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«Chiudere le scuole per il Ramadan è un atto grave»

L’islamizzazione dell’Europa. Non siamo più di fronte ai sintomi di una tendenza, ma a un processo in pieno svolgimento. Lo pensa Magdi Cristiano Allam, autore di Un miracolo per l’Italia (Casa della civiltà) e uno degli osservatori più puntuali del fenomeno.
Magdi Cristiano Allam, perché quest’anno si parla del Ramadan più che in passato?
«Perché è cresciuta l’islamizzazione dell’Europa. Già negli anni scorsi la fine del Ramadan è diventata un evento. Spesso a quel pranzo hanno partecipato rappresentanti della Chiesa cattolica e dello Stato, vescovi, sindaci e prefetti. Ciò ha costituito una legittimazione dell’islam in un contesto in cui, giuridicamente, l’islam non è una religione riconosciuta dallo Stato italiano».
Perché?
«Perché quando, con Silvio Berlusconi premier, questo riconoscimento poteva avvenire, i rappresentanti delle comunità islamiche non riuscirono a concordare né una delegazione unitaria né un testo condiviso. L’articolo 8 della Costituzione sancisce che le religioni abbiano pari libertà a condizione che il loro ordinamento non contrasti con le leggi dello Stato. Come invece avviene con la sharia che nega la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna e la libertà di scelta individuale a partire da quella religiosa».
Come valuta il fatto che per l’inizio del Ramadan, il 10 marzo, si sono visti servizi nei programmi di grande ascolto della Rai?
«Anche questo è frutto di un processo che ha subito una forte accelerazione a causa del diffuso odio antiebraico che prende pretesto da quanto sta accadendo a Gaza dopo la strage perpetrata dai terroristi islamici il 7 ottobre. Nel mondo occidentale la maggioranza dell’opinione pubblica è schierata contro quello che, impropriamente, viene definito “genocidio” del popolo palestinese».
Lei dice «impropriamente», ma molti pensano che sia ciò che avviene.
«È una mistificazione gravissima della realtà: il genocidio sottintende una strategia che pianifica l’annientamento di un popolo. L’obiettivo di Israele non è l’eliminazione dei palestinesi, ma la sconfitta di Hamas. Che, purtroppo, usa i civili come scudi umani e le strutture civili come basi militari».
Perché nelle nostre università si è radicata l’intolleranza?
«Il problema delle università in Italia non sono gli studenti, ma i docenti. A fine ottobre un appello contro il genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4.000 firme di professori universitari. È un documento che mistifica la realtà storica. A partire dal concepire la Palestina non come un’entità geografica – com’è stata dall’anno 135 quando l’imperatore Adriano, dopo la strage di 580.000 ebrei, decise di sostituire il nome Giudea con Palestina – ma come un vero Stato, ciò che storicamente non è mai stata. I docenti indottrinano gli studenti con queste distorsioni. Nelle università c’è una situazione peggiore di quella degli anni Ottanta quando i fermenti del terrorismo erano limitati a gruppi circoscritti e ai loro “cattivi maestri”. Oggi l’intolleranza antiebraica è prevalente».
È curioso che a David Parenzo e al direttore di Repubblica Maurizio Molinari sia stato impedito di parlare da studenti di quella sinistra sedicente democratica che è la loro area di ferimento?
«Il giorno in cui l’Europa dovesse essere assoggettata a un potere islamico assecondato dalla sinistra globalista e relativista, tutti gli ebrei, a prescindere che propugnino la formula “due popoli, due Stati”, verranno discriminati e perseguitati. Parenzo e Molinari sono favorevoli allo Stato palestinese, ma additandoli come sionisti è stato impedito loro di parlare. È un clima che ricorda quello che precedette le leggi razziali».
Un clima ammantato d’ideologia.
«Che criminalizza Israele, come abbiamo visto con il Tribunale internazionale all’Aia. E vediamo con le esternazioni del segretario generale dell’Onu, António Guterres, e del Commissario per la politica estera europea, Josep Borrell».
In alcune città sono comparse insegne con «Happy Ramadan», ma si sostituisce Buon Natale con Buone feste.
«Queste luminarie a Francoforte, Parigi e Londra dimostrano che l’Europa è sempre più scristianizzata e sempre più islamizzata. Aggiungo che nelle scuole italiane, nel nome della laicità, si impedisce la benedizione pasquale, è successo a Genova, e i dirigenti concedono aule per la preghiera islamica».
Mentre nei suoi social il Pd milanese augura «Ramadan kareem» (che il Ramadam sia generoso), nelle scuole si tolgono i crocifissi.
«Nel 2004, invitato dal presidente Marcello Pera, l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne una lectio magistralis al Senato. In un passaggio disse che l’Occidente odia sé stesso perché è più incline ad assecondare il prossimo che a salvaguardare la propria storia. E fece il caso di come, quando si oltraggia l’islam tutti condannano e si indignano, mentre quando si oltraggia il cristianesimo tutti dicono che va tutelata la libertà di espressione».
Cosa pensa del fatto che un istituto scolastico dell’hinterland milanese chiuderà l’ultimo giorno del Ramadan perché ha studenti al 40% di origine musulmana?

«È un atto gravissimo, fossero state anche percentuali opposte. Il dirigente scolastico che ha preso questa decisione dimentica che siamo in Italia e che le festività nazionali le decide lo Stato sulla base della storia dell’Italia e della storia della cristianità».
Perché propone che lo Stato vieti il digiuno del Ramadan ai bambini musulmani?
«Perché ha il dovere di tutelare la salute soprattutto dei minorenni. La criticità nel digiuno islamico è nel divieto di bere. Non farlo per 12 ore consecutive crea problemi alla salute dei bambini. Si secca la gola, ci si disidrata, si hanno degli stordimenti. Lo certificano le denunce delle maestre e dei dirigenti scolastici».
L’islam impone il digiuno a bambini così piccoli?
«In realtà, li esenta fino alla pubertà, 13 o 14 anni».
Allora perché c’è questo allarme fin dalla scuola elementare?
«Per un eccesso di zelo le famiglie musulmane esigono che anche i bambini di 6 o 7 anni digiunino».
Sono fondamentalisti?
«Certo. Se fossero scaltri, i sedicenti imam sparsi per l’Italia impedirebbero questo digiuno infantile. Però mi auguro che lo Stato intervenga prima».
Come?
«Il ministro dell’Istruzione potrebbe diramare una direttiva dichiarando che i bambini fino alla pubertà o alla maggiore età non possono essere costretti a praticare il digiuno. Lo Stato dovrebbe farlo sulla base delle sue leggi, non sulla base della sharia islamica».
Non sarebbe un’ingerenza su una devozione religiosa?
«
No, perché il ministro non farebbe riferimento all’islam, ma alle leggi italiane suffragate da un parere sanitario che documenta che al di sotto di una certa età non si può stare 12 ore consecutive senza bere».

 

 

La Verità, 19 marzo 2024

«La messa moderna danneggia la fede»

Autore di romanzi, racconti, poesie, libretti per opera e saggi su arte e letteratura, reportage e argomenti religiosi, storici e politici, nato a Francoforte sul Meno dove risiede e da dove parte per i suoi viaggi, molti dei quali diretti nell’amata Italia, Martin Mosebach è uno tra gli scrittori tedeschi più importanti dell’epoca contemporanea. Insignito di numerosi riconoscimenti e premi, tra cui quello della Fondazione Konrad-Adenauer-Stiftung del 2013, oltre al saggio sui 21 martiri copti con prefazione del cardinal Robert Sarah, ha pubblicato per Cantagalli di Siena, sempre nella collana «Speamanniana» diretta da Leonardo Allodi, L’eresia dell’informe – La liturgia romana e il suo nemico, di cui è appena uscita una nuova edizione.

Perché ha deciso di ampliare il suo saggio in difesa della messa antica?
«La battaglia per salvare l’antico rito romano è entrata in una nuova fase. Quando il libro è apparso per la prima volta in Germania (2001), vivevano ancora molti fedeli che dalla loro giovinezza conservavano precisi ricordi del rito tradizionale e che hanno accolto la sua perdita con profondo dolore. Nel frattempo è sorta una nuova generazione che si è impegnata a favore della tradizione come rimedio contro la banalità che si è introdotta nella Chiesa latina a partire dalla riforma della messa. Che più che una riforma è stata una rivoluzione».

In che cosa consiste sinteticamente l’eresia dell’informe?

«Nell’errore che il contenuto della fede possa rimanere invariato quando se ne modifichi la forma dell’espressione. È ormai evidente che la fede della Chiesa attraverso la nuova forma della messa è stata gravemente danneggiata».

Nel cristianesimo la liturgia è rituale perché Cristo è il Dio incarnato?

«La Chiesa non intende la liturgia come opera degli uomini, ma come agire di Dio, che s’incarna sempre di nuovo sugli altari come sacrificio per la salvezza. Questa realtà può essere percepita come credibile soltanto se la soggettività dei partecipanti è per quanto possibile invisibile. La sottomissione al rituale rende chiaro a ciascuno che attraverso di esso non si vogliono realizzare individui, ma renderli strumenti per l’azione di Dio».

Qual è il nemico della liturgia romana?

«L’idolatria della soggettività. Il capovolgimento della fede nel Cristo storico in un mito astorico e non dogmatico. L’indisponibilità alla bellezza, che Platone chiama apeirokalia, e l’amore per la deformità. Il disconoscimento del fatto che la tradizione non è un fardello per la Chiesa, ma la sua natura».

Che differenza c’è tra la «riforma» introdotta alla fine del Concilio vaticano II e i mutamenti che pure ci sono stati nel corso dei secoli nella liturgia?

«Naturalmente nei secoli si sono avute molte modificazioni della liturgia, non può essere altrimenti. Si osservi soltanto la differenza fra una basilica romana, una cattedrale gotica e una chiesa barocca. Tuttavia più importante è ciò che è rimasto sempre uguale: l’orientamento del celebrante insieme alla comunità verso il Signore che ritorna da Oriente, la lingua del culto e la teologia del sacrificio. Le modificazioni avvenute in modo organico non hanno modificato nulla nella loro evoluzione e si sono compiute in modo anonimo senza che vi sia stato distintamente un autore definibile come tale, un riformatore esterno che a un certo punto è intervenuto d’autorità. La celebrazione della messa da papa Gregorio Magno fino al 1968 aveva in comune assai più di quanto non avesse di divergente».

Si può dire che nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito alla de-sacralizzazione, protestantizzazione e democratizzazione del rito?

«Forse questo non era l’intento dei “riformatori”, tuttavia il risultato è questo. In un paese come la Germania, con tanti protestanti quanti cattolici, sulle questioni di fede non c’è più alcuna differenza fra le confessioni».

Da cardinale, Joseph Ratzinger scriveva che «nella liturgia l’uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l’uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio»: è questo che è andato perduto?

«Per le orecchie del normale cattolico contemporaneo queste parole di Ratzinger sembrano provenire da un tempo assai lontano. Già solo il concetto di “gloria di Dio” può far scrollare la testa dal momento che i teologi hanno abituato i fedeli rimasti a parlare a un “Dio all’altezza degli occhi”».

Negli anni al posto della centralità di Cristo è diventata protagonista la figura del sacerdote e, parallelamente, la partecipazione attiva dei fedeli?

«Con il rovesciamento a-storico dell’orientamento del celebrante è divenuto impossibile l’allineamento alla croce. In molti altari oggi non si trova più nessun crocifisso, ma un microfono che fa rimbombare la voce del sacerdote fino all’ultimo angolo, così nessuno si dimentica di lui. Nelle celebrazioni tradizionali il sacerdote scompare, in quanto persona».

Oggi si giudica la riuscita di una celebrazione in base ai momenti di accoglienza, di commiato e di creatività degli organizzatori?

«Oggi ogni comunità deve avere un proprio comitato liturgico, nel quale i laici possono immaginare nuovi abbellimenti della liturgia, nuovi programmi musicali e nuove preghiere che pretendono un’autorità che non compete a loro».

Chi crede che il lascito principale di Cristo siano il suo insegnamento e la parola dei vangeli tende a privilegiare gli elementi comunitari della liturgia?

«Si è eclissata la coscienza che la liturgia sia actio di Dio. Che in essa non si tratta di insegnamenti, ma della testimonianza dell’azione salvifica di Dio. La catechesi deve avvenire fuori della liturgia, cosa che per altro non si fa più. La Chiesa, almeno in Germania, ha abbandonato l’insegnamento sistematico del catechismo. Gran parte dei fedeli che oggi frequentano la messa conoscono il Credo in modo vago».

Non crede che una certa semplificazione e maggior immediatezza della liturgia abbia favorito l’avvicinarsi di tanti giovani?

«La speranza dei “rivoluzionari della messa” era di favorire l’accesso delle masse alla liturgia. Questa speranza è però naufragata. L’abbandono della pratica religiosa è iniziato con la riforma dopo il Concilio vaticano II perché, in fondo, la messa aveva perso il suo magnetismo».

I nostalgici della messa tridentina peccano di estetismo?

«Questo è un rimprovero particolarmente maligno perché accusa i sostenitori della messa antica di non essere attaccati a questioni di fede, ma a una sorta di esibizione da operetta. Così si cerca di sviare il fatto che, per larghi strati di fedeli, proprio la nuova formula ha danneggiato il depositum fidei».

Che cosa le fa dire che Benedetto XVI avrebbe inaugurato la stagione della «riforma della riforma» introdotta da Paolo VI nel 1969?

«Benedetto XVI aveva compreso, già da cardinale, che la rivoluzione della messa aveva provocato un grave danno alla fede. Per sua natura, tuttavia, rifuggiva dalle rotture violente. Egli voleva sanare il danno con prudenza, sperando che attraverso una reintroduzione della preghiera tradizionale dell’offertorio e anche un ritorno della celebrazione rivolta a Oriente, la rottura fosse meno brutale. Come Papa comprese che la resistenza a tali correzioni sarebbe stata insuperabile e così ha stabilito la coesistenza tra antica e nuova messa, nella speranza che una nuova coscienza liturgica sarebbe sorta. Purtroppo, la sua inattesa abdicazione ha compromesso questo tentativo».

Nel luglio 2021 promulgando il motu proprio Traditionis custodes papa Francesco ha ristretto ulteriormente le possibilità di celebrare la messa con il rito antico esprimendo una preoccupazione pastorale per evitare irrigidimenti di piccole comunità.

«Bisogna riconoscere che queste preoccupazioni c’erano poiché, attraverso il precedente motu proprio di Benedetto XVI, il Summorum pontificum, la pace liturgica era stata stabilita: le comunità legate al rito antico convivevano con quelle che praticano il rito della riforma. La perpetuazione della liturgia tradizionale mostrava che la Chiesa nel suo credo non era cambiata. Tuttavia, il fatto che nuove generazioni stessero riscoprendo il rito antico deve aver alimentato le preoccupazioni che hanno portato al nuovo motu proprio di Bergoglio».

L’eresia dell’informe deriva dal prevalere del conforme, cioè il pericolo da cui metteva in guardia San Paolo al capitolo 12 della lettera ai Romani?

«L’esortazione dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo” tocca nel cuore la nostra situazione. Di fatto l’antico rito con la sua accentuazione della gerarchia, del soprannaturale e del sovratemporale costituisce il più importante ed efficace atto di resistenza contro il “mondo” di cui parla Paolo. È il rifiuto deciso di rassegnarsi alle misure dell’anti-cultura contemporanea».
Cosa pensa della dichiarazione Fiducia supplicans firmata dal prefetto dell’ex Sant’Uffizio Victor Manuel Fernandez e approvata da Francesco, con la quale si consente la benedizione alle coppie omosessuali, che ha fatto esultare gran parte dei vescovi tedeschi, ma ha contemporaneamente alimentato venti di scisma nella Chiesa?
«Fiducia supplicans segue la cattiva prassi già utilizzata nei documenti del Vaticano II, per esempio la Dichiarazione sulla libertà religiosa, di mescolare rottura e tradizione pur dichiarando che la dottrina tramandata della Chiesa rimane intatta. Sono furbizie gesuitiche che Blaise Pascal ha ben descritto in Le provinciali. Certe pseudo sottigliezze, come l’invenzione di differenti classi di benedizioni dietro le quali il prefetto dell’ex Sant’Uffizio si trincera, vengono cancellate dalla prassi e nessuno riuscirà a impedirle. I vescovi tedeschi, in prevalenza vedono il documento come un piegarsi del Vaticano alle loro istanze e si sentono confermati. Il pericolo dello scisma – che, in fondo, per la separazione degli spiriti, sarebbe quasi un bene – con questa soluzione tiepida non è scongiurato. Certi scaltri tatticismi creano danni soprattutto all’autorità della cattedra della Santa Sede».

 

La Verità, 23 dicembre 2023

«Ho studiato Cl per capire la rimozione di Carrón»

Marco Ascione è un giornalista che non disdegna le situazioni scomode. Capo della redazione politica del Corriere della Sera, bolognese con inizi professionali al Resto del Carlino, ha scritto Strana vita, la mia, l’autobiografia di Romano Prodi (Solferino). Nel nuovo libro per lo stesso editore si avventura nel mondo di Comunione e liberazione e dei suoi rapporti con la Santa sede, culminati il 15 novembre 2021 con le dimissioni di don Julián Carrón dalla presidenza della Fraternità. Titolo del volume: La profezia di Cl. Sottotitolo: Comunione e liberazione tra fede e potere. Da Formigoni a Carrón e oltre. Roba tosta.

Come nasce questo libro?

«Dalla curiosità. Mi è sembrato che Cl fosse passata da Luigi Giussani a Davide Prosperi senza interrogarsi sui 16 anni di Julián Carrón. E mi sono chiesto perché».

Per questo il libro è incentrato su di lui?

«Carrón è il grande convitato di pietra di cui alcuni in Cl faticano a parlare. Inoltre, lo stesso teologo spagnolo ha scelto di ritirarsi del tutto dalla vita pubblica».

Ha dovuto?

«Sicuramente centra il dovere di obbedienza. Quando si è dimesso si è limitato a dire che da quel momento in poi ognuno doveva assumersi la responsabilità del carisma».

Questo libro è stato suggerito da qualcuno?

«Da nessuno. Se non dalla mia curiosità giornalistica».

Qual è la profezia di Cl?

«Quella introdotta dallo stesso Giussani che, per primo, si preoccupò di creare una distanza tra il movimento e gli uomini che vi si erano formati e avevano scelto d’impegnarsi in politica».

La novità di Cl è anche che dal Concilio Vaticano II, con Luigi Giussani e poi Carrón, la proposta cristiana si rivolge alla libertà dell’uomo e non è più la prescrizione di alcuni comportamenti?

«Sicuramente Carrón si è mosso in coerenza con Giussani, con papa Francesco, Ratzinger e il Concilio. Tant’è che ama ripetere una frase sempre utilizzata prima da Benedetto XVI e poi da Francesco, e cioè che il cristianesimo si trasmette per attrazione e non per proselitismo».

Perché il suo lavoro parte dal docufilm Vivere senza paura nell’età dell’incertezza della regista Giulia Sodi?

«Insieme a lei, tra i curatori ci sono studiosi e filosofi di estrazione ciellina e non solo. Tutto parte da quel docufilm perché mi ha colpito il suo approccio innovativo e moderno alla fede, al punto che, dopo la sua visione, ho deciso di approfondire la conoscenza del pensiero di Cl. Questo fatto, insieme alla sensazione che Carrón fosse scomparso, mi hanno messo in moto».

La lezione di Carrón è che la Chiesa dev’essere «attrezzata per la battaglia della modernità»?

«La lezione del sacerdote dell’Estremadura è che la Chiesa deve imparare a confrontarsi con la modernità. È proprio questo il motivo per cui Carrón scelse di non schierare il movimento al Family day contro la legge Cirinnà».

L’ha fatto in linea con la cosiddetta scelta religiosa, prendendo le distanze dall’impegno politico e dagli eccessi di alcuni suoi esponenti?

«Bisogna intendersi su cosa significa scelta religiosa. Secondo me don Julián non ha voluto ritirare Cl dalla  vita pubblica, ma ha cambiato il metodo. Ha ritenuto che bisogna confrontarsi costantemente con ciò che è diverso».

La svolta più clamorosa si ebbe con la lettera a Repubblica del maggio 2012 in cui si scusava perché il movimento si «è identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi e con stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato»?

«È vero. Ricordò che Cl è un movimento di educazione alla fede. In questo senso si può dire che la sua sia stata una scelta religiosa».

Quella lettera risultò per molti ciellini un pezzetto di «liberazione»?

«Spaccò letteralmente il movimento che da quella divisione non si è ancora del tutto ripreso. Una parte la visse come una liberazione, un’altra come un tradimento della teologia della presenza che è ritenuta un tratto distintivo della storia della Fraternità».

Sul terreno del confronto e dell’apertura alla modernità Carrón avrebbe dovuto incontrare l’approvazione di papa Francesco: perché non è accaduto?

«A questa domanda non è facile rispondere. Alcuni degli interlocutori con cui mi sono confrontato sostengono che potrebbe essere mancata un’alchimia tra Bergoglio e il sacerdote spagnolo. Ma sarebbe più corretto affermare che questo Papa appare in genere piuttosto severo con i movimenti. Forse è vero quello che sostiene Robi Ronza, storico intervistatore di Giussani, quando dice che Francesco viene da un continente dove si avverte meno bisogno della presenza dei movimenti. E dove la teologia del pueblo, ossia la tradizione religiosa popolare, occupa il loro posto».

C’è differenza tra Bergoglio e Ratzinger in rapporto ai movimenti?

«Dal punto di vista di Carrón non ce n’è».

E oggettivamente?

«Ratzinger e Giovanni Paolo II li possiamo considerare i due papi più vicini ai movimenti».

Bergoglio vuole istituzionalizzarli?

«Secondo me sta facendo per certi versi un’operazione di trasparenza. Credo si possa dire che li vuole istituzionalizzare».

Non c’è il pericolo che inseguire la modernità tolga alla Chiesa il mistero e l’autorevolezza che le derivano dal suo essere un’entità dell’altro mondo?

«Questo rischio c’è, ma la Chiesa deve avere il coraggio di capire che è corretto confrontarsi con la complessità del presente. Personalmente mi affascina molto un cristianesimo capace di attrarre per contagio, senza mai cercare di imporre i propri valori».

Prima o poi però bisogna annunciare che Cristo è la risposta a questa complessità, o no?

«Dal punto di vista della Chiesa e di Cl in particolare, certamente sì. Mi pare che il movimento lo faccia».

San Paolo invita anche a non conformarsi alla mentalità del secolo per poter discernere ciò che è gradito a Dio.

«Non conformarsi non equivale a non confrontarsi».

Perché il capitolo più lungo del libro riguarda il rapporto con i diritti civili?

«Perché è la chiave di volta dell’azione di Carrón all’interno del movimento sotto il profilo del rapporto con la politica e il potere».

Addirittura?

«Sì, credo che i momenti chiave siano la lettera a Repubblica, la decisione di non schierare Cl ai Family day e il secondo volantino sul caso di Eluana Englaro».

Quello che diceva che abbiamo bisogno di «una carezza del Nazareno»?

«Tentando di spostare lo sguardo anche sul padre di quella ragazza».

C’è differenza tra accompagnare delle situazioni di sofferenza anche estrema e lasciare campo libero ai desideri che diventano diritti di minoranze inflessibili?

«La Chiesa ha tutto il diritto di esprimere il proprio punto di vista, lasciando che lo Stato faccia lo Stato e legiferi su queste situazioni anziché rimettersi alla supplenza della magistratura».

Come valuta il fatto che all’udienza del 15 ottobre per il centenario di don Giussani, Francesco ha parlato di «impoverimento nella presenza di un movimento… da cui la Chiesa, e io stesso, spera di più»?

«Lo valuto come una critica al movimento tutto. In quel contesto il Papa ha elogiato Carrón facendo poi seguire il suo discorso da un “tuttavia” che ha lasciato intendere che le sue critiche fossero estese anche al prete spagnolo. E questo nonostante, secondo me, la sua azione sia stata nel solco dell’invito magisteriale alla “Chiesa in uscita”».

Carrón ha suggerito la via della testimonianza invece di quella della militanza.

«Testimonianza non è sinonimo di assenza».

Lo scrive verso la fine del libro: «Il prete che ha rivoltato Cl si trova, nei fatti, messo alla porta dal Vaticano». Una contraddizione che anche lei fatica a spiegarsi?

«Sì, fatico a spiegarmela. Ma credo vada collocata nel raggio più ampio dell’azione del Papa nei confronti dei movimenti. Cl ha temporeggiato nella riforma chiesta dal Vaticano e questo evidentemente non è stato gradito da Francesco».

Perché il Vaticano ha chiesto a Cl una revisione dello statuto?

«L’ha chiesto a tutti i movimenti. Nel caso di Cl si aggiunge anche il commissariamento dei Memores domini (i laici del movimento che fanno voto di povertà, castità e obbedienza ndr) che ha tolto a Carrón ogni potestà su di loro».

Le autorità vaticane hanno suggerito un metodo elettivo per scegliere i responsabili, con mandati rinnovabili fino a un tempo massimo: una sorta di riforma democratica?

«In qualche modo lo è. La differenza è minima perché, dopo l’indicazione di Giussani, Carrón è sempre stato rieletto dagli organi direttivi. Per altro una nuova elezione non c’è ancora stata perché il Vaticano ha concesso anche all’attuale guida, Davide Prosperi, ulteriore tempo per la riforma dello statuto».

Il pensiero di base è che, dopo i fondatori, il carisma non risiede stabilmente in una sola persona?

«Sì, questa è la preoccupazione di Bergoglio. Di fondatore ce n’è uno, tutti gli altri sono portatori del testimone».

Il paragone storico è con gli ordini religiosi, dopo San Francesco o San Benedetto come ci si è regolati?

«Secondo Robi Ronza vale per i movimenti ciò che vale anche per gli ordini religiosi. Ci si ricorda solo di San Francesco e non dei successori».

Il libro si chiude con lo spauracchio del ritorno in campo di Roberto Formigoni e il comunicato di Davide Prosperi per la morte di Silvio Berlusconi. L’obiettivo è mettere in guardia da un nuovo collateralismo con il centrodestra?

«No, non lo è. Tanto che non userei la parola spauracchio. Il libro ha l’ambizione di essere un racconto e un’analisi. E di rapportarsi alla realtà, termine fondamentale nel vocabolario del movimento. Ancora non sappiamo se cambierà l’approccio di Cl alla politica. Mi sembra che Prosperi ora sia più preoccupato degli equilibri interni e del rapporto col Vaticano».

Ha fatto bene Giorgia Meloni a non andare al Meeting di Rimini, dove invece si sono visti il cardinal Matteo Zuppi e Sergio Mattarella?

«Mi rimetto alla vulgata, secondo la quale essendoci il presidente della Repubblica, la premier ha ritenuto di non dover presenziare. In compenso, c’era mezzo governo e Matteo Salvini ha trovato calda accoglienza».

Come vede il futuro di Cl e qual è il suo sentimento nei suoi confronti?

«Il futuro è nelle loro mani. Il mio è un apprezzamento per una grande storia che non m’impedisce di vedere sia le luci che le ombre».

Sbaglio se dico che i suoi punti di riferimento sono Romano Prodi e il cardinal Matteo Zuppi?

«Zuppi e Prodi sono due importanti protagonisti del nostro tempo. Più che avere punti di riferimento, faccio il cronista e mi limito a raccontare quello che vedo».

 

La Verità, 26 agosto 2023

«Con la neolingua viviamo già in un paramondo»

Ciao Tipo Verità». Ciao. «L’ultima volta che ci siamo parlati ho registrato il tuo numero in memoria, ma siccome mi era sfuggito il nome ti ho soprannominato: “Tipo Verità”».

A proposito di pseudonimi, Aldo Nove (foto di Dino Ignani) lo è di Antonio Centanin. Poeta, scrittore, traduttore, ex «cannibale» nato a Viggiù nel 1967, autore prolifico e irregolarissimo, l’ultima sua raccolta in versi pubblicata da Einaudi si intitola Sonetti del giorno di quarzo. Nel giugno scorso il governo Draghi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, in passato accordato a «cittadini illustri» in stato di necessità come Alda Merini, Guido Ceronetti, Giorgio Perlasca. Lo pseudonimo deriva da «Aldo dice 26 x 1», il testo del telegramma diffuso dal Clnai (Comitato nazionale liberazione alta Italia) nell’aprile del 1945 per iniziare il giorno 26 all’una di notte l’insurrezione contro l’occupazione  nazista di Torino. Aldo è il nome contenuto nel messaggio e Nove è la somma di 2 + 6 + 1.

Stai ancora provando a cambiarlo?

«Sì, è un modo simbolico per liberarsi di sé stessi. Aldo Nove mi ha stufato. Ma la casa editrice con cui lavoro, al punto primo del nuovo contratto ha scritto che l’autore si firmerà Aldo Nove. Magari farò come Bhagwan Shree Rajneesh che, dopo morto, è diventato Osho».

Ti interessi di meditazione orientale?

«Anche occidentale, settentrionale e meridionale. Più che di meditazione, parlerei di mistica e spiritualità».

È difficile liberarsi di uno pseudonimo affermato.

«Basta “disaffermarlo”. Potrei chiamarmi Roberto D’Agostino 2».

Perché?

«Mi piace Roberto D’Agostino… La sua barba bianca, il look tra il dandy e il trasandato. Poi mi piace Dagospia perché è pieno di tette. Ah… tette si può dire nel 2023 o è maschilista? Però anche gli uomini le hanno…».

Vuoi dire che c’è una tendenza alla censura?

«Delle parole minimamente sensibili. Magari fra dieci anni “tette” sarà vietata. Ho letto che un grande editore americano ha ritirato le copie di Biancaneve e i sette nani per correggerlo in Biancaneve e i sette piccoli amici. Sembra il titolo di un porno».

Anche sul principe è caduta la riprovazione perché il bacio a Biancaneve non è consensuale.

«Sono forme di delirio che m’interessano come espressione di patologie sociali».

Siamo alla neolingua?

«George Orwell prendeva da Aldous Huxley. Siamo nella Fabian society: più che essere profetici, dicevano il programma in corso di attuazione».

La sinistra senza marxismo è diventata neopuritana?

«Anche il liberalismo lo ha fatto, come cantava Giorgio Gaber qualche decennio fa. Senza marxismo, sembra che la sinistra parlamentare si occupi solo di obbedire».

A chi e a che cosa?

«A chi sta sopra di noi. Corrado Malanga dice che sopra un certo livello non si sa chi c’è davvero. Forse gli alieni».

Chi è Corrado Malanga?

«Un ex docente della Normale di Pisa che s’interessa di ufologia. Un ricercatore che sposa il pensiero etico con la fisica quantistica».

Stento a seguirti.

«Di recente il governo degli Stati Uniti ha abbattuto nei cieli entità che non si conoscevano… Non ha senso chiedere se si crede o no agli Ufo. Non è una religione».

Perché sei andato a vivere a Palmi?

«Venni a presentarci un libro… Da tempo non sopportavo la metropoli e sentivo il bisogno di trovare un posto pacifico, con bella gente. Amo profondamente il sud e penso che il futuro del mondo possa sorgere dalla grande cultura mediterranea e della Magna Grecia».

Che cosa pensi della tragedia di Cutro che si è consumata lì vicino e delle polemiche successive?

«Le polemiche non le sento. Sento la vicinanza con chi ha vissuto quella tragedia. Si vedrà se ci sono delle responsabilità. Ciò che resta purtroppo è il fatto accaduto. Mi tocca molto la terribile sacralità della cosa. La materialità dei fatti sono persone morte».

Cito un verso da Poemetti della sera (Einaudi): giochi «a nascondino con Dio»?

«Da Eraclito in poi e fino al concetto di anima, il mondo è gioco di bambino. Anzi, l’anima è una bambina che gioca. La purezza del femminile, quando è tale, è assolutamente altra rispetto alla pesantezza del potere».

Come impieghi il tempo a Palmi?

«Passeggio, studio, scrivo. Studiare vuol dire amare. Mi consolo con i grandi del passato, me ne alimento».

In questo momento cosa stai scrivendo?

«Un romanzo nuovo. E sto curando per Il Saggiatore le edizioni italiane delle ultime conferenze di Sri Nisargadatta Maharaj. L’ultimo grande mistico indiano che, siccome era analfabeta, non ha mai scritto niente, ma le sue parole sono tradotte in tutto il mondo».

Cito un’altra poesia: «L’accelerazione che tutto oggi domina non concerne il Creato, ne è la parodia in forma grottesca di mercato».

«La poesia s’intitola Rivolta contro il mondo contemporaneo e cita a sua volta un’opera di Julius Evola, un autore oggi innominabile».

Palmi è una presa di distanza dal paramondo?

«È più cose, una critica alla smaterializzazione. Qui è più lenta la perdita di rapporto con la “cosalità”, le cose. Non con i servizi che vengono erogati e che sono ciò su cui si regge quest’idea di nuovo mondo, quello che Klaus Schawb chiama Quarta rivoluzione industriale».

Un tuo post rilanciato da MowMag e Dagospia contestava la comunità Lgbtq.

«Esiste davvero? I miei amici omossessuali non si riconoscono in queste etichette».

Scrivevi che le battaglie per i diritti civili sono fuffa.

«Anche Arcilesbica le contesta. Conosco molti omosessuali infastiditi dall’ideologia fluida. Con chi trombi sono cavoli tuoi senza bisogno di rivendicarlo in piazza. Zygmunt Baumann parlava di società liquida e di amore liquido, ma quell’aggettivo era il perno di una critica. Ora è diventato positivo perché è funzionale alla cancellazione dell’identità effettiva».

Riguarda le sessualità non binarie.

«Invito a tornare alla concretezza della materia, non si può sublimare tutto nel virtuale. Il fatto che si abbia un pene o una vagina è un fatto. Poi ognuno ne fa ciò che vuole. Questo differenzia l’uomo dalla macchina, la quale non ha sesso e non è binaria».

Con Elly Schlein guida del Pd i diritti civili saranno prioritari?

«Spazzatura ne vedo già molta. Se qualcuno vuole aggiungerne faccia pure. Personalmente tengo alla mia ecologia mentale».

Molti esultano perché Schlein dice cose di sinistra.

«La sinistra sono i diritti Lgbtq? Un tempo c’entrava con i diritti dei lavoratori, cose concrete. Si dovrebbe occupare di chi oggi si fa il culo 15 ore al giorno a 3 euro all’ora in condizioni di schiavitù, invece… È esistita fino al crollo del Muro di Berlino e al conseguente scioglimento dell’Urss. C’erano il pensiero liberale e il pensiero socialista. Tutto questo è entrato in un tritacarne di valori… Devo pensare che la questione ambientale sia un’idea di sinistra? Cioè: quelli di destra fanno i buchi nell’ozono e quelli di sinistra li chiudono? Non mi ritrovo in una sinistra che ha sostituito Carlo Marx con Greta Thunberg».

Cosa non ti piace della predicazione ecologista?

«Che sia una religione. L’ecologismo trasformato in culto estremo».

È il primo dogma dell’Unione europea.

«Chi ha i soldi si compra le macchine elettriche e chi non li ha è di destra perché usa la macchina a benzina? Un paradiscorso raccapricciante».

Non è giusto che a sinistra si esulti perché con Schlein la gradazione ideologica è aumentata?

«Per come la vedo io il Pd non è sinistra, ma potere».

Il vero potere è la grande finanza?

«Soprattutto. Quando un’agenzia di rating determina le sorti del mercato siamo in pieno neoliberismo. Un sistema nel quale i mercati sono un’astrazione. Per questo vorrei che si tornasse alle cose, alla materialità. A me sembra di vivere respirando, mangiando. Voglio dire: si parla del Metaverso, ma poi tutti i giorni ho a che fare con un patrimonio organico e biologico concretissimo».

Un paio d’anni fa dicevi che Meloni «ha un’ottima dialettica, ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce». Come sta andando?

«Fa quello che può, non è data altra possibilità. La cosiddetta coalizione di centrodestra aveva molte ambizioni… Poi quando arrivi al potere molli, se no ti tolgono. Berlusconi ci aveva provato, ma è arrivato l’uomo forte Mario Monti».

Berlusconi è irrequieto?

«È il più stravagante. Anche le sue ultime dichiarazioni hanno creato imbarazzo alla Meloni. Ogni tanto gli scappano delle verità politicamente scorrette. Credo sia più un fatto caratteriale che politico».

Per perseguire percorsi alternativi servono molta visione e molto carisma.

«Serve che si alzi il livello di consapevolezza del popolo».

Non facile né rapido.

«Non ho idea delle tempistiche, possono esserci anche elementi di imprevedibilità. Se si stabilisce una narrazione in cui, ad esempio, si decide che una guerra sia nata nel 2022 mentre c’è dal 2014 è difficile contrapporsi. Una guerra tragica e spaventosa non può essere argomento da tifoserie calcistiche. Alzare la consapevolezza del popolo vorrebbe dire prendere atto che non si può arrivare alla pace continuando a mandare armi a una parte, ma sedendosi a parlare».

Partendo dal cessate il fuoco.

«Appunto, lo stop alle armi dev’essere la primissima cosa. Da lì inizia un processo di pace».

Perché sul suo profilo WhatsApp ci sono i dorsi dei libri di San Bernardo?

«È dove mi colloco io spiritualmente in questo momento, nel Medioevo».

L’età dell’oscurantismo?

«La si definisce così a causa del capovolgimento diabolico instaurato dall’illuminismo».

Prediligi i grandi mistici e i padri della Chiesa, non segui nessuno dei contemporanei?

«Joseph Ratzinger è contemporaneo. Ho divorato il suo Escatologia».

C’è del buono anche oggi. Susanna Tamaro cosa ti suscita?

«Le voglio bene, mi piace molto il suo spirito libero».

Giovanni Lindo Ferretti?

«Amore».

Ferdinando Camon?

«Cosa mi ricordi… Ho amato molto alcuni suoi vecchi lavori come Liberare l’animale, poi l’ho perso di vista. Allora era veramente rivoluzionario. Ho trovato in rete una primissima edizione di Fuori storia edito da Neri Pozza. Potrei recitare a memoria alcune sue poesie».

Carlo Freccero?

«Affinità centrata. Mi piace anche Diego Fusaro, dice cose interessanti in un linguaggio desueto, un pregio».

Parlando di Maurizio Costanzo, Freccero ha detto che ha anticipato i social e il privato che diventa mercato.

«In pratica, Chiara Ferragni. Molto lucida e cinica nello sfruttare questa evoluzione. Un grande talento. Orrido sul piano morale, gradevole sul piano fisico. Ho visto sue foto in cui leccava Il capitale di Marx, ammiccava con Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e La società dello spettacolo di Guy Debord. Perversamente abile».

 

La Verità, 4 marzo 2023

«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

«Ratzinger parlò della rinuncia già nel 2006»

Anch’egli eminente teologo e liturgista, don Nicola Bux è stato stretto collaboratore di Joseph Ratzinger prima nella Congregazione per la dottrina della fede e poi in altri organismi vaticani. Dopo averlo conosciuto all’inizio degli anni Ottanta, l’ha frequentato fino al 2014, per cui lo si può definire suo amico personale. Ora che si torna a riflettere sulla rinuncia del Papa emerito (Antonio Socci, che il 25 settembre 2011 l’anticipò, ha ricostruito nei giorni scorsi come maturò), don Nicola svela alla Verità una circostanza inedita. Nel febbraio 2006, meno di un anno dopo la sua nomina, Benedetto XVI incaricò alcuni prelati, tra cui anche lui, di verificare l’istituto della rinuncia papale.

Che pensiero le suscita la partecipazione popolare ai riti per la morte di Benedetto XVI?

«La Chiesa è il popolo di Dio, che indica la via della salvezza in Gesù Cristo, come un vessillo elevato tra le nazioni, cioè, anche tra coloro che non credono o professano altra credenza. Benedetto XVI ne è stato fautore per tutta la sua vita: il risultato è davanti ai nostri occhi. L’intellighentia che dirige curie e istituti teologici, un po’ come gli scribi e i farisei che tenevano lontano il popolo da Cristo, non di rado hanno pensato che fosse un papa senza popolo, o a capo di nostalgici: l’afflusso di tanti giovani, specialmente sacerdoti e seminaristi, lo smentisce. Questo popolo che si è manifestato anche nel giorno delle esequie è espressione della sinodalità spesso invocata, ma a volte in senso più astratto che reale. Sinodale vuol dire in movimento. Quella che abbiamo visto in questi giorni è una Chiesa messa in movimento da Benedetto XVI».

Chi è stato per lei Joseph Ratzinger?

«L’esempio del credente in Cristo, che è “sale della terra”, affinché questa non si corrompa ma si conservi e si rigeneri. Per questo, egli ha sempre additato come priorità la fede per affrontare la crisi del mondo, in specie dell’Occidente, che a sua volta oggi, è in crisi di ragione. Per superare la crisi, questa – egli ha ripetuto – deve allargarsi alla fede».

Quando lo conobbe?

«All’inizio degli anni Ottanta, partecipando agli esercizi spirituali da lui tenuti. Cercavo di capire cosa fare, nello scombussolamento postconciliare. E trovai la risposta proprio nel tema che egli stava trattando: “Guardare a Cristo”. Seguì il coinvolgimento nel lavoro della rivista teologica internazionale Communio, da lui promossa insieme ad Hans Urs von Balthasar e altri studiosi».

Un incontro nella redazione di una rivista teologica fa pensare a un rapporto fatto di cose alte.

«Invece, quella rivista mirava ad aiutare il popolo cattolico, smarrito e confuso dal “post-conciliarismo”. In tal senso, un grande apporto a Ratzinger lo diede Luigi Giussani, e noi dietro di lui. Per Ratzinger la teologia non era speculazione fine a sé stessa, ma finalizzata a collaborare alla ricerca della verità, tentativo, in vario modo, proprio ad ogni uomo».

Communio era una rivista diversa da Concilium, considerata più aperta. Negli anni del Concilio Vaticano II e successivi anche Ratzinger era considerato un teologo «aperto».

«Egli era aperto alle mozioni dello Spirito, onde capire come discernere gli avvenimenti nella Chiesa, senza subire il fascino delle mode, cioè del modernismo. Per esempio, da studioso della forma della liturgia, s’accorgeva delle deformazioni intervenute dopo il Concilio, “al limite del sopportabile”, e interveniva con una terapia: riavvicinarla alle fonti della tradizione, da cui tendeva a distaccarsi; lo ha fatto proponendo il contagio virtuoso tra la forma antica e quella nuova, che denominò “straordinaria e ordinaria”. Lo propose, non lo impose. Se lo capissero, nella Chiesa, che le cose proposte si diffondono e si radicano di più! Invece, quelle imposte o peggio le proibizioni, come il Motu proprio Traditionis custodes, sono destinate al fallimento, perché carenti di… pazienza, “la pazienza dell’amore”, come amava ricordare Ratzinger».

Conferma quanto rivelato da George Ganswein, cioè che Ratzinger fu molto rattristato dal Motu proprio Traditionis custodes con il quale nel 2021 Francesco operò una stretta sulla messa in latino, invece ammessa dal Summorum pontificium di Benedetto XVI?

«Non mi sorprende. Ma, è l’atto di papa Francesco che va meditato, e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come Benedetto disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico, che la lex orandi della Chiesa è una. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Mi auguro un ripensamento al Dicastero del culto divino e quindi nel papa».

I vostri rapporti s’intensificarono quando, nominato da Giovanni Paolo II, entrò nella Congregazione per le cause dei santi e nell’ex Sant’uffizio presieduto da Ratzinger?

«Alla Congregazione per la dottrina della fede, soprattutto, collaborai ai vari dossier che erano sottoposti ai consultori, in particolare la Dichiarazione Dominus Iesus, intesa a riaffermare che Gesù è l’unico salvatore del mondo. L’allora prefetto mi annoverò tra i membri della Commissione che doveva studiare le forme di esercizio del primato del papa, secondo l’auspicio dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint. In quel frangente, s’intensificarono lo scambio di lettere e gli incontri. Gli avevo chiesto ragione di una sua affermazione, ritenuta in contrasto con altre da lui fatte in seguito; mi rispose il 23.12.2002 con la sua grafia minuta: “Caro professore Bux, evidentemente l’interpretazione delle mie parole di 30 anni fa dev’essere, che la parola ‘successore di Pietro’ implica il diritto divino del Primato Romano con la prerogativa del principe degli apostoli; anche le parole di Sant’Ignazio (d’Antiochia) proestòs tìs agàpis, dal greco: presidente della carità, implicano per me lo stesso contenuto. Ma devo dire, che oggi – per evitare ogni ambiguità – mi esprimerei in modo più preciso. Tanti auguri per Natale e per l’anno nuovo. Suo nel Signore”. Nell’umiltà del suo pensiero cattolico, prima che delle sue azioni, risiedeva la grandezza di Benedetto XVI».

Quando divenne papa come proseguì la vostra collaborazione?

«Già designato da lui nel 2003 a preparare i Lineamenti del sinodo sull’eucaristia, una volta eletto, collaborai al documento base, l’Instrumentum laboris, su cui doveva tenersi il sinodo programmato per il 2005, a cui partecipai come esperto. Lì emerse tutta la visione di Ratzinger sulla liturgia e sulla Messa, ma sempre senza imporre, come si può dedurre dall’Esortazione apostolica che ne seguì: Sacramentum Caritatis. Comunque Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, ha fatto scuola. Coi cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra, abbiamo seguito in certo modo il suo pensiero e il suo metodo, promuovendo la Scuola ecclesia mater, una rete di amicizia di alcune centinaia di sacerdoti e laici».

Le affidò qualche incarico delicato che oggi, dopo la sua scomparsa, può rivelare?

«L’incarico di consultore è di per sé soggetto alla discrezione. Insieme ad altri quattro, fui richiesto di esprimere un parere sulla eventualità della rinuncia del papa, cosa prevista dal Codice di diritto canonico. Tra le motivazioni, rilevai che il Signore non ha mai fatto mancare al papa la forza necessaria per esercitare il suo ministero fino alla fine. Pertanto mi espressi negativamente. Eravamo nel febbraio 2006».

Vuol dire che appena un anno dopo la nomina stava considerando l’ipotesi delle dimissioni?

«Per averla sottoposta al Pontificio consiglio dei testi legislativi, e fatto richiedere un parere ad alcuni esperti, probabilmente sì».

In che modo avvenne questa richiesta? E gli altri quattro consultati come si espressero?

«Avvenne mediante una riunione col cardinale prefetto del Pontificio consiglio, in cui si discusse soffermandosi sull’eventualità della rinuncia del romano pontefice per incapacità permanente. Tranne uno, se ben ricordo, che si mostrò possibilista, ci esprimemmo negativamente».

La propensione alle dimissioni era dovuta alla difficoltà a fronteggiare ostacoli interni o maggiormente a un senso d’inadeguatezza personale?

«È noto che all’atto di cominciare il ministero di supremo pastore, chiese di pregare affinché non dovesse essere costretto a correre davanti ai lupi: un’espressione mi pare, ripresa dal papa san Gregorio Magno».

Il fatto che abbia iniziato a pensare alla rinuncia molto presto è confermato anche da quanto disse a Peter Seewald in Ultime conversazioni: «Il governo pratico non è il mio forte»?

«Una volta, vedendo confabulare il segretario di stato e quello suo personale, osservò, con la sua nota ironia: devono governare la Chiesa…».

Ebbe occasione di parlargli nei giorni che precedettero l’annuncio dell’11 febbraio 2013?

«No, perché, qualche giorno prima, mi era stato comunicato che il mio servizio alla Congregazione per la dottrina della fede era terminato».

Dopo essersi ritirato le ha mai fatto qualche confidenza?

«Sono stato in visita da lui nel luglio 2014, quasi un’ora di conversazione, nel Monastero dove risiedeva in Vaticano. Mi è venuto incontro nel salotto, chiudendo dietro di sé la porta dello studio, senza ausili, esclamando: “Bari, san Nicola!”. Ci siamo seduti ai due angoli delle due poltrone bianche, protendendoci l’uno verso l’altro, “perché, – esordì – non sento bene”. Dovevo sottoporgli, a un anno dalla sua rinuncia, le riflessioni e osservazioni di tanti autorevoli amici circa il suo atto e la situazione conseguente; in particolare chiedergli come egli spiegherebbe la figura del tutto inedita del “Papa emerito”. Gli lasciai uno scritto al quale mi rispose un mese dopo».

Che cosa pensa del modo in cui è stato raccontato dai media in questi giorni?

«Ho notato la difficoltà a sganciare il giudizio sulla sua persona dall’atto della rinuncia, addirittura a ritenerlo grande per questo. L’impressione è che qualcuno di quelli a lui più vicini, sia tra i responsabili della fine del suo pontificato. Ma ci vorrà molto tempo per una visione obbiettiva, come dovrebbe essere per ogni papa. Invece, piuttosto in fretta, ci si è preoccupati di canonizzare i cosiddetti “Papi del Concilio”, forse per blindare quest’ultimo. Ciò è andato a scapito dell’analisi disincantata della loro opera».

Che eredità lascia il papa emerito e cosa perde la Chiesa con la sua scomparsa?

«È troppo presto per dirlo. Con la morte di papa Benedetto, è finita l’“èra dei due Papi”: una situazione a mio avviso intollerabile, e speriamo che non se ne crei un’altra. Comprenderà ora, papa Francesco, che deve caricarsi sulle spalle quella parte cospicua di Chiesa che ha visto rendere omaggio a Benedetto XVI?».

 

La Verità, 6 gennaio 2022

«Perché mi piace marinare la scuola dell’attualità»

L’intervista è finita quando mi accorgo che Claudio Magris ha compiuto 81 anni venerdì santo, l’altro ieri per chi legge.

Come ha festeggiato, professore?

«Anche se non sono praticante non ho ceduto a libagioni. Quando, da giovane, comunicai a mio padre che non avrei più frequentato la Chiesa, lui, nemmeno praticante, mi rispose che si trattava di una scelta da ponderare bene. Perciò, sobrietà. Ho fatto un brindisi la sera prima con i miei figli che sono venuti a trovarmi. Venerdì, invece, ho allungato un po’ la passeggiata sul lungomare, quella sì. Ma non mi hanno arrestato». Le parole di Magris sono venate di ironia, di memorie visive e di un certo spirito asburgico fatto di austerità e rispetto. Sentimenti che attraversano la sua letteratura. Compreso l’ultimo libro, Tempo curvo a Krems (Garzanti), composto di cinque brevi racconti con protagonisti diversi, tutti un po’ avanti negli anni e inclini a un’esistenza riservata. Al telefono trattiamo le condizioni della nostra chiacchierata – «parliamo della Pasqua, non di politica» – e ci diamo appuntamento. Triestino molto affezionato a Torino dove si è laureato e ha a lungo insegnato letteratura tedesca, collaboratore da cinquant’anni del Corriere della Sera, in possesso di una cultura sterminata che, senza riuscirci, fa di tutto per dissimulare – «sono un tipo da birreria» – Magris è per Mario Vargas Llosa «uno dei più grandi scrittori del nostro tempo».

Come trascorre la clausura?

«Paradossalmente incalzato. Sto finendo un lavoro che devo consegnare alla Mondadori. Dovrebbe intitolarsi Vere e improbabili, come le tre storie che racconto. Una delle quali, protagonista una missionaria salesiana, richiedeva molte verifiche. Poi rispondo alle lettere, sto con mia moglie… Vivo quello che Giuseppe Ungaretti ha chiamato “il deserto di chi sopravvive”. Ho perso molte persone care e amici. Egoisticamente, mi dispiace più per me che per loro. Ci vorrebbe un tuffo in mare…».

Già in questa stagione?

«Quest’anno il clima è particolarmente mite. Da metà aprile a ottobre, quando il tempo lo consente mi immergo ogni giorno per una mezz’ora».

È un nuotatore?

«No, non è un’abitudine sportiva. Non m’interessano prestazione e velocità, ma l’abbandono. Nuoto a lungo, lentamente».

Le manca molto?

«Non credo ci sarebbero controindicazioni se uno nuota da solo… Capisco che non si possa perché poi lo imiterebbero altri. E io sono ligio alle regole. Però, senza il mare per me anche l’amore è impensabile… Vederlo, ascoltarlo, ma soprattutto essere dentro. È una confidenza che ho ereditato da mia mamma. Avrò avuto 4 anni, poco più, quando imparai a nuotare. Ero appeso alle sue spalle mentre s’inoltrava nell’acqua. Deve aver percepito che non avevo paura e mi lasciò scivolare dentro, tranquillamente…».

C’è qualcos’altro che le manca in questi strani giorni?

«Certi aiuti pratici che risolvono la mia disabilità digitale. Non un vezzo, una vera incapacità. Registro su cassette, un paio di persone ascoltano e trascrivono. Ci vediamo sotto casa per scambiarci il materiale come fosse una refurtiva. Mi aiutano anche i miei figli, ma non voglio pesare troppo su di loro».

Che cosa fanno i suoi figli?

«Il maggiore è nato qualche ora prima che morisse mio padre. La notte tra il 29 e il 30 maggio 1966 andavo da un reparto all’altro dell’ospedale… Ha studiato all’estero, insegnato in Belgio, in Francia, ora è tornato. Il secondo si è laureato in legge, si occupa di appalti, ma ama girare e produrre corti cinematografici. Lui ha sempre vissuto a Trieste. Il paradosso è che, mentre del primo, giramondo, sapevo tutto, del secondo, stanziale, non so niente. È un’omertà che serve a proteggerlo e proteggermi, sono un padre ansioso».

Siete molto complici?

«Un triumvirato. Viviamo in ganga, come si dice a Trieste».

Oltre al mare e agli aiutanti che cosa le manca ancora?

«Le passeggiate, la città, il caffè. Lo so, in interiore homine habitat veritas (nell’intimo dell’uomo risiede la verità ndr), però a me piace uscire, fermarmi anche per poco con un amico. Amo una certa coralità perché appartengo a una generazione fortunata. Sono nato nel 1939 e la guerra l’ho vissuta attraverso i racconti dei miei genitori e dei nonni. Dopo la laurea a Torino ho trovato facilmente lavoro, in un’epoca in cui le cose che so fare erano più apprezzate».

Il lavoro intellettuale e la conoscenza della letteratura.

«Sì, non ho mai temuto di restare disoccupato come accade ai ragazzi di adesso. Oggi, dopo che un docente e uno studente si sono incontrati in studio, al pomeriggio si scambiano email per precisare i contenuti. Al mio corso erano iscritti 500 studenti, Claudio Gorlier di letteratura anglosassone ne aveva duemila: pensi se dopo averli incontrati fosse stato necessario precisare il colloquio per iscritto. Siamo stati fortunati, nel rapporto con il tempo…».

In che senso?

«Il presente si allargava nelle memorie degli adulti. La guerra e il dopoguerra… tutto era vissuto in una specie di fraternità. Non voglio fare il vecchio che deplora, ma oggi subiamo la dittatura dell’attualità. Presente uguale attualità».

Invece?

«Non parlo della Prima guerra d’indipendenza e di Carlo Alberto. Ma la Prima guerra mondiale, quella sì apparteneva alla mia formazione grazie ai racconti degli adulti. Era un presente dilatato. Oggi se non hai letto Il Codice Da Vinci devi giustificarti. Innanzitutto, ci vuole una motivazione per fare, prima che per non fare una cosa. Secondariamente: posso avere la libertà di preferire un’opera di Fëdor Dostoevskij che ancora non ho letto? Si può non stare in fila con la marcia del progresso?».

Rivendica il diritto di non accodarsi…

«Credo che Robinson Crusoe possa darmi più di tante riflessioni sul coronavirus. Non c’è nulla di reattivo in questo. Come non c’è nel fatto che preferisco la musica leggera di qualche decennio fa all’hip hop. Credo si possa marinare la scuola dell’attualità. Anche se poi il politically correct vorrebbe riportarci all’ordine».

Come, per esempio?

«Gliene faccio due. Il primo: Leggere Lolita a Teheran, titolo di un libro molto coccolato. Premesso che Lolita è un grande romanzo, che nessun libro va bandito e che la condizione della donna in Iran grida vendetta, come titolo avrei preferito Leggere Madame Bovary a Teheran, per dire. Invece, bisogna sempre indossare il distintivo. Il timore di non essere à la page finisce per guastare anche la causa più giusta».

Il secondo esempio?

«Lo rubo a mio figlio. Avrei voluto vedere i contestatori di Benedetto XVI quando disapprovò il matrimonio omosessuale scagliare almeno qualche pomodoro contro le ambasciate dei paesi dove venivano decapitati gli omosessuali adulti e consenzienti».

Che cosa pensa dei balconi canterini e di slogan come andrà tutto bene?

«Distinguerei. Certi slogan dovrebbero essere rivisti. Anch’io tendo a essere ottimista con la volontà ma pessimista con la ragione. Tutto bene per chi sopravvive. I balconi invece li sento più vicini. Sono un segno di quella coralità che amo. Nell’atrio del mio palazzo c’è un cesto dove gli inquilini mettono i propri libri a disposizione di tutti. Sono contento. Certo, sarebbe ingenuo sopravvalutare questi gesti, ma riterrei sbagliato arricciare il naso. Qualche giorno fa mi è arrivato un testo di Bergoglio quand’era cardinale, un commento agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Tra i motti nelle prime pagine citava Il capitano della compagnia, un vecchio canto degli alpini. Non possiamo fare gli aristocratici».

Le piace papa Francesco?

«Ha un’idea avventurosa e coinvolgente di Dio e del cristianesimo. Trovo ingiusto accusarlo di non pronunciarsi in difesa della vita, perché quando ha detto che l’aborto equivale ad <assoldare un sicario>, ha usato una delle espressioni antiabortiste più forti».

Che impressione le ha fatto la preghiera nella piazza san Pietro deserta?

«Ha avuto la forza di una poesia. Ho pensato che il cristiano non può essere solo anche quando sembra che lo sia. La piazza vuota mi ha ricordato anche il “non praevalebunt” citato da Benedetto XVI in uno dei suoi libri. E di cui parlammo…».

Cosa le disse?

«Ero andato a presentare il secondo volume della sua trilogia su Gesù. In un colloquio mi disse che potrà accadere che anche per mille anni il cristianesimo sia testimoniato da sparuti gruppi di fedeli, nascosti in qualche paesino di montagna, per poi rinascere. Ecco, una Chiesa lontana dai trionfalismi… Benedetto XVI mi citò la frase di Gesù: “La vita eterna è che conoscano Te e Colui che hai mandato”».

Il tempo va messo in relazione alla verità più che allo scorrere di ore e giorni?

«Da qui deriva il senso della storia della Chiesa. Questa drammaticità ce l’aveva anche Woytjla, il Papa polacco nato e formatosi in Polonia, nel regime comunista. Che, a un certo punto, capì che il comunismo tramontava, mentre il dio mercato era deciso a eliminare il cristianesimo».

Che cosa pensa della Pasqua con le chiese chiuse?

«Penso sia una grande privazione anche l’impossibilità di accedere ai sacramenti. Il cristianesimo non è una religione. Oggi il primo dietologo che passa spaccia i suoi consigli per un credo, una religione, una verità. Ma l’opinione è il contrario della verità. Per fortuna non mi ha chiamato opinionista».

Sta parlando della testata per cui scrivo?

«Sì, un po’ ambiziosa. Ma anche del cristianesimo, Gilbert Keith Chesterton parla del materialismo del cristianesimo, di Cristo sudato nel Getsemani. È tutto nell’anagramma di sant’Agostino della domanda di Ponzio Pilato a Gesù “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) “Est vir qui adest” (È l’uomo qui presente). Lo citò anche Carlo I d’Inghilterra prima di essere decapitato».

L’intervista è finita. Ma stavolta è Magris a richiamare: «Volevo dirle che c’è qualcosa di manzonianamente provvidenziale nel fatto che Matteo Salvini quest’estate abbia fatto cadere il governo. Altrimenti ci sarebbe stato lui adesso…», butta lì, ironico. Ma non si era detto che non si parlava di politica?

 

La Verità, 12 aprile 2020

«È finita l’era della finta concordia tra i due Papi»

È l’osservatore più acuto di ciò che succede nei Sacri Palazzi. 76 anni, con studi alla Facoltà Teologica di Milano e poi all’università Cattolica del Sacro Cuore e autore di colpi giornalistici come la pubblicazione in anteprima, nel marzo 2018, della lettera integrale di Joseph Ratzinger, manipolata per simulare il suo sostegno a teologi bergogliani, Sandro Magister tiene sul sito dell’Espresso il seguitissimo blog Settimo cielo, diffuso in quattro lingue. A lui ci siamo rivolti per illuminare i fatti di questi giorni e capire come potrà proseguire la convivenza tra i due Papi dopo la tortuosa pubblicazione del libro sul celibato dei sacerdoti, uscito ieri in Francia e atteso per fine mese in Italia.

Che idea si è fatto del saggio Dal profondo dei nostri cuori (Cantagalli) scritto dal cardinale Robert Sarah e da Benedetto XVI?

«Il 2019 è stato un anno chiave per la convivenza che, banalizzando, chiamiamo dei due Papi. Perché in quest’ultimo anno il Papa emerito ha deciso di uscire allo scoperto su temi scottanti che riguardano il magistero e la pastorale ecclesiastica. Nell’aprile scorso ha affidato a un mensile tedesco gli Appunti sugli scandali degli abusi sessuali, nei quali delineava una causa della crisi della Chiesa diversa da quella prospettata da Francesco. Ora ha deciso di pubblicare una riflessione sul celibato sacerdotale prima che Francesco si pronunci con la sua Esortazione sul Sinodo dell’Amazzonia. Se ha scelto di rompere il silenzio che si era autoimposto all’atto della rinuncia è perché ritiene particolarmente grave la situazione della Chiesa di oggi».

Una situazione che rende «impossibile tacere», come hanno scritto gli autori del libro citando Sant’Agostino?

«Esatto. È una scelta che richiama alla memoria quella dei grandi monaci antichi che, quando vedevano in pericolo la vita delle comunità, abbandonavano l’isolamento per soccorrerle. Così oggi, il Papa emerito lascia la sua posizione di ritiro e preghiera per accompagnare con la sua voce autorevole la Chiesa in un momento di grande incertezza».

Questa vicenda fa esplodere l’anomalia dei due Papi: diventa urgente regolamentare l’azione e la parola di Benedetto XVI?

«Effettivamente questi ultimi avvenimenti hanno messo in luce qualcosa di non risolto. La compresenza dei due Papi, uno regnante e uno emerito, è un primum assoluto. La figura del Papa emerito non ha codificazione canonica e viene inventata da colui che lo è per la prima volta. Il quale, all’atto della sua abdicazione, lasciò nel vago gli indirizzi relativi agli ambiti del suo agire, mostrando di potersi comportare in modo originale e creativo».

Aveva promesso una posizione ritirata e di preghiera mentre ha recuperato un protagonismo diverso?

«Per di più su argomenti cruciali. Non va trascurato il fatto che Benedetto XVI ha attribuito la causa degli abusi sessuali alla perdita della vicinanza a Dio di gran parte della Chiesa, mentre per Francesco la causa va individuata nel clericalismo. Quanto al celibato dei sacerdoti, Ratzinger ne ritrova addirittura nell’antico testamento il fondamento teologico, per il quale la totale dedizione a Dio è incompatibile con un’altra dedizione assoluta com’è quella richiesta nel matrimonio».

C’è chi osserva che il celibato dei preti non è un dogma, ma una scelta recente della Chiesa.

«Non è il pensiero di Benedetto XVI. Egli ammonisce che toccare questo cardine non è semplice perché fonda lo stato ontologico del consacrato a Dio».

La pubblicazione di questo testo è una forma di pressione su papa Francesco che sta per promulgare l’Esortazione del Sinodo dell’Amazzonia? Qualcuno ha parlato anche di interferenza sul suo magistero.

«Credo vada inteso come un segnale di allarme levato da personalità di grande autorevolezza, Benedetto XVI in particolare, per richiamare l’attenzione sulla gravità della decisione che sta per essere presa. Se si apre uno spiraglio per l’Amazzonia, nel tempo potrà valere per tutta la Chiesa».

Dopo il ritiro della firma in copertina e la scelta di specificare che il libro viene pubblicato «con il contributo» di Benedetto XVI ci si chiede come il Papa emerito potesse non sapere di partecipare a una pubblicazione a doppia firma.

«Se anche potessimo ammettere che il Papa emerito non avesse nozioni precise della veste editoriale della pubblicazione, tuttavia la sostanza del suo pensiero non lascia spazio a interpretazioni. E non lascia dubbi anche il fatto che abbia voluto essere parte di questo libro con un suo testo, e leggendo e approvando tutte le altre parti della pubblicazione, come dimostrano le sue lettere rese pubbliche dal cardinal Sarah».

Secondo lei che cosa scriverà papa Francesco nel documento sul Sinodo?

«Per quanto visto in questi sette anni di pontificato non mi sorprenderei se aprisse uno spiraglio ai presti sposati, magari in una nota a piè di pagina. Da un lato potrebbe confermare genericamente la dottrina attuale, dall’altro consentire eccezioni che verranno affrontate con prassi più o meno disinvolte. È ciò che è accaduto sulla dottrina del matrimonio dopo il Sinodo sulla famiglia».

Accadrà anche sul celibato ecclesiastico?

«Gli indizi non mancano. Al ritorno dal viaggio a Panama, parlando in aereo con i giornalisti, papa Bergoglio citò e condivise l’espressione di Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato sacerdotale”. Ma dopo quella frase proseguì riferendosi a situazioni particolari nelle isole del Pacifico e citando come interessante un libro del teologo tedesco Fritz Lobinger, divenuto vescovo in Sudafrica, favorevole all’ordinazione sia di uomini che di donne sposate, ai quali affidare il solo compito dell’amministrazione dei sacramenti, senza le altre due funzioni, di insegnamento e di governo, che indissolubilmente sono proprie del sacerdozio».

Perché dovremmo temere qualche eccezione?  

«Perché un’eccezione consentita in Amazzonia o in un’isola del Pacifico diventerebbe presto la regola in una Chiesa cattolica come quella di Germania, tra le più disastrate al mondo per declino di fedeli e di fede eppure curiosamente guardata da papa Francesco come l’avanguardia del rinnovamento ecclesiale».

Nella Chiesa ortodossa ci sono da sempre i preti coniugati.

«Intanto, nella Chiesa ortodossa i vescovi sono soltanto celibi. Inoltre, nel libro Ratzinger ricorda che la Chiesa universale dei primi secoli prevedeva sì ministri coniugati, ma chi veniva ordinato doveva cessare di avere rapporti con la propria moglie. Successivamente, all’ordinazione sacerdotale sono stati ammessi solo celibi».

La scarsità di vocazioni non è motivo sufficiente per ammettere «anziani» coniugati di provata fede?

«Anche nella Chiesa nascente scarseggiavano le vocazioni eppure la cristianità è fiorita ugualmente. Le comunità cattoliche del Giappone sono eroicamente sopravvissute 250 anni senza che ci fosse un solo sacerdote. Così è avvenuto per numerose comunità nascoste nel mondo. Esistono i modi per supplire all’assenza di sacerdoti».

Per esempio?

«La domenica, dove manca chi può celebrare l’eucarestia, i laici possono leggere le letture, recitare il credo e distribuire le ostie consacrate e conservate dall’ultima volta che il prete è venuto. È una prassi non così diversa da quella che si adotta portando la comunione ai malati».

I fautori dell’apertura ai preti sposati osservano che gli apostoli avevano tutti moglie e figli.

«Tutti no. L’apostolo Paolo era celibe. E naturalmente lo era Gesù. Il lasciare casa e famiglia per seguire Gesù non era una metafora ma la realtà. Gesù ammirava chi identificandosi pienamente in lui “si fa eunuco per il regno dei Cieli”».

Nelle lettere esibite dal cardinal Sarah, Benedetto XVI approva la forma della pubblicazione prevista. Il ritiro della firma è dovuto a pressioni o a cos’altro?

«Le parole cantano. L’adesione di papa Benedetto XVI al progetto è evidente. Non c’è stato niente di cui fosse all’oscuro. La polemica è nata dalla volontà dei sostenitori di papa Francesco di sminuire la portata del libro e forse da una certa fragilità dell’arcivescovo Georg Gänswein, segretario di papa Benedetto XVI e prefetto della Casa pontificia, nel resistere a tali pressioni».

Nel marzo 2018, quando fu chiara la strumentalizzazione di Ratzinger per sostenere la pubblicazione di alcuni testi di teologi bergogliani, il prefetto della Segreteria per le comunicazioni, monsignor Dario Viganò, si dimise. Stavolta che conseguenze ci saranno?

«Credo nessuna. Non c’è un capro che deve espiare. Il cardinal Sarah sarà magari destituito da prefetto della Congregazione per il culto divino al compimento dei suoi 75 anni. C’è un contrasto vistoso tra le sue posizioni e quelle di papa Francesco. Ma nella Chiesa questo non dovrebbe sorprendere perché le contrapposizioni ci sono sempre state, anche durante i pontificati di Benedetto XVI, di Giovanni Paolo II e di Paolo VI».

Secondo lei c’è relazione tra queste due vicende?

«La similitudine è nel vano tentativo di esibire una totale concordia tra Benedetto XVI e Francesco».

Come potrà proseguire la convivenza tra loro?

«Temo che sarà sempre più ridotta a delle formalità. Oggi le distanze risultano più evidenti di quanto si potesse prevedere subito dopo l’abdicazione di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco. Un motivo in più dell’oggettiva difficoltà di convivenza tra due Papi, mai sperimentata prima».

Qual è la sua valutazione del pontificato di Bergoglio?

«È un pontificato che ha messo in moto dei processi, moltiplicando le opzioni, ma senza contemporaneamente orientarli. In più occasioni Francesco ha detto che il pastore non si pone tanto davanti o in mezzo al gregge, ma dietro, perché il gregge sa già lui dove andare. Francamente, questo a me pare uno svilimento del ruolo di guida affidato in origine al successore di Pietro, a partire dal Nuovo Testamento».

 

 La Verità, 16 gennaio 2020

 

 

«Spero che il Papa edifichi la Chiesa, prego per lui»

Antonio Socci fa tutti i giorni la spola da Siena a Perugia per andare alla Scuola di giornalismo della Rai che dirige dal 2004. Tre ore al giorno di macchina: come le impieghi e dove trovi il tempo per leggere i tomi che citi in Il dio Mercato, la Chiesa e l’Anticristo (Rizzoli)? «In macchina ascolto la radio, telefono, prego… Quanto ai libri, questo è un argomento che bazzico da parecchio». Da quando era ragazzo, si può dire. Fin dai tempi del Sabato, il settimanale dove entrambi abbiamo lavorato e al quale, nell’introduzione, riconosce l’intuizione illuminante di questa controversa epoca, sulla scorta di due pilastri della letteratura del Novecento: Il racconto dell’Anticristo del pensatore russo Vladimir Sergeevic Soloviev e il romanzo distopico Il padrone del mondo di Robert Benson. Era il 1988, il Muro di Berlino doveva ancora cadere e negli anni successivi, dopo esser divenuto un classico del movimento di Comunione e liberazione, il dialogo tra l’imperatore e lo starets Giovanni fu riproposto dal cardinale Giacomo Biffi negli esercizi spirituali alla Curia romana del 2007 e, in diverse occasioni, da Benedetto XVI. Il passaggio più significativo è nel faccia a faccia tra l’imperatore, un «messia del politicamente corretto», cui i rappresentanti delle religioni si sottomettono, e il mistico, testimone degli ultimi cristiani, che gli resiste. Al quale l’imperatore chiede, irritato: «Che cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare, che cosa avete di più caro nel cristianesimo?». La risposta, umile ma fiera, dello starets è un manifesto: «Grande sovrano, quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente la pienezza della divinità».

Socci è da alcuni anni un acceso critico del magistero di papa Francesco, perciò, accostandosi alla lettura di un saggio che ha l’Anticristo nel titolo c’è di che temere. Invece si conclude con l’invito a raccogliere l’esortazione di papa Francesco a pregare per lui.

Come mai?

«Perché lo chiede. E prego affinché si converta e si ponga sulla strada di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Finora sembra quasi volersi identificare con inquietanti figure bibliche. Vorrei che lo salvassimo da questa deriva».

È una conclusione che sorprende perché sei considerato uno degli antagonisti più intransigenti del magistero di papa Francesco. Qualcosa ti ha frenato?

«No. Ho scritto liberamente ciò che penso. Ma non mi riconosco nel ruolo di antagonista. Sono solo un giornalista. Ogni giorno da sei anni mi auguro di scoprire di avere torto. Faccio il tifo contro di me, ma purtroppo Bergoglio provvede da solo a confermare i miei timori. Da povero cristiano, con dolore, scrivo su questa situazione solo per dovere di coscienza. Mi costa. Preferirei continuare a pubblicare testi di apologetica come ho fatto per trent’anni».

Fino a un certo punto sembrava che la tua riflessione portasse a identificare Francesco con l’Anticristo.

«Nel suo libro L’Anticristo Joseph Roth scrive che l’Anticristo è in ognuno di noi. Ciò che si oppone a Cristo è anche in noi. Nell’Apocalisse si profetizza poi che questa opposizione al Redentore diventerà un giorno un sistema, un potere politico ed economico planetario. Il catechismo della Chiesa cattolica ci spiega che avrà un’ideologia anticristiana, ma mascherata da umanesimo. Sarà una “impostura religiosa”. È una filantropia che usa parole cristiane, ma in realtà espelle Cristo e pone l’uomo al posto di Dio. Chi ha autorità nella Chiesa deve fare come Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, non può essere supporto a questa impostura».

Oltre l’affermazione, condivisibile, temi che questo stia avvenendo?

«Sì».

L’Anticristo è un sistema economico, una nuova seducente religione basata su filosofie facilmente condivisibili o «un sorridente inquinatore» come dice Vittorio Messori?

«Ci sono tutte queste componenti. Solovev lo dipinge come “un messia del politicamente corretto”, perfino europeista ed ecologista. Anche Massimo Cacciari vede nella modernità un potere fortemente anticristiano. Quello che fa pensare è la divinizzazione del mercato. Sono formidabili le pagine di Walter Benjamin sul “Capitalismo come religione”. Nel libro riporto le riflessioni di Jacques Attali, di Giulio Sapelli e Giulio Tremonti, non tre pericolosi sovversivi, che descrivono lo strapotere del “mercatismo” che si mangia la democrazia, i popoli e gli Stati. Inoltre si associa ad esso il prometeico potere della tecnica che ormai minaccia l’umano fin nella sua essenza. Del resto per la prima volta nella storia l’uomo ha il potere, premendo un solo bottone, di distruggere il mondo e l’umanità. Se non è apocalittico questo…».

Papa Francesco è danneggiato dalla narrazione dei media che ne enfatizzano gli interventi organici alle filosofie umanitarie, mondialiste, ecologiste?

«No. Lui finora è stato così.».

Per esempio, sottolineano in chiave anti Salvini i pronunciamenti favorevoli all’accoglienza ai migranti.

«Ma papa Bergoglio ha fatto delle sue battaglie politiche il connotato del suo pontificato. Come ha detto Marcello Pera, in lui non senti il Vangelo, ma solo la politica. Del resto se i media mainstream che attaccavano i suoi predecessori ora applaudono lui acriticamente, vorrà pur dire qualcosa».

Ma tu all’inizio gli avevi fatto un’apertura di credito.

«Certo. Era doveroso. Ma sono bastati sei mesi per farmi ricredere. Anzitutto fu il commissariamento dei Francescani dell’Immacolata, una famiglia religiosa mirabile, piena di vocazioni, che viveva di ascesi, preghiera e povertà. Non essendo cattoprogressista era guardata male. Poco dopo, nell’ottobre 2013, arrivò la prima intervista a Eugenio Scalfari e a quel punto mi fu chiaro chi è Bergoglio».

Scalfari non ha l’abitudine di prendere appunti o di registrare, tanto che i contenuti di quelle conversazioni hanno collezionato smentite.

«Non sono state vere smentite, infatti quei colloqui sono stati ripubblicati dalla Libreria editrice vaticana, perciò… Se un giornalista attribuisce a un papa delle enormità e questo non smentisce categoricamente, fa ripubblicare quelle interviste e addirittura torna a farsi intervistare da lui che si deve pensare?».

Qualche giorno fa, ricevendo i membri del centro studi Rosario Livatino, Francesco ha condannato decisamente il ricorso all’eutanasia.

«Ogni tanto si allinea al magistero dei suoi predecessori. Ma capita molto sporadicamente e i suoi sostenitori e i media lo elogiano proprio per la discontinuità. Infatti piace a Repubblica invece che ai cattolici. I quali sono disorientati anche per le enormità pastorali che caratterizzano il suo pontificato. Del resto i fatti hanno dimostrato che cedere alla mentalità mondana non solo non porta alla fede i lontani, ma allontana anche i fedeli. Come già era accaduto in America latina dove si è consumato il colossale fallimento del cattoprogressismo che ha visto fuggire dalla Chiesa milioni e milioni di fedeli. Purtroppo nel 2013 un cattoprogressista argentino è stato messo a capo della Chiesa universale, così ora si replica quel fallimento su scala planetaria».

In questi giorni, in una lettera apostolica ha parlato del presepio come di un «mirabile segno», invitando a farlo nelle case e nei luoghi di lavoro.

«Lo ha fatto per cercare di rifarsi l’immagine dopo la catastrofica figuraccia del Sinodo amazzonico. E dopo aver elogiato il presepio ha specificato anche di non strumentalizzarlo. Quindi alla fine è pure questa un’iniziativa anti Salvini. Anche le, poche, cose condivisibili che dice sono minate da una logica politica».

Dicevamo che il tuo è un libro apocalittico. Siamo già nel tempo dell’apostasia che precede il giudizio finale?

«Cito il grande teologo del Concilio Jean Danielou il quale spiega che il tempo cristiano è per definizione un tempo apocalittico. Con la morte e resurrezione di Cristo tutto è già compiuto, nulla di sostanzialmente nuovo può più accadere. Il tempo è dato per scegliere: con Cristo o contro. Anche Ivan Illich conferma che dopo l’era cristiana non esiste un’era post cristiana, ma solo un tempo apocalittico, quello dell’Anticristo. Invece, al convegno di Firenze del 2015, papa Francesco ha detto che “oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”. Come se potessero esistere epoche nuove e la Chiesa dovesse adeguarvisi. Ma la Chiesa non deve adeguarsi ai tempi, deve salvare tutti i tempi».

Cos’è questo tempo apocalittico, questa «grande apostasia»?

«La Chiesa rivive in tutto la vicenda di Gesù. Questo tempo è il suo venerdì santo. Il momento in cui Gesù è stato tradito e abbandonato. I papi del Novecento hanno avvertito la drammaticità di quest’ora, documentata anche dagli eventi del secolo breve. Le parole di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che riporto nel libro sono impressionanti».

La presunta sintonia tra Benedetto XVI e papa Francesco è appunto molto presunta?

«Bergoglio è agli antipodi di tutti i suoi predecessori. Faccio solo un esempio. Interpellato dalla Stampa su quale sia l’emergenza per l’umanità contemporanea Bergoglio ha parlato della diminuzione della biodiversità. Sinceramente una risposta così può darla il presidente del Wwf. Qualunque papa del nostro tempo avrebbe indicato la cancellazione di Dio come la tragedia di questa epoca. Nei suoi ultimi interventi Benedetto XVI lo ha ripetuto».

Perché secondo te papa Francesco non ha mai risposto al documento dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò sul fatto che fosse a conoscenza delle pratiche dell’ex cardinale Theodore McCarrick?

«Penso che monsigor Viganò abbia fatto scacco al re e il re ha deciso di buttare per aria la scacchiera.

Non c’è il pericolo di strumentalizzare Benedetto XVI in chiave anticomunista e antibergoglio?

«Piuttosto, vedo un altro pericolo, e cioè che quella parte del mondo cattolico cresciuta nella fede con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI oggi, per reazione, rischi di lasciarsi sedurre dalle sirene lefebvriane. Non a caso questi ambienti ipertradizionalisti sono molto più critici verso il magistero di Karol Woytjla e Joseph Ratzinger che non verso Jorge Mario Bergoglio».

L’insistenza sulle radici cristiane dell’Europa era la battaglia degli atei devoti, perché è così importante?

«No, è stata la battaglia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’eliminazione del richiamo alle radici cristiane è la prova che la nuova Unione europea, laicista e tecnocratica, voleva tagliare le sue fondamenta. Questo odio del cristianesimo è un capitolo dell’odio di sé dell’Occidente in nome del multiculturalismo. Ma se non si sa più qual è la propria identità non è possibile neanche la famosa integrazione. L’Europa di Maastricht non voleva essere più ancorata alla sua storia, al cristianesimo e a ciò che questo significava, per esempio sui temi etici».

La Chiesa attuale non si accorge di tutto questo?

«Bergoglio è allineato all’ideologia dominante. Dice che l’Europa deve identificarsi con “accoglienza” e che non bisogna essere “identitari”. Questo è nichilismo».

Forse ritiene i temi sociali più importanti dei temi etici?

«Nel mondo si praticano ogni anno circa 50 milioni di aborti. Due giganti come Giovanni Paolo II e Madre Teresa ritenevano questa la più grande tragedia del nostro tempo. Non è solo una tragedia etica, ma anche sociale: quei bimbi sono gli ultimi degli ultimi diceva Madre Teresa. La globalizzazione ha due facce complementari ed entrambe disastrose: la deregulation finanziaria e la deregulation antropologica. La Chiesa deve combatterle entrambe».

L’insistenza sul katechon, sul tenere a freno, non rischia di fare della Chiesa un’entità antimoderna?

«Modernità è una categoria ideologica, presuppone che la storia marci per sua natura verso il Bene: basta vedere cosa è stato il Novecento per capire che è un’idea farlocca».

Ma criticando papa Bergoglio non si rischia di sottovalutare le esigenze dei popoli più poveri e dei conseguenti movimenti migratori o della situazione climatica del pianeta?

«È esattamente il contrario. È il Papa che sottovaluta la complessità di queste emergenze, usando slogan degli anni Settanta sui ricchi e i poveri. Siamo in uno scenario diverso nel quale domina il dio mercato che pretende di essere legge a se stesso e dagli anni Novanta ha imposto una globalizzazione la quale trova negli Stati e nelle sovranità dei popoli l’unico ostacolo. Per questo attaccare i sovranisti ed esaltare i globalisti e la Ue come fa Bergoglio è perfettamente funzionale ai poteri forti. Anche sull’emigrazione. Come non vedere che i movimenti migratori rispondono alla necessità del mercato di disporre di manodopera a basso costo e senza garanzie sociali? Non a caso i vescovi africani e il cardinal Robert Sarah sostengono a gran voce che favorire i flussi migratori porterà alla morte dell’Africa. Al contrario, Bergoglio da anni ha fatto del migrazionismo la sua bandiera».

Ora la battaglia che conta è quella contro il cambiamento climatico.

«Bergoglio ha assunto come indiscutibile dogma di fede quel riscaldamento globale per cause umane che la scienza stessa considera un’ipotesi, su cui oltretutto ci sono opinioni diverse. Ma, quand’anche fosse un’idea fondata, Gesù è venuto a salvare le anime, non il pianeta. Anzi, ha detto che <il cielo e la terra passeranno>. È solo Lui che non passerà. La Chiesa dovrebbe annunciare cieli nuovi e terra nuova e non trasformarsi nella guardia forestale del pianeta. San Tommaso e Sant’Agostino dicono che agli occhi di Dio la salvezza di una sola anima vale più di tutto l’universo creato».

 

La Verità, 8 dicembre 2019

«Il futuro dell’Italia è in un’Europa riformata»

L’appuntamento è in un locale sul lungomare di Gallipoli per la colazione. Sono in ritardo di qualche minuto e al mio sms che lo avverte Rocco Buttiglione risponde con: «Frisch weht der wind, Der heimat zu mein hübsches kind, wo weilest du?». Quando c’incontriamo apprendo che si tratta dell’ouverture del Tristano e Isotta di Richard Wagner riveduta e corretta («Fresco soffia il vento verso la patria; mio caro amico dove te ne stai?»). Insomma, l’approccio mette soggezione. Ma per fortuna Buttiglione, membro dell’Udc e vicepresidente del gruppo misto, è in tenuta estiva e, sebbene voli alto, l’intervista si svolge in italiano.

Professore, Berlusconi e Prodi sono di nuovo in prima linea. Lei si ricandiderà?

«Vedremo. Voglia di riscaldare la sedia non ne ho. Se c’è l’opportunità di fare qualcosa di buono per il Paese non mi tirerò indietro. Nel frattempo ho ripreso contatto con il mio vecchio mondo che non mi ha dimenticato. Ho tenuto una lezione sul pensiero di Karol Wojtyla all’università di Lublino, parlerò alla Görres-Gesellschaft, la più importante associazione filosofica tedesca, andrò in Messico e in Cile. Non mi annoierò».

Che cosa intende per fare qualcosa di buono per il Paese?

«Ricostruire un partito di democrazia cristiana non in senso stretto, ma come lo intendeva il mio amico Helmut Kohl, con un programma che potrebbe interessare Silvio Berlusconi, il pulviscolo delle formazioni di centro e i loro elettori. Che in quest’area ci sono; mancano i leader».

Tanto che si riaffacciano quelli di dieci o quindici anni fa: come lo spiega?

«Con il fatto che quelli che sono venuti dopo sono peggio di quelli che c’erano prima. Allora si guarda con nostalgia al passato, che però non ritorna. Serve aprire la strada a nuovi giovani non raccattati per strada, ma preparati e con valori forti».

Matteo Renzi ha deluso?

«Ha giocato una partita che ho guardato con simpatia. Però l’ha persa».

Definitivamente?

«Il mercato politico è ingombro di leader che hanno avuto una grande idea, hanno perso, ma rimangono in campo. Troppo deboli per rivincere, ma abbastanza forti per ostruire la scena a chi vuole provarci».

Matteo Renzi: «Ha combattuto una battaglia giusta, ma ha perso»

Matteo Renzi: «Ha combattuto una battaglia giusta, ma ha perso»

Si riferisce ai vari D’Alema, Bersani o a chi altro?

«Lei mi vuole morto? Ognuno che catalizzi un minimo di consenso, invece di collaborare alla nascita di nuovi leader, li ostacola».

Chi potrebbe essere il leader del centro da lei ipotizzato?

«Se Berlusconi riuscisse a gestire una selezione dalla quale far emergere personalità per il futuro com’è avvenuto nel Pd con Renzi quand’era sindaco, avrebbe un merito storico».

Destra e sinistra sono categorie del Novecento: con che cosa vengono sostituite?

«Per il momento dalle teorie del complotto. Quando un soggetto politico non capisce immagina che il cattivo stia complottando contro di lui. È già accaduto nell’Ottocento quando i massoni attribuivano il complotto ai gesuiti e i cattolici lo rinfacciavano ai massoni. Ora la Cina e l’India crescono. I nuovi posti di lavoro vengono dall’economia della conoscenza, dalla forza del cervello e non dei muscoli. Quindi, o iniziamo a pagare i salari come i cinesi, oppure dobbiamo ricostruire una scuola nella quale lo studio sia una virtù e la mentalità della raccomandazione e del sussidio statale sia superata. I giovani non possono delegare lo Stato a costruire il loro futuro. Ma possono sperare in condizioni che li aiutino, famiglie forti e gruppi di amici in grado di affrontare le sfide del presente».

Una preoccupazione che non sfiora i nostri politici.

«Nel 1950 gli Stati Uniti detenevano il 50% del potere economico mondiale, oggi ne hanno poco più del 20%. L’Europa, che ne ha un altro 20%, non è abituata a difendere i suoi interessi nel mondo perché ha sempre delegato gli Usa. Se non impara a farlo, il Mediterraneo diventerà una polveriera. Ma noi abbiamo i sovranisti che dicono che l’Europa non serve».

Vuol dire che i sovranisti sono anacronistici?

«Sono come la Repubblica di Siena. Quando nascevano gli Stati nazionali, a Siena decisero di fare la Repubblica indipendente. Finì ovviamente in un bagno di sangue. Machiavelli che diceva che bisognava fare l’Italia rimase inascoltato».

Berlusconi sembra non sposare le teorie sovraniste.

«Berlusconi è uno dei pochi che ragionano, anche se non sempre bene. Capisce che l’Europa è l’unica via. Poi, però, gli servono i voti di Salvini. Io penso che bisognerebbe puntare sui tanti che non votano. La verità è che l’Europa va bene mentre l’Italia sbaglia perché priva di una vera classe dirigente».

Sull’immigrazione è l’Europa che sbaglia.

«Noi non siamo capaci di fare le espulsioni e i rimpatri. Gli altri Paesi non credono che mandiamo profughi veri. Una parte della nostra magistratura ritiene che tutti abbiano diritto di venire in Italia. Per fare le espulsioni servono gli accordi con i Paesi d’origine. I quali devono riprendersi gli immigrati illegali in cambio dell’aiuto a creare posti di lavoro. Per gestire l’immigrazione bisogna fare gli accordi con i Paesi del Nord Africa e con l’Europa. Gli albanesi oggi non sono un problema per l’Italia perché all’epoca Berlusconi fece un buon accordo con l’Albania».

Come prevede andranno le prossime elezioni?

«Spero servano a dare un buon governo all’Italia. E che si riesca a presentare una formazione di centrodestra orientata al Ppe».

Dopo un periodo di quiete è tornato a scrivere sul Papa per il sito Vatican Insider: che cosa l’ha smosso?

«Ritengo sbagliato opporre Giovanni Paolo II a papa Francesco. Penso che se Wojtyla fosse vivo mi direbbe: “Seguite il Papa”».

Marcello Pera ha criticato duramente il magistero di Bergoglio: che cosa pensa degli atei devoti?

«Li guardo con simpatia. Affermano di non credere in Gesù Cristo e nelle verità dogmatiche del cristianesimo, ma ritenendolo l’asse portante della nostra società temono che se crollasse sarebbe un guaio per tutti. Tuttavia, la Chiesa non esiste per difendere l’Occidente e i valori cristiani».

Prendendo del cristianesimo solo l’architettura civile e culturale la costruzione regge ugualmente?

«Forse all’inizio, ma dopo un po’ quei valori ammuffiscono. Inoltre, la fede genera vita anche nel resto del mondo. Oggi l’Occidente si restringe e la Chiesa cresce. Nei mondi emergenti, la Chiesa c’è. Cresce in Asia, in America latina e nell’Africa sotto il Sahara il cristianesimo ha vinto la lotta con l’islam. È giusto che, pur senza abbandonare l’Europa, il Papa non guardi al mondo con occhiali europei».

C’è chi dice che papa Francesco sia teologicamente debole.

«Lo dicevano anche i teologi greci dei papi latini. I quali guardavano il mondo anche con gli occhi dei germanici che si stavano convertendo».

La teologia può diventare una nuova ideologia, una specie di iteologia?

«Di tutto si può fare ideologia, anche delle cose giuste. L’ideologia è lo strumento del potere e contiene il rifiuto di capire la verità dell’altro. Anche l’altro ha un briciolo di verità e io devo riconoscerla».

Che idea si è fatto del ritiro di papa Ratzinger?

«Voleva riformare la curia, ma non ha trovato collaborazione. Ha tenuto una predica di fuoco denunciando gli errori e i vizi nei comportamenti della gerarchia. Si aspettava che il giorno dopo alcuni dessero le dimissioni e si rimettessero alla volontà del Papa per il bene della Chiesa. Non è accaduto, si è dimesso lui per dare l’esempio».

Il papa emerito Benedetto XVI (Franco Origlia/Getty Images)

Il papa emerito Benedetto XVI (Franco Origlia/Getty Images)

È davvero questo il motivo?

«Ha dato una lezione di libertà dal potere. Se il potere è servizio si deve essere anche liberi di rinunciarvi».

Niente pressioni esterne?

«Ratzinger ha un aspetto fisico fragile, ma un carattere di ferro. Lo conosco da 45 anni: non lo vedo cedere a pressioni».

Augusto Del Noce diceva che la sinistra sarebbe diventata un partito radicale di massa: si sta avverando questa profezia?

«È sotto gli occhi di tutti. La sinistra ha rinunciato alla difesa dei poveri e sposato la causa della distruzione della famiglia tradizionale».

La nuova ideologia dominante è un misto di politicamente corretto e nuovi diritti civili?

«È una società che resta sentimentale. E non compie il passaggio dalla ribellione alla riconciliazione perché vive in uno stato di adolescenza infinita. Si convive fino a quarant’anni e lo status di bamboccioni dura fino alla mezza età. Anche il revival dei gruppi musicali è sintomo di questa adolescenza prolungata».

I cattolici devono fare di questo terreno una priorità della loro azione? La filosofia dei valori non negoziabili non è superata?

«La strategia politica imperniata sui valori non negoziabili ha dato l’impressione che i valori negoziabili non contino. Invece sono importantissimi. Quando vado a votare vorrei farlo per una forza che mi garantisca sulla vita e sul matrimonio. Ma vorrei che mi garantisse anche sul fatto che mio figlio troverà un lavoro, che quando sarò vecchio avrò un’adeguata assistenza, che la mia pensione non andrà in fumo. L’idea per cui i cattolici si occupano dei valori non negoziabili e gli altri di quelli negoziabili è perdente».

Che cosa le dà speranza, oggi?

«Le racconto un fatto. Ai funerali di Kohl c’era un’atmosfera di vera commozione, con Jean Claude Junker, la Merkel e Macron che hanno pronunciato parole pesanti. Per l’Italia c’era solo il ministro Alfano. Spero che dopo le elezioni tedesche di fine settembre l’Italia riesca a essere protagonista nel grande progetto di rilancio dell’Europa dei popoli che verrà promosso dalla cancelliera tedesca e dal presidente francese. Molto dipende da Berlusconi e dal centro di cui anch’io faccio parte».

E sul piano personale cosa le dà speranza?

«I miei nipoti. Ogni volta che nasce un bambino la storia del mondo ricomincia da capo».

 

 

La Verità, 5 agosto 2017