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«Canto contro l’Europa che impone leggi assurde»

Dopo 50 anni di carriera in cui ha scritto per sé, per i Decibel e per grandi interpreti della musica italiana, e dopo 40 vite (senza fermarmi mai), la ricca autobiografia pubblicata da La nave di Teseo, Enrico Ruggeri conserva l’energia per creare un album come La caverna di Platone, da oggi disponibile in digitale, in cd e in doppio vinile (con 5 bonus track). Tredici brani schietti, tra citazioni personali e memorie, attraversati da una gran voglia di autenticità, e che non disdegnano di prendere posizione sulla guerra, sugli inganni del pensiero ufficiale e sull’Europa.
Non bisogna mai sentirsi appagati, Ruggeri?
«Essere appagati non è una bella situazione per un artista. Credo di avere ancora tante cose da dire e raccontare».
L’album si apre con Gli eroi del cinema muto, un brano commovente ma non nostalgico, che tratteggia le figure di quegli attori che rendevano tutte le sfumature dei sentimenti «senza una sola battuta»: un bel punto di vista rispetto alla società parolaia attuale.
«È il mio pezzo preferito».
Perché?
«Mi sono commosso anch’io, scrivendolo, perché è una bella storia. Quando è arrivato il sonoro la generazione di super-divi degli anni Dieci, Venti e Trenta del secolo scorso è stata spazzata via dal futuro. Quasi nessuno è sopravvissuto a quello tsunami. È un pezzo malinconico ed epico, in cui mi pare di aver dosato bene gli ingredienti. Sono contento che l’album inizi con un “Benvenuti” (a questi eroi)».
Trasmettevano la gamma dei sentimenti senza parlare.
«Con lo sguardo dovevano comunicare una sensazione. Arte complicata».
Figure che sono un monito per il nostro presente alluvionato di parole?
«Siamo immersi in un diluvio di parole superflue. Grandi testi ce ne sono sempre meno, sproloqui sempre di più».
Il leit motiv del brano successivo, Il Poeta, dedicato a Pier Paolo Pasolini dice: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare». È questa la lezione che deriva dalla sua vicenda?
«Ma anche da quella di Socrate o dai tanti bruciati sul rogo, da Oscar Wilde a Ezra Pound, fino a Pasolini. Dagli intellettuali scomodi. Come si dice oggi, Pasolini era un personaggio divisivo. Come se uscire dalla narrazione corrente sia in sé stesso un difetto. Invece, i grandi erano e sono divisivi, perché esserlo significa stimolare il dialogo e il confronto. Giorgio Gaber era divisivo, Pasolini super divisivo, persone che non piacevano a tutti».
Nel brano successivo «piovono rose e spade nel cielo di Milano», anche se «non si vede il sole…». Milano è l’avanguardia italiana, possiamo esserne soddisfatti?
«Dal punto di vista della vitalità sì, da tanti altri no. È una città divisa, qui lo dico nell’accezione peggiore, esasperata, violenta. Tuttavia, resto ottimista perché ha in sé un humus di collegamento con il futuro che mi fa ben sperare».
Qual è il suo sguardo sulla morte di Rami Elgaml e i fatti che ne sono seguiti?
«È una brutta storia, strumentalizzata, sulla quale è difficile prendere posizione. Diciamo che le regole vanno rispettate. Ma purtroppo oggi è difficilissimo fare gli agenti o i carabinieri in una città come Milano, dove si deve sempre stare attenti. C’è un’esplosione sociale qui, come in tutta Europa, e purtroppo si specula. Vedo più la caccia all’errore che alla soluzione».
E di come vengono trattati carabinieri e poliziotti cosa pensa?
«Gente che guadagna poco più di mille euro al mese non si merita di essere attaccata. Sto citando Pasolini».
Nella canzone pacifista Zona di guerra, ripete «qui Dio non c’è».
«È una canzone che parla del fatto tragico di per sé della guerra. Ancora più atroce quando colpisce una città abitata da bambini, come a Gaza, perché diventa una strage di innocenti».
«Qualunque sia, Dio non c’è».
«È un posto dove ci sono il Dio dei cristiani, il Dio degli ebrei e quello degli islamici: comunque sia, non c’è. Non si vede».
Che rapporto ha con il sacro?
«Sono un credente, con tutte le perplessità e le fatiche di essere un credente. Ma lo sono».
La caverna di Platone che dà il titolo all’album parla dell’«ultima ingannevole illusione»: qual è questa illusione?

«Pensiamo che ci stiano mostrando la verità, invece ce ne sono mille. Siamo come i prigionieri della caverna che vedevano solo una proiezione del mondo reale e poi scoprono che non esiste una verità assoluta».
Siamo ingannati?
«Più che altro siamo smarriti: leggi una cosa, poi vedi il contrario. Anche sui social si combattono guerre e rischiamo di restare vittime delle tante versioni che ci danno».
Anche l’amore tra un uomo e una donna può essere un’illusione?
«È un’illusione bellissima, che ci porta avanti. Non si può stare da soli, la vita è condivisione e l’amore è la forma più intensa di condivisione».
Poi c’è un brano enigmatico che parla di un problema che accomuna tutti, puoi essere un barbone o un’ereditiera, un tossico o il padrone del sistema: qual è questo problema?
«È il male di vivere, il bisogno di felicità che non dipende da fattori esteriori e passeggeri. Altrimenti non si spiegherebbe perché a New York vanno tutti dallo psicanalista, mentre nell’Africa nera dove si muore di fame, la figura dello psicanalista non c’è».
Invece, «il problema» c’è anche lì?
«Sì, ma lì hanno anche altri problemi. Ognuno ha priorità dettate dal proprio stato psicologico e dalla propria condizione sociale».
La ricerca della felicità accomuna il barbone e l’ereditiera?
«È difficile da raggiungere, indipendentemente dalla collocazione nella scala sociale del mondo».
In Das Ist Mir Wurst (Non mi importa ndr) mette a confronto la storia della grande Europa con le sue cattedrali e i suoi teatri, con «l’Europa delle banche, delle multinazionali, dei centri di potere, della manipolazione del pensiero» che «non è la mia Europa».
«Sono due concezioni opposte. Quand’ero bambino sentivo parlare del sogno di un’Europa comunitaria, unita dalla cultura e dalla fratellanza. Invece, viviamo in un luogo in cui all’improvviso ci danno delle regole. Una mattina ci svegliamo e se proviamo a bere da una bottiglietta d’acqua non si stacca più il tappo, poi dobbiamo cambiare la macchina e mettere il cappotto alla casa perché ce l’ha chiesto l’Europa. Questa Europa è una somma di leggi cervellotiche, non decise dai cittadini. È la protervia del potere ai danni della gente».
Canzone coraggiosa.
«Mi è venuta così e non sono tornato indietro».
La bambina di Gorla è dedicata a sua madre?
«Mia madre insegnava tre giorni alla settimana nel quartiere Gorla a Milano. Per fortuna sua e mia, perché altrimenti non sarei nato, la bomba su quel quartiere cadde in un giorno in cui non aveva lezione. Naturalmente è un racconto che ho ascoltato fin da quando ero bambino. La giornata della memoria per rendere omaggio a quei bambini dimenticati si celebra il 29 ottobre».
Lei ha scritto molte canzoni per le donne e sulle donne. Come prima più di prima parla della solitudine di una donna nel difendere il suo amore: pensa che oggi il contrasto ai femminicidi che funestano la nostra quotidianità sia efficace?
«È un po’ strumentale. Si parla di patriarcato, ma in realtà il patriarcato era una situazione in cui l’uomo aveva un potere tale che la donna non poteva andarsene. Il patriarcato è stato un errore storico grave, ma oggi è diverso. Soprattutto, i giovani non sanno accettare un “no”. Perché sono abituati ad avere tutto. Così succede che se lei ne va con un altro l’uomo impazzisce: piuttosto che con un altro, meglio con nessuno. Mi sembra che sia la disabitudine alla sconfitta, l’incapacità a metabolizzarla, a produrre tante di queste situazioni».
In Cattiva compagnia, dice: «Se soffri di solitudine probabilmente sei in cattiva compagnia… Perdendo occasioni, mi sono seduto lontano dai buoni»: è la sua storia artistica?
«Direi di sì. Raramente sono stato parte di una maggioranza, ho sempre fatto la mia corsa da un’altra parte, sia artisticamente che concettualmente».
Torna in mente il ritornello della canzone su Pasolini: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare».
«Si gira attorno a quell’argomento, andando controcorrente si paga un prezzo salato».
Mi fa un esempio?
«Non appartenendo a nessuna corrente musicale, non rientro nei circoli di quelli che si invitano tra loro. Al contrario, nel mio programma musicale (Gli occhi del musicista, in onda su Rai 2 ndr) ho invitato Davide Van De Sfroos, Eugenio Finardi, Cristiano De André, gente che non va mai in tv».
Cultura alta e bassa: Gloria di Umberto Tozzi ha la stessa dignità della Locomotiva?
«Sono due canzoni diverse. La Locomotiva ha un bellissimo testo e basta, Gloria ha un testo meno pregnante, ma è cantato e arrangiato benissimo. Giocano in due campionati diversi».
La canzone impegnata è più pregiata o no?
«Le componenti di una canzone sono tante. Spesso quella d’autore non ha grande musica e ha arrangiamenti un po’ sciatti, poi c’è l’interpretazione. Io ho cercato di scrivere bei testi, lavorando parecchio per proporre arrangiamenti innovativi. Nella categoria della canzone d’autore tra coloro che hanno dato importanza agli arrangiamenti mi vengono in mente Franco Battiato e Fabrizio De André con Mauro Pagani».
In Benvenuto chi passa da qui, cantata con suo figlio Pico Rama, dice: «C’è un bambino in me, chiede solo di essere amato per quello che è». Anche in Il cielo di Milano c’è un bambino che giudica noi adulti. Che padre è Enrico Ruggeri?
«Un padre che fa fatica a fare il padre perché oggi è un ruolo compresso, travolto di tanti fattori. Pico ormai ha 34 anni, ma con i due adolescenti è più difficile. Una volta una spiegazione e l’esempio del padre contavano per 80% nella formazione di un ragazzo, adesso contano il 10%. Siamo una voce in mezzo a mille».
È un padre amico?
«In teoria non bisognerebbe esserlo. Sono un padre civile e cordiale, ma pronto a intervenire».
Arrivederci e addio, che parla del nostro rapporto con il tempo, chiude l’album: che cosa vuol dire questo doppio saluto?
«Vivendo il presente, non sappiamo mai se il nostro saluto è un arrivederci o un addio».

 

La Verità, 17 gennaio 2025

«A Bologna Lepore impone un totalitarismo ambiguo»

Bologna tornata al clima degli anni Settanta? Anche ieri, durante lo sciopero indetto dagli studenti al grido di «No Meloni day», nel capoluogo dell’Emilia Romagna dove domani e lunedì si vota per il rinnovo del governo regionale, si sono bruciati manifesti e urlati slogan violenti. Ne ho parlato con Davide Rondoni, forlivese di nascita e bolognese d’adozione, poeta, scrittore, presidente del Comitato per le celebrazioni dell’ottavo centenario della morte di san Francesco.
Com’è Bologna vista da un poeta?
«È una signora che non vuole invecchiare, ma non ci riesce».
Non vuole accettare lo scorrere del tempo?
«È difficile accettare di non essere la città che pensava d’interpretare la storia e ammettere che, invece, ti supera da tutte le parti».
Mi fa qualche esempio?
«Francesco Guccini cantava Dio è morto in un’osteria il cui affitto era pagato dai frati e oggi partecipa ai pellegrinaggi con il cardinale Matteo Zuppi».
Che tipo di pellegrinaggi?
«È andato a Roma con la diocesi. Chi ha fatto cantare per anni i ragazzi con il pungo alzato oggi si accorge che deve dialogare con il cardinale e va ai pellegrinaggi con lui».
Altri esempi?
«Quest’estate il New York Times ha dipinto Bologna come un mortadellificio. La capitale del comunismo ha generato la città del consumismo».
A proposito di sorpassi della storia, si è parlato di ritorno degli anni Settanta.
«Non so se sia un ritorno o una permanenza. Bologna è sempre stata città di estremismi, ben ospitati prima dal Pci e ora dal Pd, all’interno della inevitabile dialettica che c’è nella cultura marxista tra chi è ortodosso e chi è avanguardia. Questo scenario, più che un ritorno, determina una stagnazione della mentalità di quel decennio. La città che si professa più progressista in realtà è la più conservatrice».
I toni delle dichiarazioni, da «camicie nere» a «zecche rosse», sembravano quelli di allora.
«Questi sono elementi espressivi. La questione vera l’aveva già evidenziata Pier Paolo Pasolini, che qui attaccano alle finestre del Comune, ma non leggono, quando diceva che Bologna era una città senza senso dell’alterità. Ciò che veramente non appartiene al sistema generato dai tre grandi poteri – gli eredi del Pci, la massoneria e la curia – è mal sopportato».
In una città roccaforte della sinistra manifestazioni di segno diverso non sono tollerate?
«Il problema non sono le manifestazioni che, anzi, possono essere funzionali a questo teatro. Ci sono altre situazioni poco tollerate».
Per esempio?
«Non c’è la libertà che si crede. È capitato che Unipol, uno dei colossi economici italiani, abbia annullato una conferenza scientifica perché la mia partecipazione è stata considerata scomoda».
Cioè?
«A una riunione che preparava una conferenza sulle frontiere della medicina tra umanesimo e scienza, mi è stato detto che non si poteva fare perché il mio nome era scomodo».
Scomodità dovuta a cosa?
«Mi definisco cattolico di rito romagnolo, quindi un po’ scomodo per tutti lo sono. Per solidarietà altri relatori si sono ritirati ed è saltato tutto».
Alla manifestazione di ieri si sono urlati slogan come «Meloni boia», «Piantedosi boia» e si sono bruciate foto del premier con il volto imbrattato di vernice rossa.
«Sono esternazioni di una piccola e rumorosa minoranza, mantenuta in vitro dal Pd con spazi e prebende, che si agita in modo noioso e senza più alcun senso della complessità. È un peccato perché in mezzo ci sono anche ragazzi animati da buone intenzioni».
Il sindaco Matteo Lepore non perde occasione per dare della fascista al premier: serve a compattare i militanti, è una forma di propaganda o che cos’altro?
«È mancanza di cultura. Già nel 1973 Pasolini diceva che era fuorviante continuare a parlare del fascismo storico. Lui come Augusto Del Noce vedevano il dilagare di un’altra forma di fascismo: l’omologazione a una civiltà consumistica e individualistica».
C’è anche un po’ di propaganda in vista del voto di domani?
«La politica è un teatro nel senso anche nobile del termine, tutto si svilisce quando diventa teatrino. Bisogna capire quale parte recita Lepore gridando “al lupo al lupo”, mentre è l’interprete di un totalitarismo strisciante ancor più soffocante».
Quale sarebbe?
«Come il fascismo imponeva di non usare parole inglesi nel linguaggio corrente, così oggi il comune di Bologna impone la terminologia gender».
Asterischi e schwa nei documenti?
«Esatto. Lo fa anche l’università».
Che strascichi ha lasciato l’alluvione?
«La popolazione è incazzata. Dar la colpa alla pioggia è strano perché metà della città si è allagata e l’altra metà no».
Com’è possibile?
«Alcune manutenzioni non fatte hanno generato il disastro in una parte della città».
Da anni si sapeva che il torrente Ravone era a rischio esondazione ma, nonostante studi e allarmi, non si è fatto nulla?
«Non sono un tecnico, ma mi pare che le cose siano andate in modo diverso a seconda degli interventi fatti o non fatti».
L’amministrazione comunale accusa l’indifferenza del governo centrale.
«Credo che la manutenzione dei fiumi sia di competenza degli enti locali».
La Corte dei conti ha documentato riguardo alla precedente alluvione che la Regione ha speso solo il 10% dei fondi per il territorio, ma si continua ad attribuire le colpe del dissesto al riscaldamento globale.
«Il riscaldamento globale c’è e purtroppo possiamo fare poco visto che sia l’America che la Cina sono assenti alla Cop 29 in corso in questi giorni. Tuttavia, bisogna capire se la causa di questi eventi è il riscaldamento globale o qualcosa che avremmo potuto fare noi, come enti locali».
Cosa pensa del provvedimento che impone il limite di velocità a 30 km orari in città?
«So che si stanno raccogliendo le firme per promuovere un referendum abrogativo. Rallentare una città già lenta, con i dati degli incidenti in calo, non mi pare una bella idea. Conservatorismo è anche continuare a promuovere un’ideologia anziché basarsi sulla lettura della realtà».
Il sindaco ha un modello cittadino in testa?
«Bisognerebbe chiederlo a lui. A me pare che il fallimento colossale di Fico Eataly world, milioni di euro pubblici e privati buttati, dimostri che sotto le idee che si vogliono affermare a ogni costo, si vogliano favorire soprattutto degli interessi commerciali. Sarebbe bastato chiedere alla gente per strada per capire che quel tentativo non poteva funzionare».
Il modello è la città green?
«A giudicare dai tanti poveracci che dormono sotto i portici, di green a Bologna c’è poco. Di green c’è molta erba spacciata insieme a molte pasticche nella zona universitaria e nei dintorni della stazione dove, non a caso, si susseguono episodi anche gravi di criminalità».
Qual è la formazione del sindaco?
«È cresciuto nell’area di Unipol con cui ha lavorato anche all’estero. Con un gioco di parole, si potrebbe dire che è un(i)pol d’allevamento. Sono più di sinistra io di Lepore».
Le sardine sono sparite?
«Hanno fatto quello che dovevano salvando il Pd dalla débâcle nelle elezioni regionali del 2020. Sparendo, si sono dimostrate quello che erano, un fenomeno elettorale».
Come convivono la sinistra tradizionale e quella antagonista?
«
Si giustificano e sostengono a vicenda. Da un lato il Comune garantisce alle sigle estreme spazi cittadini e impunità nelle varie azioni e occupazioni, dall’altra i centri sociali fanno il lavoro duro quando serve. È un antagonismo finto».
La vicesindaco Emily Clancy era alla manifestazione dei centri sociali contro quella di CasaPound.
«Esatto».
Ecologismo spinto, presenza dei centri sociali e frequenti attacchi al premier configurano una gestione militante della città?
«Penso che faccia comodo questa immagine perché, secondo me, al 97% dei bolognesi non frega molto di questa militanza. Bologna è una città seduta, l’attività degli estremisti interessa una piccola parte della popolazione. La maschera di progressismo serve a mantenere tutto fermo. Si coprono le aggregazioni più radicali, si fanno dei provvedimenti ecologisti di facciata, ma si mantiene la politica di sempre. È la strategia di tutta la sinistra da 40 anni. Lepore è un derivato non un agente promotore. Ricordiamoci che Stefano Bonaccini aveva vinto le primarie nel partito, Elly Schlein ha prevalso con il voto allargato. Questo fa capire che il partito viene usato da altre forze».
Domani e lunedì si vota, l’Emilia Romagna è contendibile?

«Come dimostrano esperienze recenti, di roccaforti inattaccabili non ce ne sono. Altre città della regione non sono governate dalla sinistra. Penso che Elena Ugolini sia un’ottima candidata e che la gente inizi a stufarsi di questo finto progressismo conservatore».
Che differenza c’è tra la Bologna di Prodi, capitale dell’Ulivo, e la Bologna di Lepore?
«Col tempo l’esperienza dell’Ulivo, erede del cattocomunismo italiano e bolognese, ha dimostrato tutta la sua vacuità. Si è messo un cappello cattolico a un altro tipo di potere. Non servendo più, si sono tolti il cappello cattolico. Infatti, mi sembra che le ultime uscite di Romano Prodi sul Pd siano un po’ stizzite. In realtà, da decenni prevale l’immobilismo; anche l’episodio di Giorgio Guazzaloca è stato più interno alla sinistra che una vera alternanza con il centrodestra».
La Chiesa in che modo si fa sentire?
«La Chiesa non può essere interpretata politicamente. Molti vorrebbero Zuppi sindaco della città».
Perché è una figura politica?
«Non direi così. Ha la sua storia legata alla Comunità di Sant’Egidio, ma di questi tempi la Chiesa non si schiera. Credo che politicamente sia poco influente. Con le opere di carità invece è una presenza reale».
Lei è presidente del Comitato per le celebrazioni per l’ottavo centenario della morte di San Francesco: come valuta il pronunciamento dei frati di Assisi in favore della candidata di centrosinistra alle elezioni regionali in Umbria?
«Dalla lettera che hanno scritto al Corriere della Sera mi sembra che più che i frati si sia schierato il Corriere. Penso che san Francesco è di tutti e sta con tutti».

 

La Verità, 16 novembre 2024

Ecco il sequel, che non si farà, di C’è ancora domani

Il cinema italiano non ha attributi, manca di coraggio, originalità, gusto dello sberleffo. Al contrario, è conformista, prevedibile e chiuso in consorterie. Mi spiace dissentire da Claudio Siniscalchi e Gian Piero Brunetta, accademici e autorità assolute in materia, che pochi giorni fa hanno previsto un radioso futuro per la settima arte in auge nella nostra Italietta: «Per il cinema italiano c’è ancora (molto) domani», hanno scritto sul Giornale, e si noti l’ottimistica parentesi. Siniscalchi e Brunetta sono partiti da una vecchia intervista di Giovanni Grazzini a Federico Fellini nella quale il maestro di 8 e ½ smontava con il suo stile tra lo snob e il pop l’abitudine a lamentarsi prevedendo la rapida morte del cinema, in realtà, sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri. Anche in questi mesi è successo dopo che, a causa della pandemia, si erano registrate la chiusura di molte sale e il radicarsi dell’abitudine alla visione domestica sulle piattaforme. Invece no. Barbie e Oppenheimer a parte, è arrivato C’è ancora domani di Paola Cortellesi che ha trascinato la rinascita e una nouvelle vague italiana, con Io capitano in corsa per l’Oscar. Matteo Garrone compone con Paolo Sorrentino e Roberto Andò il trio delle meraviglie del futuro radioso. E va bene, chi si accontenta gode.

Personalmente vado in direzione ostinata e contraria alla rosea previsione. Non solo perché, come già osservato, salvo rare eccezioni il cinema italiano è appannaggio di dieci registi e dieci registe, dieci attori e dieci attrici, sempre gli stessi e le stesse. E oltre il quale, la stragrande produzione di film e filmetti d’autore, pur confortata dai fondi pubblici, viene proiettata in sale semideserte. No, non è per questo che sostengo che il nostro cinema è tendenzialmente conformista. Lo dico in riferimento alle storie, ai contenuti, all’angolazione delle trame. E perdonerete la lunga premessa, ma serve a spiegare il punto di vista dal quale avanzo la critica.

Vengo al dunque. C’è un romanzo che narra la storia vera, drammatica e particolare di un’importante famiglia della politica, raccontata con la voce di una bambina, poi adolescente, ragazza e donna matura, che attraversa cinquant’anni d’Italia. Questa storia è il sequel reale e non di fantasia di C’è ancora domani. Perché, mentre il film di Cortellesi è ispirato ai «racconti delle nonne», il libro di cui parlo ha al centro la vita vissuta delle mamme. Tuttavia, nessuno ne farà la trasposizione cinematografica perché è una storia non allineata, non ortodossa.

La vicenda muove nei primi anni Cinquanta da Riesi, un paesino della Sicilia profonda dove una bambina viene lasciata dai genitori alla zia, sorella del padre, che la cresce amorevolmente nell’educazione cristiana. L’abbandono è ovviamente traumatico e causa di disturbi dell’alimentazione – lo sarà ancor di più per la sorellina più piccola che morirà desolatamente sola, in ospedale. Quando per la bimba arriva l’età scolare, i genitori, atei convinti che vivono tra Bologna e Roma per dedicarsi alla politica e all’arte, allo scopo di preservarla dai bigottismi della scuola statale decidono di iscriverla a un istituto inglese della capitale. Per lasciarla andare, però, la zia pretende che venga battezzata perché, pensa, il battesimo è un sigillo perenne, antidoto contro il male. Il padre acconsente, ma a sua volta decide che il padrino sarà un suo amico, inveterato anticlericale, militante del Partito radicale di cui il papà è storico fondatore. La faccenda si ripete al momento della cresima cui, dopo la frequentazione della scuola laica ma con insegnamento della religione, la bambina chiede paradossalmente di accedere. La madre dà il consenso e la invita a scegliere una donna con la quale abbia un rapporto di confidenza. In mancanza di alternative, la ragazzina sceglie Liliana Pannella, sorella di Marco. Il quale è, a sua volta, amico del padre e frequenta assiduamente la casa di famiglia. Dove le serate si animano di discussioni fra politici e intellettuali, di utopie, strategie, rivoluzioni dei costumi. Albeggiano i Settanta, la bambina, ora adolescente, si abbevera al carisma degli adulti e partecipa con la madre alle battaglie del Movimento per la liberazione della donna. È una stagione entusiasmante e coinvolgente. I diritti civili, dal referendum sul divorzio alla legalizzazione dell’aborto, sono conquiste faticose, dirompenti e ancora sanamente prive della mielosa patina woke di oggi. La soffitta di Marco Pannella in via della Panetteria, dietro Fontana di Trevi (venduta pochi giorni fa), è meta di politici, poeti, artisti, semplici militanti. Un laboratorio di idee e vite irregolari. Non tutto fila liscio come l’olio, però. Affiorano i primi dissidi perché l’influente padre della ragazza vorrebbe trasformare i radicali in un partito che possa governare, mentre Pannella lo vuol mantenere corsaro e antipotere. Il leader si trasferisce a Parigi, manda lunghe lettere, tenta il suicidio…

Tutto è raccontato nel libro-sceneggiatura di cui sopra. Ci sono i primi segnali di crisi. C’è il congresso del 1975, l’intervento di Pier Paolo Pasolini (letto da Vincenzo Cerami perché PPP è stato ucciso due giorni prima) che mette in guardia dal pericolo di imborghesimento e dal tradimento degli intellettuali. La ragazza ha ora 22 anni e inizia a prendere le distanze dagli eccessi dell’«ideologia edonistica» e dalla «falsa tolleranza». Quando la madre, attrice, pittrice e femminista, si ammala gravemente, l’allontanamento diventa definitivo. Anche perché, assistendola, la figlia si ritrova segretamente a pregare e, lentamente, riaffiora in lei quella fede che da bambina aveva coltivato di nascosto, trasgredendo il regime antireligioso dei genitori.

Questa storia vera, questa sceneggiatura che ha la grazia della letteratura, è un viaggio dai Cinquanta al Terzo millennio che illumina la stagione della militanza radicale, del primo femminismo e racconta un’insolita conversione religiosa. Insomma, è un faro sull’altra gioventù. Purtroppo, nessuno la porterà al cinema. Perché il cinema stesso è figlio del pregiudizio ideologico che tuttora soffoca le casematte della nostra cultura. Lo abbiamo visto nell’accoglienza che (non) ha avuto questo romanzo – scritto durante il lockdown, poco letto e non recensito – quando ne è stata impedita la presentazione nel luogo canonico delle presentazioni, ovvero il Salone del libro di Torino, proprio da un gruppo di neofemministe che, invece, avrebbero avuto molto da imparare se si fossero disposte ad ascoltare. Tutto ciò perché il romanzo è Una famiglia radicale (Rubbettino editore) e l’autrice è Eugenia Roccella, oggi ministro per la Famiglia del governo Meloni.

Il cinema italiano manca di coraggio perché questa storia, che anche la sua protagonista oggi ha rinunciato a proporre, resterà chiusa in un cassetto. Lo dico a ragion veduta, avendo provato a contattare qualche grande produttore e qualche importante regista, ricavandone cortesi e, in qualche caso, motivati rifiuti. Quelli di destra, schematizzo per capirci, non lo possono fare per non esporsi all’accusa di fare propaganda, realizzando una pur grande opera dal libro di un ministro. Quelli di sinistra non lo riescono a fare perché troppo scomodo e poco gestibile con i loro abituali attrezzi del mestiere. Insomma, servirebbe troppo di tante cose per sbloccare la paralisi. Troppo coraggio, troppo idealismo, troppa onestà intellettuale. Tutto ciò che manca al nostro cinema. Per il quale il domani non è così radioso.

 

La Verità, 29 febbraio 2024

«L’utero in affitto, orrore che mortifica le donne»

Femminista e cattolica. Da quando Eugenia Roccella è ministro per le Pari opportunità, la natalità e la famiglia del governo Meloni i media ce la disegnano dogmatica e sempre in trincea. In realtà, è figura complessa e sfaccettata. Giornalista, figlia di Franco, già capo dell’Ugi (Unione goliardica italiana) e fondatore del Partito radicale all’interno del quale animò accesi dibattiti con Marco Pannella, anche lei militò in quel partito prima di avvicinarsi alla fede cristiana. Un saggio della sua eleganza si è avuto qualche domenica fa su Rai 3 in quel «vedo che si coinvolge» lasciato cadere davanti all’incontinente Lucia Annunziata: «E fatele queste leggi, cazzo!». Se si vuole provare il piacere di leggere Una famiglia radicale (Rubbettino), oltre a una biografia particolarissima si scoprirà uno spaccato dell’ultimo cinquantennio italiano.

Questo libro è nato prima che si profilasse l’idea di diventare ministro?

«Sì. Pensavo ormai di aver abbandonato la politica e durante il lockdown avevo iniziato a scrivere. Se avessi saputo che sarei tornata con un impegno così importante non credo che l’avrei pubblicato. È un libro molto privato».

Fonte di problemi?

«No, semplicemente comporta un altro tipo di esposizione. Avevo deciso di scriverlo per due motivi. Il primo è che mi veniva spesso chiesto come, da radicale, si possa diventare cristiana. Il secondo motivo è non disperdere la storia soprattutto di mio padre, ma anche di mia madre, nelle vicende del nostro Paese. Lui non ha lasciato quasi niente di scritto, eppure un gran numero di testimoni e di storici come Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina gli riconosce ampio credito intellettuale nella stagione dell’Ugi e del Pr».

Lei ha avuto un’infanzia e un’adolescenza singolari, con un padrino di battesimo e una madrina di comunione leader radicali.

«Non credo che Sergio Stanzani, futuro segretario del Pr, e Liliana Pannella, sorella di Marco, siano entrati altre volte in chiesa dopo averlo fatto per me. La mia è stata un’adolescenza trasgressiva opposta alle normali trasgressioni. Io lo ero se andavo in chiesa, al punto che lo facevo di nascosto dai miei. Il battesimo fu un’imposizione su mio padre di mia zia che mi aveva educato fino allora. Lui, come contropartita, impose un padrino ferocemente anticlericale».

E la comunione?

«Fu una mia scelta. Avevo già incontrato proprio a scuola la fede, grazie a un sacerdote che mi aveva avvicinato ai vangeli di cui ero digiuna. Mi si era aperto un mondo. Come madrina di cresima mia madre m’invitò a scegliere un’amica cui ero affezionata e io indicai la sorella di Pannella. Vivevo una situazione ambivalente: immersa in un mondo laicista e antireligioso, ero sotterraneamente attratta dal cristianesimo. Quando gli chiesi il permesso di accedere alla comunione, da siciliano più che da laico e radicale, mio padre disse che per una donna non era male essere cattolica».

Quanto ha pesato nella sua vita la vicenda di sua sorella Simonetta, abbandonata nell’incubatrice e mai più ripresa dai suoi genitori?

«È una vicenda tragica, difficile da elaborare. Un fatto che ho ricostruito dolorosamente negli anni. E che comprende una riflessione che, partendo dalla mia famiglia, coinvolge il pensiero oggi dominante».

Qual è questo pensiero?

«L’idea che la vita non sia la costruzione della coscienza, ma la ricerca della realizzazione attraverso l’assolvimento dei propri desideri. Io auspicavo che questa ricerca di libertà venisse accompagnata dalla responsabilità personale. Invece, non fu e non è così. A causa di quella cultura, nessuno si incaricò della sopravvivenza di mia sorella. Ma non do colpe ai miei genitori».

Ci vuole molta misericordia.

«Anche il mio affidamento alla zia e l’anoressia successiva nacquero in quella cultura. Mio padre e mia madre erano persone generose, calde, affettivamente ricche. Ci adoravamo. Non porto rancore ai miei genitori. Sono grata perché lo sono stati, anche se nessuno dei due avrebbe voluto esserlo. Ma quell’individualismo può lasciare  intorno a sé morti e feriti. Nel caso di mia sorella, letteralmente».

Dall’appoggio alla clinica gestita da Adele Faccio e Giorgio Conciani alla sua posizione di oggi sull’aborto cos’è successo?

«Si è capovolto un mondo. Da ciò che erano all’epoca la condizione della donna, il diritto di famiglia e la discriminazione degli omosessuali c’è stato un rovesciamento totale. Ho seguito questo percorso rimettendo al centro i veri bisogni dell’uomo sui quali m’illuminò Pier Paolo Pasolini quando previde il tradimento degli intellettuali progressisti che avrebbero accolto i diritti civili in un contesto di “ideologia edonistica e falsa tolleranza” escludendo “ogni reale alterità”».

Come riemerse la fede che non aveva più coltivato?

«La fede c’era, chiusa in un cassetto dove l’avevo accantonata come elemento incongruo al contesto. Riemerse durante la malattia di mia madre. Standole vicino mi ritrovai a pregare».

Perché lasciò il Partito radicale?

«Quando mia madre si è ammalata mi stavo già allontanando dal Pr e da Pannella. Non mi riconoscevo nella svolta ideologica che avevano intrapreso».

Si può essere femminista e cattolica allo stesso tempo?

«Certamente. Il cristianesimo pone le basi culturali della pari dignità delle donne, nella differenza».

Quest’ultima sottolineatura serve a non identificare femminismo e livellamento dei sessi?

«Il femminismo è composto da molte correnti, io appartengo a quella della differenza, che in Italia è stata maggioritaria. Il corpo sessuato è il punto di partenza per valorizzare la differenza. C’è ingiustizia quando due persone uguali sono trattate in modo diverso, ma anche quando due persone diverse sono trattate in modo uguale».

Perché oggi la regolarizzazione dei figli di coppie omosessuali è al centro dell’agenda politica?

«Perché si cerca di occultare il problema dell’utero in affitto».

Perché è importante?

«Perché la maternità viene spezzettata e svilita. Esiste un mercato transnazionale della maternità e dei bambini per cui ci possono essere fino a tre madri».

Quali sono?

«La madre sociale, che alleverà il bambino, la madre genetica che dà gli ovociti, e infine quella che presta l’utero. Nella maternità surrogata si prende sempre l’ovocita da una donna e l’utero da un’altra».

Perché?

«Innanzitutto per evitare contenziosi. Se la madre gestazionale fosse anche la donatrice dell’ovocita, nel caso ci ripensasse e volesse tenersi il bambino, sebbene abbia firmato un contratto di cessione, per qualunque corte sarebbe difficile sostenere che non ne ha diritto. Separare le due funzioni serve a impedire controversie».

E l’unico motivo?

«Ce n’è un secondo. Per l’ovocita, che trasmette il Dna, la scelta del committente avviene in base alle caratteristiche genetiche che si desidera abbia il bambino, mentre la donna che porta avanti la gravidanza viene selezionata con altri criteri».

Una pratica razzista?

«Si sceglie sul catalogo il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, la statura, il quoziente d’intelligenza. Lascio a lei dire se sia un comportamento razzista. In questi cataloghi le persone bianche hanno un costo superiore».

La battaglia condotta dai sindaci riguarda in prevalenza le coppie di donne per le quali non necessariamente si ricorre all’utero in affitto.

«I sindaci sono pubblici ufficiali e la nostra legge stabilisce due modi di filiazione, biologico o adottivo. Non ce n’è un altro».

Come ci si regola nei casi di due donne con un figlio del precedente matrimonio eterosessuale?

«Seguendo la legge italiana tutti i bambini avrebbero una mamma e un papà. Quando le coppie tornano da pratiche di fecondazione non consentite nel nostro Paese, la registrazione del genitore biologico è automatica. Da quel momento il bambino gode di tutti i diritti, come accade per le mamme single. Non vedo in piazza madri single, con un figlio non riconosciuto dal padre o vedove. Eppure, se si vuole il riconoscimento del nuovo compagno o compagna, anche loro devono seguire la procedura adottiva in casi speciali».

Il governo è accusato di fare scelte ideologiche.

«Il governo in carica non ha fatto nulla di nuovo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiesto che venisse rispettata la legge in vigore. Che è sempre la stessa, e la sinistra ha avuto tutto il tempo per cambiarla, ma non l’ha fatto. La sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 30 dicembre 2022 recita: “L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi”».

Perché il Parlamento europeo ha approvato un emendamento che invita l’Italia a regolarizzare i figli di coppie omogenitoriali?

«È un pronunciamento solo politico perché il certificato europeo di filiazione dei figli fatti all’estero con la maternità surrogata è stato bocciato dal Parlamento italiano. Ma anche dal Senato francese, con l’esplicita motivazione che favorirebbe l’utero in affitto».

Perché vi ricorrono più di frequente le coppie eterosessuali?

«Le coppie etero possono mascherare il ricorso alla maternità surrogata. Ma è un mercato da estirpare sia che riguardi coppie omo che eterosessuali».

Cosa pensa del caso di Anna Obregon, l’attrice che è ricorsa all’utero in affitto nel quale è stato impiantato un ovocita fecondato dal seme del figlio morto?

«Non mi piace dare giudizi sui comportamenti personali. Vorrei dire però che casi del genere saranno sempre più frequenti e inevitabili, se si continua a considerare ogni desiderio individuale un diritto».

Con Elly Schlein segretaria del Pd si profila un lungo periodo di scontro?

«In passato al Parlamento europeo non ha votato un emendamento contro l’utero in affitto. Vedremo come si comporterà il Pd di fronte alla proposta di Carolina Varchi di Fdi che, pur senza aggravare le pene, chiede di perseguire la maternità surrogata anche se praticata all’estero».

A fronte dell’espandersi della cultura dei diritti il recupero di un’antropologia tradizionale è una battaglia di retroguardia?

«È una battaglia di avanguardia e di salvaguardia. Il rifiuto di queste pratiche e di questa cultura non deriva innanzitutto da un giudizio etico, ma dalla necessità di conservare l’esperienza umana con tutta la sua ricchezza e tutti i suoi limiti».

 

La Verità, 8 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

«Il vero rivoluzionario fu il generale Dalla Chiesa»

A differenza di altre opere sugli anni di piombo viste di recente, compresa I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, trasmessa ieri sera da Rai 3, Il nostro generale è «un film», come preferisce chiamarlo Sergio Castellitto, che ti rimane appiccicato addosso. Merito del regista Lucio Pellegrini (e Andrea Jublin), degli sceneggiatori e di tutto il cast nel quale, oltre al protagonista che incarna Carlo Alberto dalla Chiesa, spiccano Teresa Saponangelo (la moglie) e Antonio Folletto (il carabiniere dei Nuclei speciali antiterrorismo). Gli ultimi quattro episodi andranno in onda su Rai 1 lunedì e martedì, ma sono già disponibili su Raiplay.

Sergio Castellitto, quanto conosceva Carlo Alberto dalla Chiesa prima d’interpretarlo?

«Lo conoscevo bene, da cittadino di quegli anni terribili. Ero un attore giovane, allievo dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, e nutrivo ammirazione per lui. Perciò, ora, trovandomi a interpretarlo, non ho avuto problemi di conflitto. Nutro ammirazione anche ora per i suoi figli, per il modo in cui hanno difeso, testimoniato e protetto la figura del padre fino a oggi, e per il pudore con cui non hanno mai ceduto al vittimismo che avrebbe potuto prenderli».

Come definirebbe il generale Dalla Chiesa?

«Una persona di stampo quasi ottocentesco, ma che ha saputo essere contemporanea al suo secolo. Trovo significativo il successo che il film ha avuto finora, perché per la prima volta una serie tv racconta che il piombo era quello delle P38, ma anche la pesantezza che avevamo nell’anima».

Perché trova significativa la risposta del pubblico?

«Ho avuto la sensazione di una collettività interessata a ritrovarsi attorno a questo grumo di memoria, quasi un’emotività nazionale, non dico patriottica, oggi parola rischiosa. Nell’approfondire la memoria di quel decennio può esserci la ricerca di un’identità. Forse l’abbiamo rimosso, ma abbiamo vissuto un clima da guerra civile. Ricordo che una mattina, nel breve tragitto per l’Accademia la polizia mi fermò per tre volte, chiedendomi i documenti».

Forse abbiamo rimosso quel clima e anche Dalla Chiesa lo ricordiamo solo per due o tre cose, l’iscrizione alla P2, il secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro e l’agguato della mafia?

«Questa è la narrazione prevalente, non la mia. La vicenda della P2 è stata banalizzata, dimenticando il contesto in cui gli proposero l’iscrizione, quando s’ignorava ciò che sarebbe diventata. In quel momento, Dalla Chiesa era solo e isolato anche nell’Arma dei carabinieri perché i suoi successi ingelosivano. Quanto al fatto di essersi risposato, dopo aver sempre amato teneramente la prima moglie e aver incontrato un altro amore in un momento ancora di solitudine, questo me lo rende ancora più umano e vicino. A proposito della morte tragica, lo ricordo come il generale, non come il prefetto di Palermo. Con il cappello, l’uniforme e un linguaggio che può sembrare retorico quando parla del dovere di difendere la democrazia».

Può essere retorico pensare che un ufficiale dei carabinieri sia un grande servitore dello Stato?

«Non ne sono convinto. Quando un poliziotto, un finanziere o anche un politico sbaglia lo si definisce corrotto. Quando sbaglia un carabiniere si usa la parola infedele. Questa è la differenza. Nell’Arma la fedeltà non è alle regole, ma ai principi che stanno sopra le regole e che lo guidano nei momenti di svolta».

Quando gli chiedono di tornare a Palermo per combattere la mafia?

«Tutti i nuovi incarichi li accetta per senso del dovere, perché non poteva non farlo, per continuare a guardare in faccia i figli. Ricordiamoci che ha vissuto e fatto vivere la sua famiglia in una sorta di reclusione, nelle caserme. La figlia Simona si è sposata in un garage, il funerale della moglie si celebrò in un hangar. Quando va a trovare Patrizio Peci, in carcere, gli dice: “Ho vissuto tutta la mia vita in guerra”».

Guerra è la parola più pronunciata.

«Perché lo è stata. Una guerra che ha segnato non solo gli schieramenti politici di quei giovani, ma i tragitti esistenziali fatti di rimorsi, di pentimenti, di ferite non rimarginabili. Una generazione di italiani è diventata orfana».

Il racconto si snoda nella contrapposizione speculare tra due gruppi di giovani, «i monaci della rivoluzione» e «i monaci di Dalla Chiesa».

«Certo. Teniamo presente che l’idea d’insurrezione armata può essere molto seducente per una generazione che pensava di avere ragione. La lotta contro l’ingiustizia sociale può esprimersi con metodi pacifisti o con la violenza, come avvenne. Anche Dalla Chiesa è stato a sua volta un innovatore. Ha inventato un metodo investigativo, ha capito che serviva una specializzazione professionale, ha dato la giusta importanza alla psicologia, ha riconosciuto dignità all’avversario».

A Peci che gli chiede perché ha fatto il carabiniere, il napoletano Trucido risponde: «Per gli stessi motivi per cui tu volevi fare la rivoluzione, un mondo più giusto dove la gente non deve avere paura dei prepotenti».

«Sono due giovani che si confrontano su un tema che li investe in modo totalizzante. Però, si deve scegliere da che parte stare».

Quando Peci gli dice: «Sei un proletario che ha sbagliato divisa», viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia che vedeva i proletari tra i poliziotti mentre i rivoltosi erano figli di papà?

«Solo uno illuminato come lui poteva accorgersi lucidamente di chi fossero quei giovani, cogliendone le storie esistenziali, oltre l’ideologia e la sociologia. A questo riguardo bisogna ripetere che proprio il generale si è dimostrato un rivoluzionario».

In che senso?

«Facendo il proprio dovere ha pescato i ragazzi del Nucleo speciale secondo i suoi criteri fino a creare con loro una seconda famiglia. Era il loro capo, il capo dell’Antiterrorismo, ma in un certo senso anche un loro padre. E spesso i livelli di coinvolgimento si mischiavano».

Risponde a questa impostazione anche raccontare la storia con gli occhi di un uomo dei Nuclei speciali?

«Direi di sì. È un  punto di vista diverso dal solito. Ci sono i terroristi, le vittime e i sopravvissuti che portano la memoria del dolore che, altrimenti, rischia di essere archiviato. È importante dopo quasi mezzo secolo parlare di quei fatti con distacco, ma senza perdere l’odore delle ferite. Questa storia ricade inconsciamente anche sul carattere dei miei figli perché hanno un padre che ha vissuto quegli anni. I nostri libri di storia si fermano alla Seconda guerra mondiale mentre i decenni successivi restano ancora prigionieri delle polemiche. Soprattutto il decennio dei Settanta, che sono stati anni ciechi; appunto, di piombo».

Nella docu-serie su Lotta continua trasmessa da Rai 3 Erri De Luca dice che i loro, che pure portarono all’assassinio del commissario Luigi Calabresi, erano «anni di rame».

«Il rame si ossida e diventa scuro, assumendo presto il colore del piombo».

Cosa vuol dire che anche in una guerra come quella bisognava avere rispetto dell’avversario?

«Dalla Chiesa parla di rispetto perché dice che i terroristi si comportano anche loro come dei soldati. Anche in termini strategici, rispettare l’avversario vuol dire capirlo meglio e avere così più possibilità di batterlo».

Pur condannando violenza e terrorismo resta la possibilità di una redenzione per chi li ha praticati?

«Alcuni di quei brigatisti hanno fatto un percorso oltre il pentimento. Una volta mi colpì molto Franco Bonisoli, un membro della direzione delle Br che, intervistato da Sergio Zavoli, manifestò tutta la sofferenza e il tragico rammarico per gli atti compiuti, testimoniando la possibilità reale di un cambiamento».

Dopo Giovanni Boccaccio nel Dante di Pupi Avati e Dalla Chiesa cosa dobbiamo aspettarci?

«In questo periodo sono a teatro con Zorro, un monologo scritto vent’anni fa da Margaret Mazzantini, ma attualissimo. È la storia di un uomo che perde tutto e diventa un clochard: la dignità ce la dà la regola della società civile o un atteggiamento interiore? Personalmente, a volte trovo umilissimi contadini pieni di una dignità invidiabile al confronto di grandi intellettuali con i quali non dividerei un pasto».

Dalla Chiesa appare una persona che ha saputo stare in prima linea in un momento tragico ed essere ottimo padre e marito. Oggi è più difficile combinare dimensione pubblica e privata?

«Penso sia più difficile a causa della disintegrazione procurata dalla virtualità apparentemente democratica che ci fa costruire o demolire tutto in un cinguettio di poche battute. Credo che quel nucleo che si chiama famiglia, quell’aggregato di affetti, amore, sangue e anche conflitti sia una necessità fondante. Per me è così. Essendo artisti abbiamo l’opportunità di accedere a codici e strumenti come la fantasia e l’immaginazione, e questo ci aiuta. Lo dico senza fare nessun parallelo con Rita, Simona e Nando che hanno saputo rimanere sentinelle della memoria del padre».

L’ultima volta che ci siamo parlati era critico sulla gestione delle norme per la pandemia. Oggi lo è di meno?

«Spero non si ricominci a chiudere tutto. Paradossalmente, potrebbe aiutarci a evitarlo il meccanismo dei media secondo il quale, appena c’è qualcosa di più importante, come oggi sono le accise e il caro bollette, anche i problemi di salute passano in secondo piano».

Vorrebbe una revisione critica maggiore degli anni che abbiamo vissuto?

«Più onesta e più critica. Io sono iper-vaccinato, ma non approvo l’atteggiamento punitivo al quale ho assistito verso chi non voleva sottoporsi ai protocolli. Uno Stato che punisce chi non sta dentro una regola sanitaria non mi appartiene. Sì, vorrei una revisione maggiore. Una delle notizie che mi ha stupito di recente è che lo Stato paga un milione di euro al mese a chi deve mantenere nei magazzini le mascherine rivelatesi fuori norma. Siamo precipitati dentro un girone kafkiano».

Che cosa le piace e che cosa no dell’Italia di oggi?

«Mi piace il fatto che, alla fine, gli italiani trovano sempre da qualche parte risorse per avere fiducia nel futuro».

 

La Verità, 14 gennaio 2023

Bompiani: «Ci siamo abituati al monopensiero»

Impaesamento. È la parola con la quale Ginevra Bompiani inizia La penultima illusione, appena pubblicato da Feltrinelli. «Un viaggio fra molte vite». La sua, innanzitutto: di scrittrice, editrice, traduttrice, docente, donna attiva nel sociale. Poi quella del padre Valentino, fondatore della casa omonima, uno dei maggiori editori e scopritori di talenti del secolo scorso. Dell’ex marito, il filosofo Giorgio Agamben. Degli amici Umberto Eco, Elsa Morante, Italo Calvino, Giorgio Manganelli. E infine, ma forse prima di tutte, quella di N, la ragazza somala di 17 anni che ha accolto nella sua casa romana, diventandone tutrice legale, prima che scoppiasse la pandemia.

L’impaesamento di N è andato a buon fine?

Non esattamente. L’impaesamento si contrappone allo spaesamento, all’estraneità che deriva dalla diversità. Pensavo che mostrare la bellezza e l’arte di una civiltà potesse aiutarla a superare questa estraneità. Non è stato e non è facile. Anche perché sono arrivati il Covid e i lockdown che hanno prodotto un azzeramento della cultura. Quando andammo alla mostra di Raffaello prima di entrare in ogni stanza dovevamo attendere sulla soglia il suono di una campanella…

Che cos’è la diversità?

In Bellezza variegata Gerard Manley Hopkins scrive: «Gloria sia a Dio per le cose screziate». La diversità è un regalo, anche se è infinita. Anzi, forse proprio per questo. Ogni volta che getti un ponte che unisce segmenti diversi, ne spuntano altri di nuovi.

Essere una persona vissuta in mezzo ai libri e faticare a persuadere alla lettura una ragazza di 17 anni è uno scacco della realtà?

È uno scacco dell’immaginazione. Ognuno ha la propria: la nostra è nutrita dai libri, altre sono alimentate dal paesaggio, dalla magia, dalla religione… dalle botte prese. È l’immaginazione la vera diversità.

Produrre libri e promuovere autori e scrittori è stato il suo lessico familiare: quando è diventata una scelta personale?

La prima esperienza è stata quando, tornando da Parigi, io e Giorgio Agamben abbiamo proposto a mio padre la collana di letteratura fantastica il Pesanervi. In Italia era considerata di destra e quindi era snobbata. Noi, avendo vissuto a Parigi, avevamo uno sguardo diverso. L’idea era di Agamben e io l’ho sposata e realizzata minuziosamente.

Prima c’era stato il periodo degli «incantatori» Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia: gli scrittori della sua formazione?

Li conobbi la prima volta durante una vacanza romana con la mia famiglia. Frequentavamo Adriana Asti, moglie di mio cugino Fabio Mauri e amica di Elsa Morante. In quel mese fatato conoscemmo lei, suo marito e Pasolini. Avevo 17 anni e fu una folgorazione. Anche Agamben era amico della Morante e di Pasolini, perciò in anni successivi tornai a incontrarli, in modo corale. Poi conobbi e frequentai a lungo Italo Calvino, Giorgio Manganelli…

Tra gli scrittori di oggi vede qualcuno che possa reggere il confronto con loro?

Direi di no. Ma questo non vuol dire che non ci siano grandi scrittori. Credo che oggi la scrittura non sia più lacrime e sangue com’era allora. Qualcosa a cui lo scrittore si dava totalmente, in una dedizione di ricerca della verità e passione. Adesso vedo maggiore disinvoltura, un lavoro collettivo in cui contano molto i consigli degli editor. Allora era impensabile che qualcuno cambiasse una virgola di Elsa Morante.

Nessuno può confrontarsi con gli incantatori?

Uno scrittore lacrime e sangue di oggi è Daniele Mencarelli, che peraltro è nato come poeta a «nottetempo». Poi purtroppo non c’ero più e se lo sono lasciati sfuggire.

La velocità della posta elettronica al posto di quella cartacea e gli agenti che decidono invece degli editori riducono la qualità della letteratura?

Sono uno svantaggio per la qualità e un vantaggio per la funzionalità. In Bompiani si leggevano i cataloghi, si scriveva una lettera, la risposta arrivava dopo 15 giorni e avevi un’opzione di due mesi. Dopodiché facevi un’offerta. Nel 2002, quando è nata «nottetempo», tutto era diventato fulmineo. Facevi la tua richiesta di lettura, ti rispondevano in cinque minuti e passavi la notte sul libro. Se la mattina dopo presentavi la prima offerta eri fregato perché partiva l’asta.

Con gli agenti letterari cos’è cambiato?

Nel 2002 andai alla Fiera di Londra, memore di quella di Francoforte degli anni Sessanta. Dopo aver cercato invano gli editori, ho capito che dovevo salire al piano di sopra. Dove non c’erano libri, ma tanti tavolini con una bandierina ai quali si incontrava un agente che, se non aveva già venduto il libro, ti dava la possibilità di acquistarlo offrendo più dei concorrenti. Tutto senza leggerlo. Il rapporto affettivo e intellettuale che aveva mio padre con i suoi autori era preistoria. Con chi aveva un agente nasceva un ménage à trois. Come editore l’ho sofferto, ora come autore me lo godo.

Qual è stata l’originalità di «nottetempo»?

Nel 2002 mi ricordai di una conversazione con mio padre che, dopo aver ceduto la Bompiani, voleva creare una nuova casa editrice, ma non sapeva se farla per i giovani o per i vecchi. Ci pensai e decisi di farla per i sessantenni come me. Persone che leggono semisdraiate, magari di notte, senza tanta luce. Pensai a libri comodi, con caratteri grandi, margini ampi, libri leggibili e leggeri non nel senso della facilità, ma nel senso di Robert Louis Stevenson che, non a caso, fu il primo autore pubblicato. Anche nella saggistica, pubblicammo filosofi e scienziati che con una buona conoscenza dell’italiano si potevano capire.

Cosa pensa del fatto che con la pandemia si legge di più e che, secondo alcuni, Amazon favorisce i piccoli editori che faticano nella distribuzione?

Temo che siano miglioramenti provvisori. Con l’espansione di Amazon la dimensione vincente è il grandissimo, non il grande. Rizzoli, Mondadori e Giunti boccheggiano, progredisce solo Amazon. Insieme con i piccoli editori ci siamo battuti contro gli sconti librari che la sinistra pensava o fingeva di pensare fossero a favore del popolo dei lettori. Invece favorivano solo le grandi catene editoriali, perché gli editori e le piccole librerie indipendenti non potevano farcela a prezzi ribassati.

Come per gli scrittori, mi dica il nome di un editore che le piace.

Tra i tanti che lavorano bene citerei Iperborea, nata dall’idea di Emilia Lodigiani che ha pensato di pubblicare la letteratura del nord e per farlo ha imparato le lingue scandinave. Dopo di lei suo figlio: hanno scoperto e portato in Italia una letteratura che era sconosciuta.

Invece con il Manifesto che non pubblica più né Agamben né lei per le posizioni sul Covid ha litigato.

E me ne duole perché era un rapporto che durava da tanto tempo. Il Manifesto era considerata la casa editrice di sinistra. È stata una grande delusione vedere che di fronte al Covid si è appecoronato esattamente come tutti gli altri giornali e se c’è qualche eccezione non è lui, ma il Domani o magari Avvenire.

Avrei in mente anche un’altra testata.

Parlo dei giornali di sinistra, anche se forse non c’è più. Mentre la destra c’è, ma io non la amo per niente.

Nel libro scrive che viviamo in una «imitazione di dittatura che fa contrapporre ai cori sui balconi la diffidenza a tu per tu e una rabbia ottimista».

È stato instaurato il monopensiero e tutti si sono adattati. Salvo un esiguo numero di persone, grandi filosofi, scienziati e medici premi Nobel, che vengono trattati come mentecatti perché non si allineano. Il monopensiero si adopera alla creazione del nemico, quel disgraziato che non si vuole vaccinare. Sono vaccinata e qualcuno cerco di convincerlo perché non si condanni alla non vita alla quale costringono chi non possiede il green pass. Senza il quale ora non si può più neanche entrare sotto gli archi della Stazione Termini.

Cosa vuol dire che guariremo della malattia, ma non della cura?

A parte che bisogna vedere se guariremo… La virologa Maria Rita Gismondo diceva pochi giorni fa che se una persona si ammala e non vuole andare in ospedale deve morire a casa perché non può procurarsi le medicine. Pensare di non curare i no vax giustifica il confronto con il nazismo.

Cosa significa, come scrive, che «pensare è diventato sinonimo di negare: negare la verità comune, consensuale e consentita. Negare la fiducia alle disposizioni rinfuse diventa subito negare l’esistenza della malattia»?

È chiaro che la malattia c’è e le epidemie sono pericolose, non solo perché fanno ammalare e morire le persone. La spagnola durò dal 1918 al 1922: ricordiamoci cosa successe nel 1922 in Italia e in Russia e quando datano i primi tentativi di Hitler in Germania. Lo spavento dell’epidemia e la ricerca di una gestione autoritaria generarono le dittature. Perciò facciamo attenzione ai troppi unanimismi.

Che cos’è la penultima illusione?

L’ultima dovrei raccontarla dopo morta. Qualunque illusione è penultima perché ha davanti a sé una possibile caduta e una possibile nuova illusione. Mi illudo su ciò che faccio, che non è mai così fantastico come avrei voluto. Ma: sempre meglio qualcosa che niente.

 

Panorama, 26 gennaio 2022

«Ho bisogno di solitudine, ma voglio essere amato»

Una casa piena di libri e solitudine. Piena di amici che non ci sono più. Goffredo Parise, Giovanni Comisso, il cugino Pier Paolo Pasolini. Nico Naldini abita nella prima periferia di Treviso, dove si ritirò una quarantina d’anni fa per lavorare alla biografia di Comisso, abbandonando le luci di Cinecittà dopo la tragica morte di PPP e scegliendo di proposito le ombre della provincia letteraria.

Vive qui, in compagnia dei suoi 91 anni spericolati e della personalissima ricerca del tempo perduto, in bilico tra autoironia e amarezza. Questa solitudine incolmabile fa venire alla mente «il desiderio di essere amato» di Michel Houellebecq «e la riflessione» che non può «farci niente».

È pronto?

«Non voglio essere pronto».

Come sta Nico Naldini?

«È un argomento che non voglio affrontare. I miei amici sono tutti morti».

Novant’anni in questa casa, tre stanze e un piccolo giardino.

«In questa casa… uguale a tutte le altre case. A ogni anfratto, a ogni cloaca, a ogni caverna del mondo».

Chi è Nico Naldini?

«Non so chi è. Non facciamo diatribe, mi ripugna sapere chi è».

Un poeta, un artista, uno sceneggiatore, uno scrittore, un grande biografo?

«Posso essere classificato in tutti questi modi. Però l’unica mia vera ambizione è scrivere tre versi che siano tre. Come faceva il mio amico Sandro Penna».

La sua vera ambizione è la poesia?

«Non è un’ambizione, è uno stato esistenziale, il fondo di ogni atto e di ogni pensiero. Qualcosa che dovrebbe reagire e sentire che ce l’ha fatta».

Uno stato esistenziale profondo che ce l’ha fatta ad affiorare in versi?

«Non ogni stato esistenziale può essere rappresentato da tre versi».

È soddisfatto della sua produzione poetica?

«Neanche per idea, neanche per sogno. Ogni tanto mi sveglio di notte e dico a me stesso: che cazzate».

Turbe degli artisti sempre insoddisfatti?

«Sono categorie alle quali non appartengo».

 A pagina 125 di Il treno del buon appetito (Ronzani Editore, 2017) cita un’espressione di Pasolini a proposito delle sue poesie: «Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere». Che cosa intendeva dire?

«Era un’esagerazione, una cosa provocatoria. Pasolini l’ha detto dopo cinquant’anni che abbiamo vissuto insieme… Improvvisamente si era accorto che ero troppo timido? Lo diceva per polemizzare con altri poeti».

Era una provocazione affettuosa verso di lei?

«Più affettuosa di così. Pensando in quali bolge infernali mi ha fatto entrare era il minimo che doveva dire».

Bolge infernali?

«Le bolge infernali sono bolge infernali. C’è un grande poema che si occupa di loro».

È un po’ reticente, me ne descriva una o teme le vendette di qualche attore o regista?

«Si figuri se mi faccio intimidire dal mondo del cinema. La realtà è il contrario di ciò che diceva Pasolini con quella battuta. Ero io a seguire lui per proteggerlo piuttosto che lui proteggere me».

La sua è una vecchiaia proustiana come fanno intendere L’alfabeto degli amici (L’Ancora del Mediterraneo, 2004) e Il treno del buon appetito?

«Dati i miei novant’anni, la mia generazione non può non essere proustiana se vuol essere qualcosa di diverso dalla volgarità, dall’abitudine a credere che si possa cavarsela facilmente. Aggiungendo una parolina dopo l’altra, ecco, ho fatto tutto. Invece, poi, dalla lettura di Marcel Proust, che è un castigamatti della letteratura, si viene fuori tutti frustati a sangue».

Frustati a sangue?

«Sotto ogni cosa, qualsiasi essa sia, un etto di caramelle o un chilo di patate, uno può sprofondare e ricavare impressioni o dati di fatto. Questo è l’insegnamento di Proust».

È la sua capacità analitica?

«Più che questo, ogni sua frase ti assesta un pugno».

Perché è in gioco quello stato esistenziale, il mistero che abbiamo dentro?

«Perché questo mistero Proust lo sbatte fuori; motivo per cui bisogna leggerlo recitandolo».

Perché un libro come Il treno del buon appetito è rimasto di nicchia?

«A dire il vero è stato recentemente ripubblicato con mia soddisfazione. Comunque sì, non è certo un libro di grande diffusione… perché si scansa dalle soluzioni facili. Ma paradossalmente ne sceglie una ancora più facile, che ha dentro il mistero della sua nascita. Bisogna pensarci molto, perché ogni cosa che dici, anche “buonasera signore”, ha un suo contenuto. A volte ci si adagia su frasi fatte. Ma se io dico “buonasera signore”, può darsi che questa espressione contenga anche la sua contraddizione».

Scrive che non ha «mai appartenuto né al vittimismo né all’orgoglio omosessuale»: che cosa ne pensa?

«Per me l’omosessualità è stata forse soprattutto una facile uscita dalla guerra. Il vittimismo l’ho citato così. Anche la vanità omosessuale per me è incredibile. È qualcosa di spregevole, perché trasforma un problema serio e antico come il mondo in una modernità imbecille».

La messinscena un po’ carnevalesca dei gay pride?

«Massì, anche quel bresciano, Aldo Busi. Tanti hanno un gran successo, ma poi spariscono».

Ce ne fossero come Busi, con il suo travaglio…

«Forse dico cose inesatte a causa della mia ignoranza. Se vogliamo chiudere il discorso sull’omosessualità dobbiamo prendere in esame la produzione di Aldo Palazzeschi e naturalmente Sandro Penna. E anche se vogliamo chiudere il discorso su Proust: è nelle biografie di Giovanni Comisso, Filippo De Pisis, Penna e Pasolini che mi avvicino di più al mondo proustiano».

Che cos’è per lei scrivere?

«Che domanda… Scrivere qualcosa che non sia una lettera alla mia cameriera è il bisogno di raccontare qualcosa di sé stessi che non era noto, non era alla portata di chiunque. Rivelarlo, rivelandosi».

E riguardo a sé?

«È esattamente questo. Degli altri non m’importa niente, son felice se dicono: “Che bello…”. Ma in realtà non m’interessa».

La sua è una solitudine amara?

«È una solitudine nella quale precisare i termini della propria esistenza. Precisare i termini e le possibili fughe dall’esistenza».

È un’espressione un po’ inquietante.

«Siamo qua, mi prenda a schiaffi se vuole. La solitudine è uno stato assolutamente necessario a me stesso. Non potrei convivere con qualcuno, un Adone o un Antinoo… Tornerei a vivere da solo».

Secondo l’insegnamento di Montaigne: «Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita»?

«Montaigne aveva una biblioteca meravigliosa e ha fatto rinascere molta parte della cultura classica».

Quella citazione significa che anche lei è geloso della sua solitudine?

«Ça va sans dire. La custodisco come qualcosa d’indispensabile».

Una solitudine orgogliosa?

«Una solitudine che qualcuno spero capisca e la concili con me, cioè le dia il senso che voglio io».

Può esistere un nostro simile che la capisca così?

«La solitudine si trova in tantissimi poeti, artisti, scrittori. Pensi a Caravaggio, per me grande come Proust. Anzi no, come Rimbaud. Caravaggio è il mio Rimbaud».

Però la pittura di Caravaggio esprimeva qualcosa di preciso.

«No, per carità. Non entriamo nel merito, lui era un gran teppista, io non sono un teppista come lui. Di fronte a Caravaggio mi metto in ginocchio e sto in silenzio».

Non vuole seguirmi?

«Non posso seguirla. Uno stronzo come me che parla di Caravaggio…».

Nella letteratura chi apprezza?

«Carlo Emilio Gadda riempie tutto. Poi, senza essere grande come lui, Alberto Moravia. E l’autore del Giardino dei Finzi Contini, come si chiama… Giorgio Bassani. Giovanni Comisso copre tutto».

I contemporanei?

«Non li leggo, sono un vecchio di 91 anni, penso di poterne fare a meno».

Chi è l’intellettuale cui è rimasto più affezionato?

«Sono morti tutti i miei amici, ho poco da scegliere».

Nel ricordo, quello che ritorna nelle sue madeleine?

«Più che un ricordo ammirato, il mio è un ricordo di malinconia e di disperazione. Il vuoto che mi hanno lasciato Goffredo Parise e gli altri mi imprigiona nella sua assolutezza. In questa assolutezza cerco di trovare degli elementi vivi canti».

In un’intervista, a una domanda simile, ha nominato Federico Fellini.

«Forse l’avrò detto come frase fatta. Fellini non lasciava impressioni su nessuno perché se le teneva per sé, quel vecchio porco. Non scriva vecchio porco…».

Detta da lei è un’espressione affettuosa.

«Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini. No, non era un vecchio porco… Avrebbe desiderato esserlo, si metteva in situazioni in cui il porco si esprime con una pacca sul culo di qualcuna, ma poi le cose finivano così. Non aveva una reale sessualità. In tre o quattro volte che siamo usciti insieme l’ho visto una sola volta scopare… Scopare… Chissà».

Parlando di Parise, cita il suo suggerimento: «Niente eccessi di zelo». Negli ultimi suoi anni abitavate vicini, ma non vi siete frequentati.

«È una storia lunga, che non ho ancora capito. Non ho capito perché a un certo punto ha cominciato ad avercela con me. Saranno state le donne? In realtà, non credo potessero avere così tanta influenza. Parise era così, amava tanto qualcuno e qualcosa per poi improvvisamente rifiutarlo. Si annoiava. Ma non mi sarei aspettato di essere buttato nel cestino. Tanto che un giorno, venne a trovarmi qui a Treviso: “Basta, basta, torniamo amici, vieni a cena a casa mia a Ponte di Piave”. E io, un po’ da checca vendicativa, gli ho risposto di no, “Vengo un’altra volta”. Mi aveva molto turbato il suo cambio di comportamento, perché lui e Dacia Maraini avevano presentato al Premio Strega la mia Vita di Giovanni Comisso con la quale arrivai secondo. Pensavo che quel risultato fosse anche merito suo ed ero pieno di gratitudine. In quel momento scattò in lui il rifiuto».

Il sentimento dominante delle amicizie con Parise, Comisso e lo stesso Pasolini è l’incompiutezza?

«Sarei pronto a dire di sì se ci fosse stata. Sono stati rapporti profondi. Ho reso felice Comisso negli ultimi giorni della sua vita».

Il treno del buon appetito narra numerosi rapporti più o meno passeggeri, ma si legge poco o forse mai la parola amore: sbaglio?

«Non sbaglia. Si può pronunciare la parola amore dopo aver fatto ben altre esperienze che quelle che racconto lì. Soprattutto dopo aver sentito la sofferenza dell’amore. Comunque, per me questo libro è di secondaria importanza, quelli veri sono le biografie di Comisso e di De Pisis».

E di Pasolini.

«Quella non la cito per pudore. Grazia Cherchi mi considerava un grande biografo. Per scrivere una biografia vera bisogna perdere mezza vita. Ora non lo farei più. Farei una biografia di me».

Un’autobiografia, vuol dire?

«No, una biografia di me».

La differenza?

«L’autobiografia è un genere, peraltro di moda, che ha le sue formule e i suoi schemi. Una biografia di me significa che dovrei dire chi cazzo sono io».

Siamo tornati alla domanda di partenza: chi è Nico Naldini?

«Ce ne sono tanti. Ognuno di noi si moltiplica in tanti ego. È anche un fatto di vanità. Per cui è impossibile… Dire chi sono sarebbe un lavoro immane».

Niente autobiografia e biografia di sé a sua firma, ma qualcuno dovrà pur scriverla…

«Quando sono arrivato a Treviso, per documentarmi su Comisso, la prima persona che ho conosciuto è stato Nicola De Cilia. Abbiamo trascorso lunghe serate durante le quali gli ho raccontato quello che potevo».

La scriverà lui?

«No, perché è eterosessuale. L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto. E non vedo come lui possa essere il mio Teseo».

Non a caso è stato lei a scrivere le biografie di Comisso, Pasolini, De Pisis, Penna, tutti omosessuali. Chi scriverà la sua?

«Nessuno, mi auguro. Perché chiunque volesse provarci, rischierebbe di perdersi nel mio labirinto».

Come trascorre le giornate?

«Guardo documentari della Rai, i testi sono molto belli».

Riesce ancora a leggere?

«Poco, mi stanco presto. Rileggo le Lettere dal Ponto, ma non solo. Ovidio è il mio autore».

In Lettere dal Ponto chiede di essere perdonato e riammesso alla corte di Augusto.

«Non si può dire per cosa chiede perdono perché non si capisce il motivo per cui è stato mandato in esilio. Si sa che cos’è il carmen, ma l’error no: perché ha avuto varie interpretazioni nel corso dei secoli».

Ma lei per che cosa vorrebbe essere perdonato e da chi?

«La mia ammirazione per Ovidio è estetica e basta. Personalmente, non ho niente da farmi perdonare. E da chi? Sì, qualche volta penso a mia mamma e vorrei che me lo chiedesse lei».

Vorrebbe essere perdonato da lei?

«Vorrei che me lo chiedesse lei, solo a lei avrei permesso una simile domanda. Le avrei risposto che non ho nulla di cui discolparmi. Non sto rispondendo a lei, è sempre un colloquio con mia madre».

Qualche giorno fa ho pensato a lei quando ho letto questa riflessione di Michel Houellebecq: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».

«Condivido totalmente. È un discorso lungo e complicato, che però non voglio fare. Anch’io ho il desiderio di essere amato».

Nico Naldini è morto il 9 settembre scorso. Questa intervista inedita è contenuta in Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre in libreria

A «Tolo Tolo» manca l’irriverenza di Zalone

È vero, la risata non ha colore politico. Ma in Tolo Tolo le risate scarseggiano, purtroppo. Mentre la politica…

Furbo, ruffiano, arrotondato e senza spigoli, insomma: paraculo. Si può dire? Il nuovo blockbuster di Luca Medici, nome d’arte Checco Zalone, re Mida del cinema italiano, colui che da solo salva le stagioni, non a caso bis-primatista assoluto d’incassi (primi due posti al botteghino per introiti nel giorno d’esordio in sala), segna un cambio di rotta nella produzione del comico barese rivelandosi piuttosto deludente. Addio sfregio cafone e dell’irriverenza, volgare ma sana, che in passato aveva sdoganato il sentimento maggioritario dell’Italia imbonita dal manierismo dominante.

Certo, parliamo pur sempre di un lungometraggio sfaccettato e pieno di cose, anche se un tantino affastellate e in difetto di regia e scrittura. C’è l’idea del migrante bianco che fugge in Africa dallo Stato esattore e fa il percorso contrario di quello dei poveri cristi di cui parliamo tutti i dì. C’è la varietà dei generi e del linguaggio, dall’animazione al musical, dal movie on the road alla commedia sordiana sul solito italiano furbo e cialtrone. Ci sono gli scenari del Kenya e del Sahara, i camei prestigiosi (Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Nichi Vendola) e una buona colonna sonora con citazioni e novità. C’è tutto questo, ma parlando di Checco Zalone ben di più e d’altro ci si aspettava. Perché, purtroppo, ciò che manca ai novanta minuti di Tolo Tolo è proprio il suo quid, la beata tamarraggine, il graffio scorretto, la battuta ignorante e vincente proprio perché (fintamente) inconsapevole. Quando si va a vedere un film di Zalone ci si aspettano le vetrine in frantumi del correttismo e lo sberleffo al benpensantismo. Invece, salvo una battuta antisaviano («Sei pronto a fare la brava risorsa» al bimbo che finalmente approda in Italia) e il sorteggio finale per l’assegnazione ai Paesi europei dei gruppi di migranti, ci troviamo dentro una commedia terzomondista con capovolgimento di prospettiva. Un film che si snoda geograficamente e socialmente al contrario, per finire in braccio al più composto e sentimentale veltronismo.

All’inizio della storia, dopo l’arrancante prologo, l’imprenditore in fuga dall’Agenzia delle entrate Pierfrancesco Zalone accusa d’ignoranza l’amico nero Oumar perché non sa pronunciare «ialuronico»: «Io voglio fare il cinema, mica l’estetista», è l’acrobatica risposta che apre la strada al ribaltamento della vicenda. Gli europei si sono venduti l’anima per l’effimero, gli africani sono sani, colti e si battono per l’umanità. Nel tempo libero, tra un’incursione delle milizie e un bombardamento, Oumar guarda i film di Pier Paolo Pasolini e la dolce Idjaba si rassegna a prostituirsi pur di mantenere la promessa di accompagnare verso un futuro migliore il bambino che le è stato affidato. E gli italiani? Cialtroni, si diceva, e cinici. Nell’amico senz’arte né parte che si arrampica dalla disoccupazione fino a palazzo Chigi è facilmente riconoscibile Luigi Di Maio (con tratti di Giuseppe Conte), mentre nella speranza dei famigliari di Zalone che lui sia morto per poter estinguere i debiti con il fisco, è resa plasticamente la preferenza del portafoglio sugli affetti. Un film al contrario, che sovverte le attese alimentate dal video di Immigrato, sapiente depistaggio rispetto alla sceneggiatura, dove la mano di Paolo Virzì è facilmente individuabile.

Proprio il trailer eccentrico, che ha fatto sclerare i sacerdoti del Bene, e la campagna promozionale sono state le mosse più indovinate di tutta l’operazione. Forse sarebbe stato ancora meglio ridurre la comunicazione, limitandosi al promo e alla conferenza stampa, godendosi lo spettacolo di noi giornalisti che ci scervelliamo su destra e sinistra. Giornali e sale piene, per una volta. Vittoria su tutti i fronti, tranne che sulla qualità del prodotto cui avrebbe giovato una regia più distaccata.

Rileggere ora l’intervista concessa ante-visione ad Aldo Cazzullo può essere istruttivo: «Purtroppo non si può dire più nulla», ammette Zalone. «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa… mi arresterebbero… L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto». Parole autogiustificatorie? Non sarà che pure l’amato Checco vi ha ceduto senza riuscire a scavalcare quel «purtroppo», come ha sempre fatto in passato? Il dubbio c’è ed è suffragato dal fatto che ora lo troviamo coccolato dal salotto sgravacoscienze de sinistra, amministrato da Paolo Mereghetti che ha scomodato Primo Levi, da Natalia Aspesi, che ha provato «la stessa emozione» di quando «piccina mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani» e da Andrea Salerno, per il quale Tolo Tolo è «un film decisamente di sinistra». Ha ragione il direttore di La7 che, con Massimo Giletti ed Enrico Mentana, ha «dato una mano» e lui se n’è compiaciuto. Un film di sinistra: a confermarlo arrivano anche Cazzullo, che lo ama perdutamente, ma lo descrive «palesemente antisalviniano», e Fulvio Abbate su Dagospia, il più fulminante: «Un patetico calendario missionario… tra le cose da tenere in cucina».

 

La Verità, 6 gennaio 2020

«Chef Rubio farebbe bene a rileggersi Pasolini»

Rita Dalla Chiesa è nata e vissuta in caserma, con la sua famiglia e il disprezzo per le forze dell’ordine non lo tollera. Ben oltre la polemica con chef Rubio – per il quale le colpe dei fatti di Trieste sono di «un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente» – «la figlia del generale» torna sull’argomento con grande lucidità. Ma qui, purtroppo, non siamo dentro un film con John Travolta.

Perché c’è questo disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine?

Non l’ho mai capito. Ho vissuto il Sessantotto, ho visto gli sputi e le monetine contro i militari. Siccome erano figli del sud e si mantenevano facendo i carabinieri o i poliziotti, quello stipendio era considerato una forma di assistenzialismo, l’equivalente del reddito di cittadinanza di oggi. Mi sembra di vedere una scia di ex terrorismo.

In che senso?

Risuonano le stesse parole degli anni di piombo: due di meno, due sottoterra… Anche quando hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma…

È frutto di una cultura precisa?

Temo di sì. Una persona che si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere lo fa perché da loro si sente protetta. Lei era bambino, io ricordo gli sputi e le urla al funerale di Antonio Annarumma. Ora passo per fascista perché difendo le forze dell’ordine, ma io le difendo come loro difendono noi cittadini.

Chef Rubio è un caso estremo o esprime una mentalità diffusa?

Diciamo che è un caso non così estremo come vorrei che fosse.

Si pensa che poliziotti e carabinieri siano inetti e approssimativi?

Se fosse così non ci sarebbero tutti gli arresti che ci sono e le carceri sarebbero vuote. Nessuno considera che si pagano i corsi di aggiornamento e che non possono usare le manette anche quando colgono un delinquente in flagrante perché sarebbero additati come torturatori. Viviamo in un Paese più preoccupato di difendere i delinquenti di chi cerca di assicurarli alla giustizia.

Come giudica lo scandalo della benda sugli occhi di uno dei due accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello?

Quando arrivarono i genitori di quel ragazzo dall’America il gregge, come lo chiamo io, si è dimenticato che era morto un uomo e che sua moglie era vedova. E si è preoccupato della benda: poverino quel ragazzo… Peccato che avesse appena collaborato all’uccisione di un poliziotto.

Se poliziotti e carabinieri reagiscono sono fascisti, se non reagiscono sono incapaci e se muoiono sono impreparati?

Sono nata e vissuta in caserma, so cosa c’è dietro le divise, i turni di notte, i natali passati in servizio. Li ho visti tornare con le divise strappate… Li vedo anche ora quando quelli che vengono fermati, magari giovani col macchinone, li guardano con sufficienza.

Però la tragedia di Stefano Cucchi non ha giovato alla stima verso le forze dell’ordine.

Certo. Anche quello che è successo nella scuola Diaz al G8 di Genova: sono fatti terribili dei quali vergognarsi e me ne vergogno io per prima. Ma grazie a Dio sono episodi, non la normalità. I nostri militari erano odiati anche prima di Genova e di Cucchi.

Rubio dovrebbe rileggere la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia nel 1968 in cui simpatizzava per i poliziotti, «figli di poveri»?

Certo. E non solo quella. Anche certe lettere di mamme e di poliziotti che ricevo spesso. O un articolo di Antonio Ruzzo sul Giornale che raccontava gli stati d’animo dei militari disprezzati per la divisa.

Il fatto che percepiscano stipendi modesti e lavorino con attrezzature obsolete dimostra che si sottovaluta l’importanza del loro compito?

Non so come le istituzioni possano farlo. Mancano i soldi per la benzina e per i giubbotti antiproiettile e certe missioni si trasformano in una roulette russa. Se ci sono sette giubbotti e capita all’ottavo di essere colpito?

Un uso maggiore delle manette darebbe più sicurezza?

Per la cattura in flagrante dovrebbero scattare in automatico. Le manette non servono per umiliare, ma a proteggere chi compie azioni di polizia. Trovo che le forze dell’ordine siano poco supportate dai cittadini che le vedono come una realtà separata e dallo Stato che si gira dall’altra parte. Salvo poi fare un uso smodato delle scorte.

Spieghi.

Quando fa comodo si ricorre a questi uomini per salvare la pellaccia di potenti o presunti tali. Ma quando emerge la necessità di attrezzature adeguate, si gira la testa dall’altra parte. E se lo facessero i poliziotti nel momento del pericolo?

Come valuta la revoca della scorta al capitano Ultimo?

Non capisco come le autorità si siano potute rimangiare quanto già deciso dal Tar del Lazio a giugno. Non capisco questo accanimento contro un ufficiale dei carabinieri al quale dobbiamo molto. C’è qualcosa che non mi torna. Non mi sembra che la mafia faccia sconti a nessuno. Perché non si prendono sul serio le minacce di cui è oggetto? Mica passano in giudicato o vanno in prescrizione…

Cosa pensa del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni condannata a 21 anni per l’omicidio di Massimo D’Antona?

So bene com’erano quegli anni, quando mio padre ha combattuto le Brigate rosse… È giusto che quando una persona ha pagato il suo conto con la giustizia deve potersi rifare una vita. Ma chi si è messo contro lo Stato ora non può chiedere aiuto allo Stato. Non ci sto.

 

Panorama, 16 ottobre 2019

 

 

«Il mio abbraccio con Salvini ha rotto un tabù»

Sigaro sempre acceso, barba cespugliosa e una matassa di braccialetti al polso, Davide Rondoni, poeta bolognese di 54 anni, si definisce «anarchico e cattolico di rito romagnolo». Ma per molti frequentatori dei social, la fotografia del suo abbraccio con Matteo Salvini è qualcosa che macchia indelebilmente la sua immagine da perfetto irregolare. Altre reazioni? «Sono state scritte cose ridicole. L’abbraccio del diavolo, cose così. Invece, altri si sono mostrati contenti di cogliere un accento umano. Chi ha avuto la pazienza di seguire la diretta su Facebook del Festival dell’Essenziale, dove Salvini era ospite, si è accorto dell’umanità di quell’incontro. L’anno scorso avevo abbracciato la sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli del Pd, ma non si era scatenata la canea di oggi. Purtroppo, in certi ambienti siamo fermi ai cliché degli anni Cinquanta».

L’appuntamento è nella sede del Banco di solidarietà di Bologna, una delle tante attività a cui si dedica Rondoni, curatore di collane di poesia, ideatore di festival e fondatore di clanDestino, rivista di poesia con una D maiuscola non banale dove, a commento della vicenda, ha scritto un post intitolato «Confesso che ho abbracciato»: «Sono un estremista dell’abbraccio… In ogni abbraccio rischio l’anima, più che la reputazione». Niente lavoro fisso, vive in una vecchia stalla ristrutturata sui crinali fuori Bologna: «Con quattro figli io e mia moglie abbiamo bisogno di spazio. Lì ci sono cerbiatti, volpi, cinghiali…».

Che cos’ha di poetico Matteo Salvini?

«Quello che hanno tutte le persone che si impegnano nella realtà mettendoci la faccia. Se affrontata con impegno, la vita rivela sempre livelli nascosti. E la poesia, forse, è la chiave migliore per arrivare a quelli più profondi. Salvini non è un uomo di cultura e il suo non fingere di esserlo lo rende simpatico».

Converrà che, d’istinto, la sintonia tra un poeta e il segretario leghista stupisce.

«Non d’istinto, ma a causa di una cultura che ha dato della poesia un’idea lontana dal reale. Mentre noi siamo il Paese di Dante Alighieri e Pier Paolo Pasolini».

Che incarnarono un’idea concreta?

«Erano poeti impegnati nella realtà della propria epoca».

All’ultimo raduno di Pontida Salvini ha citato un suo verso: quale?

«Amare è l’occupazione di chi non ha paura».

Che vuol dire?

«Per amare una donna, i figli e la realtà che hai intorno non devi essere bloccato dalla paura; dalla paura del sacrificio e della diversità».

Salvini è stato ribattezzato ministro della paura.

«Non mi sembra una definizione sufficiente. Non è lui che ha paura, ma la gente».

Normalmente Salvini parla di «pacchia» dei migranti, di «crociera» delle navi delle Ong, di «ruspe» per radere al suolo i campi rom. Come giudica questo linguaggio?

«È il linguaggio di un politico che sta lucrando un consenso su problemi reali. La propaganda è sempre stata grossolana. Quando la Dc diceva che i comunisti mangiavano i bambini o Prodi che Forza Italia era il nulla non andavano tanto per il sottile».

Certe espressioni potrebbero alimentare atti di razzismo negli strati meno critici della popolazione?

«Più che certe parole, ciò che alimenta un possibile scontro è il disagio che provoca la guerra tra i poveri».

Disoccupati e migranti?

«L’attacco ai campi rom non lo fa chi abita ai Parioli, ma chi vive lì vicino. Comunque, io rispondo delle mie parole».

Come si può definire il vostro rapporto? Intesa, simpatia, affinità, vicinanza…

«Direi semplicemente amicizia. A un convegno sulla demografia avevo commentato il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi, facendo risalire la questione a un problema culturale. Dei politici presenti in sala l’unico che si è avvicinato è stato lui».

Poi?

«Abbiamo bevuto un caffè e ci siamo visti un paio di volte».

Leopardi avvicina Salvini e un poeta di formazione cattolica?

«Leopardi avvicina sempre le persone».

È stato anche l’autore più amato da don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione dove si è formato anche lei. Fosse vivo come valuterebbe la sua vicinanza con il leader leghista?

«È una domanda alla quale non si può rispondere. Forse non gliene fregherebbe niente. Oppure, visto che amava il gelato ed era un poeta libero dagli schemi, magari prenderebbe un gelato con noi».

Ha votato Lega?

«Questa volta sì. In passato ho votato anche Pd, a volte non ho votato. Non penso che la politica sia la cosa più importante».

Che rapporto ci può essere tra la carità cristiana e la politica di Salvini, tra il cattivismo e il Banco di solidarietà dove ci troviamo?

«La carità è una dimensione della vita. La politica deve prendersi cura dei problemi economici e sociali a cui la carità di per sé non risponde. Poi ogni persona che lo ritenga è chiamata a essere caritatevole nel suo ambito. Qui lavorano dei migranti».

Come ha valutato l’iniziativa dello scrittore Sandro Veronesi che invitava Roberto Saviano a salire sui barconi dei migranti?

«La carità si fa in silenzio, non facendo sapere alla mano sinistra ciò che fa la mano destra. Gli slanci caritatevoli a favore di telecamera non mi commuovono. Su come affrontare un problema epocale come l’emigrazione si possono avere idee e strategie differenti senza pensare che chi ne ha una diversa dalla tua sia cattivo».

In passato ha apprezzato le poesie di Sandro Bondi: è un poeta di destra?

«Continuare a parlare di destra e sinistra non aiuta a capire il nostro tempo. Non sono di destra, ma anarchico, cattolico, di rito romagnolo».

Cioè gaudente?

«Diciamo non clericale. Bondi mi chiese la prefazione a un suo libretto come fanno molte altre persone alle quali non chiedo a quale partito appartengono. Nelle prefazioni scrivo ciò che penso».

Quindi non è un poeta di destra, ma anarchico?

«Il giorno dopo la visita di Salvini, al Festival dell’Essenziale è venuto Moni Ovadia a salutarmi: ho abbracciato anche lui. Sono amico di Roberto Benigni, che sicuramente non è salviniano. La libertà che mi viene dall’esperienza cristiana mi aiuta a comprendere la realtà».

Concorda con Pietrangelo Buttafuoco che commentando sul Tempo quella foto ha parlato di rottura del tabù per cui artisti, scrittori e attori potevano fiancheggiare solo la sinistra?

«Premesso che io non fiancheggio nessuno, forse sì, si può parlare di rottura di un tabù. Il nostro Paese ha bisogno di uscire da troppi cliché e la cultura dovrebbe essere la prima a farlo, non l’ultima».

Altri esempi di conformismo?

«Quando Benigni si pronunciò in favore di Renzi subì un feroce attacco da Dario Fo. Il più libero era Pasolini che non si vergognò di intervistare in tv Ezra Pound quando Pound era considerato peggio del demonio».

Non teme che questa amicizia possa indebolire il suo profilo artistico?

«Non me ne frega niente, così come non penso m’indebolisca l’amicizia con Ovadia, con Benigni o altre persone di sinistra. Di recente l’editore Tallone ha raccolto in un’edizione pregiata la mia opera. Non temo ci sia qualcosa che influenzi uno sguardo libero sul suo eventuale valore».

Da dove deriva la definizione della poesia come «l’allodola e il fuoco»?

«Dai trovatori. La poesia è la voce dell’anima, la voce dell’allodola che non si vede, ma canta tra le tenebre e l’alba».

Che cos’è esattamente clanDestino?

«Una rivista nata trent’anni fa da me e altri ventenni, attraverso la quale scopriamo nuovi talenti e facciamo poesia e letteratura».

E il Festival dell’Essenziale, con tutti i festival che imperversano in Italia?

«È un ritrovo sull’essenziale, nato da persone impegnate nella cultura e nella società con Amici di marzo e Fondazione Claudi».

Come mai porta tanti braccialetti?

«Sono ricordi di viaggi. Questo me lo regalò un tassista tunisino: aveva fatto lo spacciatore di cocaina a Verona. Gli dissi: “Vorresti che i tuoi figli si drogassero?”. “No, ma ero disperato, avevo perso la testa”. Salutandolo, ho abbracciato anche lui».

Come campa un poeta?

«Lavorando. Anche Dante curava gli affari dei Da Polenta, signori di Ravenna. Faceva quello che oggi chiameremmo il responsabile del marketing».

Insegna?

«Niente mestieri fissi, mai assunto da giornali, televisioni, case editrici. Ho diverse collaborazioni, con la Rai, lo Iulm. È una posizione scomoda, ma libera. In passato ho fatto dal guardiano notturno al lettore di contatori. Era divertente, si entrava nelle case…».

Progetti futuri?

«Domenica (oggi per chi legge ndr) a Pordenonelegge parlerò del desiderio, una delle parole del Sessantotto. Citerò il discorso che Pasolini stava scrivendo per il congresso del Partito radicale al quale non riuscì a partecipare: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”».

È andata così.

«Il fatto che non ci sia una sinistra credibile per me è un problema vero. Ho anche una storia di sinistra: il mio maestro è Mario Luzi, ho seguito le lezioni di Piero Bigongiari, frequentato Franco Loi e Giovanni Testori. Invece di leggere Pasolini, Pavese e Fenoglio gli intellettuali di oggi leggono Umberto Eco e Michele Serra».

Altre idee?

«Le manifestazioni per i 200 anni dell’Infinito di Leopardi, la prima sarà il 25 ottobre alla Festa del cinema di Roma. Ora che si lega l’identità al fare e alla professione, ci servirà rileggere questa poesia scritta due secoli fa da un ventenne. L’identità dell’uomo è il suo desiderio di infinito. Come diceva Giussani nelle università: “O sei legato all’infinito o sei legato al potere”. Questo è il motivo per cui posso abbracciare tutti. Da Salvini a Festus, un ragazzo nigeriano che domani mattina sarà qui a lavorare».

 

La Verità, 23 settembre 2018