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«Con la radiovisione sfidiamo Spotify»

«Il potere della nostra radiovisione. Il potere di essere umani». Le campagne di Rtl 102,5 hanno sempre qualcosa di spiazzante nel loro essere contemporaneamente semplici e originali. Avete presente «Very normal people»? Originalmente semplice. E con la forza di stare dalla parte della gente comune, di rappresentarla. Anzi, di esserla. Ne parliamo con Marta Suraci, responsabile marketing e comunicazione di Rtl 102,5, figlia di Lorenzo Suraci, gran patron di tutta la galassia che comprende Radiofreccia e Radio Zeta, rispettivamente l’emittente rockettara e quella generazionale del gruppo.

Ricominciamo dall’inizio: cos’è la radiovisione? A noi boomer sembra un ossimoro…

È un neologismo utile a identificare un format con regole precise e depositate.

Quali?

La principale è la contemporaneità. A comandare sempre è la radio, che viene diffusa su altri mezzi. La radio batte i tempi come il cuore li dà al resto dell’organismo. Gli schermi della tv, del tablet e dello smartphone sono i supporti video che recepiscono i contenuti della radio. Così la scaletta di Rtl si replica su tutte le piattaforme.

In onda in radio e in contemporanea sui vari dispositivi.

Per questo è riconosciuto come new media.

Non si fa prima a chiamarla televisione?

Noi facciamo tutto in diretta, è questa la nostra forza. La tv non può farlo. Per noi la parola viene prima delle immagini.

Perché siete partiti con una nuova campagna?

Perché abbiamo voluto sottolineare la nostra differenza. La radio è diventata radiovisione. La gente si è abituata a seguirci nei vari dispositivi. Vogliamo radicare questo concetto perché, paradossalmente, per noi questi due anni di pandemia sono stati un punto di svolta.

In che senso?

La radio si ascolta in movimento, in auto o sui camion, ma durante il lockdown tutti erano fermi a casa. Tutte le emittenti hanno perso ascoltatori e investimenti. Alla radio è successo quello che è successo al cinema. Invece, con la radiovisione il nostro pubblico a casa ha continuato a seguirci. Non abbiamo perso né ascolti né investimenti. Questo passaggio ha segnato un cambio di identità che ci ha permesso di continuare senza cambiare niente.

Parliamo della campagna.

È un passaggio importante, con tecnologia e linguaggio nuovo. La radiovisione la fanno le persone che tutti i giorni ci mettono la faccia, persone in carne, ossa e voce. Queste persone sono esseri umani.

«Il potere di essere umani» echeggia la canzone di Marco Mengoni?

A qualcuno la fa venire in mente. Ci pensiamo da un anno, non volevamo fare una campagna solo sul brand, bensì specificare cosa ci differenzia dai nostri competitor.

Cioè?

L’arena in cui ci muoviamo è sempre quella delle radio. Ma Deejay o Radio 105, che hanno ognuna il proprio target e la propria nicchia, non sono i nostri veri antagonisti. Noi vogliamo provare ad allargare la visione. La nostra competitor è la streaming intelligence, Spotify…

L’algoritmo, le piattaforme.

Delle quali abbiamo grandissimo rispetto. Dalla riflessione su che cosa ci differenzia da loro abbiamo tratto alcuni slogan.

Per esempio?

Il computer sbaglia, l’uomo impara; il computer ha programmi, l’uomo ha storie; il computer dà risposte, l’uomo fa domande; il computer si resetta, l’uomo si porta dentro tutto; il computer ha un protocollo, l’uomo ha un obiettivo; il computer calcola, l’uomo risolve. Da qui abbiamo concluso che solo l’umanità non va mai persa.

Qualcuno lo mette in dubbio?

Nessuno può davvero farlo. Oltre alla canzone di Marco Mengoni ci ha ispirato Tensione evolutiva di Lorenzo Jovanotti: l’uomo riesce ad affrontare ogni cosa. Si avvale della tecnologia, ma è la persona a comandare tutto. Il clock della radio è standard, ma tutto parte dall’uomo. Se c’è una guerra dobbiamo stare attenti a quello che viene messo in onda, nessuna macchina può sostituirsi a noi. Per questo i protagonisti della campagna sono tutti 60 gli speaker. Non solo i più rappresentativi. Finora protagonista era sempre stato il pubblico.

Come in «Very normal people»?

Tutto parte da lì. Rtl 102,5 è la radio più ascoltata d’Italia, questo oggi non lo dice più nessuno. Però la normalità evolve, non è mai banale. Così, con l’aiuto dei direttori creativi Stefania Siani e Federico Pepe, con cui collaboriamo da 15 anni, abbiamo identificato dieci emozioni, ridere, piangere, unire, raccontare, vivere, scherzare… Poi le abbiamo associate ad altrettante immagini del grande fotografo Tony Thorimbert, scegliendo 60 foto spontanee, non posate, tra migliaia di scatti.

«Il potere di essere umani» contiene una critica alla tecnologia?

Non denigriamo la tecnologia e i social media, i nuovi venuti nella galassia di comunicazione. Purtroppo la campagna è partita in contemporanea con l’esplosione della guerra. Ma proprio per questo forse la possiamo leggere come un invito a riflettere ancora di più. Qualcosa che va a toccare l’intimo delle persone.

Avrà dei momenti topici?

Il 9 giugno, giorno della fine della scuola, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, ci sarà il primo Festival della Generazione Zeta, con artisti come Mamhood, Achille Lauro, Blanco, Sangiovanni e molti altri. Finalmente, i teenagers, che dopo due anni di chiusure quasi non sanno cosa sia un concerto, potranno ritrovarsi ad ascoltare musica e ballare, speriamo senza mascherine. Il 31 agosto, invece, all’Arena di Verona Power hits premierà il tormentone dell’estate. L’anno scorso tra le guest star c’erano Ligabue, Gianna Nannini…

Vi seguono e apprezzano tutti i big: qualcuno preferirebbe più sperimentazione?

Nessuno ci snobba. Al Festival della generazione Zeta ci saranno i big, ma anche interpreti meno popolari come Massimo Pericolo, Ditonellapiaga, Gazelle. In questi due anni gli artisti hanno sofferto, ora avvertono il bisogno di incontrare il pubblico, non a caso una come Elisa è andata a Sanremo. La radio serve a unire le persone, una mission che la streaming intelligence non è in grado di assolvere.

Non temete di perdere le avanguardie creative e le nicchie più stimolanti di pubblico?

Anche normalità è un concetto che non va troppo definito, non è sinonimo di banalità. Noi sfruttiamo in pieno tutti gli strumenti tecnologici a disposizione senza stravolgerci. Consapevoli che è sempre meglio parlare di persona che attraverso uno schermo, è sempre meglio la realtà della virtualità. Perciò, un concerto non è sostituibile da una playlist di Spotify. Poi, certo: tutti la usiamo, ma ognuno è diverso dall’altro perché i gusti sono diversi. Mentre, purtroppo, la streaming intelligence e l’algoritmo tendono a uniformarci.

 

Panorama, 11 maggio 2022

«Perché la radio(visione) ha un grande futuro»

Buongiorno Lorenzo Suraci, mi dà una definizione di sé stesso?

«Sono un ragazzino pieno di entusiasmo».

Oppure, parlando della sua professione, l’uomo radio?

«Perché no? Anche se adesso non sono più solo l’uomo della radio, ma della radiovisione».

Volevo arrivarci. La radio che si vede è un ossimoro?

«È una realtà cresciuta negli anni grazie all’innovazione tecnologica. I contenuti li crea la radio, ma vengono fruiti attraverso l’immagine su tutti i dispositivi, dalla televisione al computer allo smartphone. Fino a qualche anno fa l’immagine era monopolio della televisione; ora ha preso fuoco, è ovunque».

Siete stati tra i primi ad accorgervene?

«Prima l’aveva fatto la Rai che però non ci ha creduto fino in fondo. Noi abbiamo continuato a seguire l’evoluzione tecnologica».

Lorenzo Suraci, il radiovisionario. Bastano poche parole per rivedere la definizione di partenza. E, con quella, anche le gerarchie dei media. Tutt’altro che vintage, la radio è ancora moderna, versatile e capace di adeguarsi alla fruizione della società liquida. Suraci – un calabrese «capatosta» che vive a Bergamo, ha sposato una bergamasca e lavora a Milano nella sua Rtl 102,5, l’emittente che batte i canali Rai, Radio Deejay e tutte le altre – ha la storia e la curiosità giusta per dare una seconda vita a un mezzo che si ritiene del passato.

Quante emittenti possiede?

«La prima è Rtl 102,5, quella che ci dà da mangiare. Nel 2015 ho rilevato Radio Zeta, una stazione di tango, valzer e musica folk diffusa in Lombardia e Piemonte, che ho trasformato in un’emittente nazionale che trasmette anche in digitale. Infine, nel 2017 ho acquisito Radio Padania».

La radio della Lega?

«Salvando una radio da sicura morte pensavo di compiere una buona azione. Invece mi sbagliavo perché sono stato osteggiato da tutti, dai politici alle associazioni fino agli amici e concorrenti delle altre emittenti locali. Ho dovuto acquistare nuove frequenze per avere il 60% di copertura nazionale e la concessione commerciale per aumentare il tetto di pubblicità fino al 20%».

Adesso non è più orientata politicamente?

«Radio Padania è rimasta solo sul digitale, mentre io, con altro personale, sulle sue frequenze ho lanciato Radiofreccia, un canale che propone rock internazionale».

Qual è il segreto di Rtl 102,5 l’emittente più seguita con quasi 7 milioni di ascoltatori?

«È la prima radio con copertura territoriale capillare perché trasmette su tutti i dispositivi. Il segnale si può captare ovunque, a casa, sul digitale, su internet, con le app sul telefonino… Una volta la radio erano il transistor e l’autoradio. Ora c’è la radiovisione, un sistema di comunicazione che, con il lockdown, è come fosse nato adesso».

Le telecamere mostrano ciò che avviene in studio?

«Non è solo la visual radio che per esempio fa Radiorai con la diffusione in streaming. Il nostro è un prodotto specifico sul quale lavoriamo da vent’anni. Il fatto di essere visibili modifica anche i contenuti e il modo di proporli. I nostri dj sono conduttori evoluti, anche perché trasmettono in diretta, 24 ore al giorno».

La radio palestra per la televisione?

«Basta pensare a Claudio Cecchetto, Gerry Scotti, Amadeus, Carlo Conti, Fiorello: sono tutti partiti dalla radio e sono i conduttori televisivi più forti. Mentre non vale il contrario, tanti personaggi della tv non funzionano in radio».

Qual è il programma di punta di Rtl 102,5?

«Punto all’eccellenza, ma non ho mai fatto preferenze. Le 24 ore della giornata sono tutte uguali. Di notte per camionisti, guardie giurate, personale sanitario, lavoratori notturni, la radio è l’unico mezzo che tiene loro compagnia. Non a caso spesso siamo i primi a informare su certi disastri notturni».

Recentemente avete preso anche Massimo Giletti.

«Da qualche mese è nella nostra squadra. In ottobre, quando Bruno Vespa e suo figlio Federico hanno deciso di sospendere la collaborazione che durava da diversi anni, ci siamo chiesti che fare. Così ho pensato a Giletti, con il quale c’è un’amicizia di lunga data. Gli ho mandato un messaggino e dopo due ore mi ha dato l’ok».

Come si diventa il tycoon delle radio libere partendo da Vibo Valentia e da una discoteca di Bergamo?

«Essere dipendenti delle poste, com’erano i miei genitori, vuol dire doversi trasferire spesso. Dopo l’università a Milano ho iniziato a fare l’impresario di cantanti con mio zio. Ma quando mi sono sposato e non potevo più andare in giro, con un ex compagno architetto, un altro imprenditore edile e lo zio abbiamo pensato a una discoteca».

E la radio?

«Serviva a promuoverla. Nel 1990 la legge Mammì decise che le emittenti dovevano essere o nazionali o locali. Io, nato in Calabria, trapiantato al nord e figlio di statali volevo arrivare a Roma, ma la legge ci obbligava alla copertura di tutto il territorio. La Rai stava partendo con Isoradio, riempii un camion di parabole e in pochi mesi portai il segnale in Sicilia».

È filato tutto così liscio?

«Tutt’altro. Dopo aver investito 140 milioni scoprimmo che il segnale non usciva da Bergamo. Pensai che ci avessero fregati. Era esploso il Far west delle frequenze e quelle di Brescia, Milano, Cremona, Varese erano state occupate da altri. Pian piano dovetti riacquistarle una ad una e potenziare il segnale».

Oltre al Far west delle frequenze c’era la guerra dell’audience: Silvio Berlusconi portava via le star alla Rai e lei si concentrava su una radio bergamasca?

«Sì, ho continuato a perseguire il mio disegno. Sapevo che il Far west non poteva durare. Da terrone, avevo in mente l’Italia. Presi Fernando Proce, un dj pugliese, poi uno toscano, un altro romano, uno veneto. Solo uno era milanese».

Quando e perché è nato lo slogan Very normal people?

«Avevo investito tanti soldi per eventi e per il segnale, ma non avevo ancora il claim della radio. Invidiavo One nation, one station di Deejay. Finché una delle prime agenzie alle quali ci siamo rivolti trovò Very normal people».

Claim controcorrente.

«In un momento in cui tutti cercavano di essere fighetti noi abbiamo scelto l’orgoglio della normalità. I primi a sentirsi fighetti e a dissentire erano i nostri speaker. Io ribattevo: se vogliamo avere grandi ascolti dobbiamo essere con la gente, non come la gente. Era il claim di una radio libera, non di élite né schierata».

Nemmeno adesso?

«Certo che no. Qualche giorno fa c’era ospite Matteo Salvini, il giorno dopo il vicedirettore del Manifesto. Non vogliamo etichette. E poi, onestamente, con chi ti schieri oggi? Tendenzialmente siamo filogovernativi».

Perché date fiducia a chi ha la responsabilità di migliorare il Paese?

«Tutti i premier sono stati nostri ospiti. Se viene Salvini protestano i 5 stelle, se viene Luigi Di Maio i leghisti. Abbiamo rapporti con tutti, ma non abbiamo mai chiesto finanziamenti a nessuno. Siamo gelosi della nostra libertà».

Il conto economico è in attivo?

«Siamo 350 persone tra dipendenti e liberi professionisti. Durante il lockdown abbiamo perso 14 milioni di incasso. Una botta che potrebbe ammazzare un elefante. Abbiamo stretto la cinghia razionalizzato costi e scadenze. Ora stiamo pensando al futuro».

Come?

«Provando a offrire opportunità a una quarantina di ragazzi che stiamo formando con stage retribuiti. Buona parte dei nostri speaker sono ultracinquantenni. Affiancando loro dei giovani si crea un mix formativo. Conduttori come Pierluigi Diaco e Fulvio Giuliani hanno scelto di lasciarci e c’è bisogno di favorire il ricambio. Per fortuna ne abbiamo altri come Andrea Pamparana e Davide Giacalone dai quali c’è molto da imparare».

Che tipo di imprenditore è?

«Non delego niente. Ho tante persone che lavorano con me in autonomia. Come può confermare Valentina Facchinetti, figlia di Roby, laureata che si è proposta per creare l’ufficio stampa. Io sorveglio dietro le quinte».

La sua passione è la musica o l’informazione?

«Tutto. Dalle 6 del mattino ho l’auricolare acceso. Poi ci sono i responsabili della musica, dell’informazione, della parte tecnica…».

Ci sono ancora margini per innovare l’editoria radiofonica?

«Sul canale 737 di Sky per esempio c’è Rtl news. Tutti i giorni al mattino si può vedere un canale di informazione fatta da ragazzi dai 20 ai 24 anni. Hanno un linguaggio diverso, quasi uno slang, me ne sono innamorato. È una nuova frontiera da esplorare».

Quando ha iniziato c’era un’altra Italia. Ora ci sono le piattaforme e i social e faticano anche le grandi reti generaliste nazionali. Perché la radio resiste?

«A mio parere, in Italia dove ci sono musica, spaghetti e pizza c’è benessere. Noi diamo musica meglio delle piattaforme che invitano l’ascoltatore a farsi la propria scaletta. All’inizio magari lo fa, ma dopo un po’ preferisce la proposta di un canale. Le piattaforme prendono i contenuti da chi li produce, non pagano le tasse e dicono che la radio è morta. Posso assicurare che è viva e vegeta».

A mente fredda c’è da stupirsi che sopravviva.

«È vero. Uno dei suoi punti di forza è che ha meno pretese. Nei momenti migliori Rtl fatturava 57/58 milioni di euro. Niente rispetto agli incassi di Rcs. Io gestisco l’azienda come mio padre gestiva la famiglia negli anni Sessanta. Non c’è nessuno in cassa integrazione, i giornalisti hanno il contratto nazionale. Guardiamo cosa succede nel calcio…».

Nell’ultimo anno Rtl è calata a causa del lockdown?

«Per lunghi mesi le autostrade sono state deserte e la radio si ascolta molto in viaggio. In contemporanea è cresciuta la radiovisione, ma il sistema di rilevamento non è ancora in grado di adeguarsi alla nuova situazione».

In un mondo in continua evoluzione come fa a stare sul pezzo?

«Ho sempre fame. Dopo aver fatto una cosa sono il primo a criticarla».

Alla Steve Jobs?

«Ero così anche da ragazzino. A Vibo Valentia organizzai la prima partita di calcio femminile. Poi inventai un giornaletto per venderlo nelle case e raccontare la vita del liceo scientifico e classico. Ha presente cos’era la Calabria nel Sessantotto?».

I suoi gusti musicali: Mina o i Beatles, Modugno o i Led Zeppelin?

«Beatles e Led Zeppelin».

Oggi ascolta musica sui cd o in vinile?

«In vinile. Non riesco quasi a dirlo».

 

La Verità, 1 maggio 2021

«Le partite? Preferisco seguirle alla radio»

Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell’inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com’è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L’ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand’era già in pensione dalla Rai.

Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell’intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.

Ti sei riascoltato su La7?

«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo».

Da quanto sei tornato quassù?

«Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».

Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata…

«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L’altra mattina mia moglie borbottava: ≤Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…≥».

La vita di provincia più tranquilla è un’idea da sfatare?

«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c’è il Collio».

Patria del vino.

«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».

Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell’ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.

«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell’Ischia».

Come accadde?

«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c’era un’équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».

Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?

«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c’erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…”.  Era Candido Cannavò».

Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?

«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti».

E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…

«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Nel dopoguerra c’era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».

Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?

«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l’avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».

Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d’ora in ritardo.

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«La radio libera davvero è quella dei vescovi»

Quando arrivo a InBlu Radio a Milano, lo studio dove Eugenio Finardi registra La musica è ribelle è inondato dalle note della Mahavishnu Orchestra. Si dà il caso che il vinile del live di Between the notinghness & eternity sia stato uno dei miei primi acquisti nel lontano 1973 e, quasi inascoltabile causa fruscio da usura, sia stato rimpiazzato dalla versione in cd, tratta dalla jam session fortunosamente ritrovata, di cui ora sta parlando Finardi. La lunga digressione è per dire l’affinità musicale che mi lega all’irregolare di oggi: milanese, classe 1952, tre figli di cui una affetta dalla sindrome di Down, autore ispirato di una serie di canzoni generazionali, alcune delle quali ripropone il sabato sera sull’emittente della Conferenza episcopale italiana.

«Se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più perché libera la mente»: se l’aspettava di fare il dj nella radio dei vescovi italiani?

«Assolutamente no. Ma il tempo ha una grande ironia e devo dire che questa è l’unica emittente che mi ha concesso totale libertà. La cosa non mi stupisce. La figura di papa Francesco è forse quella che oggi sento idealmente più vicina. Nel 2012, un anno prima della sua nomina, una mia canzone intitolata Nuovo umanesimo toccava i temi dell’etica del lavoro e del rispetto dell’uomo che ricorrono nel suo pontificato. Dico tutto questo da non credente».

Ma non da anticlericale.

«Non lo sono. Ho sempre cercato una dimensione spirituale, senza la quale credo che una vita non possa dirsi compiuta. In questo mi aiuta l’amore per la musica, compresa quella sacra. Dallo Stabat Mater di Pergolesi e da tutta l’opera di Bach promana un bisogno del divino che appartiene a tutti gli uomini».

Tuttavia, sorprende trovarla qui: si è proposto ad altre emittenti?

«La prima proposta mi era arrivata da Radio Italia, ma non è andata in porto. In passato ho lavorato per la Radio della Svizzera italiana, a Radio Milano centrale. Tuttora collaboro con Radio2 Rai a un programma che si chiama Me Anziano You TuberS dove scelgo due pezzi a trasmissione e stop. Con la dittatura della playlist, nessuno mi concede la libertà che ho trovato qui».

Eugenio Finardi nello studio di InBlu Radio, emittente della Conferenza episcopale italiana

Eugenio Finardi nello studio di InBlu Radio, emittente della Conferenza episcopale italiana

A proposito di Youtube, ha senso la radio nell’epoca di internet e dello streaming?

«La radio è il media più prezioso e, a suo modo, poetico. È la voce umana a fare la differenza. Oggi si va di playlist, ma è una formula autoreferenziale, narcisistica. Ogni mia scaletta ha un tema preciso e la musica serve per raccontare storie».

Esempio?

«Prima della puntata sulla fusion ne ho fatta una sui The Swampers, una band di studio di Muscle Shoals, cittadina dell’Alabama dove incidevano i grandi del soul: Aretha Franklin, Wilson Pickett, Etta James. La storia interessante è che erano bianchi, perciò, dopo la musica insieme pranzavano separati».

La radio aiuta la narrazione, si direbbe oggi.

«Libera la mente, innesca l’immaginazione. Il mio scopo è allargare gli orizzonti di chi ascolta. Far capire che la musica è un linguaggio assoluto, legato alla matematica, alla fonica newtoniana. Musicisti che non si capiscono a parole possono suonare facilmente insieme. La musica non ha barriere. Trump può erigere il muro tra America e Messico, ma il tex-mex e, più in generale, la musica latina, sono generi affermati e popolari».

Tra poco saranno cinquant’anni dal 1968. Che cosa si aspetta?

«Di fare molte interviste. Spero ci si ricordi di un’epoca in cui c’erano tante cose che valevano più del denaro. In realtà il Sessantotto è un ventennio, iniziato con le lotte contro la segregazione dei neri. “I have a dream” di Martin Luther King è del 1963. Poi ci sono stati i movimenti delle donne e per la liberazione dal colonialismo. Quell’epoca si è chiusa con Ronald Reagan, Margaret Tatcher e l’affermazione del liberismo. Che, come tutti gli ismi, è una perversione di un’idea giusta, in questo caso quella liberale».

Ideali che sono diventati ideologia, causa di violenza e distruzione.

«Al culmine di quei movimenti, nel ’76, l’anno di Musica ribelle, quando il cambiamento sembrava vicino, sono arrivate le P38 e l’eroina».

Come se lo spiega?

«Nell’uomo c’è qualcosa che tende a corrompere e inquinare. Spiritualità, rispetto, grazia hanno il loro contrario nell’egoismo e nella violenza. Tendiamo al bene, ma restiamo soggiogati dal male».

Come già diceva San Paolo. Voi cantautori dovete fare autocritica?

«Sì, per l’ingenuità, un limite non da poco. Tuttavia, con Extraterrestre sono stato tra i primi ad accorgermi di certe perversioni. Ricordo che mi vergognavo di guadagnare troppi soldi».

Come nacque Extraterrestre?

«Era il momento del riflusso. Molti se ne andavano in India, qualcuno in barca a vela, altri si rifugiavano nelle droghe. Extraterrestre era un’immagine per dire che puoi andare dovunque, ma se non cambi dentro non cresci. Anche il successo è un’illusione».

Tornando al Sessantotto, c’è qualcosa che non rifarebbe o non direbbe?

«In realtà, no. L’unica canzone che non ricanterei è Giai Phong, tratta da un testo di Tiziano Terzani, che inneggiava alla liberazione di Saigon. Qualche anno dopo scoprimmo che anche quella del Fronte di liberazione nazionale era diventata una dittatura militarista».

Musica ribelle si chiudeva con «se ci metteremo insieme a lottare per cambiare nessuno ci potrà fermare». Invece?

«Ci ha fermato la natura umana. Molti hanno scambiato la libertà con la possibilità di abbandonarsi alla violenza, alla prevaricazione, all’istinto. C’è stato il tradimento delle classi dirigenti. La borghesia ha perso il senso di responsabilità. Mio padre, dirigente d’azienda nato nel 1909, sentiva la responsabilità verso le classi più disagiate. L’altro giorno ho saputo di una grande agenzia che organizza vacanze opulente su uno yacht in compagnia di escort, professionisti del sesso, droga libera, cibo fino a scoppiare: il denaro può tutto, è la nuova idolatria».

Lei è anche autore di canzoni d’amore: Non è nel cuore, Patrizia, Un amore diverso… Ha capito da dove viene «la forza dell’amore»?

«È qualcosa che abbiamo dentro, la nostra parte migliore che troppe volte si corrompe. Più che canzoni d’amore ho scritto canzoni sull’amore. Patrizia è dedicata a una donna amata, Amore diverso alla mia prima figlia. L’amore per i figli è quasi doloroso tanto è forte e puro. Come lo è l’amore da vecchi, quando non lo si fa più. Ma lo si vive ugualmente, magari pensando che cosa sarà dell’altro quando tu non ci sarai più».

«Non può esistere l’affetto senza un minimo di rispetto»: è un pensiero più rivoluzionario per i ragazzi di trent’anni fa o per quelli contemporanei?

«È rivoluzionario per i ragazzi di tutte le epoche».

«L’amore è fatto di gioia ma anche di noia»: è non accettare questo che rende solubili tanti matrimoni?

«Anch’io ho divorziato, non per mia volontà. Non so se esiste l’amore eterno. Mi affascina l’idea di un sentimento che duri 50 o 60 anni, ma non è da tutti. Piuttosto, vedo che i ragazzi di oggi si sposano molto tardi. Non ci si impegna fino a 38 anni e poi non si riesce ad avere figli».

«Ti amo perché sei una donna, ma anche un vero uomo, un amico, un socio forte, un maggiordomo, ma ti piaci in uno solo: quello di donna con vicino il suo uomo»: che cosa pensa della confusione dei sessi di questi anni?

«Credo che le donne siano sempre più forti e gli uomini debbano accettare la propria fragilità. La mia compagna è una donna con un carattere deciso, economicamente indipendente. Ho tre figli e ho visto all’asilo bambini che erano già palesemente bambine e bambine che erano già maschi. Come padre di una ragazza disabile non credo esista una normalità astratta. Certo, si parla troppo di omosessualità. Per un anno non abbiamo fatto che parlare di stepchild adoption, dividendo il Paese con un dibattito che riguardava 40 bambini. Intanto la gente non ha lavoro, tanti bambini vivono nella povertà, nei campi ci sono gli schiavi».

Su Youtube dopo la sua Patrizia è spuntata Anna e Marco di Lucio Dalla. Tra i cantautori a chi vorrebbe rubare una canzone e quale?

«Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle, scritta due anni prima. Quando chiesi a Lucio se c’era un nesso mi rispose che erano “uno stereotipo, l’incarnazione di una generazione”. Un brano lo ruberei a Franco Battiato: Centro di gravità permanente o Gli uccelli».

Eugenio Finardi con Lucio Dalla: «Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle»

Eugenio Finardi con Lucio Dalla: «Anna e Marco ci sono anche in Musica ribelle»

Viene da sua madre, cantante lirica, la passione per tutta la musica?

«Sono nato dentro uno strumento musicale. Non so in che momento della gravidanza si sviluppi l’udito nel feto, ma la prima cosa che ho sentito è certamente la voce di mia madre cantare».

Che cosa vuol dire essere padre di una ragazza down?

«All’inizio è stato uno shock. Da astrazione poetica il “mettersi a lottare” di Musica ribelle è diventato impegno quotidiano».

Quanti anni ha e come vive Elettra?

«Ha 35 anni. Da quando ne ha 19 vive in una casa famiglia vicino a me. Percependo la fatica dell’essere “normale”, fu lei a chiedere di andare a stare con altre persone disabili. Elettra è stata una grande sofferenza, ma anche una responsabilità e uno stimolo. Mi ha portato a pensare all’essenza delle cose. Senza di lei forse avrei fatto una vita più superficiale. Pranziamo insieme ogni settimana, è un rito. È una donna piena di iniziative».

Svaniti i sogni di rivoluzione, oggi in che cosa spera?

«Pensando all’ambiente, al futuro del pianeta, al nostro egoismo, non sono ottimista. Inoltre, non sono religioso, non credo alla vita eterna e sto invecchiando. Spero che riusciamo a preservare la bellezza che abbiamo attorno. A vivere con grazia a carità. Lo so, sono concetti cristiani».

La Verità, 3 dicembre 2017