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«Senza la politica non si programma la rinascita»

Onorevole Rino Formica, che cosa vede dalla sua casa romana?

«Vedo troppa improvvisazione. E la tendenza a utilizzare l’emergenza come alibi per non affrontare i problemi di lungo respiro».

Quali sono?

«È urgente intervenire sugli assetti costituzionali del Paese. Ma questo richiede un pensiero politico e forze in grado di sostenerlo: entrambi evanescenti. Non è una situazione nata di recente, da trent’anni viviamo una decadenza morbida».

Novantaquattro anni compiuti, già ministro delle Finanze dei governi Spadolini e Andreotti, Formica unisce alla saggezza e alla lucidità dell’analisi la grande passione per la politica. Che «è stata abolita».

Come ha vissuto la pandemia?

«Come la può vivere chi si trova di fronte a una novità, non del tutto inimmaginabile».

In che senso?

«È un fenomeno che ha imposto un livellamento in una società organizzata in diseguaglianze. Chi ha la mia età ha vissuto situazioni drammatiche che però non erano mai l’ultima spiaggia. Invece, la pandemia ha fatto riflettere sulla possibilità dell’ultima spiaggia per tutti. Se non si fosse realizzato il vaccino in pochi mesi saremmo ancora ostaggi di un fenomeno distruttivo e fuori controllo».

Che prova è stata per la politica italiana?

«Penso che abbiano guadagnato punti coloro che ritengono che la politica sia un lusso, un filosofare, un perdere tempo».

Amara conclusione.

«Sì, perché questa situazione ci rende più deboli nell’affrontare i problemi del ritorno alla normalità. La crisi dei partiti è innanzitutto la crisi del pensiero politico. La riprova l’abbiamo nel fatto che ogni giorno nascono nuovi partiti in Parlamento, ma non nel Paese».

Si riferisce a Coraggio Italia?

«È l’ultimo esempio. Che ne sarà di questi partiti parlamentari quando si voterà? Vediamo alle elezioni amministrative che i partiti scompaiono e diventano forze civiche».

Sulla pandemia l’Europa si è mostrata lenta e farraginosa?

«Meno di quanto lo è stato il rapporto tra le giunte regionali e il governo nazionale».

Perché manca omogeneità politica?

«L’omogeneità si misura rispetto al pensiero politico che invece latita. Prendiamo la Lega e il Pd: oggi, a tre quarti della legislatura, sono diversi da come sono entrati in Parlamento. Diversi nella leadership, nelle prospettive, nelle alleanze, nelle collocazioni».

Che cosa disapprova di questi cambiamenti?

«Che avvengano nel chiuso di club oligarchici se non addirittura nella mente del capo carismatico. Posso anche approvare la conversione europeista della Lega, ma vorrei sapere com’è avvenuta e come si è radicata».

E cosa pensa dell’evoluzione del M5s?

«Penso che non ha più un dirigente né un’idea. Non rappresenta più il populismo giustizialista delle origini e nemmeno “il partito del No”. È in disfacimento».

Perché non si fanno più i congressi di partito?

«Per due ragioni. Fino agli anni Sessanta i partiti erano l’unico centro di elaborazione politica, poi anche le istituzioni si sono politicizzate. Oggi il congresso dell’Anm è un congresso politico. Questa pluralità di confronto è un bene perché investe l’intera società».

E la seconda ragione?

«Dall’abrogazione delle ideologie è derivata l’abolizione della politica. Come ci può essere confronto in un partito se non c’è un pensiero da aggiornare? Il paese che ha strutturato il partito moderno è la Germania. Nella socialdemocrazia e nel Partito popolare tedesco c’erano congressi strategici, relativi al lungo periodo, e congressi tattici. Anche in Italia era così».

Oggi i social hanno sostituito i congressi e la politica è diventata propaganda?

«Il primo insegnamento ricevuto dai vecchi compagni è stato questo: la politica vive tutti i giorni e se tu non te ne occupi qualcun altro lo fa al posto tuo. In un mondo globale e interconnesso, l’assenza di soggetti forti è rimpiazzata da interferenze di carattere internazionale. Perciò, sono sorpreso quando qualcuno si scandalizza perché cinesi e russi s’interessano all’Italia. È sempre avvenuto, ma una volta esisteva un Paese impermeabile alle contaminazioni esterne».

Se la politica diventa propaganda è naturale che per governare si ricorra a figure extraparlamentari come Mario Monti, Giuseppe Conte e Mario Draghi?

«Nessun partito di governo mostra capacità di attrazione alla coalizione. Ognuno pensa per sé. Al massimo si fraziona il potere con il manuale Cencelli, ma poi prevale il caos in cui chi prima si sveglia ruba le scarpe al fratello».

Come tra Lega e Pd?

«Esatto. L’idea che destra e sinistra non siano più il principio selettivo fa convergere tutti al centro. Ma è un centro di mediazione di poteri e non di idee. Così si ricorre a una sorta di arbitraggio esterno. Con Conte e con Draghi siamo entrati in una fase di centrismo post democristiano di matrice andreottiana».

Qual è l’alternativa?

«Costruire un pensiero politico di sistema e non di parte. Dobbiamo giudicare gli atti di governo in base all’aumento o alla diminuzione delle diseguaglianze sociali. È la riflessione provocata da Enrico Letta con la proposta della tassa di successione per aiutare i giovani».

Era il momento di farlo?

«Ha sbagliato tempo e modalità, ma ha posto il problema».

Concorda con Draghi per il quale questo è il momento di dare e non di prendere?

«Credo che l’esempio della tragedia di Stresa sia illuminante. Per superare la crisi del turismo si dà il bonus, ma poi i turisti muoiono. Voglio dire: non c’è più debito buono o cattivo, ma un debito che aumenta o diminuisce le diseguaglianze».

C’è un uso buono e uno cattivo del debito. La pandemia ha risparmiato i garantiti, statali e pensionati, e penalizzato i non garantiti, artigiani e commercianti?

«Per questo bisogna rivedere lo stato sociale. Serve una nuova solidarietà. Finora crediamo di aver risolto la crisi con la tacitazione della protesta, con l’indebitamento trasferito alle nuove generazioni e con l’abbandono di intere aree disastrate del Paese sia al sud che al nord».

Bisogna rivedere anche lo schema destra-sinistra?

«Bisogna stabilire dove andare a prendere il denaro. Non è solo un problema di tassazione, anche l’assistenzialismo che disincentiva il lavoro non ha senso. Dobbiamo rispondere ad alcune domande: la crescita è spontanea o guidata? Qual è il ruolo pubblico nello sviluppo dell’economia? Come si risolveranno i problemi delle aziende in crisi che non reggono l’evoluzione del mercato?».

Però la mappa è cambiata, oggi le istanze popolari e delle periferie sono interpretate dalla destra.

«Non sono sicuro che la lotta alle diseguaglianze resterà configurata come oggi».

Dipende se la sinistra continuerà a privilegiare i diritti civili su quelli sociali.

«Dubito che il Pd riuscirà a mantenere una linea pariolina quando il sindacato di riferimento si radicalizzerà con l’aggravamento della condizione dei lavoratori. Lo spostamento a destra del Pd e a sinistra della Lega deriva dalla tregua sociale mantenuta dagli scostamenti di bilancio, dai sussidi e dalla tolleranza dell’Europa verso il nostro debito. Questa situazione volge al termine perché gli interventi salvifici della Bce scadono e l’anno prossimo si dovrà rientrare nei parametri».

Non è un annuncio un po’ precoce?

«Non credo. Le classi dirigenti si misurano dalla capacità di anticipare le visioni e non di vedere ciò che già è avvenuto o di occultare ciò che sta per succedere. Draghi sa molto più di ciò che dice e se si mantiene sul presente è perché potrebbe essere destabilizzante parlare del futuro».

Vorrà affrontare un’emergenza alla volta?

«Un uomo di governo deve conoscere l’itinerario. Draghi non è stato chiamato per governare i prossimi vent’anni, ma per mettere in piedi il Paese. C’è la necessità di sopravvivere oggi, ma c’è anche l’esigenza di creare la muscolatura per poter correre domani».

È favorevole a prolungare il blocco dei licenziamenti?

«Io sono favorevole al blocco dei licenziamenti purché si dica che il differimento del debito sarà pagato in termini di sviluppo. Nessun pasto è gratis. Non possiamo cavarcela dando 10.000 euro a un giovane al quale abbiamo messo 100.000 euro di debito sulle spalle».

Il ripristino della tassa di successione per sostenere i giovani è una panacea?

«Soprattutto è la tassa più facile da evadere, chi ha patrimoni importanti trova mille modi per aggirarla. Se Letta avesse proposto il 5% di Iva in più sulle auto di lusso, quella sì sarebbe stata un’imposta certa».

Qual è il suo giudizio sui 100 giorni del governo Draghi?

«È stato aiutato dalla fortuna e poi ha fatto qualche buona scelta, per esempio nell’organizzazione della vaccinazione. Però, liberiamoci dai luoghi comuni consolatori. Non abbiamo goduto di maggiore indulgenza internazionale di quella che avremmo comunque avuto essendo il Paese più disastrato d’Europa. Nessuno può permettersi il crollo dell’Italia. Per Draghi il difficile verrà con il semestre bianco perché non ci sarà il paracadute delle elezioni anticipate».

Che cosa accadrà?

«La questione sociale dovrà trovare un punto di sfogo. Se sarà impetuoso come ci si aspetta, potrà travolgere anche chi proverà a cavalcarlo. L’incantesimo di quest’anno e mezzo, in cui si è pensato di lavorare stando a casa o di vivere con i sussidi, si è rotto. Chi non lo vede o finge o è cieco. Quando il potere non potrà più distribuire dovrà rispondere alle domande. Se non saprà farlo potrà nascere un contropotere che può vincere o essere represso con la forza. Siamo vicini al bivio».

Fosca previsione?

«La dico in un altro modo. Stiamo scalando la vetta e finora, con sussidi e sostegni, abbiamo cambiato i rapporti. Ma adesso sono finiti e si va su solo con i muscoli. Non possiamo più ipotizzare il futuro perché ci siamo già dentro».

Nella sua palla di vetro chi vede al Quirinale e a Palazzo Chigi nel maggio del prossimo anno?

«Non faccio nomi, ma identikit. Al Quirinale vedo qualcuno che per cultura ed esperienza incarni la difesa della Carta costituzionale, slegata dai trasformismi degli ultimi trent’anni. Immagino una donna. Quanto al capo del governo, lo sceglierà lei».

 

La Verità, 29 maggio 2021

Scacco ai partiti nella Rai in cinque mosse

Fuori i partiti dalla Rai è uno di quei propositi che contende il primato di non credibilità a quello di riportare trasparenza negli arbitraggi della Serie A. O, in alternativa, a quello, altrettanto abituale e annoso, della semplificazione burocratica. Puntuale, a ogni cambio di governo, leader e segretari di partito proclamano ai quattro venti l’obiettivo di affrancare la tv pubblica dalla politica. Stavolta, dal piedistallo della lottizzazione perpetrata negli ultimi anni, è stato l’ineffabile Enrico Letta, subito imitato dall’ex premier Giuseppe Conte, a pronunciare la frase fatidica, proprio mentre manovrava per influenzare le nomine in divenire dei nuovi vertici. Lo stupore è in modica quantità. La prima volta che si è sentito annunciare il «vasto programma» il Muro di Berlino era ancora in piedi, la Democrazia cristiana vinceva le elezioni e la Seicento multipla circolava sull’Autostrada del Sole. Da allora sono cambiati quattro o cinque papi, internet ha cambiato il mondo e Ciriaco De Mita, riconosciuto sponsor dell’ormai leggendario Biagio Agnes, fa il sindaco di Nusco. Quest’ultimo esempio è solo per dire che ci sono cose che non cambiano mai. Come appunto la governance del servizio pubblico radiotelevisivo: passano i decenni, si scavallano i secoli e sentiamo ripetere che bisogna estromettere la politica dalla tv di Stato. Chi ci riuscisse davvero sarebbe unanimemente riconosciuto benefattore dell’umanità, meritandosi un monumento a futura memoria al posto del cavallo morente di Viale Mazzini o davanti a Palazzo Montecitorio, fate voi. Il fatto che al proclama non seguano mai le azioni dipende da un semplice assunto: la politica dovrebbe tagliare il ramo su cui sta a cavalcioni. La Rai è, infatti, il posto delle prebende, la riserva del regime, il giardino del potere. Inevitabile che lo scetticismo domini, motivo per cui questo articolo nasce morto prima ancora di essere scritto. Se una minuscola fiammella lo giustifica è il fatto che stavolta al governo c’è una maggioranza ampia, guidata da un premier che appare poco ricattabile dai vari schieramenti. Ecco dunque alcuni suggerimenti non richiesti a chi volesse prendersi la briga.

  1. Il primo intervento dovrebbe essere la creazione di una Fondazione pubblica, un Ente per l’audiovisivo o un Comitato dei saggi, su modello della Bbc inglese, composto da personalità della cultura di riconosciuta autorevolezza da pescare nell’ambito delle università, degli enti locali e dell’editoria, nominato dal Parlamento e in cui ogni membro dovrebbe avere il voto dei due terzi dei parlamentari. L’organismo avrebbe il compito di esaminare i curriculum dei componenti del Consiglio di amministrazione dell’azienda in base alle competenze in materia di comunicazione, nuove tecnologie, politiche aziendali eccetera, tra i quali verrebbero scelti, previa approvazione dell’azionista, ovvero ministero dell’Economia e presidente del Consiglio, l’amministratore delegato e il presidente.
  2. I massimi vertici del servizio pubblico avrebbero un mandato di cinque anni, necessari per realizzare una politica editoriale adeguata a un’azienda di 13.000 dipendenti che deve affrontare un mercato globale sempre più sofisticato e agguerrito. L’allungamento del mandato servirebbe a rafforzare le figure apicali, rendendole meno fragili ed esposte ai mutamenti degli assetti della politica. Allo stesso scopo è auspicabile l’eliminazione del tetto dell’emolumento, così da rendere competitivo e appetibile il ruolo sul mercato. Non è infatti plausibile che un manager di un’azienda privata debba accettare drastiche decurtazioni del compenso per insediarsi in Rai. Lo confermano i numerosi dinieghi registrati anche durante la ricerca in corso dei nuovi vertici. A puro titolo di confronto, il compenso dei massimi dirigenti Mediaset o Sky moltiplica per sei il tetto di 240.000 euro dei manager pubblici.
  3. Andrebbe abolita la Commissione di Vigilanza, strumento di retaggio sovietico attraverso il quale i partiti esercitano il loro controllo sull’azienda. Non sono i commissari politici a dover indirizzare la linea dell’emittente pubblica. Il compito spetta al Consiglio d’amministrazione che approva il piano strategico, il budget, gli eventuali scostamenti e delibera in caso di spese straordinarie, superiori a una soglia particolarmente elevata.
  4. Amministratore delegato e presidente verificano il proprio operato esclusivamente con l’azionista, ministro dell’Economia e presidente del Consiglio, come avviene per enti come Eni, Ferrovie dello Stato eccetera.
  5. Essendo la Rai l’unica azienda televisiva pubblica europea che trasmette pubblicità in tutti i suoi canali, diviene più che mai necessario scorporare la produzione finanziata dal canone di abbonamento da quella sostenuta dagli introiti pubblicitari. La separazione sgraverebbe la programmazione di servizio dal confronto quotidiano degli ascolti con la concorrenza privata. L’obiettivo non è innanzitutto abbassare il tetto pubblicitario alla Rai, finendo per dirottare una parte delle risorse nelle tv commerciali, quanto rendere più trasparente e autorevole l’attività del servizio pubblico.

Scacco al controllo politico della Rai in cinque mosse, ricordando che «il meglio è nemico del bene».

 

La Verità, 21 maggio 2021