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«Ho bisogno di solitudine, ma voglio essere amato»

Una casa piena di libri e solitudine. Piena di amici che non ci sono più. Goffredo Parise, Giovanni Comisso, il cugino Pier Paolo Pasolini. Nico Naldini abita nella prima periferia di Treviso, dove si ritirò una quarantina d’anni fa per lavorare alla biografia di Comisso, abbandonando le luci di Cinecittà dopo la tragica morte di PPP e scegliendo di proposito le ombre della provincia letteraria.

Vive qui, in compagnia dei suoi 91 anni spericolati e della personalissima ricerca del tempo perduto, in bilico tra autoironia e amarezza. Questa solitudine incolmabile fa venire alla mente «il desiderio di essere amato» di Michel Houellebecq «e la riflessione» che non può «farci niente».

È pronto?

«Non voglio essere pronto».

Come sta Nico Naldini?

«È un argomento che non voglio affrontare. I miei amici sono tutti morti».

Novant’anni in questa casa, tre stanze e un piccolo giardino.

«In questa casa… uguale a tutte le altre case. A ogni anfratto, a ogni cloaca, a ogni caverna del mondo».

Chi è Nico Naldini?

«Non so chi è. Non facciamo diatribe, mi ripugna sapere chi è».

Un poeta, un artista, uno sceneggiatore, uno scrittore, un grande biografo?

«Posso essere classificato in tutti questi modi. Però l’unica mia vera ambizione è scrivere tre versi che siano tre. Come faceva il mio amico Sandro Penna».

La sua vera ambizione è la poesia?

«Non è un’ambizione, è uno stato esistenziale, il fondo di ogni atto e di ogni pensiero. Qualcosa che dovrebbe reagire e sentire che ce l’ha fatta».

Uno stato esistenziale profondo che ce l’ha fatta ad affiorare in versi?

«Non ogni stato esistenziale può essere rappresentato da tre versi».

È soddisfatto della sua produzione poetica?

«Neanche per idea, neanche per sogno. Ogni tanto mi sveglio di notte e dico a me stesso: che cazzate».

Turbe degli artisti sempre insoddisfatti?

«Sono categorie alle quali non appartengo».

 A pagina 125 di Il treno del buon appetito (Ronzani Editore, 2017) cita un’espressione di Pasolini a proposito delle sue poesie: «Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere». Che cosa intendeva dire?

«Era un’esagerazione, una cosa provocatoria. Pasolini l’ha detto dopo cinquant’anni che abbiamo vissuto insieme… Improvvisamente si era accorto che ero troppo timido? Lo diceva per polemizzare con altri poeti».

Era una provocazione affettuosa verso di lei?

«Più affettuosa di così. Pensando in quali bolge infernali mi ha fatto entrare era il minimo che doveva dire».

Bolge infernali?

«Le bolge infernali sono bolge infernali. C’è un grande poema che si occupa di loro».

È un po’ reticente, me ne descriva una o teme le vendette di qualche attore o regista?

«Si figuri se mi faccio intimidire dal mondo del cinema. La realtà è il contrario di ciò che diceva Pasolini con quella battuta. Ero io a seguire lui per proteggerlo piuttosto che lui proteggere me».

La sua è una vecchiaia proustiana come fanno intendere L’alfabeto degli amici (L’Ancora del Mediterraneo, 2004) e Il treno del buon appetito?

«Dati i miei novant’anni, la mia generazione non può non essere proustiana se vuol essere qualcosa di diverso dalla volgarità, dall’abitudine a credere che si possa cavarsela facilmente. Aggiungendo una parolina dopo l’altra, ecco, ho fatto tutto. Invece, poi, dalla lettura di Marcel Proust, che è un castigamatti della letteratura, si viene fuori tutti frustati a sangue».

Frustati a sangue?

«Sotto ogni cosa, qualsiasi essa sia, un etto di caramelle o un chilo di patate, uno può sprofondare e ricavare impressioni o dati di fatto. Questo è l’insegnamento di Proust».

È la sua capacità analitica?

«Più che questo, ogni sua frase ti assesta un pugno».

Perché è in gioco quello stato esistenziale, il mistero che abbiamo dentro?

«Perché questo mistero Proust lo sbatte fuori; motivo per cui bisogna leggerlo recitandolo».

Perché un libro come Il treno del buon appetito è rimasto di nicchia?

«A dire il vero è stato recentemente ripubblicato con mia soddisfazione. Comunque sì, non è certo un libro di grande diffusione… perché si scansa dalle soluzioni facili. Ma paradossalmente ne sceglie una ancora più facile, che ha dentro il mistero della sua nascita. Bisogna pensarci molto, perché ogni cosa che dici, anche “buonasera signore”, ha un suo contenuto. A volte ci si adagia su frasi fatte. Ma se io dico “buonasera signore”, può darsi che questa espressione contenga anche la sua contraddizione».

Scrive che non ha «mai appartenuto né al vittimismo né all’orgoglio omosessuale»: che cosa ne pensa?

«Per me l’omosessualità è stata forse soprattutto una facile uscita dalla guerra. Il vittimismo l’ho citato così. Anche la vanità omosessuale per me è incredibile. È qualcosa di spregevole, perché trasforma un problema serio e antico come il mondo in una modernità imbecille».

La messinscena un po’ carnevalesca dei gay pride?

«Massì, anche quel bresciano, Aldo Busi. Tanti hanno un gran successo, ma poi spariscono».

Ce ne fossero come Busi, con il suo travaglio…

«Forse dico cose inesatte a causa della mia ignoranza. Se vogliamo chiudere il discorso sull’omosessualità dobbiamo prendere in esame la produzione di Aldo Palazzeschi e naturalmente Sandro Penna. E anche se vogliamo chiudere il discorso su Proust: è nelle biografie di Giovanni Comisso, Filippo De Pisis, Penna e Pasolini che mi avvicino di più al mondo proustiano».

Che cos’è per lei scrivere?

«Che domanda… Scrivere qualcosa che non sia una lettera alla mia cameriera è il bisogno di raccontare qualcosa di sé stessi che non era noto, non era alla portata di chiunque. Rivelarlo, rivelandosi».

E riguardo a sé?

«È esattamente questo. Degli altri non m’importa niente, son felice se dicono: “Che bello…”. Ma in realtà non m’interessa».

La sua è una solitudine amara?

«È una solitudine nella quale precisare i termini della propria esistenza. Precisare i termini e le possibili fughe dall’esistenza».

È un’espressione un po’ inquietante.

«Siamo qua, mi prenda a schiaffi se vuole. La solitudine è uno stato assolutamente necessario a me stesso. Non potrei convivere con qualcuno, un Adone o un Antinoo… Tornerei a vivere da solo».

Secondo l’insegnamento di Montaigne: «Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita»?

«Montaigne aveva una biblioteca meravigliosa e ha fatto rinascere molta parte della cultura classica».

Quella citazione significa che anche lei è geloso della sua solitudine?

«Ça va sans dire. La custodisco come qualcosa d’indispensabile».

Una solitudine orgogliosa?

«Una solitudine che qualcuno spero capisca e la concili con me, cioè le dia il senso che voglio io».

Può esistere un nostro simile che la capisca così?

«La solitudine si trova in tantissimi poeti, artisti, scrittori. Pensi a Caravaggio, per me grande come Proust. Anzi no, come Rimbaud. Caravaggio è il mio Rimbaud».

Però la pittura di Caravaggio esprimeva qualcosa di preciso.

«No, per carità. Non entriamo nel merito, lui era un gran teppista, io non sono un teppista come lui. Di fronte a Caravaggio mi metto in ginocchio e sto in silenzio».

Non vuole seguirmi?

«Non posso seguirla. Uno stronzo come me che parla di Caravaggio…».

Nella letteratura chi apprezza?

«Carlo Emilio Gadda riempie tutto. Poi, senza essere grande come lui, Alberto Moravia. E l’autore del Giardino dei Finzi Contini, come si chiama… Giorgio Bassani. Giovanni Comisso copre tutto».

I contemporanei?

«Non li leggo, sono un vecchio di 91 anni, penso di poterne fare a meno».

Chi è l’intellettuale cui è rimasto più affezionato?

«Sono morti tutti i miei amici, ho poco da scegliere».

Nel ricordo, quello che ritorna nelle sue madeleine?

«Più che un ricordo ammirato, il mio è un ricordo di malinconia e di disperazione. Il vuoto che mi hanno lasciato Goffredo Parise e gli altri mi imprigiona nella sua assolutezza. In questa assolutezza cerco di trovare degli elementi vivi canti».

In un’intervista, a una domanda simile, ha nominato Federico Fellini.

«Forse l’avrò detto come frase fatta. Fellini non lasciava impressioni su nessuno perché se le teneva per sé, quel vecchio porco. Non scriva vecchio porco…».

Detta da lei è un’espressione affettuosa.

«Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini. No, non era un vecchio porco… Avrebbe desiderato esserlo, si metteva in situazioni in cui il porco si esprime con una pacca sul culo di qualcuna, ma poi le cose finivano così. Non aveva una reale sessualità. In tre o quattro volte che siamo usciti insieme l’ho visto una sola volta scopare… Scopare… Chissà».

Parlando di Parise, cita il suo suggerimento: «Niente eccessi di zelo». Negli ultimi suoi anni abitavate vicini, ma non vi siete frequentati.

«È una storia lunga, che non ho ancora capito. Non ho capito perché a un certo punto ha cominciato ad avercela con me. Saranno state le donne? In realtà, non credo potessero avere così tanta influenza. Parise era così, amava tanto qualcuno e qualcosa per poi improvvisamente rifiutarlo. Si annoiava. Ma non mi sarei aspettato di essere buttato nel cestino. Tanto che un giorno, venne a trovarmi qui a Treviso: “Basta, basta, torniamo amici, vieni a cena a casa mia a Ponte di Piave”. E io, un po’ da checca vendicativa, gli ho risposto di no, “Vengo un’altra volta”. Mi aveva molto turbato il suo cambio di comportamento, perché lui e Dacia Maraini avevano presentato al Premio Strega la mia Vita di Giovanni Comisso con la quale arrivai secondo. Pensavo che quel risultato fosse anche merito suo ed ero pieno di gratitudine. In quel momento scattò in lui il rifiuto».

Il sentimento dominante delle amicizie con Parise, Comisso e lo stesso Pasolini è l’incompiutezza?

«Sarei pronto a dire di sì se ci fosse stata. Sono stati rapporti profondi. Ho reso felice Comisso negli ultimi giorni della sua vita».

Il treno del buon appetito narra numerosi rapporti più o meno passeggeri, ma si legge poco o forse mai la parola amore: sbaglio?

«Non sbaglia. Si può pronunciare la parola amore dopo aver fatto ben altre esperienze che quelle che racconto lì. Soprattutto dopo aver sentito la sofferenza dell’amore. Comunque, per me questo libro è di secondaria importanza, quelli veri sono le biografie di Comisso e di De Pisis».

E di Pasolini.

«Quella non la cito per pudore. Grazia Cherchi mi considerava un grande biografo. Per scrivere una biografia vera bisogna perdere mezza vita. Ora non lo farei più. Farei una biografia di me».

Un’autobiografia, vuol dire?

«No, una biografia di me».

La differenza?

«L’autobiografia è un genere, peraltro di moda, che ha le sue formule e i suoi schemi. Una biografia di me significa che dovrei dire chi cazzo sono io».

Siamo tornati alla domanda di partenza: chi è Nico Naldini?

«Ce ne sono tanti. Ognuno di noi si moltiplica in tanti ego. È anche un fatto di vanità. Per cui è impossibile… Dire chi sono sarebbe un lavoro immane».

Niente autobiografia e biografia di sé a sua firma, ma qualcuno dovrà pur scriverla…

«Quando sono arrivato a Treviso, per documentarmi su Comisso, la prima persona che ho conosciuto è stato Nicola De Cilia. Abbiamo trascorso lunghe serate durante le quali gli ho raccontato quello che potevo».

La scriverà lui?

«No, perché è eterosessuale. L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto. E non vedo come lui possa essere il mio Teseo».

Non a caso è stato lei a scrivere le biografie di Comisso, Pasolini, De Pisis, Penna, tutti omosessuali. Chi scriverà la sua?

«Nessuno, mi auguro. Perché chiunque volesse provarci, rischierebbe di perdersi nel mio labirinto».

Come trascorre le giornate?

«Guardo documentari della Rai, i testi sono molto belli».

Riesce ancora a leggere?

«Poco, mi stanco presto. Rileggo le Lettere dal Ponto, ma non solo. Ovidio è il mio autore».

In Lettere dal Ponto chiede di essere perdonato e riammesso alla corte di Augusto.

«Non si può dire per cosa chiede perdono perché non si capisce il motivo per cui è stato mandato in esilio. Si sa che cos’è il carmen, ma l’error no: perché ha avuto varie interpretazioni nel corso dei secoli».

Ma lei per che cosa vorrebbe essere perdonato e da chi?

«La mia ammirazione per Ovidio è estetica e basta. Personalmente, non ho niente da farmi perdonare. E da chi? Sì, qualche volta penso a mia mamma e vorrei che me lo chiedesse lei».

Vorrebbe essere perdonato da lei?

«Vorrei che me lo chiedesse lei, solo a lei avrei permesso una simile domanda. Le avrei risposto che non ho nulla di cui discolparmi. Non sto rispondendo a lei, è sempre un colloquio con mia madre».

Qualche giorno fa ho pensato a lei quando ho letto questa riflessione di Michel Houellebecq: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».

«Condivido totalmente. È un discorso lungo e complicato, che però non voglio fare. Anch’io ho il desiderio di essere amato».

Nico Naldini è morto il 9 settembre scorso. Questa intervista inedita è contenuta in Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre in libreria

A «Tolo Tolo» manca l’irriverenza di Zalone

È vero, la risata non ha colore politico. Ma in Tolo Tolo le risate scarseggiano, purtroppo. Mentre la politica…

Furbo, ruffiano, arrotondato e senza spigoli, insomma: paraculo. Si può dire? Il nuovo blockbuster di Luca Medici, nome d’arte Checco Zalone, re Mida del cinema italiano, colui che da solo salva le stagioni, non a caso bis-primatista assoluto d’incassi (primi due posti al botteghino per introiti nel giorno d’esordio in sala), segna un cambio di rotta nella produzione del comico barese rivelandosi piuttosto deludente. Addio sfregio cafone e dell’irriverenza, volgare ma sana, che in passato aveva sdoganato il sentimento maggioritario dell’Italia imbonita dal manierismo dominante.

Certo, parliamo pur sempre di un lungometraggio sfaccettato e pieno di cose, anche se un tantino affastellate e in difetto di regia e scrittura. C’è l’idea del migrante bianco che fugge in Africa dallo Stato esattore e fa il percorso contrario di quello dei poveri cristi di cui parliamo tutti i dì. C’è la varietà dei generi e del linguaggio, dall’animazione al musical, dal movie on the road alla commedia sordiana sul solito italiano furbo e cialtrone. Ci sono gli scenari del Kenya e del Sahara, i camei prestigiosi (Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Nichi Vendola) e una buona colonna sonora con citazioni e novità. C’è tutto questo, ma parlando di Checco Zalone ben di più e d’altro ci si aspettava. Perché, purtroppo, ciò che manca ai novanta minuti di Tolo Tolo è proprio il suo quid, la beata tamarraggine, il graffio scorretto, la battuta ignorante e vincente proprio perché (fintamente) inconsapevole. Quando si va a vedere un film di Zalone ci si aspettano le vetrine in frantumi del correttismo e lo sberleffo al benpensantismo. Invece, salvo una battuta antisaviano («Sei pronto a fare la brava risorsa» al bimbo che finalmente approda in Italia) e il sorteggio finale per l’assegnazione ai Paesi europei dei gruppi di migranti, ci troviamo dentro una commedia terzomondista con capovolgimento di prospettiva. Un film che si snoda geograficamente e socialmente al contrario, per finire in braccio al più composto e sentimentale veltronismo.

All’inizio della storia, dopo l’arrancante prologo, l’imprenditore in fuga dall’Agenzia delle entrate Pierfrancesco Zalone accusa d’ignoranza l’amico nero Oumar perché non sa pronunciare «ialuronico»: «Io voglio fare il cinema, mica l’estetista», è l’acrobatica risposta che apre la strada al ribaltamento della vicenda. Gli europei si sono venduti l’anima per l’effimero, gli africani sono sani, colti e si battono per l’umanità. Nel tempo libero, tra un’incursione delle milizie e un bombardamento, Oumar guarda i film di Pier Paolo Pasolini e la dolce Idjaba si rassegna a prostituirsi pur di mantenere la promessa di accompagnare verso un futuro migliore il bambino che le è stato affidato. E gli italiani? Cialtroni, si diceva, e cinici. Nell’amico senz’arte né parte che si arrampica dalla disoccupazione fino a palazzo Chigi è facilmente riconoscibile Luigi Di Maio (con tratti di Giuseppe Conte), mentre nella speranza dei famigliari di Zalone che lui sia morto per poter estinguere i debiti con il fisco, è resa plasticamente la preferenza del portafoglio sugli affetti. Un film al contrario, che sovverte le attese alimentate dal video di Immigrato, sapiente depistaggio rispetto alla sceneggiatura, dove la mano di Paolo Virzì è facilmente individuabile.

Proprio il trailer eccentrico, che ha fatto sclerare i sacerdoti del Bene, e la campagna promozionale sono state le mosse più indovinate di tutta l’operazione. Forse sarebbe stato ancora meglio ridurre la comunicazione, limitandosi al promo e alla conferenza stampa, godendosi lo spettacolo di noi giornalisti che ci scervelliamo su destra e sinistra. Giornali e sale piene, per una volta. Vittoria su tutti i fronti, tranne che sulla qualità del prodotto cui avrebbe giovato una regia più distaccata.

Rileggere ora l’intervista concessa ante-visione ad Aldo Cazzullo può essere istruttivo: «Purtroppo non si può dire più nulla», ammette Zalone. «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa… mi arresterebbero… L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto». Parole autogiustificatorie? Non sarà che pure l’amato Checco vi ha ceduto senza riuscire a scavalcare quel «purtroppo», come ha sempre fatto in passato? Il dubbio c’è ed è suffragato dal fatto che ora lo troviamo coccolato dal salotto sgravacoscienze de sinistra, amministrato da Paolo Mereghetti che ha scomodato Primo Levi, da Natalia Aspesi, che ha provato «la stessa emozione» di quando «piccina mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani» e da Andrea Salerno, per il quale Tolo Tolo è «un film decisamente di sinistra». Ha ragione il direttore di La7 che, con Massimo Giletti ed Enrico Mentana, ha «dato una mano» e lui se n’è compiaciuto. Un film di sinistra: a confermarlo arrivano anche Cazzullo, che lo ama perdutamente, ma lo descrive «palesemente antisalviniano», e Fulvio Abbate su Dagospia, il più fulminante: «Un patetico calendario missionario… tra le cose da tenere in cucina».

 

La Verità, 6 gennaio 2020

«Chef Rubio farebbe bene a rileggersi Pasolini»

Rita Dalla Chiesa è nata e vissuta in caserma, con la sua famiglia e il disprezzo per le forze dell’ordine non lo tollera. Ben oltre la polemica con chef Rubio – per il quale le colpe dei fatti di Trieste sono di «un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente» – «la figlia del generale» torna sull’argomento con grande lucidità. Ma qui, purtroppo, non siamo dentro un film con John Travolta.

Perché c’è questo disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine?

Non l’ho mai capito. Ho vissuto il Sessantotto, ho visto gli sputi e le monetine contro i militari. Siccome erano figli del sud e si mantenevano facendo i carabinieri o i poliziotti, quello stipendio era considerato una forma di assistenzialismo, l’equivalente del reddito di cittadinanza di oggi. Mi sembra di vedere una scia di ex terrorismo.

In che senso?

Risuonano le stesse parole degli anni di piombo: due di meno, due sottoterra… Anche quando hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma…

È frutto di una cultura precisa?

Temo di sì. Una persona che si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere lo fa perché da loro si sente protetta. Lei era bambino, io ricordo gli sputi e le urla al funerale di Antonio Annarumma. Ora passo per fascista perché difendo le forze dell’ordine, ma io le difendo come loro difendono noi cittadini.

Chef Rubio è un caso estremo o esprime una mentalità diffusa?

Diciamo che è un caso non così estremo come vorrei che fosse.

Si pensa che poliziotti e carabinieri siano inetti e approssimativi?

Se fosse così non ci sarebbero tutti gli arresti che ci sono e le carceri sarebbero vuote. Nessuno considera che si pagano i corsi di aggiornamento e che non possono usare le manette anche quando colgono un delinquente in flagrante perché sarebbero additati come torturatori. Viviamo in un Paese più preoccupato di difendere i delinquenti di chi cerca di assicurarli alla giustizia.

Come giudica lo scandalo della benda sugli occhi di uno dei due accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello?

Quando arrivarono i genitori di quel ragazzo dall’America il gregge, come lo chiamo io, si è dimenticato che era morto un uomo e che sua moglie era vedova. E si è preoccupato della benda: poverino quel ragazzo… Peccato che avesse appena collaborato all’uccisione di un poliziotto.

Se poliziotti e carabinieri reagiscono sono fascisti, se non reagiscono sono incapaci e se muoiono sono impreparati?

Sono nata e vissuta in caserma, so cosa c’è dietro le divise, i turni di notte, i natali passati in servizio. Li ho visti tornare con le divise strappate… Li vedo anche ora quando quelli che vengono fermati, magari giovani col macchinone, li guardano con sufficienza.

Però la tragedia di Stefano Cucchi non ha giovato alla stima verso le forze dell’ordine.

Certo. Anche quello che è successo nella scuola Diaz al G8 di Genova: sono fatti terribili dei quali vergognarsi e me ne vergogno io per prima. Ma grazie a Dio sono episodi, non la normalità. I nostri militari erano odiati anche prima di Genova e di Cucchi.

Rubio dovrebbe rileggere la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia nel 1968 in cui simpatizzava per i poliziotti, «figli di poveri»?

Certo. E non solo quella. Anche certe lettere di mamme e di poliziotti che ricevo spesso. O un articolo di Antonio Ruzzo sul Giornale che raccontava gli stati d’animo dei militari disprezzati per la divisa.

Il fatto che percepiscano stipendi modesti e lavorino con attrezzature obsolete dimostra che si sottovaluta l’importanza del loro compito?

Non so come le istituzioni possano farlo. Mancano i soldi per la benzina e per i giubbotti antiproiettile e certe missioni si trasformano in una roulette russa. Se ci sono sette giubbotti e capita all’ottavo di essere colpito?

Un uso maggiore delle manette darebbe più sicurezza?

Per la cattura in flagrante dovrebbero scattare in automatico. Le manette non servono per umiliare, ma a proteggere chi compie azioni di polizia. Trovo che le forze dell’ordine siano poco supportate dai cittadini che le vedono come una realtà separata e dallo Stato che si gira dall’altra parte. Salvo poi fare un uso smodato delle scorte.

Spieghi.

Quando fa comodo si ricorre a questi uomini per salvare la pellaccia di potenti o presunti tali. Ma quando emerge la necessità di attrezzature adeguate, si gira la testa dall’altra parte. E se lo facessero i poliziotti nel momento del pericolo?

Come valuta la revoca della scorta al capitano Ultimo?

Non capisco come le autorità si siano potute rimangiare quanto già deciso dal Tar del Lazio a giugno. Non capisco questo accanimento contro un ufficiale dei carabinieri al quale dobbiamo molto. C’è qualcosa che non mi torna. Non mi sembra che la mafia faccia sconti a nessuno. Perché non si prendono sul serio le minacce di cui è oggetto? Mica passano in giudicato o vanno in prescrizione…

Cosa pensa del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni condannata a 21 anni per l’omicidio di Massimo D’Antona?

So bene com’erano quegli anni, quando mio padre ha combattuto le Brigate rosse… È giusto che quando una persona ha pagato il suo conto con la giustizia deve potersi rifare una vita. Ma chi si è messo contro lo Stato ora non può chiedere aiuto allo Stato. Non ci sto.

 

Panorama, 16 ottobre 2019

 

 

«Il mio abbraccio con Salvini ha rotto un tabù»

Sigaro sempre acceso, barba cespugliosa e una matassa di braccialetti al polso, Davide Rondoni, poeta bolognese di 54 anni, si definisce «anarchico e cattolico di rito romagnolo». Ma per molti frequentatori dei social, la fotografia del suo abbraccio con Matteo Salvini è qualcosa che macchia indelebilmente la sua immagine da perfetto irregolare. Altre reazioni? «Sono state scritte cose ridicole. L’abbraccio del diavolo, cose così. Invece, altri si sono mostrati contenti di cogliere un accento umano. Chi ha avuto la pazienza di seguire la diretta su Facebook del Festival dell’Essenziale, dove Salvini era ospite, si è accorto dell’umanità di quell’incontro. L’anno scorso avevo abbracciato la sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli del Pd, ma non si era scatenata la canea di oggi. Purtroppo, in certi ambienti siamo fermi ai cliché degli anni Cinquanta».

L’appuntamento è nella sede del Banco di solidarietà di Bologna, una delle tante attività a cui si dedica Rondoni, curatore di collane di poesia, ideatore di festival e fondatore di clanDestino, rivista di poesia con una D maiuscola non banale dove, a commento della vicenda, ha scritto un post intitolato «Confesso che ho abbracciato»: «Sono un estremista dell’abbraccio… In ogni abbraccio rischio l’anima, più che la reputazione». Niente lavoro fisso, vive in una vecchia stalla ristrutturata sui crinali fuori Bologna: «Con quattro figli io e mia moglie abbiamo bisogno di spazio. Lì ci sono cerbiatti, volpi, cinghiali…».

Che cos’ha di poetico Matteo Salvini?

«Quello che hanno tutte le persone che si impegnano nella realtà mettendoci la faccia. Se affrontata con impegno, la vita rivela sempre livelli nascosti. E la poesia, forse, è la chiave migliore per arrivare a quelli più profondi. Salvini non è un uomo di cultura e il suo non fingere di esserlo lo rende simpatico».

Converrà che, d’istinto, la sintonia tra un poeta e il segretario leghista stupisce.

«Non d’istinto, ma a causa di una cultura che ha dato della poesia un’idea lontana dal reale. Mentre noi siamo il Paese di Dante Alighieri e Pier Paolo Pasolini».

Che incarnarono un’idea concreta?

«Erano poeti impegnati nella realtà della propria epoca».

All’ultimo raduno di Pontida Salvini ha citato un suo verso: quale?

«Amare è l’occupazione di chi non ha paura».

Che vuol dire?

«Per amare una donna, i figli e la realtà che hai intorno non devi essere bloccato dalla paura; dalla paura del sacrificio e della diversità».

Salvini è stato ribattezzato ministro della paura.

«Non mi sembra una definizione sufficiente. Non è lui che ha paura, ma la gente».

Normalmente Salvini parla di «pacchia» dei migranti, di «crociera» delle navi delle Ong, di «ruspe» per radere al suolo i campi rom. Come giudica questo linguaggio?

«È il linguaggio di un politico che sta lucrando un consenso su problemi reali. La propaganda è sempre stata grossolana. Quando la Dc diceva che i comunisti mangiavano i bambini o Prodi che Forza Italia era il nulla non andavano tanto per il sottile».

Certe espressioni potrebbero alimentare atti di razzismo negli strati meno critici della popolazione?

«Più che certe parole, ciò che alimenta un possibile scontro è il disagio che provoca la guerra tra i poveri».

Disoccupati e migranti?

«L’attacco ai campi rom non lo fa chi abita ai Parioli, ma chi vive lì vicino. Comunque, io rispondo delle mie parole».

Come si può definire il vostro rapporto? Intesa, simpatia, affinità, vicinanza…

«Direi semplicemente amicizia. A un convegno sulla demografia avevo commentato il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi, facendo risalire la questione a un problema culturale. Dei politici presenti in sala l’unico che si è avvicinato è stato lui».

Poi?

«Abbiamo bevuto un caffè e ci siamo visti un paio di volte».

Leopardi avvicina Salvini e un poeta di formazione cattolica?

«Leopardi avvicina sempre le persone».

È stato anche l’autore più amato da don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione dove si è formato anche lei. Fosse vivo come valuterebbe la sua vicinanza con il leader leghista?

«È una domanda alla quale non si può rispondere. Forse non gliene fregherebbe niente. Oppure, visto che amava il gelato ed era un poeta libero dagli schemi, magari prenderebbe un gelato con noi».

Ha votato Lega?

«Questa volta sì. In passato ho votato anche Pd, a volte non ho votato. Non penso che la politica sia la cosa più importante».

Che rapporto ci può essere tra la carità cristiana e la politica di Salvini, tra il cattivismo e il Banco di solidarietà dove ci troviamo?

«La carità è una dimensione della vita. La politica deve prendersi cura dei problemi economici e sociali a cui la carità di per sé non risponde. Poi ogni persona che lo ritenga è chiamata a essere caritatevole nel suo ambito. Qui lavorano dei migranti».

Come ha valutato l’iniziativa dello scrittore Sandro Veronesi che invitava Roberto Saviano a salire sui barconi dei migranti?

«La carità si fa in silenzio, non facendo sapere alla mano sinistra ciò che fa la mano destra. Gli slanci caritatevoli a favore di telecamera non mi commuovono. Su come affrontare un problema epocale come l’emigrazione si possono avere idee e strategie differenti senza pensare che chi ne ha una diversa dalla tua sia cattivo».

In passato ha apprezzato le poesie di Sandro Bondi: è un poeta di destra?

«Continuare a parlare di destra e sinistra non aiuta a capire il nostro tempo. Non sono di destra, ma anarchico, cattolico, di rito romagnolo».

Cioè gaudente?

«Diciamo non clericale. Bondi mi chiese la prefazione a un suo libretto come fanno molte altre persone alle quali non chiedo a quale partito appartengono. Nelle prefazioni scrivo ciò che penso».

Quindi non è un poeta di destra, ma anarchico?

«Il giorno dopo la visita di Salvini, al Festival dell’Essenziale è venuto Moni Ovadia a salutarmi: ho abbracciato anche lui. Sono amico di Roberto Benigni, che sicuramente non è salviniano. La libertà che mi viene dall’esperienza cristiana mi aiuta a comprendere la realtà».

Concorda con Pietrangelo Buttafuoco che commentando sul Tempo quella foto ha parlato di rottura del tabù per cui artisti, scrittori e attori potevano fiancheggiare solo la sinistra?

«Premesso che io non fiancheggio nessuno, forse sì, si può parlare di rottura di un tabù. Il nostro Paese ha bisogno di uscire da troppi cliché e la cultura dovrebbe essere la prima a farlo, non l’ultima».

Altri esempi di conformismo?

«Quando Benigni si pronunciò in favore di Renzi subì un feroce attacco da Dario Fo. Il più libero era Pasolini che non si vergognò di intervistare in tv Ezra Pound quando Pound era considerato peggio del demonio».

Non teme che questa amicizia possa indebolire il suo profilo artistico?

«Non me ne frega niente, così come non penso m’indebolisca l’amicizia con Ovadia, con Benigni o altre persone di sinistra. Di recente l’editore Tallone ha raccolto in un’edizione pregiata la mia opera. Non temo ci sia qualcosa che influenzi uno sguardo libero sul suo eventuale valore».

Da dove deriva la definizione della poesia come «l’allodola e il fuoco»?

«Dai trovatori. La poesia è la voce dell’anima, la voce dell’allodola che non si vede, ma canta tra le tenebre e l’alba».

Che cos’è esattamente clanDestino?

«Una rivista nata trent’anni fa da me e altri ventenni, attraverso la quale scopriamo nuovi talenti e facciamo poesia e letteratura».

E il Festival dell’Essenziale, con tutti i festival che imperversano in Italia?

«È un ritrovo sull’essenziale, nato da persone impegnate nella cultura e nella società con Amici di marzo e Fondazione Claudi».

Come mai porta tanti braccialetti?

«Sono ricordi di viaggi. Questo me lo regalò un tassista tunisino: aveva fatto lo spacciatore di cocaina a Verona. Gli dissi: “Vorresti che i tuoi figli si drogassero?”. “No, ma ero disperato, avevo perso la testa”. Salutandolo, ho abbracciato anche lui».

Come campa un poeta?

«Lavorando. Anche Dante curava gli affari dei Da Polenta, signori di Ravenna. Faceva quello che oggi chiameremmo il responsabile del marketing».

Insegna?

«Niente mestieri fissi, mai assunto da giornali, televisioni, case editrici. Ho diverse collaborazioni, con la Rai, lo Iulm. È una posizione scomoda, ma libera. In passato ho fatto dal guardiano notturno al lettore di contatori. Era divertente, si entrava nelle case…».

Progetti futuri?

«Domenica (oggi per chi legge ndr) a Pordenonelegge parlerò del desiderio, una delle parole del Sessantotto. Citerò il discorso che Pasolini stava scrivendo per il congresso del Partito radicale al quale non riuscì a partecipare: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”».

È andata così.

«Il fatto che non ci sia una sinistra credibile per me è un problema vero. Ho anche una storia di sinistra: il mio maestro è Mario Luzi, ho seguito le lezioni di Piero Bigongiari, frequentato Franco Loi e Giovanni Testori. Invece di leggere Pasolini, Pavese e Fenoglio gli intellettuali di oggi leggono Umberto Eco e Michele Serra».

Altre idee?

«Le manifestazioni per i 200 anni dell’Infinito di Leopardi, la prima sarà il 25 ottobre alla Festa del cinema di Roma. Ora che si lega l’identità al fare e alla professione, ci servirà rileggere questa poesia scritta due secoli fa da un ventenne. L’identità dell’uomo è il suo desiderio di infinito. Come diceva Giussani nelle università: “O sei legato all’infinito o sei legato al potere”. Questo è il motivo per cui posso abbracciare tutti. Da Salvini a Festus, un ragazzo nigeriano che domani mattina sarà qui a lavorare».

 

La Verità, 23 settembre 2018

«Senza borghesia, la letteratura è piatta»

Dall’ottavo piano della sua casa in Piazza Loreto a Milano, Ferruccio Parazzoli scruta il paesaggio della letteratura contemporanea. «Un panorama piatto, omologato, che esprime una narrativa dai tetti in giù, per citare Honoré de Balzac». Ci ha scritto una serie di interventi sulla rivista Vita e pensiero che, raccolti ora in Apologia del rischio dell’omonima editrice, sono andati a comporre una riflessione sistematica sullo stato delle cose. 83 anni, occhi e pensiero guizzanti, grazie alla sua esperienza di scrittore e direttore editoriale, Parazzoli è la memoria storica della letteratura non solo italiana. Ha diretto gli Oscar Mondadori, è stato consulente del Saggiatore e di altri marchi. È entrato nella cinquina del Premio Strega (l’anno in cui vinse Primo Levi) e del Campiello. Autore innervato nella metropoli, ha sempre rifiutato l’etichetta di scrittore cattolico, seguendo solo il corso dell’ispirazione. Ha frequentato i grandi della seconda metà del Novecento, da Mario Soldati a Pier Paolo Pasolini, da Guido Piovene a Giovanni Testori, fino al cardinale Carlo Maria Martini.

Si attende una sua densa autobiografia.

«Qualche nota l’ho già stesa, ma credo interessi nessuno. Scrivo per me stesso».

La sua esperienza arricchirebbe lettori, scrittori, editori; non pubblicarla sarebbe un’omissione.

«Ci penserò».

Tanto più che i suoi libri non si trovano.

«Bisogna andare in biblioteca o su Amazon. Ogni settimana in libreria arriva un’ondata che sommerge quella precedente. I libri stanno un po’ sul banco delle novità, si spostano negli scaffali, spariscono».

A eccezione di quelli di successo.

«Quelli dei giornalisti che fanno gli scrittori».

Pier Paolo Pasolini. Per Parazzoli aveva capito che un fallimento vale più di tante mezze figure

Pier Paolo Pasolini. Per Parazzoli aveva capito che un fallimento vale più di tante piccole glorie

Di cui lei è stanco. Libri intrisi di minimalismo e di «inquietudini da tinello», scrive.

«Sono stanco della quotidianità povera di sentimenti e di ricerca. È una chiacchiera continua. Sociale, sentimentale. L’amante che se n’è andato… Qualche volta spunta una scheggia di drammaticità, ma sempre legata alla cronaca».

Come Pier Paolo Pasolini che scrive ad Alberto Moravia, anche lei non ha più voglia di giocare?

«Vorrei che il gioco fosse serio come una roulette russa. Senza appello, senza risparmio, e che si fosse disposti al rischio. La roulette russa accetta la sfida per arrivare al proiettile d’argento, quello che una volta si chiamava capolavoro. Finora la pistola ha fatto clic. Pasolini l’aveva capito: cercare il capolavoro significa avere la forza di affrontare il fallimento. Che può valere più di mille piccole glorie».

Anche la roulette russa è un gioco, come la scopa o la canasta in cui si attardano i nostri scrittori.

«Però è vera, non è un gioco di società. Come il Monopoli in cui si finge di conquistare il mondo».

La nostra letteratura non ha urgenze vere?

«Sembra non averne. Dominano certi rimpianti ombelicali, mal di pancia passeggeri. Ma non è colpa degli scrittori. La colpa, semmai, è adeguarsi alla società in cui viviamo».

Per rompere questa routine lei invita a fare la prova del metro: me la spiega?

«Quando scrissi Mm rossa ebbe un certo successo. Avevo visto sventrare la città per costruire la linea 1 del metro. Il metro è diverso dal tram o dall’autobus perché sei nel sottosuolo e fuori c’è il buio. Allora non sei distratto dagli alberi e i negozi. E nei volti del tuo prossimo puoi vedere la serenità, la stanchezza, il sonno, la preoccupazione… Se poi, per un guasto il treno si ferma, cadono le maschere e affiorano le domande profonde. Queste facce sono mille storie, mille personaggi».

Una delle cause dell’appiattimento della nostra letteratura è che la cronaca ha sostituito la tragedia?

«Nella tragedia si chiede che Dio faccia giustizia. Fin dagli dei greci è così. Oggi la cronaca è imperante: cronaca politica, nera, di costume, sociale, sindacale».

Perché è un fatto negativo?

«La cronaca è la defecazione della società, ciò che la società espelle. È l’oggi che non dura niente. Domani i giornali raccontano già un’altra storia. Viviamo in una società che scavalca continuamente sé stessa. Come diceva Rossella O’ Hara di Via col vento, domani è un altro giorno».

Quanta responsabilità ha la televisione?

«Tanta. Capisco quei poveracci che devono coprire 24 ore al giorno… Le conseguenze si vedono principalmente nell’impoverimento del linguaggio. Se tu sei uno come quelli dei talk show, un vip o un mezzo vip, parli come loro. Il linguaggio medio influenza quello della letteratura, che invece è tutta un’altra cosa. Da Lilli Gruber c’è sempre uno scrittore. Gran parte dei libri di successo sono di giornalisti e opinionisti. Siccome dicono cose che sappiamo già, ci sentiamo intelligenti. Invece, il vero scrittore è colui che mette in crisi il lettore, gli pone delle domande».

Che cos’è la narrativa unidimensionale?

«La narrativa senza verticalità. Che non è solo ricerca del trascendente, ma anche capacità di calarsi nel profondo. Come facevano Fëdor Dostoevskij o Arthur Rimbaud».

Scrive che «nel nichilismo esistenziale c’è l’estrema ricerca del senso della vita».

«Si risale quando si tocca il fondo. Dostoevskij è sceso nel sottosuolo come giocatore, malato, adultero. Poi è nato l’autore dei Fratelli Karamazov e dei Demoni. Se non si accetta il rischio, che può essere scandalo e fallimento, tutto è artificiale».

Invece il nichilismo debole?

«È diverso da quello esistenziale e da quello forte di Nietzsche. È il nichilismo di massa di quest’epoca rassegnata, sprofondata, convinta che non ci sia più nulla per cui lottare, in cui credere e sperare».

Qual è la causa?

«Una è la distruzione delle classi sociali. Sarò criticato per questo. La classe operaia è andata in paradiso, ma anche la borghesia è scomparsa. La borghesia dettava e manteneva vivo il pensiero della società. Oggi c’è attenzione solo per i poveri e i ricchi».

Ci sono anche i «ceti medi riflessivi»…

«I ceti medi riflessivi non sono la borghesia. Sono un’espressione sociale. La borghesia aveva un’identità culturale, fatta di contenuti etici e anche ideologici, perché no, che esprimevano un modo di essere e di vivere».

La narrativa piatta può essere anche una questione generazionale? La sua generazione ha vissuto la guerra, quella dopo ha vissuto le ideologie. Gli scrittori che vanno in classifica oggi sono figli della televisione e della tecnologia.

«Non abbiamo più né la guerra né le ideologie. Certo, in Siria c’è la guerra. Ma per noi, qui, è una notizia del telegiornale, una rappresentazione cui, fortunatamente assistiamo mentre continuiamo a mangiare la minestra. La guerra del Novecento era un rullo che ti scuoteva nel profondo. Finita la guerra uscirono i più grandi romanzi».

Adesso sono morte anche le ideologie.

«Continuano a ripeterlo, ballando sui cadaveri. Ma se ogni passione è spenta la politica si riduce a tecnica del compromesso. Sono vissuto in un tempo in cui chi credeva in Dio non poteva barattarlo con niente. E i marxisti non indietreggiavano. Era quello che Camus chiama il “qualcosa per cui vale la pena di…”».

La letteratura che funzione aveva?

«Gli scrittori erano opinion leader, non i conduttori dei talk show. Soldati, Piovene, Testori, Pasolini, Parise, Moravia scrivevano sulla grande stampa. Tracciavano la rotta. Quando uscivano i loro libri non ci si chiedeva se avrebbero venduto o no. E vendevano. Un borghese mediamente colto non poteva ignorare Le furie, Ragazzi di vita… La società liquida è indifferente e gli scrittori sono voci lontane».

Giovanni testori. Negli anni Settanta sulla grande stampa scrivevano intellettuali come lui

Giovanni Testori. Negli anni ’70 sui quotidiani scriveva gente come lui, non conduttori tv

Niente eccezioni: Aldo Busi, Walter Siti, qualcun altro?

«Magari ci sono, non posso escluderlo. Aldo Busi è stato uno scrittore di rivolta quando pubblicò Seminario sulla gioventù. Ci ha provato, poi ha continuato a rappresentare sé stesso. Anche Walter Siti mi pare omologato. Temo che lo siano tutti, in modo più o meno sciatto».

Dobbiamo sperare nei cosiddetti scrittori cattolici?

«Per fortuna non esistono. Come non esistono gli scrittori marxisti. La letteratura cattolica ci fu in Francia con Peguy, Bernanos, Claudel. In Italia c’è stato un brutto adeguamento. Chi sono i nostri scrittori cattolici? Pomilio? Testori? Mah. Non si può fare propaganda della propria religione».

La Chiesa ha qualche responsabilità se la letteratura è a una dimensione?

«La Chiesa ha sempre privilegiato l’arte figurativa alla letteratura. L’influenza degli scrittori sulla società turbava le gerarchie perché non erano controllabili. Lo si è visto con il modernismo. Così si è creato un muro tra Chiesa e pensiero laico che in pochi, tra cui il cardinal Martini, hanno provato a sgretolare».

Il suo La nudità e la spada fu uno dei primi, ora c’è la moda dei romanzi ucronici sulle sorti del cristianesimo: di che cosa è indice?

«Esiste ancora un limitato campo di pensiero cristiano nella società laica. Questo pensiero è inquieto riguardo al futuro della Chiesa. Alcuni ritengono che sia troppo istituzionale, troppo basata sulle gerarchie. Personalmente credo il contrario: che la Chiesa si sia retta proprio su questa solidità istituzionale».

Il sociologo Sabino Acquaviva diceva che la Chiesa ha perso il senso del mistero: concorda?

«L’idea del mistero si è persa, vogliamo capire e possedere tutto. Si dice che deve andare incontro, ma se per andar incontro perde tutti i suoi bagagli rischia di arrivare nuda. Tranne il Papa, nessuno parla più della dottrina cristiana».

Ma quello di Francesco non è un magistero troppo orizzontale?

«Non voglio giudicare. Forse abbiamo perso l’idea del Papa come vicario di Cristo in terra. A volte Bergoglio trasmette più la sua umanità che il suo ruolo. Ho capito che Cristo era uomo. Però diceva chiaro chi era lui. Tanto che l’hanno messo in croce».

La Verità, 1 aprile 2018

Jeeg Robot, se Pasolini incontra un supereroe

Un supereroe nella periferia pasoliniana. È, in sintesi, la storia che sta prendendo in contropiede il cinema italiano. Non un film d’autore, né una trama pop. O forse entrambi, senza l’intellettualismo del primo e la prevedibilità della seconda. I suepereroi e Pasolini: due mondi più distanti tra loro non ci sono. Eppure Lo chiamavano Jeeg Robot è il film di culto del momento, opera prima del trentenne Gabriele Mainetti, romano con studi e frequenti soggiorni americani che hanno certamente ispirato il mix, esperienze da attore di fiction e autore di corti (Basette con Valerio Mastandrea, e Tiger Boy, selezionato dall’Academy nei dieci ma non nei cinque migliori per l’Oscar 2013), qui anche nelle vesti di produttore e autore della colonna sonora.

Jeeg Robot è il film che inaugura il cinecomics italiano, una scommessa ardita. “Ma noi non abbiamo paura di niente”, scherza da supereroe Mainetti. “Sì, c’ho messo un sacco di tempo…”. L’idea del 2009, è arrivata in porto all’ultima Festa del cinema di Roma. Fortissimamente voluta… “Io e Guaglianone avevamo in mente questa cosa di raccontare un supereroe in Italia. Ma anche se non quagliavamo, ci credevamo. Poi nel 2010 Nicola ha vuto la pensata e l’idea è diventata una sceneggiatura”.

Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un ladruncolo coatto e solitario che vive in uno scalcinato appartamento di Tor Bella Monaca, divorando budini alla vaniglia e dvd porno. Quando, in fuga dalla polizia, nel Tevere scivola dentro un bidone radioattivo, tutto cambia. Eroe suo malgrado, si trova a difendere la ragazza della porta accanto con la fissa di Jeeg Robot (Ilenia Pastorelli) dalle violenze dello Zingaro (Luca Marinelli), isterico capo-gang con gli occhi bistrati, l’ossessione di Anna Oxa e della fama di criminale più temuto di Roma.

Una storia che non ha trovato un produttore che ci credesse. “L’abbiamo cercato a lungo, fin quando RaiCinema ci ha dato cinquantamila euro per la start up”. E il resto? “Li hanno messi delle società private, il Banco Popolare di Bari, 300mila euro il Ministero per i Beni culturali, la Regione Lazio. Poi sì, io ho messo insieme tutti i pezzi e ho chiesto delle fideiussioni con la mia società (la Goon Films). Perciò son qui che prego tutti i giorni perché la gente vada al cinema. Certo, l’altra sera ha giocato la Roma…”. Però il film va bene anche nel resto d’Italia. “Sì, c’ha messo un po’ di più a attecchire…”. Le stamberghe del canile, i vicoli del centro, i sotterranei dell’Olimpico: Roma è il quarto personaggio… Sembra la faccia opposta de La Grande Bellezza. “No, Jeeg Robot non è anti qualcosa. Lo sguardo di Sorrentino è unico, basta un’inquadratura per cogliere l’anima della decadenza. Quando è uscito La Grande Bellezza noi avevamo già scritto la sceneggiatura. Roma ha talmente tante facce, noi ne raccontiamo una. La periferia pasoliniana che resiste a fatica, con la purezza d’animo dei suoi personaggi. Non con lo sguardo pietistico e superiore della borghesia, tipo guarda questi come sono conciati. Jeeg Robot è una sorta di Pasolini Sci Fi…”. Contaminazione tra due mondi lontani. “Per questo era un gran rischio. Ma ci ha aiutato la nostra storia. Abbiamo conosciuto ragazzi così, certi spacciatori senza famiglia sono diventati la nostra back story. E poi Tor Bella Monaca, la piazza di spaccio di coca più tosta di Roma. Qui c’è questo delinquente che sopravvive più che vivere e ha paura di buttarsi nella vita perché teme che, dopo le delusioni e le perdite, gli tolga tutto di nuovo. Jeeg Robot è l’educazione sentimentale di un misantropo. Anzi,  la ri-educazione. Che avviene tramite la purezza di Alessia. Lui è uno che anestetizza quotidianamente il dolore con i budini e i film porno, budini e film porno… Ma è un buono che cerca l’amore, l’amicizia. E lei, che pure soffre, gli apre il cuore…”.

La forza del film è anche il profilo dei protagonisti ben definito. “Sì, tante cose li rendono credibili. C’è l’idea di portare il supereroe in Italia, contaminandola con il neorealismo e il cinema anni ’60. Poi c’è la nostra cultura con le sue icone pop. Lo Zingaro potevo farlo come un toro incazzato con le narici sparate. Invece ha la nevrosi di mettersi in vetrina. È la vetrinizzazione del sociale, la dittatura dei like, di cui siamo tutti prigionieri. Ed è l’antitesi di Enzo che si rifugia nell’ombra e nell’oscurità, non vuole essere visto, non vuole compromettersi per paura di soffrire ancora, diventa una star contro il proprio volere, costretto dai murales sulle sue imprese in stile Bansky. Invece quell’altro ha ancora il narcisismo di quando voleva sfondare in tv e trasferisce questa voglia di fama e visibilità nella vita criminale. Una contraddizione irriducibile… Ricordo che mentre stavamo scrivendo la sceneggiatura il mio direttore della fotografia mi mostrò alcuni criminali messicani che postavano su Facebook le foto con i corpi delle loro vittime”.

Lo chiamavano Jeeg Robot è anche un piccolo fenomeno multitasking. Nei giorni scorsi è andato esaurito nelle edicole anche l’omonimo fumetto uscito in contemporanea al film e firmato da Roberto Recchioni, Giorgio Pontrelli, Stefano Simeone e ZeroCalcare, un ipertesto che non spoilerizzava nulla. E, a proposito di ipertesti, si comincia a paventare l’idea di un Continuavano a chiamarlo… Ma questo, Mainetti, giustamente non vuole dirlo.