loro scuola non sono iscritti molti dei cronisti e commentatori di oggi: dai tempi di Rosi e Ciotti (e di tanti altri) i tempi sono di molto cambiati. C’è stata la rivoluzione digitale, sono arrivati i social e sembra che, per farsi sentire, per imporsi, si debba gridare, esagerare. Per fare dei nomi, Fabio Caressa, Franco Bragagna e altri che tendono a sovrapporsi. Spesso, nel tentativo di esibire la loro competenza, inondano i telespettatori di nozioni inutili o per lo meno marginali rispetto a ciò che si sta vedendo.

C’è però un’altra scuola, più vicina a quella di Lele Adani, che in questi giorni nessuno ha citato. La scuola di Giampiero Galeazzi, in particolare quando commentava il canottaggio, le imprese dei fratelli Abbagnale, lui che era stato a sua volta canottiere di un certo successo. Esaltazione allo stato puro. Bisteccone Galeazzi saliva con la sua voce e il suo crescendo da infarto sull’armo dei «fratelloni» facendolo diventare un tre con. Galeazzi ci andava bene, Adani no. Perché, si dice, i suoi commenti sono costruiti. Non lo so, non credo, ma anche se lo fossero?

Io penso che Adani sia soprattutto un innamorato del calcio, del bel calcio. E, dunque, dei calciatori che dispensano bellezza giocando. Intervistato da Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, nella sua classifica delle preferenze ha messo in cima Diego Armando Maradona e non era difficile. Ma ha anche detto che ogni generazione ha il suo idolo, il suo prediletto. Ecco, personalmente sto con Pep Guardiola che esalta Johan Cruijff, padre di Van Basten, senza togliere nulla a tutti gli altri… Adani, dunque, si esalta con i calciatori sudamericani di cui conosce caratteri, retroterra, formazioni, abitudini, quartieri di provenienza. Ciò che divide maggiormente dei suoi commenti sono questa enfasi, questo sguardo esagerato sul futebol, sul calcio sudamericano. In particolare, durante questi Mondiali, le sue metafore bibliche, Messi che «trasforma l’acqua in vino»; Maradona che aveva profetizzato: «dopo di me verrà un altro numero 10…».

Eccessi, esagerazioni. Meglio lasciar stare i riferimenti evangelici. Ma chissà, Adani vuol giocarci un po’, magari rendendoli più famigliari. È proprio così scandaloso? Forse conviene non prendere tutto troppo sul serio. Stiamo sempre parlando di una palla rotonda…

Mondiali di calcio? Per la Rai un’occasione sprecata

Martedì mi ero fatto un bel programmino mondiale. Su Rai 1 erano previste Portogallo-Svizzera alle 20, interessante per vedere i lusitani senza Cristiano Ronaldo, e Spagna-Marocco alle 16, dal risultato non scontato, con i nordafricani pieni di calciatori di qualità, da Hakimi (Paris Saint-Germain) a Mazraoui (Bayern Monaco), da Amrabat (Fiorentina) a Zyech che apprezzo dai tempi dell’Aiax. Il programmino era semplice: siccome nel pomeriggio ero impegnato, avevo pensato di registrare entrambe le partite rinviando a fine giornata la scelta, evitando d’imbattermi in notiziari sia televisivi che online (cosa tutt’altro che semplice, basta pensare alla funzione di Google Discover). Arrivato a sera inizio a guardare in diretta il Portogallo ma, dopo un paio di smorfie del Cr7 panchinaro e di gol nella porta elvetica, mi oriento sul match tra le nazioni divise dallo stretto di Gibilterra che, considerati i contenziosi storici pregressi, forse non sarebbe stata solo una sfida di calcio. Sul campo, però, non sembra esserci acrimonia, la partita è godibile e il telecronista Dario Di Gennaro trova pure modo di avvertire d’emblée i telespettatori che il «16 dicembre Walter Veltroni racconterà Pio La Torre su Rai 3». Tornando al matc, la Spagna di Luis Enrique «fa la partita» ruminando il suo tiki taka con gli enfant prodige Gavi e Pedri, il Marocco se ne sta rintanato, replicando con blitz affidati a Zyech e Boufal. Alla fine dei tempi regolamentari siamo ancora «a reti inviolate» e si va ai supplementari.

Il vantaggio di guardare una partita registrata è che si possono annullare le pause come l’intervallo, le sostituzioni e gli infortuni, applicando una sorta di tempo effettivo. Pigiando il tasto di avanzamento, però, mi accorgo che la registrazione si avvicina pericolosamente alla fine e nella mia testa si affollano i calcoli tra il tempo mancante al completamento dei supplementari e quello registrato ancora residuo. Tra recuperi e interruzioni realizzo che se «si ricorrerà alla lotteria dei rigori» il segmento rimasto è disperatamente insufficiente. Mentre il nervosismo sale, l’immagine si blocca su Sarabia che «stampa sul palo» la più ghiotta delle occasioni. Dopo 2 ore e 55 di registrazione, su Rai 1 parte L’Eredità: il risultato è che, non so bene perché, i rigori posso solo sognarmeli. Non resta che tornare alla programmazione in diretta per provare a recuperare il finale di partita. Ma al Circolo dei mondiali una giornalista esperta di ciclismo con braccialetto arcobaleno – i diritti, i diritti -, un’ex olimpionica di salto in alto che recita da zia stralunata e una madamina torinese sdilinquita per le sorti della povera Juventus sono ai saluti. Pubblicità, promo di Bruno Vespa e  si va sul cazzeggio della Bobotv. Maltratto il telecomando digitando il 5058 di Raisport (sulla piattaforma Sky) dove volteggia una coppia di pattinatori, ma non c’è tempo di ammirare le gambe di lei che, al primo salto atterra male. Anzi, vista la superficie, «agghiaccia», senza bisogno di aggettivi. Su Sky Sport il rullo informa della vittoria del Marocco ai calci di rigore. Ma pure Alessandro Bonan non dispone di filmati, esclusiva Rai. La quale li usa con parsimonia e, chissà se per motivi ideologici, ha scelto di non dedicare ai mondiali qatarioti né una rete né spazio adeguato. Non resta che riparare nervosamente su Youtube…

 

La Verità, 8 dicembre 2022

Pistolotti e pipponi del Circolo dei Mondiali

Con l’inizio dei Mondiali del Qatar e la contemporanea sospensione dei campionati nazionali, in tutte le reti è partita la caccia ai telespettatori appassionati del «gioco più bello del mondo». Causa assenza dell’Italia, particolarmente in queste prime giornate in cui l’interesse è modesto, bisogna inventarsi qualcosa per attrarre il pubblico orfano di vere competizioni. Così, su Canale 5 Striscia la notizia ottiene il record stagionale (4,5 milioni di spettatori e il 20,3% di share) schierando dietro il bancone Zlatan Ibrahimovic che, come già visto al Festival di Sanremo di Amadeus e di recente a Che tempo che fa, come testimonial acchiappa ascolti è disinvolto quasi quanto lo è nell’area avversaria. Sky Italia, invece, manda in onda Il grande gioco, una serie di Eliseo Entertainment che narra gli intrighi del calciomercato con Giancarlo Giannini nel ruolo del boss di una società di procuratori. Quanto alla Rai è in affanno a giustificare la spesa di 200 milioni per l’esclusiva di un mondiale contestatissimo sia per i gravi costi umani pagati durante l’organizzazione che per il mancato rispetto dei più basilari diritti civili. Come su molti altri argomenti è stato Fiorello a dare la linea, sottolineando la contraddizione della doppia morale perché tutti iniziassero a prendere le distanze e a obiettare contro l’ipocrisia della Fifa che con una mano sventola la bandiera dei diritti e con l’altra incassa oltre 5 miliardi di dollari dagli sceicchi qatarioti. Il risultato è che la Rai prova a destreggiarsi nella strettoia al punto che Alessandra De Stefano, conduttrice del Circolo dei mondiali (nonché direttrice di Rai Sport), ha introdotto il programma con un pistolotto sgrava coscienze che ne ha giustificato la messa in onda. Purtroppo, per dimostrare che si è eticamente ed energeticamente esemplari, poco dopo è arrivata anche la conduzione a lumi di candela che ha trasformato il desk dello studio in una sorta di altare devozionale. Per il resto, la formula è la stessa del Circolo degli anelli, con qualche nuovo innesto che lo rende un po’ più varietà. Come l’aggiunta di una band e il ruolo di Sara Simeoni, agghindata con abiti coreografici, sempre più adorabile zia stralunata della combriccola. Infine, per allinearsi alla moda dello storytelling, ecco il monologo di Gianfelice Facchetti, regista, attore e figlio dell’indimenticato Giacinto, che, ogni sera racconterà un aneddoto. Fortuna che ci sono anche Bobo Vieri e Lele Adani, due che capiscono di cosa si parla, e che poi ritornano con una pillola della loro Bobotv. Sarà un lungo mondiale.

 

La Verità, 23 novembre 2022

«Non amo questo calcio, insegno lealtà ai bambini»

Dopo aver squillato lungamente a vuoto, finalmente al cellulare di Paolo Pulici risponde la moglie: «Paolo è a pesca, non so quando tornerà… Ah, lei è un giornalista? Di solito scappa… Però, se vuol riprovare…». Se già è difficile avvicinarlo a Trezzo sull’Adda dove insegna calcio ai bambini della Tritium, figurarsi ora che è in vacanza. A differenza di Ciccio Graziani che è spesso in tv con le sue giacche sgargianti, l’ex gemello del gol non è mai stato un grande estroverso. Già ai tempi in cui gonfiava le reti evitava la vetrina e ai giornalisti rispondeva a monosillabi. Eppure era uno dei leader dello spogliatoio, incarnazione dell’orgoglio granata che alla vigilia di un derby gli fece dire: «Noi siamo il Toro e loro no».  Nel 1976, insieme con Luciano Castellini, Eraldo Pecci, Renato Zaccarelli, Claudio e Patrizio Sala, conquistò lo scudetto proprio davanti alla Juve. Puliciclone, lo chiamavano. Un bomber d’altri tempi: quelli di Gigi Riva, Roberto Boninsegna, Roberto Bettega, Pierino Prati e Giorgione Chinaglia. E un calcio d’altri tempi: quelli delle partite alla radio, in attesa di un tempo di una in tv, differita alle 19. Preistoria. Smessi gli scarpini, Puliciclone iniziò ad allenare al Piacenza, ma si ritirò presto per dedicarsi ai pulcini. Tutti gli anni in giugno si trasferisce con sua moglie all’Elba. «Sono 40 anni che veniamo vicino a Porto Azzurro. Ce ne stiamo tranquilli, mi stacco quasi completamente dal pallone e ritrovo i miei amici».

Lombardi o locali?

«In prevalenza elbani. Andiamo a pescare, ma non sempre nello stesso posto, perché non è che i pesci stiano lì ad aspettarci. Poi la sera mangiamo il pesce in compagnia».

Pesca d’altura?

«A volte. Qualche tonnetto, qualche pesce spadino… oppure con la pesca a traina, dentici, spigole, orate».

Il pesce è ciò che ama di più del mare?

«Mi piace anche il silenzio, il sole. Quando si è in barca l’unico rumore è quello del vento. Nessuno parla o chiacchiera per niente. In un mondo in cui tutti urlano, ci godiamo il silenzio in mezzo al mare».

Che cosa fa quando non va a pesca?

«Lunghe passeggiate con mia moglie. Abbiamo la fortuna di stare dove si vedono i delfini o qualche balenottera, uno spettacolo che appaga».

Paolo Pulici quand'era Puliciclone e oggi

Paolo Pulici quand’era chiamato Puliciclone e oggi

Amava il silenzio anche quando era Puliciclone?

«Ho sempre preferito il silenzio dentro di me al caos dello stadio. Cercavo la concentrazione, mi isolavo. L’urlo dei tifosi però mi faceva sentire la vicinanza della porta».

Sta seguendo i Mondiali?

«Poco. Preferisco starmene fuori con gli amici. Al massimo vediamo la partita della sera, giusto per mantenerci informati».

Li ha seguiti poco perché manca l’Italia?

«No. Non è una cosa che mi attira più di tanto».

Il resto del calcio le piace?

«Non molto. Oggi è tutto impostato sulla stella, sui giocatori che si credono fenomeni. Io l’ho sempre vissuto come un gioco di squadra. Il gol era la finalizzazione del lavoro di tutti. Se ho in mente di fare il mio lavoro, non mi rotolo per terra e appena l’arbitro fischia mi alzo e corro più di prima. Mi sembra che oggi si faccia tutto per i soldi, non per far contenti i compagni e i tifosi. Contano molto i diritti televisivi, così ci sono partite tutti i giorni e a tutte le ore».

Anche Arrigo Sacchi dice che ci siamo dimenticati che il calcio è uno sport di squadra.

«Nel calcio è già stato inventato tutto: basta imparare da quelli che l’hanno fatto prima e metterlo in pratica nel miglior modo possibile».

I diritti televisivi però consentono alle squadre di vivere.

«Le squadre vivono perché i tifosi comprano le partite, non solo per gli sponsor. Noi giocatori senza tifosi siamo nessuno. Più tifosi abbiamo più vuol dire che siamo bravi. I diritti tv dovrebbero essere distribuiti in modo paritario, non in base alla posizione di classifica. Una partita tra la prima è l’ultima è fatta sempre da due squadre. Se ne manca una non c’è la partita».

Guarda i programmi di calcio in tv?

«Quasi niente. Ho smesso anche di partecipare perché non era facile riuscire a dire ciò che pensavo. C’erano troppe diplomazie. Così ho fatto questa scelta. Quando guardo le partite tolgo il volume per pensare quello che vedo io».

Bruno Pizzul dice che a volte preferisce seguirle alla radio.

«In tv vedi quello che ti vogliono far vedere, alla radio il commento segue la palla. Vengono nominati i calciatori che la toccano. È una cronaca con meno fronzoli, più vicina al calcio vecchia maniera».

Il suo gemello Ciccio Graziani è una presenza assidua nei talk show.

«Ognuno è libro di fare ciò che vuole, si vede che è a suo agio. Ormai lo sanno tutti che ho fatto un’altra scelta e non provano più a invitarmi».

Che rapporti ha mantenuto con gli ex compagni?

«Ottimi con tutti, ci stimiamo e rispettiamo. Anche se non ci si frequenta molto, quando ci rivediamo per le iniziative dei tifosi è come se fossimo stati insieme fino a ieri. Se vado a Torino trovo Zaccarelli, Sala e Roberto Salvadori, a Riccione c’è Pecci. Castellini vive sopra Como e lo vedo di più».

Perché la maglia del Toro è così importante?

«È stata la prima squadra vera che ho avuto dopo il Legnano, quando ancora lavoravo… Se giochi 15 anni nella stessa squadra hai un attaccamento diverso. Riva non ha mai voluto cambiare squadra. Io ho finito la carriera nella Fiorentina perché qualcuno non mi voleva più. Poi il Toro è la squadra di Torino, in città ci sono più torinisti che juventini. Nei derby ce la mettevamo tutta per far contenta la città».

Anche Gigi Riva aveva cominciato nel Legnano.

«Ho esordito in prima squadra contro il suo Cagliari. Trovarsi avversario uno come lui è stato uno stimolo per cominciare bene la carriera».

Come mai ha deciso d’insegnare il calcio ai bambini?

«Ho fatto quello che hanno fatto con me. Quello che mi avevano insegnato volevo metterlo a disposizione degli altri. Poi c’è chi impara e chi no, dipende dai bimbi. Quando finiamo l’allenamento e vedo che sono contenti per me è una grande soddisfazione».

L’idea di stare con i bambini quando le venne?

«Devo ringraziare Titta Rota che voleva farmi giocare ancora nel Piacenza, in C2. Ma non mi sembrava giusto prendere lo stipendio per il nome. Così ho lasciato spazio ai più giovani e ho cominciato a dargli una mano, cercando d’imparare a fare l’allenatore. Ci sono rimasto quattro anni. Poi, dopo un episodio spiacevole, un litigio con i genitori di un giocatore per una questione di soldi, ho scelto di dedicarmi ai bambini».

Qual è la cosa più importante che vuole trasmettere loro?

«La lealtà e il rispetto dei compagni e degli avversari. E poi l’abc del calcio. In prima elementare non posso chiedere di scrivere un tema. Prima devo insegnare le lettere dell’alfabeto e i pensierini. Oggi nel calcio non si insegnano più lo stop, il controllo della palla, il passaggio di piatto, il passaggio rasoterra, il colpo di testa tenendo gli occhi aperti… Si parla solo di diagonali, sovrapposizioni, raddoppi di marcatura, cose che vengono dopo…».

Bruno Pizzul dice che imbottiamo i bambini di tattica e giri di campo, così ci sono le scuole calcio ma non i campioni, perché i ragazzini si stancano presto.

«I giri di campo però servono. Oberdan Ussello, un allenatore cui devo molto, diceva: “Ricordati che il pallone non suda, ma tu per prenderlo sì”. È stato lui a insegnarmi a usare tutt’e due i piedi. Madre natura ce ne ha dati due e quello d’appoggio è più forte e potente perché regge il peso del corpo quando tiri e quando salti per colpire di testa. Io sono nato destro, ma tanti credevano fossi mancino».

Cosa pensa dei genitori che assistono alle partite dei figli?

«È il problema maggiore. Molti pensano che loro figlio debba per forza essere un fenomeno, per guadagnare e diventare famoso. Questa smania li porta a litigare a bordo campo, a insultare gli arbitri o l’allenatore perché fa giocare troppo poco il loro ragazzo. In realtà, a certi livelli, tutti dovrebbero giocare più o meno lo stesso tempo. Quando sono piccoli, il primo obiettivo dev’essere il divertimento. I miei, se per caso piove e dico che quel giorno non si fa allenamento, mi picchiano».

C’è qualcuno dei bambini della Tritium che è arrivato in serie A?

«Negli anni, tra Atalanta, Milan e Inter, una ventina, ma preferisco non dirlo. Per me è un traguardo vederli nella nostra prima squadra, in eccellenza. Poi, se qualcuno diventa professionista è perché è stato bravo lui ed è uno stimolo per tutti. Io non prometto a nessuno di arrivare in serie A, ma di diventare un buon calciatore. Li incoraggio e se fanno un bel gol dico: “Hai segnato come Gigi Riva o come Ronaldo”. Come dicevano a me, indicandomi Valentino Mazzola o Julio Libonatti».

Che calcio guarda in tv?

«Seguo un po’ il Toro, anche perché i tifosi sono malati e chiedono sempre le mie opinioni. Poi guardo il calcio inglese e tedesco dove ci sono meno sceneggiate. È un calcio più schietto, che punta allo scopo, fare gol e vincere. Una volta il tiki taka si chiamava melina. Ora si parla continuamente di possesso palla, si cerca il fallo per far trascorrere il tempo e appena ti toccano ci si butta a terra con le mani sulla faccia. Un pessimo esempio per i bambini».

Qualche modello positivo c’è?

«Diciamo che tendo a non parlare troppo, ma a mostrare come si fa. Con l’esempio imparano prima ed è una doppia soddisfazione. Le parole le usiamo tra noi adulti».

Le hanno mai chiesto di tornare ad allenare a livelli più alti?

«Sì, ma ho sempre rifiutato».

 

La Verità, 9 luglio 2018

 

«Balalaika», il varietà di calcio venuto male

Un calderone. Un carrozzone. Un mischione venuto male. Con gli ingredienti non amalgamati. Balalaika – Dalla Russia col pallone è il programma di punta di Mediaset per i Mondiali 2018. Va in onda su Canale 5, alle 22, dopo i match più importanti che spesso superano il 30-35% di share (oltre 7 milioni di spettatori). Eppure l’audience precipita al 12% (2 milioni). Lo share non sempre è un test sulla qualità del programma in questione. Però se si perdono milionate di telespettatori, qualcosa vorrà dire. Alla presentazione del palinsesto, Pier Silvio Berlusconi aveva parlato di «Mondiali allegri e brillanti» e si era subito immaginata una formula che rifuggisse le analisi seriose e compiaciute di certi sacerdoti del pallone o di altri narratori dell’estetica sportiva. Si era anche intuita la strizzata d’occhio al pubblico femminile, da richiamare davanti alla tv dopo i match, esclusiva maschile. Dunque, la formula scelta è: calcio e belle figliole. L’alchimia, però, non è riuscita. Lo studio costruito a mo’ di agorà, con ospiti e opinionisti disposti in modo circolare, funziona se esiste un centro dotato di carisma e competenza. Invece, reduce da Quelli che il calcio e da ’90 Special, Nicola Savino è un surfista della scaletta, specialista nel cazzeggio. Quanto all’effervescente Ilary Blasi non può essere lei a conferire spessore al discorso. Nella prima puntata, l’incursione di Gerry Scotti, ricordata per una battuta borderline su Belén Rodriguez, una delle tante, giocava su questo – «Confalonieri mi ha mandato per verificare se qui c’è qualcuno che capisce di calcio…» – innescando una gag per sbeffeggiare Savino. Nella serata dopo Brasile Svizzera si sono smussati alcuni eccessi. Ma per ora non sembra che Mediaset sia riuscita a indovinare la formula del varietà postpartita. Non si tratta di aggiungere seriosità, ma di trovare un equilibrio, un baricentro attorno al quale sviluppare un discorso fruibile, senza continue sovrapposizioni di commenti, battute, risate, ritardi di linea per i collegamenti via satellite. Invece, Balalaika è un patchwork con troppi sapori, tutti accennati. Troppi ospiti, troppi commentatori che non hanno spazio adeguato e non dialogano tra loro. Troppa comicità, da quella abrasiva della Gialappa’s band a quella lunare del Mago Forest a quella sardonica di Diego Abatantuono, camuffato da lenti a contatto azzurre. E poi mimi, imitatori, contorsionisti. Si lavora per accumulo, aggiungendo componenti alla ricetta, che invece di accontentare tanti palati rischia di non soddisfarne nessuno.

La Verità, 19 giugno 2018

«Le partite? Preferisco seguirle alla radio»

Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell’inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com’è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L’ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand’era già in pensione dalla Rai.

Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell’intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.

Ti sei riascoltato su La7?

«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo».

Da quanto sei tornato quassù?

«Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».

Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata…

«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L’altra mattina mia moglie borbottava: ≤Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…≥».

La vita di provincia più tranquilla è un’idea da sfatare?

«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c’è il Collio».

Patria del vino.

«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».

Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell’ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.

«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell’Ischia».

Come accadde?

«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c’era un’équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».

Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?

«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c’erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…”.  Era Candido Cannavò».

Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?

«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti».

E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…

«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Nel dopoguerra c’era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».

Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?

«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l’avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».

Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d’ora in ritardo.

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