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Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

«Io, cavaliere errante dei libri, cerco uno scudiero»

Per Ferruccio Mazzariol le definizioni si rincorrono. Il cavaliere errante dei libri. L’editore sognatore. Il romantico della letteratura. Il libraio gentiluomo. Ognuna fotografa un tratto di questo fresco ottantenne, solito al baciamano alle signore, umile, elegante e sommesso affabulatore, in possesso di una scrittura densa di consapevolezza ma giocosa di forma, dotata di funambolica aggettivazione. Una prosa riposante e terapeutica come le acque dei fiumi di quassù, il Sile soprattutto, e la prediletta Piave: sì, al femminile, materna e feconda, come da coniugazione locale.

Anche la sua creatura, la Santi Quaranta di Treviso, l’Adelphi del Nordest – altra definizione coniata per l’editrice frutto di un miscuglio di autori triveneti e mitteleuropei, di una cura artigianale, dell’opera dello stampatore scovato a Vago di Lavagno (Verona) – sta per scollinare un anniversario importante, il trentesimo, forte di 200 titoli e circa 700.000 copie vendute quasi porta a porta. È la piccola epopea che ha tenuto a galla una scialuppa tra le onde dei grandi marchi editoriali, ma che ora è giunta a un punto di svolta decisivo.

Ho letto da qualche parte che sta cercando un erede cui cedere le redini: sono venuto per dissuaderla.

«Ma sono così bravo io?».

E me lo chiede?

«Sì, perché non sono stato capace di creare un’équipe che poteva sostituirmi. Ho dei limiti, più che un intellettuale sono solo un gran lettore che voleva unire la tradizione orale veneta alla letteratura ispirata dall’umanesimo cristiano. Non mi sono aggiornato dal punto di vista tecnologico. La tenuta di Santi Quaranta è legata al cavaliere errante dei libri: sono andato di paese in paese a portare i frutti del mio lavoro. Non c’è nessun editore, né grande né piccolo, che abbia tanti punti vendita nel Triveneto come noi. Ma così ho finito per privilegiare i libri del territorio, non i più importanti. Le faccio un esempio…».

Prego.

«Sabato scorso mi ha telefonato il direttore del Centro culturale San Carlo di Milano per informarsi su Lettere a Olga di Vaclav Havel, un testo fondamentale dell’ex presidente ceco. Quest’estate vorrebbe farne leggere dei brani in piazza Duomo e mi ha chiesto se ho in mente di ripubblicare il libro. Capisce? Credeva fosse esaurito. Invece ne abbiamo ancora diverse copie. Il nostro catalogo è ricco di perle, ma non riusciamo a promuoverle».

Urge entrare nell’era digitale e nel marketing moderno.

«La vendita online è tutta da sviluppare, il mio sistema ha fatto il suo tempo. Anche perché sono tra i pochi che pagano i diritti d’autore e non pubblicano a pagamento. Le entrate vengono solo dalle vendite e i distributori vogliono anche il 60% dell’incasso».

Ci vuole il collaboratore giusto?

«Il sito c’è, ma serve chi sappia manovrarlo».

Come nacque Santi Quaranta?

«Avevo tentato di evitare la chiusura di Città armoniosa, la casa editrice di Reggio Emilia per la quale traducevo i grandi francesi. Aveva un catalogo pregiato, ma i soci litigavano. Una volta venduto il magazzino, ci dividemmo gli incassi. Città armoniosa si rimise in sesto per un po’, ma poi chiuse, mentre io cominciai a chiedermi perché dovevo vendere i libri degli altri».

Da qui all’idea della sua etichetta il passo fu breve?

«Mica tanto. Non volevo creare un’editrice clericale e musona, ma una casa che avesse la genuinità delle focacce e dei vini veneti. Perciò era importante la narrativa: credo sia lo strumento più rivelatore della condizione umana, più ancora della teologia. A quel punto c’era il problema del nome».

Risolto come?

«Con il sociologo Ulderico Bernardi e l’editore e amico Giampaolo Picari scegliemmo Santi Quaranta, dal nome di una delle porte delle mura trevigiane. Mi convinse la storia dei martiri di Sebaste che nel 320 morirono perché non si piegarono all’imperatore romano: c’era l’indipendenza dal potere. Nel XVI° secolo la porta fu aggiornata dai dogi veneziani e vi comparve il leone di san Marco: c’era l’identità; che io interpreto come veicolo di cultura e di lingua».

Un’editrice periferica?

«Una casa testimone delle piccole patrie dell’Alpe Adria, animate dal brio e dall’operosità dell’umanesimo cristiano».

Nel Paese dei gelsi si autodefinisce «ambulante libraio».

«Siamo nati in aprile, ma il primo libro, Il prete selvatico di Pasquale Maffeo, esce nel novembre 1989, mentre cade il muro di Berlino. Quando pubblico Il paese dei gelsi, il mio amico panettiere Floreno Paro, mi compra 100 copie, due milioni di vecchie lire. Poi comincio a battere le librerie e le edicole della Marca, cavaliere errante locale. Il primo successo arriva con La poltrona di midollina di Giuliana Gramigna, nipote di Mario Borsa già direttore del Corriere della Sera. Gaetano Afeltra ne scrive sul quotidiano di via Solferino e nel 1993 il libro della Gramigna è il più venduto a Milano».

L’ambulante libraio?

«Nell’estate del 1994 batto i posti citati dalla Gramigna, mete di vacanza dei milanesi. Partivo alle tre del mattino del lunedì: passo del Tonale, passo dell’Aprica, Valsassina, Barzio, Tirano, Bormio; tornavo passando da Bergamo, Brescia, Edolo. Lasciavo i libri in deposito. Conoscevo tutti, ma la sera mangiavo due gelati. Sono andato a Viareggio, nelle valli dell’Alto Adige, al Lido di Venezia».

Quando arriva la svolta?

«Nel 1994 a una presentazione di Il pane negato di Minnie Alzona si fa avanti Elio Gioanola, un professore di lingua e letteratura italiana all’università di Genova: “Avrei un libro con due racconti”. Lo intitolo La grande e la piccola guerra. L’anno dopo Sebastiano Vassalli lo seleziona nel terzetto dei finalisti del premio Chiara. Gli altri due sono Ritratti di signora di Elisabetta Rasy, pubblicato da Rizzoli, e La paura del cielo di Fleur Jaeggy, moglie di Roberto Calasso, edito da Adelphi. In confronto siamo una caravella. Il vincitore viene decretato da una giuria popolare di 200 lettori, 100 della Prealpina di Varese e 100 del Corriere del Ticino di Lugano. Quando arriviamo a Varese, Alessandra Casella pronostica: “Vincerà Gioanola”. E così va, con gran sorpresa generale. Ne parlano tutti i giornali: chi è questo editore sconosciuto che ha battuto Rizzoli e Adelphi?».

È l’Adelphi del Nordest, giusto?

«Un po’ sì, un po’ no. In certe nostre opere si affaccia la densità di Adelphi, e anche la raffinatezza estetica compete con la casa milanese. Però Santi Quaranta non ha influenze esoteriche, ma una linea popolare, guareschiana, radiosa, come attestano i libri di Amedeo Giacomini, di Bernardi, il mio Paese dei gelsi, la collana dei Ciclamini nella quale si mischiano poesia e antropologia. Poi ci sono le opere di Elio Bartolini, già sceneggiatore di Michelangelo Antonioni e autore Mondadori e Rusconi».

Come pesca gli autori?

«Mi arrivano molti dattiloscritti, ma alla seconda riga tanti saltano. Insieme alla fabula dev’esserci la profondità, ma senza intellettualismi. Ultimamente pubblico più stranieri che scrittori del Nordest».

Come arriva a Theodor Fontane, Antoine de Saint-Exupéry, René Girard, Havel?

«Conosco Alessandro Spina, un imprenditore cattolico amico di Cristina Campo e autore Rusconi. Recensisco Il giovane maronita per L’Osservatore romano, lui mi invita a cena a Venezia e diventa mio suggeritore. Per l’uscita di Infanzia sul Baltico di Fontane, Franco Cordelli fa un paginone sul Corriere».

Havel?

«Su Russia cristiana (poi L’altra Europa ndr) leggo un saggio sulla sua autobiografia, L’uomo al castello. Angelo Bonaguro, il suo traduttore, mi dice che quel volume è tradotto ovunque, ma non in Italia. La mia redattrice, Alessandra Poletto, riesce a contattare la segreteria di Havel e pubblico L’uomo al castello. Antonio Troiano, capo della cultura del Corriere, vuole conoscermi. Vado a Milano e lui mi accoglie festante; pensavo per Havel, invece mi fa: “Grande Antonio Russello…”».

Una delle vostre scoperte?

«Più una riscoperta, a scoprirlo era stato Elio Vittorini, ma poi avevano litigato. Russello era un anarco-cristiano siciliano trasferitosi in provincia di Treviso. Abbiamo ripubblicato tutta la sua opera che in certe cose anticipava quella di Leonardo Sciascia».

Perché molti suoi autori sono sconosciuti?

«Nei giornali e nelle tv domina la cultura radicale. Di rado qualche nostro scrittore riesce a bucare la nebbia, ma in generale comandano certi sacerdoti laici».

Per esempio?

«Nel Novecento il gran cerimoniere è stato Elio Vittorini, divenuto antifascista dopo esser stato fascista e filonazista. Nell’ottobre del 1942, quando Hitler convocò a Weimar gli scrittori europei, fu lui a guidare la delegazione italiana. Dopo l’ingresso nel Pci scrisse Uomini e no: gli uomini erano gli antifascisti di sinistra tutti gli altri no. Respinse Il gattopardo perché considerato reazionario, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, Guido Morselli, Russello e lo stesso Bartolini. Quella discriminante vale ancora».

Come giudica il sistema dei premi?

«Coinvolgono grandi interessi… Allo Strega non sempre esce la pallina migliore dell’urna. Nell’ultimo decennio ha vinto sempre Mondadori con le sue affiliate. Spesso sono libri che illudono. Salverei il Campiello, nato in opposizione al Viareggio, oggi declinante».

Tre grandi romanzi italiani del Novecento.

«La casa d’altri di Silvio D’Arzo, Il partigiano Johnny di Fenoglio e L’isola di Arturo di Elsa Morante».

I grandi romanzi veneti?

«La gloria di Giuseppe Berto, Il viaggio in Italia di Guido Piovene, anche se non è un romanzo, Pontificale in San Marco di Bartolini».

E Un altare per la madre di Ferdinando Camon?

«Giusto, grandissimo: lo metterei tra i migliori italiani».

Libri ora in lettura?

«La rivoluzione culturale nazista di Johann Chapoutot e Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf».

Concludiamo con un appello?

«Salviamo Santi Quaranta e portiamola nel Terzo millennio».

 

La Verità, 31 marzo 2019

Piperno: «La letteratura non c’entra con le idee»

Fuori diluvia e io e Alessandro Piperno stiamo parlando da oltre un’ora in un bar semibuio di Mantova quando, abbassando ancora il tono della voce, lui confida: «Adesso vorrei essere una zanzara per ascoltare cosa si dicono quelle due ragazze al tavolo di fronte. Oppure, senza bisogno di metamorfosi, sarei curioso di sapere chi è il nostro barista, se è contento di esserlo, se voleva fare un altro lavoro, che vita interiore ha, che lutti ha sopportato. Non trovi che sia interessante? Anche al ristorante, di solito, sono sempre più attratto da quello che sta accadendo agli altri tavoli piuttosto che al mio. Questo m’incuriosisce e c’entra con il mio lavoro: le storie, le persone».

Incontro Piperno al Festival della letteratura, prima della sua conversazione su Philip Roth, che considera il più grande scrittore vivente. Piperno insegna Letteratura francese all’Università di Tor Vergata. Nel 2012 ha vinto il Premio Strega con Inseparabili – Il fuoco amico dei ricordi. Ha scalato le classifiche vendendo centinaia di migliaia di copie. Ha appena pubblicato Il manifesto del libero lettore (Mondadori), un saggio che rivela enorme padronanza della letteratura classica, familiarità con le creature che la popolano, ironia sui tic dell’editoria. Eppure non se la tira. Anzi, appare sempre un po’ spaesato e timoroso di qualche pericolo incombente. Come quello che avvertono molti dei suoi personaggi.

È qualcosa che ha a che fare con la tua cultura ebraica?

«Non so. Sicuramente ha a che fare con alcuni artisti ebrei con i quali mi sento di condividere il talento artistico, oltre ad alcune idiosincrasie. Il mondo mi fa paura. Sto per andare a parlare di una cosa che amo davanti ad alcune centinaia di persone che pagano il biglietto e vorrei avere la spavalderia che vedo in alcuni miei colleghi. Invece ho soltanto timore».

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Potrebbe essere solo timidezza o la preferenza a stare dietro le quinte?

«Mi sento sempre sotto il giogo di un’intimidazione. Per strada, se una persona mi viene incontro, la prima cosa che penso non è: è un lettore che mi ha riconosciuto o qualcuno che mi chiede un’informazione stradale, ma è qualcuno che viene per farmi del male. Hai presente quei cani che sono stati picchiati e quando provi ad accarezzarli si ritraggono d’istinto? La letteratura è il solo ambito in cui sono libero di esprimermi in modo spregiudicato senza temere di essere spavaldo».

Sei figlio di madre cattolica e padre ebreo. A volte la differenza si coglie nei dettagli: quando entra in chiesa il cattolico si toglie il cappello mentre l’ebreo lo indossa. Tu preferisci indossarlo, hai scelto la ritualità sulla libertà?

«Quel mondo lì mi ha sempre interessato di più. Però sono impastato della cultura cattolica di mia madre, dei suoi sensi di colpa, delle sue intimidazioni morali. Ho anche frequentato una scuola cattolica. Se c’è qualcosa di malsano è proprio l’impasto delle due cose che forse era meglio tenere lontane. Il milieu in cui si svolgono le mie storie somiglia al mondo di mio padre, i demoni che le dominano invece vengono dal mondo di mia madre».

Com’è nata l’idea di questo Manifesto del libero lettore?

«Qualche anno fa, parlando di classici con Antonio Troiano e Piero Ratto del Corriere della Sera, saltarono fuori le fulminanti sintesi di grandi libri di Giovanni Raboni. Pur senza essere Raboni penso di poterlo fare, osservai, anche se non con la sua concisione estrema. Mi piace spiegare qualcosa, non solo suggestionare. L’idea è che è più interessante vedere la narrativa dal punto di vista di chi la fa. Credo si capisca di più di calcio ascoltando Beppe Bergomi che Fabio Caressa».

Impossibile fare patti con i gusti dei lettori?

«Lo è per me e non mi ha mai importato. È impossibile negare di rivolgersi a una certa platea. Ma se questo ti spinge a essere retorico, compiacente, caramelloso o consolatorio il gioco non vale la candela. Soddisfatti e rimborsati non è il mio modo di lavorare».

C’è una predisposizione per meglio assaporare le delizie della narrativa?

«Credo che, come la poesia, la narrativa sia innanzitutto un’esperienza sensuale. Perciò sono convinto che qualsiasi forma di generalizzazione sia un modo infantile di viverla. Tutto ciò che intellettualizza un’esperienza di fruizione artistica è infantile. Mi irrito quando m’interrogano sugli elementi sociologici di un libro. Credo che la letteratura non c’entri niente con le idee e i grandi temi. La narrativa è fatta della bizzarria di certi personaggi, del profilo di un protagonista, dei suoi tic, di un cognome strano… Quando sento dire “questo libro è l’emblema della crisi americana” mi cascano le braccia. Ho voluto esplicitare questo sentimento».

Nel tuo «paese della narrativa» si avverte una certa allergia per critici, uffici stampa, agenti…

«È un’insofferenza che non riguarda solo l’industria editoriale con la quale ho rapporti sporadici. Frequento poco i colleghi e difficilmente i giornali scrivono su di me. Ho sempre avuto questa idiosincrasia verso ciò che è istituzionale e che nel corso degli anni ho visto spesso naufragare. Al liceo non sopportavo i programmi tradizionali: I promessi sposi e Dante insegnati in quel modo gridano vendetta. All’università m’irritavano i colleghi che sentenziavano su certe metodologie critiche come fossero dogmi religiosi. Nell’editoria mal sopporto gli scrittori che pontificano. Sono un tipo mite e nonviolento, però difendo il mio modo di vedere le cose con una certa forza e, spero, arguzia».

Otto scrittori di cui non sai fare a meno: Marcel Proust, Gustave Flaubert, Stendhal, Lev Tolstoj, Vladimir Nabokov, Italo Svevo, Charles Dickens, Jane Austen. Se dovessi sceglierne uno solo?

«Con la testa sceglierei Tolstoj, con il cuore Proust».

Proponi 35 ritratti di personaggi, da don Abbondio a Philip Marlowe, da Mickey Sabbath a Raskol’nikov, con i quali mostri di avere grande familiarità.

«M’indispettisce il fatto che don Abbondio sia considerato l’emblema della vigliaccheria, Raskol’nikov del risentimento giovanile e via così. Credo che queste figure vadano prese con lo stesso piglio con cui si affrontano le persone reali. Perciò ne parlo come fossero mio suocero o mio fratello».

La letteratura può essere una realtà virtuale, autosufficiente, un rifugio, un mondo parallelo?

«Ecco cosa rispose Roth nel 1984 a una domanda simile di un giornalista del Nouvel Observateur: “Anche l’arte è vita, isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita”, ma soprattutto la cosa più bella, “lingua è vita”. Per sua stessa essenza la realtà è un dato soggettivo. Per me un personaggio letterario può essere più reale del mio panettiere».

I personaggi letterari puoi metterli su uno scaffale quando chiudi un libro, le persone le hai davanti. Nel primo caso sei tu che decidi tutto, nel secondo no.

«Tutti viviamo con dei fantasmi che gli altri possono considerare finti. Come le persone che non ci sono più o la persona amata che non hai mai incontrato. Questa è vita esattamente come quella di chi ha un rapporto coniugale normale e non è vero che lo puoi chiudere quando vuoi. C’è interazione tra ciò che avviene là dentro e ciò che avviene qua fuori. La letteratura è uno strumento per comprendere la vita e la vita lo è per comprendere la letteratura».

Segui qualche scrittore italiano in particolare?

«Un amico che stimo molto è Leonardo Colombati. Poi Walter Siti, Michele Mari, Sandro Veronesi. Con Leonardo ho rapporti stretti, con Walter li avevamo prima che andasse a vivere a Milano… Non credo che la narrativa se la passi così male».

Roberto Saviano?

«Mi ha molto interessato. Non per il suo impegno politico, ma per la forza dell’immaginario che possiede e che è notevole».

Quando scrivi?

«La mattina presto. Mi sveglio alle 5 e mezza, un caffè e mi metto a lavorare».

Non di notte?

«Di notte non connetto. Per alzarsi alle 5 bisogna andare a letto presto».

Proustianamente parlando.

«Sì, ma la similitudine si ferma all’orario di coricarsi».

Che rapporto hai con i social e il web.

«Zero. Ho giusto la mail».

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

E con la televisione?

«Sono videodipendente. Seguo anche il trash delle diete delle messicane che si sposano. Poi sono drogato di serie, dalle più sofisticate alle più cialtrone. Mad man, I Soprano, Good wife, adoro Game of thrones. Guardo i talk show, incazzandomi parecchio perché ho sempre la sensazione che tutti scelgano una posizione pretestuosa in base alla convenienza del momento».

Sorpresa: segui la politica.

«Sono uno da maratone e dibattiti su La7 o altrove. Fatico a identificarmi con un politico, direi che sto in un sistema valoriale ed elettorale vagamente progressivo e progressista. Però non è la politica la mia dimensione. Ritengo che Mickey Sabbath può dire cose più vere di Matteo Salvini».

Hai già in mente il prossimo libro?

«S’intitolerà Ipocrisia e lo sto già scrivendo. Sarà molto lungo e in prima persona. Farò i conti con una parte della mia vita che ho sempre tenuto a bada».

A una collega del Foglio hai confidato: «La mia è una vita di rimessa». C’è qualcosa che lenisce il tuo nichilismo?

«Quando la mia compagna legge le mie interviste non mi riconosce e dopo poche righe le abbandona perché c’è una discrepanza con la vita che facciamo. La luce viene dalla vita stessa: quella che conduco ha i suoi lati edonistici, il cibo, il sesso, la natura. Non percepisco l’accezione negativa del nichilismo. Anche se sono convinto che la vita non abbia un senso, cerco di viverla nel miglior modo possibile. E, a volte, la trovo gradevole».

La Verità, 10 settembre 2017