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Nel grill di Calciomercato non si temono scottature

Ha sbagliato di poco Adriano Galliani quando, qualche giorno fa, ha pronosticato cambi in panchina per le prime quattro o cinque squadre di Serie A. Antonio Conte è rimasto a Napoli e Igor Tudor potrebbe resistere a Torino, sponda bianconera. Per il resto, più che un valzer, quella dei tecnici sembra una polka, ballo più veloce e rutilante. Perché dall’Inter all’Atalanta, dalla Fiorentina alla Lazio fino al Torino, per non parlare del Milan, l’unica società che ha già risolto, a suo modo, il problema, il domino degli allenatori è un rompicapo complicato e molto stimolante per gli analisti del calciomercato. Non bastasse, conseguentemente ma anche a prescindere, parecchie rose sono di giocatori sono da ricostruire o almeno da rivisitare in profondità. Sarà per tutto questo che nello studio itinerante e ben sponsorizzato di Calciomercato L’originale, la rubrica di seconda serata di Sky Sport in questi giorni in onda dalla Costa Smeralda, spira un’aria euforica di gag e giochini a volte incomprensibili. La contaminazione, come dicono quelli che la sanno lunga, fra notizie e leggerezza, fra lazzi e indiscrezioni, gag e analisi tecniche è sempre stata la cifra della squadra capeggiata da Alessandro Bonan e composta da Gianluca Di Marzio e Valerio Spinella alias Fayna, coadiuvati di volta in volta da più ospiti fissi, ex calciatori, giornalisti, allenatori, procuratori. Per i patiti del calcio estivo e del fantacalcio inteso nel senso del calcio futuribile più che del popolare gioco, il programma è un appuntamento fisso, forte anche della sua capacità di non prendersi troppo sul serio e di sfondare gli stretti confini degli addetti ai lavori. Magari abbozzando interviste sul filo del gossip, come quella accennata a Walter Zenga non è chiaro se per fare il verso ad altri programmi molto di moda o perché ci si crede davvero. Quest’anno, dunque, si profila una stagione particolarmente ricca perché ci sono da seguire le ricostruzioni delle due milanesi e il tentativo di recupero della Juventus, depressa dal rifiuto di due tecnici di prestigio come Conte e Gasperini, cosa che di certo non rallegra gli ambienti di Sky Sport e il suo direttore Federico Ferri. Detto ciò, l’ebbrezza di un’estate con tanta carne al fuoco alimenta il barbecue di Calciomercato L’originale anche se, a onor del vero, oggi i toni giocosi non sembrano i più adatti a un movimento calcistico che, sempre più dominato dalle leggi della finanza, alle quali risponde per esempio l’imminente Mondiale per club, appare sbilanciato verso una preoccupante implosione.

 

La Verità, 5 giugno 2027

«Spalletti è l’uomo giusto per la nostra Nazionale»

Pur avendo girato il globo e seguito nove Mondiali, Paolo Condò ama tornare alle origini. «La domenica sera», racconta, «vado sempre a vedere che cos’ha fatto la mia Triestina che adesso milita in Serie C. E anche se non so a memoria la formazione, quando scopro che ha vinto qualche endorfina si sveglia». Opinionista principe di Sky Sport ed editorialista di Repubblica, dal 2010 Condò è l’unico giornalista italiano presente nella giuria che assegna il Pallone d’oro, il premio organizzato dalla prestigiosa rivista France Football.

L’invasione araba è un evento positivo o negativo per l’Europa e l’Italia?

«Come tutti gli eventi, all’inizio non è facile da interpretare. Non sappiamo se essere contenti perché stanno affluendo soldi per colmare i buchi dei bilanci delle società o se, come avvenuto in passato, i nostri club ne creeranno altri di ancora più profondi. Un fatto simile è già accaduto quando la Premier league ha iniziato a prendere i nostri giocatori migliori, riempiendo di assegni i club, senza però che i loro bilanci migliorassero granché».

Per qualcuno è un’occasione di crescita per altri l’inizio della fine.

«In questi ultimi dieci anni l’Uefa ha imposto il fair play finanziario. Ma anche se società come il Manchester City o il Paris Saint-Germain hanno trovato i modi per dribblarlo, ci siamo accorti che applicando le regole si riesce a fermare la tendenza a indebitarsi e a salvare molti club. Come provocazione un po’ utopistica ho proposto che Uefa e Fifa insieme invitino due squadre della Saudi league a partecipare alla Champions, in cambio della loro adesione al fair play finanziario».

A che scopo?

«Di evitare che spendano senza limiti. Ricordiamoci che i Sauditi hanno un piede nei loro campionati e un altro in quelli europei, soprattutto in Premier league. Se possiedo una società in Europa che deve sottostare al fair play e un’altra in Arabia che non ha vincoli, come il Public investment fund (Pif ndr) proprietario del Newcastle e dell’Al-Nassr di Cristiano Ronaldo, posso spostare tutti i debiti nella seconda, creando una forte anomalia sistemica».

Considerando i contrasti tra Uefa e Fifa non c’è da essere ottimisti, ma in passato il calcio europeo ha retto alla scoperta del mercato americano e di quello cinese.

«C’è un precedente storico che risale al 1949, quando la Colombia cominciò a prendere giocatori del calibro di Alfredo Di Stefano senza che le squadre argentine potessero tutelarsi. In quei quattro anni il campionato colombiano divenne il più importante al mondo e solo quando la Colombia rientrò nella Fifa le cose si sistemarono. Più che la scoperta del calcio americano o cinese, che comunque seguivano regole comuni, ciò che sta accadendo oggi con l’Arabia ricorda l’El Dorado colombiano».

Quello arabo è determinato dalla sconfinata liquidità dei fondi?

«Che per di più non devono ottemperare al fair play finanziario. Mi auguro che l’invasione araba sia l’occasione per ridisegnarlo in modo restrittivo affinché anche le squadre-Stato come il Psg o il City non riescano a dribblarlo».

Firmando con l’Al-Hilal Neymar ha detto che ha sempre desiderato essere un «calciatore globale»: la frontiera araba esaspera questo processo?

«Lo estremizza. Oggi l’Europa rischia di diventare un continente produttore di giocatori sfruttato da altri come il Sudamerica. Fortunatamente credo che piazze come Madrid, Barcellona, Londra, Manchester, Monaco, Milano, Roma o Napoli troveranno risorse per resistere».

Cosa la fa essere così ottimista?

«Siamo specializzati nel prendere gli scarti dei campionati maggiori, raggiungendo comunque ottimi risultati. La finale Champions di quest’anno si è disputata tra un club che ha investito un miliardo di euro, e un club italiano costretto tutti gli anni a vendere il proprio uomo migliore per restare in equilibrio. In campo si è sempre 11 contro 11, e comprare i 25 giocatori più forti del mondo non sempre fa questa gran differenza».

È inevitabile che il tifo, riserva di appartenenza, contesti il calcio mercenario alla Neymar?

«I tifosi sono giustamente critici. Io la domenica sera guardo il risultato della mia Triestina… Neymar è un caso di scuola perché è un giocatore che, avendo dato la precedenza ai soldi, ha vinto meno di quanto facevano prevedere le sue grandi potenzialità. Solo andando al Psg sembrava aver fatto una scelta da campione, perché si era accorto che al Barcellona sarebbe sempre stato nell’ombra di Messi. Ma poi è arrivato Mbappé che è più forte di lui. Ora, anziché andare in Premier o venire più umilmente in Italia, si congeda dal calcio europeo senza aver lasciato il segno, e ripara in Arabia».

Una volta ci andavano i giocatori a fine carriera oggi ci va anche chi potrebbe essere ancora competitivo.

«Sfido a dire i nomi delle squadre che hanno preso Milinkovic-Savic, Koulibaly, Brozovic. Capisco la decisione di Cristiano Ronaldo a 37 anni, ma quella di tanti altri mi appare una scelta malinconica. Il nostro campionato è il più colpito dal vento d’Arabia perché, dopo un’esperienza modesta all’estero, giocatori come Koulibaly o Kessie avrebbero potuto tornarci».

Ieri Gianni Rivera ha compiuto 80 anni, l’esaltazione e l’attaccamento ai campioni appartiene alla sfera della nostalgia?

«No. Tuttora, non soltanto i campioni ma anche i giocatori normali, creano legami profondi. Il calcio trasmette emozioni. Sono le emozioni a far acquistare abbonamenti alle pay tv, comprare giornali e biglietti dello stadio. Le azioni dei giocatori hanno a che fare con l’aspetto eroico della vita perché loro sono i nostri eroi».

Un po’ meno se si pensa alla cessione di Tonali al Newcastle, al caso Lukaku o all’acquisto di Cuadrado da parte dell’Inter?

«Sono rimasto sorpreso quando la Juventus non ha rinnovato il contratto a Cuadrado perché lo ritenevo un giocatore con benzina nel serbatoio. Quando entra in area, i difensori devono stare attenti perché è uno che cerca il rigore… Ho trovato molto divertente che alcuni tifosi interisti abbiano detto: lo prendiamo, ma lo rieduchiamo. Succederà che Cuadrado continuerà a giocare con il suo stile e a procurarsi rigori generosi, ma i tifosi dell’Inter, esattamente come facevano quelli della Juve, vedranno un rigore solare. È l’automatismo del tifo. Che non è disonestà, ma una sorta di simpatica malattia».

Cosa pensa delle dimissioni di Roberto Mancini?

«Ci sono alcune cose che continuo a non capire. Personalmente, mi ha intristito che, pur avendo uno storico rapporto con lui, non mi abbia suggerito nessuna pista sulla quale lavorare, mentre mi congratulo con i colleghi che l’hanno avuta».

È stato giusto chiedere di togliere la clausola che prevedeva il licenziamento in caso di mancata qualificazione agli Europei?

«Direi di no. Ho sostenuto che fosse suo diritto rimanere Ct malgrado l’eliminazione dai Mondiali perché, per me, quella dell’Europeo 2021 è stata una vittoria fantastica, mentre quell’eliminazione è l’esito di una concomitanza di sfighe incredibili. Detto questo, dopo aver subito quel fallimento, non puoi trovare penalizzante una clausola che cessa il contratto se non riesci nuovamente a qualificarti per un grande evento. Sono convinto che in quel caso sarebbe stato lui per primo a dimettersi».

Il presidente della Figc Gabriele Gravina ha sbagliato a inserire Barzagli e Buffon e a ventilare l’innesto di Bonucci nello staff di Mancini?

«Trovo che Gravina abbia agito con leggerezza nella ristrutturazione dello staff. So che Mancini è abituato a lavorare con i suoi fedelissimi. Già la perdita di Gianluca Vialli, da sempre una sponda per lui, lo aveva molto provato. Quando è stato comunicato il nuovo staff, mi è sembrato strano che avesse accettato l’allontanamento di Lombardo, Evani e Nuciari. Non a caso qualcuno ha notato la sua assenza al momento della comunicazione del nuovo organico».

Che cosa pensa dell’operato di Gravina in tutto il suo mandato? C’è chi ne chiede le dimissioni.

«Trovo che abbia lavorato molto bene durante la pandemia. E che questo sia stato il problema più grosso durante i suoi mandati. Certo, ci sono diverse cose che non vanno, ma ricordo che all’epoca il ministro dello Sport Carmine Spadafora non mi dava affidamento. Perciò, continuo a dar credito a Gravina per l’operato di allora».

Spalletti è l’uomo giusto per la Nazionale?

«Sì, per definizione. Ha gli anni e la credibilità che gli deriva dalla vittoria di uno scudetto meraviglioso. Credo che farà molto bene».

Che cosa pensa del finale di partita tra Bonucci e la Juventus?

«Penso che si rovina una grande storia, la fine di un rapporto così lungo si gestisce e si concorda».

Bonucci non è uno da miti consigli?

«Ha fatto una carriera straordinaria, partecipando alla vittoria di otto scudetti consecutivi. Non si può andare in Paradiso a dispetto dei santi. Del Piero andò a giocare in Australia, Chiellini è andato nell’Mls, Buffon al Psg e poi al Parma».

Stasera lei sarà nello studio di Alessandro Bonan dopo gli anticipi della prima giornata: chi è il suo favorito per lo scudetto?

«Il Napoli. Quando si vince in quel modo il campionato precedente e si perde solo Kim e sì, anche Spalletti, è difficile che le altre azzerino il divario in una sola estate. Mettiamola così: Rudy Garcia è seduto sulla panchina più scomoda perché eredita una gran bella macchina e deve dimostrare di saperla tenere in pista».

Giovedì ci sarà il sorteggio delle coppe europee: che cosa augura alle nostre squadre?

«Si è detto che l’anno scorso sono state fortunate per i sorteggi favorevoli ma, pur riconoscendolo, va aggiunto che hanno fatto un ottimo lavoro. Le tre finali non devono essere considerate una vacanza fra i ricchi, ma un punto di ripartenza per restare nell’élite».

Al timone di Sky Champions Show cambia il pilota.

«Federica Masolin prende il testimone da Anna Billò che a sua volta l’ha ereditato da Ilaria D’Amico, due conduttrici che a loro modo hanno segnato un’epoca. Federica è il volto emergente di Sky e io sono pronto a sostenerla, anche perché è friulana e, da triestino, sarò suo complice».

Gli altri componenti sono tutti confermati, squadra che vince…

«Ci saranno Fabio Capello e Billy Costacurta e Cambiasso si alternerà con Di Canio e Del Piero. Sono orgoglioso di essere l’unico giornalista seduto a quel tavolo».

Il miglior giocatore del nostro campionato?

«Osimhen».

E il miglior italiano?

«Barella, per quello che ha fatto finora, e Chiesa, per quello che deve tornare a fare».

 

 La Verità, 19 agosto 2023 

 

Viva Wimbledon. Ma c’è telecronaca e telecronaca

Bisogna riconoscere a Sky Sport la capacità di fare del torneo di Wimbledon l’evento sportivo dell’estate. Operazione che, detto per inciso, non è riuscita alla Rai con i Mondiali di nuoto nei quali gli atleti italiani hanno battuto tutti i record di medaglie. Esempio: uno speciale sulla rinascita di Gregorio Paltrinieri non era fattibile? Si dirà, Sky ha tanti canali, la Rai uno solo (che per giunta, non si capisce perché, inibisce la funzione registrazione). Venerdì pomeriggio prima di trovare la semifinale del Settebello di pallanuoto è toccato fare zapping tra Rai sport, che trasmetteva la semifinale femminile dal trampolino di 3 metri (scomparsa dopo la terza serie di tuffi in favore della Nazionale femminile di calcio, nuovo totem mainstream) e Rai 2 (occupata dal Tour de France) fino a scovarla sorprendentemente su Rai 3, per fortuna ancora sullo zero a zero.

Si diceva dell’evento di Wimbledon. Quest’anno Sky ha introdotto lo studio volante (Eleonora Cottarelli) per dare ordine alla giornata, inviando all’All England Lawn Tennis and Croquet Club Stefano Meloccaro e Paolo Lorenzi per presentare i match, proporre profili e raccontare i tanti dietro le quinte. Poi ci sono le telecronache: Paolo Bertolucci con Elena Pero commentano le partite dei big sul centrale, Luca Boschetto, di solito con Laura Golarsa, racconta i match degli italiani, Fabio Tavelli aiuta a coprire la vasta offerta.

Ci sono le telecronache competenti e tattiche che spiegano gli errori nell’esecuzione dei colpi, utili anche al giocatore di club che voglia migliorarsi, e che si chiedono cosa deve fare il giocatore più debole per contrastare l’avversario. Gli esempi sono Piero Nicolodi e Diego Nargiso e soprattutto Pero-Bertolucci. È significativo che gli ex campioni scelgano un profilo basso (in qualche caso è basso anche il tono di voce). Ci sono le telecronache enfatiche, che invece alzano sia il profilo che la voce per esaltare la spettacolarità dei colpi. Infine, ci sono le telecronache inutilmente enciclopediche, che sfoderano valanghe di cifre, precedenti, classifiche, risultati di match in contemporanea di altri tornei… È tipico di chi vuole esibire conoscenze e si piace e compiace di quello che fa eccedendo nelle informazioni, creando un sottofondo poco ascoltabile che non sempre aiuta a capire l’evoluzione della partita. Anziché fare da contrappunto al fatto agonistico lo si copre di nozioni e pettegolezzi come accaduto durante la cronaca di Sinner-Isner quando, preso dalla foga, Boschetto è riuscito a dire che sono due cognomi «quasi acronimi». Neanche Sky Sport è perfetta.

 

La Verità, 3 luglio 2022

Calciomercato – L’originale enoteca con uso di cucina

Ormai anche i tifosi iniziano a svegliarsi. Archiviato lo scudetto del Milan e la coda della Nations League, competizione di dubbia necessità e sovente causa d’infortuni, siamo entrati a tutti gli effetti nell’estate del calciomercato. Saranno due mesi d’attesa della ripresa del campionato, quest’anno già a metà agosto per far spazio ai Mondiali qatarioti ai quali, com’è noto, assisteremo da spettatori (dis)interessati. Due mesi di attese di notizie di acquisti e vendite di calciatori da un club all’altro. Si diceva dei tifosi più smaliziati rispetto alla narrazione (pardon) dei troppi specialisti della materia. Il web pullula di nuovi e vecchi siti imperniati su trasferimenti imminenti, incombenti, prossimi, sicuri o molto presunti di allenatori, campioni, seconde e terze file. Un’estate fa, per dire, qualcuno vedeva Pep Guardiola già sulla panchina della Juventus. Esiste un gergo sempre più codificato che svela quanto la notizia sia consistente o un totale miraggio. Sono formule che i lettori hanno imparato a decodificare. Per esempio, il nome del calciatore preceduto dal sostantivo «idea» («Idea Suarez», «Idea De Paul») significa che siamo alla pura invenzione. Stesso grado di concretezza quando l’identità del giocatore è preceduta dal sostantivo «suggestione». Anche «Piace» («Piace Koulibaly», «Piace Lewandoski») descrive un’incursione nell’anticamera delle ipotesi, remote o remotissime. I quotidiani, soprattutto quelli specializzati, devono pur vendere in assenza di eventi, perciò il segreto è creare il tormentone anche dal nulla, sicuri che dirigenti e manager non perderanno tempo a smentire notizie fantomatiche. Lo stesso si deve dire per i tanti talk show che pullulano nei palinsesti tv, tra i quali il più attendibile è Calciomercato – L’originale (tutte le sere su Sky Sport), condotto da Alessandro Bonan con la complicità di Gianluca Di Marzio e Valerio Spinella (alias Fayna) e la partecipazione di vari ospiti. Detto che Di Marzio è il più informato e concreto tra i calciomercatisti in circolazione e che Fayna alimenta il gossip con video e social, il programma di Sky è un talk sportivo con uso di cazzeggio come certe enoteche «con uso di cucina». Tuttavia, anche L’originale ha le sue pause, i suoi rallentamenti, le sue maniere patinate. Graffiate da qualche imprevisto, come l’irruzione di Silvio Baldini, mister del Palermo neopromosso in B, proclamatosi fieramente estraneo all’ipocrisia che regna nel calcio. Cosicché, giocando su normalità e follia, Bonan gli ha dedicato Je so’ pazzo di Pino Daniele… Sempre per cazzeggiare, ovviamente. E ingannare l’attesa della notizia.

 

La Verità, 15 giugno 2022

Telecalcio senza pace, Sky spera nella sublicenza

Il telecalcio è ancora in subbuglio. A oltre un mese dall’inizio del campionato, sebbene in misura minore, i problemi di ricezione del segnale di Dazn persistono. Inoltre, non sono stati risolti quelli che riguardano il metodo di rilevazione degli ascolti della piattaforma streaming titolare dei diritti della Serie A. Servono dati più attendibili che le ricerche Nielsen non sono in grado di garantire. Il caso è approdato in Parlamento e d’ora in avanti l’Agcom (Autorità per le garanzie della comunicazione) avrà maggiori compiti di controllo sulla qualità del servizio agli utenti e sul sistema di monitoraggio dell’audience. Il risultato finale potrebbe essere la stipula di un contratto di sub-licenza a Sky (o ad altri operatori) come accaduto nelle scorse stagioni e come accade tuttora per la trasmissione nei locali pubblici. Si tratterebbe di riproporre la sinergia. Ma finora a questa ipotesi Dazn si è fermamente opposta perché sarebbe l’ammissione di un fallimento. Per il pubblico televisivo e per molti addetti ai lavori, giornalisti e commentatori sportivi, si tratterebbe invece di un complicato ricalcolo di scelte appena fatte.

Persi i diritti della Serie A, Sky Sport si è completamente ridisegnata. Ed è di tutta evidenza che non stia attraversando un momento di forma smagliante. In realtà, come tutta Sky Italia. Il bilancio 2020 ha registrato perdite per 690 milioni, ripianate da un assegno di 1,34 miliardi staccato dalla controllante Sky Italian Holdings Spa. L’anno del Covid ha lasciato cicatrici anche sulle pareti levigate della prestigiosa sede di Santa Giulia, causando una riduzione degli abbonamenti oltre che degli introiti pubblicitari.

A risentirne è tutta l’offerta. I canali di cinema si difendono con alcune pellicole Sky Original e con una produzione seriale d’intonazione più generalista rispetto agli anni d’oro, quando la pay tv operava sul mercato in splendida solitudine. Dopo Netflix sono arrivate Prime video, Disney+, Apple tv, TimVision e le altre sorelle. E la concorrenza si è fatta più agguerrita che mai. Ma se è vero che c’è gloria per tutti e che Comcast ha replicato con il lancio del portentoso SkyQ che riproduce i segnali di alcune piattaforme concorrenti, è anche vero che in tempi di pandemia una fetta crescente di utenti ha dovuto fare scelte al risparmio. A compensare in parte il momento difficile c’è da dire che sul fronte della produzione cinematografica, paradossalmente, alcuni marchi Ott (Over the top) hanno tratto vantaggio dal lockdown, sopravanzando la visione nelle sale.

Dove invece Sky soffre di più è proprio nell’offerta sportiva, la vetrina del negozio. Lo sport si esalta nella diretta, negli eventi e le grandi competizioni. Dopo gli Europei di calcio, trasmessi anche dalla Rai, il marchio di Santa Giulia è rimasto escluso dalle Olimpiadi (Rai e Eurosport) e dalla Serie A (con l’eccezione di tre match a giornata in co-esclusiva con Dazn). Mentre continua ad avere la Champions League (con alcune eccezioni, visibili su Mediaset e Prime video). Così, quest’estate abbiamo assistito all’ennesimo restyling dei canali che ha portato a una certa sovraesposizione degli sport motoristici e alla comparsa di discipline finora snobbate, dall’atletica leggera al baseball, dalla International swimming league al calcio a cinque. Altra conseguenza della perdita dei diritti è stato l’esodo di alcuni giornalisti e commentatori passati alla concorrenza. Il primo, clamoroso, è stato quello di Lele Adani, protagonista di memorabili contrasti di tattica calcistica con Massimiliano Allegri, al punto che qualcuno l’ha messo in relazione al ritorno dell’allenatore livornese sulla panchina della Juventus. In realtà, il contratto in scadenza di Adani non è stato rinnovato. Il suo partner abituale di telecronache, Riccardo Trevisani, è invece approdato a Mediaset. Marco Cattaneo si è accasato a Dazn, mentre Alessandro Alciato è passato a Prime video, non prima di essersi polemicamente congedato con un post su Facebook: «Fra Sky Sport e Sky Sport 24 ho avuto direttori con la lettera maiuscola: Giovanni Bruno, Massimo Corcione e Fiorenzo Pompei, le mie stelle polari. Poi Fabio Guadagnini, Fabio Caressa, Matteo Marani (se lo cerchi sul dizionario dei sinonimi lo trovi alla <q> di qualità), Giuseppe De Bellis. Sono stati loro i miei direttori. Nelle riunioni e nelle chat di lavoro parlavano di concetti altissimi, non di Sabrina Salerno». Il riferimento implicito è all’attuale responsabile, Federico Ferri.

Con tutte queste perdite, in caso di sub-licenza, è difficile pensare che Sky possa recuperare in fretta l’autorevolezza e il tocco magico che ha sempre vantato. A prima vista, i nuovi ingressi non sembrano all’altezza della tradizione. Antonio Conte non è il più televisivo degli allenatori e, nei panni dell’opinionista della Champions League, dove non ha mai conseguito riusltati esaltanti, appare fuori ruolo. L’altro innesto che sta facendo discutere è quello della splendida Melissa Satta al Club della domenica sera, il talk di calcio che se la tira da più competente dell’etere. Nell’ultima puntata il conduttore Fabio Caressa ha ammiccato: «Non ti offendere, non voglio essere sessista, ma qui stiamo tutti aspettando il momento del Senza giacca». Ovvero quando gli ospiti si esprimono a ruota libera. Per l’occasione, Satta indossava un body trasparente che copriva appena l’indispensabile. La sua avvenenza è solare ma, catapultata in un consesso tutto maschile, la scivolata lubrica è sempre in agguato. Come lo è la sua riduzione a presenza decorativa davanti alle considerazioni tattiche di Beppe Bergomi e Marco Bucciantini. Ma queste sono cose di un direttore di 10 canali tv è certamente a conoscenza. E, come un buon allenatore, saprà di sicuro come intervenire per correggere i troppi giocatori fuori ruolo della squadra. Buona visione.

 

La Verità, 22 settembre 2021

Buffa ci racconta Gigi Riva, Bartleby del calcio

Raccontacela ancora, Federico. Federico è Federico Buffa e la storia di Gigi Riva la conoscevamo già. Certamente non così, con i tanti dettagli che ci svela in Gigi Riva, l’uomo che nacque due volte (Sky Sport e on demand, il primo di due episodi). Non a caso il suo è un format e la narrazione è il linguaggio che si sposa con il desiderio di cullarci fin da bambini, tanto più ora che il calcio e lo sport in genere ci sembrano ostaggi del business. Chiamiamola pure nostalgia o vittoria dei sentimenti, senza ipocrisie. Ma saper raccontare è un fatto di toni, di sentimenti e di dettagli e ora Buffa ha trovato equilibrio, senza più eccedere in erudizioni o feticismi da addetti ai lavori un po’ fanatici. La fascinazione è dosata dagli aneddoti, la favola dalla circostanza. Come l’ambientazione sulle terre d’acqua, il lago Maggiore e il mare di Cagliari, delle due nascite del più grande attaccante che il calcio italiano abbia avuto. E come l’infanzia in collegio dai preti, tre anni difficili per il ragazzo Luigi, troppo presto orfano di padre e a 16 anni anche di madre. O come la telefonata della sorella Fausta a Roberto Boninsegna, all’epoca compagno di squadra e di camera in ritiro, l’unico che resisteva alle sigarette e agli orari, entrambi eccessivi per un calciatore. Insomma, una telefonata rivelatrice di chi era il fratello. Gigi e Roberto avevano litigato per un mancato passaggio ed erano volate parole più grosse del solito. Allora, la sera della domenica, mentre erano a cena, la Fausta aveva telefonato al ristorante e si era fatta passare Boninsegna, per spiegare i segreti del fratello: ribelle, introverso e avvolto in silenzi invalicabili che nascondevano uno spirito profondo e sensibile. Chissà se erano tratti segnati da quell’infanzia solitaria, dalla povertà e dal lavoro precoce in fabbrica, compensati solo dalle gioie dei gol già nei primi tornei estivi, poi al Laveno e al Legnano che, nell’intervallo di Italia-Spagna juniores disputata al Flaminio di Roma, lo vendette al Cagliari di Andrea Arrica, più lesto di altri patròn che si palesarono solo a fine partita, a cessione avvenuta. O come quell’uomo che da allora in poi, lo aspettava sempre alla fine di ogni partita con un gettone in mano: «Telefoniamo a Giampiero?». Giampiero era Boniperti, amministratore delegato della Juventus. Ma lui scuoteva il capoccione e ribadiva il suo no, come un Bartleby del calcio. Scegliendo di restare fedele alla terra (e all’acqua) della sua seconda nascita, schiva e leale come lui.

 

La Verità, 17 dicembre 2019

Il mondo di Boban: calcio, viaggi notturni, libri e fede

Una mia intervista a Zvonimir Boban del dicembre 2014 per Style, il magazine del Giornale. All’epoca Boban era uno dei «talent» di Sky Sport, «il più severo opinionista di calcio della televisione italiana», prima di diventare vicesegretario generale della Fifa presieduta da Gianni Infantino, e di essere chiamato da Paolo Maldini e Ivan Gazidis a ricoprire l’incarico di Chief Football Officer del Milan. Forse sarà un’intervista un po’ datata, ma c’erano già i viaggi notturni in auto da Zagabria a Milano e un’idea abbastanza delineata di futuro: «Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà…». Poi parlava dei suoi cinque figli, dell’amore per i libri e della sua formazione cristiana. Una chiacchierata per capire il tipo… Raro nel calcio di oggi. E non solo.

 

Zvonimir Boban arriva in jeans e chiodo nero vissuto. Ha sulle spalle 630 chilometri di autostrada, ma la cera è buona. «Sono cinque ore di guida, non mi pesano», sorride. Di lì a poco andrà in onda per commentare il posticipo di Serie A su Sky Sport Uno. Solitamente riparte la mattina dopo, sempre in macchina – «Non c’è un aereo comodo, devi andare a Malpensa, fare il check-in…». Stavolta, causa impegno di famiglia, partirà appena finito il post-partita con Ilaria d’Amico, Giorgio Porrà, Luca Marchegiani e Massimo Mauro. Altri 630 chilometri, di notte. Nella reception di Sky ogni due metri lo ferma qualche ragazzo per una foto con lo smartphone. Lui sorride e si presta. Ma per parlare ci rifugiamo nella sala longue dove, in una domenica di partite a raffica, si vedono quelle del pomeriggio.

Zvone Boban è il più severo opinionista di calcio della televisione italiana. Il più imprevedibile, diverso da tutti. Non è severo per motivi di natura tecnica, per lo stop impreciso o la diagonale fatta male. Il suo è un rigore particolare. «Prima di tutto è una libertà che mi è permessa qui dentro», dice. «Poi deriva dal fatto che non c’è tempo da perdere anche nel dare opinioni. Infine è una questione di sincerità, l’ambizione di dire sempre quello che si pensa. Credo che questi dovrebbero essere i pilastri del giornalismo. Non voglio usare parole grosse, ma credo che su queste cose si dovrebbe basare non solo il giornalismo, ma la nostra vita e anche la nostra società. Il giornalismo forte schietto maturo ci può migliorare. È quello che ho imparato quando sono stato, per quattro anni, amministratore delegato di un quotidiano sportivo in Croazia». Si potrebbe tradurre sinteticamente come guerra alla banalità. Ai luoghi comuni. Qualcuno osserva che Boban è ipercritico e non gli va bene niente. Che: tolti Pelé Maradona e Ronaldo sono tutti brocchi. «Non è vero… Desidero solo elogiare il bel gioco. Ma si ricordano più facilmente le critiche. Nel giornalismo televisivo ci sono troppi superlativi. L’errore più frequente è dispensare patenti di fuoriclasse. Non è una critica dire che invece uno è un ottimo giocatore».

Piedi per terra, realismo, niente iperboli, Boban va dritto per dritto. Il calcio di oggi è preda di «un processo di hollywoodizzazione. Basta vedere questi ragazzi. Tatuaggi, tagli di capelli improbabili, quelle recite dopo un gol. Roba da popstar. Non è neanche colpa loro. Sono più vittime che protagonisti. Ma dovrebbero saperlo le persone che gli stanno attorno. Il calcio è un riflesso della società in cui viviamo, la cultura del selfie. Lo sport non riesce a isolarsi. Le società hanno perso carisma e autorità. L’ingranaggio è spietato: allenamento, partita, interviste. Non è facile orientarsi, non si pensa troppo, non si riflette su se stessi. Anche ai miei tempi si viveva su un piedistallo, in una dimensione surreale. Poi, a carriera finita, ogni giorno è un piccolo dramma per rientrare e raggiungere gli altri nella realtà. Credo sia un buon lavoro far capire che lo sport ha dei contenuti. Che si può imparare il rispetto degli altri, la cultura della solidarietà e del sacrificio».

La vita di campo non gli manca. Ha fatto il corso da allenatore, ma non ci crede più di tanto. «Ho una famiglia numerosa, cinque figli, non posso isolarmi dalla vita che ho creato. Il calcio resta sempre il mio mondo. Rimarrò tutta la vita Boban il calciatore e ne vado orgoglioso. Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà… però mi piace quello che faccio, mi piace il giornalismo. Quando ci sono eventi importanti come i mondiali scrivo su Sportske Novosti,  la Gazzetta dello sport croata. Anziché parlare con i giornalisti, scrivo direttamente io. E mi diverto».

La verità è che Zvone Boban è troppo. Ha troppi interessi, troppe passioni per limitarsi al calcio. Era ancora trequartista del Milan quando s’iscrisse alla facoltà di storia dell’Università di Zagabria. Sosteneva gli esami senza frequentare. Appesi gli scarpini si è laureato e ha preso il dottorato. Da un po’ di tempo segue letteratura comparata. «Amo i libri. Ogni libro migliora il mondo. Come si fa a stare senza libri? Leggo perché “so di non sapere”. Ho cominciato da ragazzino. Un mio zio mi regalò Il Gabbiano Jonathan Livingstone. Poi Il piccolo principe, Siddhartha», sorride. «Poi ho letto i russi, i francesi, gli italiani… E via così… Oggi sto leggendo un libro su Venezia di Predrag Matvejevic che ti porta in una dimensione diversa di questa magnifica città… Linguaggio semplice, caldo, pieno di una Venezia sorprendente».

Sulle televisioni scorrono le immagini dei match delle 18: «Bel gol», s’interrompe. «Guarda come ha colpito il pallone, ha voltato il piede perché la palla non scappasse verso l’alto… Un po’ come si fa nel tennis, quando si colpisce in top spin». A differenza di molti suoi ex colleghi, che terminata l’attività agonistica si sono dedicati al golf, Boban pratica il tennis. «Per il golf ci vuole troppo tempo, intere giornate. A me piace sudare, lottare. Il tennis è uno sport straordinario, l’esatto contrario del calcio. Devi farcela da solo, devi reggere la pressione psicologica. E poi c’è tutto: tecnica, tattica, atletica, concentrazione, autocontrollo. Sì, in Croazia e in Serbia ci sono tanti campioni. Abbiamo la testa giusta e una certa capacità di soffrire. Tutto è cominciato da Ivanisevic. Cilic, Djokovic, la Ivanovic dimostrano lo straordinario talento dei popoli della ex Jugoslavia… Adesso sta esplodendo Coric. Ma non c’è una vera scuola tennistica slava. Sono tutti progetti familiari. Abbiamo fame, siamo disposti ad andar via di casa, ad allenarci tanto, vivere in albergo. È una vita separata, quasi ascetica».

Calcio, giornalismo, letteratura, tennis, la famiglia. Come fai a tenere insieme tutto? «Dormo poco, vado a letto alle tre di notte, anche dopo. Era così anche quando giocavo, più o meno…». Parliamo dei tuoi cinque figli, quattro adottati. «Io e mia moglie abbiamo cominciato presto. La più grande adesso ha 19 anni. Poi abbiamo preso un maschietto e poi due gemelli, un maschio e una femmina. Infine è arrivata una figlia naturale. Ma nell’educazione la biologia non ha alcuna influenza». A proposito di educazione, che cosa vorresti prendessero da te? «La nostra formazione cristiana ci porta a dare molta importanza ai figli ed è giusto. Ma loro prima di essere figli sono esseri umani che diventeranno persone autonome. Perciò ci vuole equilibrio. Vorremmo che ci amassero di più. Ma non possiamo pretendere che ci amino come li amiamo noi. Noi genitori siamo solo delle piattaforme per la realizzazione dei loro bisogni. Che cosa vorrei trasmettere loro? Questa passione per la vita. La voglia di essere buoni, di avere rispetto, di non essere egoisti. Di lasciare una buona traccia in questo mondo. Ci riempiamo di tante cose e non lavoriamo su noi stessi, sulla nostra crescita interiore. Stiamo perdendo la cultura cristiana dalla quale veniamo. Spero che i miei figli prendano questa strada. Che non significa dematerializzarsi. Spero che sappiano costruirsi un futuro dignitoso». Tua moglie che cosa dice di tutto questo? Non protesta che vieni a Milano tutte le domeniche? «Mia moglie Leonarda si occupa dei ragazzi. Ha un locale con altre amiche. Ma sta molto a casa. No, non mi crea alcun problema per le mie attività. Ci siamo incontrati da ragazzi, in un’epoca in cui i ruoli erano un po’ più chiari… Mi piace giocare una specie di tressette ed esco spesso. Per noi è normale. E poi dopo il “carcere calcistico”, mi sembra giusto. Quando rimango a casa guardiamo qualche film con i bimbi». E poi? «Loro a letto e io a leggere…».

Style, magazine del Giornale, dicembre 2014

La Champions League da tifosa di Ilaria D’Amico

Una gaffe al giorno toglie Ilaria D’Amico di torno? Se lo augurano i tifosi del Napoli che da tempo contestano la conduttrice più glamour di Sky Sport, compagna di Gianluigi Buffon. Decideranno i vertici della tv satellitare, ma è difficile immaginare una rimozione a furor di popolo. L’ultimo episodio che ha rinfocolato le polemiche è avvenuto mercoledì sera, nel prepartita di Ajax-Juventus quando, in collegamento con Gianluca Di Marzio da Amsterdam, riferendosi ai tifosi olandesi, la conduttrice ha parlato di una vigilia «con un approccio quasi partenopeo, con “triccheballacche” e fuochi d’artificio per disturbare il sonno degli avversari». Le proteste hanno inondato i siti sportivi e i social network. Si trattasse di una querelle relativa alla sola rivalità tra Juventus e Napoli, basterebbero le scuse e un atteggiamento più sorvegliato della conduttrice. In realtà, il dubbio è che certe scivolate, se così vogliamo considerarle, derivino dalla montante partigianeria della conduttrice. Sempre mercoledì, per esempio, dopo la partita con l’Ajax, ella si è complimentata con Massimiliano Allegri per un fallo subito da Douglas Costa, non enfatizzato: «Li state tirando su troppo onesti! Troppo onesti! State diventando europei…», ha vellicato. Dal canto suo, il tecnico ha rincarato: «Si deve crescere anche in questo, tutti puliti non si gioca a calcio…».

Evidentemente, nella filosofia juventina, il calcio dev’essere qualcosa di sporco, come la politica. Sia di qua che di là, tifoserie e schieramenti dettano legge a nervi scoperti e un aggettivo sbagliato o una frase colorita scatenano tempeste mediatiche. Da qualche tempo la D’Amico ha gettato la maschera. Mutatis mutandi, un po’ come Lilli Gruber non perde occasione per bastonare il governo in carica. Purtroppo, l’ultima stagione della bella Ilaria è lastricata di svarioni e tendenziosità. Martedì, per esempio, commentando il gol di Heung-min Son, ha chiosato: «Con tutto il rispetto per Son che, ricordiamolo, non viene da un Paese democratico…», confondendo la Corea del Sud, patria del calciatore, con quella del Nord. Andando indietro, fino ad Atletico Madrid-Juventus, si trova un’altra perla: «La cosa brutta per il ritorno è che a loro non frega niente di giocare male…». Quella volta ci aveva pensato Fabio Capello correggerla in diretta: «Ma noo, non è vero… Non sono d’accordo con quello che dici». Anche con Andrea Pirlo c’era stato un siparietto: «Che ne pensi tu che hai giocato la finale con la Juve?». E lui: «Veramente le ho giocate anche col Milan e le ho vinte». La faziosità fa perdere anche la memoria…

La Verità, 12 aprile 2019

Bertolucci: «Perché non avrei allenato Federer»

Lei aveva un braccio come quello di Fabio Fognini? «Direi che il suo è più veloce. Ma è difficile fare paragoni con quarant’anni fa perché oggi sono cambiati i materiali, le racchette, le palle. E questo, com’è avvenuto in tutti gli sport, ha portato anche il tennis a una versione più violenta e fisica, causa di un maggiore stress mentale». Incontro Paolo Bertolucci il giorno dopo il match in cui Fognini, genio e volubilità, ha annichilito Andy Murray, numero uno del mondo, con una lezione di ricami e fendenti, palle corte e accelerazioni folgoranti. Bertolucci lo chiamavano Braccio d’oro per la facilità a mettere la palla dove voleva con traiettorie chirurgiche, tanto più utili in doppio, quando il campo si restringe. In coppia con Adriano Panatta hanno battuto Vitas Gerulaitis e John McEnroe, Peter McNamara e Paul McNamee quand’erano al vertice del ranking, e i mitici australiani John Newcombe e Tony Roche. Nel 1976 con Panatta, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, Braccio d’oro vinse la Coppa Davis contro il Cile di Augusto Pinochet. Nel recente quarantennale si è ricordata quella contrastata trasferta con tanto d’interrogazioni parlamentari e di magliette rosse indossate durante il match. Bertolucci ha conquistato successi anche in singolo, fino a sfiorare l’ingresso nella top ten. Da commissario tecnico della Nazionale, nel 1998 raggiunse un’altra finale di Davis, persa a Milano contro la Svezia. Ora vive a Verona, ma al posto della racchetta impugna il microfono di commentatore per Sky. L’altra sera, durante il match di Fognini, Pasta kid, altro nomignolo affibbiatogli dal giornalista Bud Collins per giocare sulla sua passione per la buona cucina, ha accennato a qualche chilo di troppo del tennista italiano.

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Paolo Bertolucci con Pietrangeli, Panatta e Barazzutti al ritorno dal Cile

Il paragone è inevitabile: anche per lei il peso era un problema.

«Per me era un problema costante. Per Fognini è stato un ostacolo nel 2016 quando, dopo un infortunio, era cresciuto di quattro chili. Lui ha qualità fisiche eccezionali e una mobilità che non ha nulla da invidiare ai migliori del circuito».

La verità è che voi non vi allenavate. Almeno non quanto avrebbe voluto Mario Belardinelli.

«Non ci fosse stato lui l’avremmo fatto molto meno. In quell’epoca, quando non si parlava quasi di preparazione fisica, fummo pionieri. Il centro di Formia era all’avanguardia, venivano dall’estero per copiarci. Si collaborava con le federazioni di altre discipline. Con i pesisti trascorrevamo ore in palestra, guadagnando forza ma perdendo esplosività. Con i mezzofondisti avevamo un gran fiato, ma poca velocità. Con gli ostacolisti trovammo la strada maestra».

Avreste potuto vincere molto di più: rimpianti?

«Se avessimo avuto un maggiore know how avremmo trovato subito la strada giusta».

Ma un cruccio, una cosa rimasta sul gozzo?

«Forse avremmo potuto vincere un’altra Coppa Davis. Abbiamo disputato quattro finali, tutte fuori casa. Ma quella del 1976 rimane tuttora l’unica. L’avventura di quattro ragazzi cresciuti insieme, il cui sogno era prima indossare la maglia azzurra, poi passare un turno, poi arrivare in finale…».

Un altro rimpianto, forse, non aver allenato Roger Federer?

«Una decina d’anni fa ero entrato in una rosa di possibili candidati. Poi lui fece altre scelte. E anch’io le avevo fatte. Non è un rimpianto perché non fui mai direttamente contattato. Comunque, a malincuore, avrei declinato. Ritenevo che il mio tempo d’allenatore fosse passato».

Con Panatta vi sentite ancora? Vivete anche vicini, lui a Treviso lei a Verona.

«Certo. Lui mi copia sempre. Sebbene dicesse di non amare i toscani ne sposò una e si trasferì a Forte dei Marmi. Quando sono andato a vivere a Verona, dopo un po’ anche lui è venuto in Veneto».

Come mai Verona?

«Questioni di cuore. E poi si sta da Dio, si mangia e si vive bene. C’è cultura, spettacolo, qualità della vita. È comoda per chi come me va spesso a Milano. E la montagna è vicina».

Con Panatta ok. E con Barazzutti?

«Nessun rapporto e non so perché. Quando una volta gli feci i complimenti per una vittoria in Federation Cup (la Coppa Davis femminile, ndr) mi disse: “Se non mi saluti più mi fai un favore”. Da allora silenzio, ma dormo bene lo stesso».

Vi capiterà d’incrociarvi ai tornei.

«Anche nelle occasioni del quarantennale della vittoria in Davis organizzate dalla Federazione ci siamo ignorati. Sky Sport aveva realizzato uno speciale, ma io e Adriano eravamo a Milano, mentre Barazzutti e Zugarelli sono rimasti a Roma».

Come si spiega questo gelo?

«Fatico a spiegarmelo. Forse ha a che fare con la scelta per la presidenza della Federazione per la quale preferimmo candidati diversi. Mi sembra una cosa assurda».

Zugarelli è sparito dai radar?

«Credo lavori in un circolo di Roma. È molto riservato».

Si fa mai prendere dalla nostalgia?

«No, sono stagioni bellissime. A 32 o 33 anni, quando si smette, si ha tutta la vita davanti. Ho fatto il tecnico delle giovanili, poi della Nazionale di Davis. Quando mi hanno proposto di commentare le partite l’idea mi è piaciuta. Scrivo anche commenti per La Gazzetta dello sport. Mi piace parlare dell’unica cosa della quale ho una certa conoscenza. Ho sempre detestato i tuttologi».

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Gianni Clerici si dice annoiato dal tennis moderno

Di recente, in un’intervista alla Verità, Gianni Clerici ha confidato che il tennis moderno lo annoia perché dominato dai materiali e da racchette troppo potenti. Cosa ne pensa?

«Clerici è un maestro della provocazione. Si annoiava anche ai miei tempi, quando c’erano Jimmy Arias e José Higueras. In ogni epoca ci sono giocatori spettacolari e carismatici. Ma sono tre o quattro, mentre i tabelloni si fanno con 64 giocatori e anche quelli che non hanno il braccio d’oro, possiedono doti mentali e fisiche per raggiungere le prime posizioni. Non nasceranno nuovi Rafa Nadal o Roger Federer, ma altri giocatori che prenderanno il testimone da questi. Il tennis evolve perché si gioca in tutto il mondo. Magari i prossimi numeri uno arriveranno dalla Nuova Zelanda o dal Marocco».

Clerici auspica il ritorno alle racchette di legno: lei che viene da quell’epoca cosa ne pensa?

«Come si può tornare alle racchette di legno? Qualcuno ipotizza il ritorno al salto con l’asta in bambù? O al ciclismo con le biciclette di Fausto Coppi e Gino Bartali? Il mondo va avanti, cambiano gli attrezzi e i materiali. Cambiano i metodi di allenamento e l’alimentazione. Ai miei tempi mangiavamo filetto e insalata, la pasta era proibita, e dopo due ore eravamo sotto il sole a correre. Oggi si fa il contrario».

Se si riguardano i match di trent’anni fa sembra che i giocatori camminino, lo stesso avviene con le vecchie partite di calcio.

«Trent’anni fa un giocatore di un metro e 85 era un atleta alto e prestante. Oggi Alexander Zverev e Juan Martin Del Potro sono 1 metro e 98 e si muovono come quelli di 1 metro e 80. È così dovunque: nel basket uno di due metri fa il play maker, una volta era il pivot».

Premesso che il tennis è lo sport individuale più completo ed esigente, c’è vita oltre il tennis?

«I giocatori di oggi non hanno molto tempo. Sono circondati dall’allenatore, dal manager, dal fisioterapista, a volte dall’addetto stampa e dall’accordatore. Vivono in team. C’è una certa esasperazione, devono stare sul pezzo 24 ore al giorno. Anche perché ci sono in ballo tanti soldi e in pochi anni possono risolvere i propri problemi e quelli dei propri figli».

E per lei c’è vita oltre il tennis?

«Certo. L’impegno come commentatore televisivo mi assorbe per 15 settimane all’anno. Poi mi dedico a tutt’altro».

Per esempio?

«Amo e seguo molto l’arte contemporanea. La famiglia della mia compagna è proprietaria del Byblos Art Hotel, fuori Verona, premiato come miglior albergo d’Europa di arte contemporanea. Appena posso viaggio, visito le mostre, conosco le vite degli artisti. Anche quando giocavo cercavo di superare il monopolio che il tennis avrebbe voluto avere sulla mia vita. Ma all’epoca si poteva».

Segue la politica?

«La seguo, ma non mi ha mai interessato direttamente. Vivo con apprensione questo momento sempre più complicato. Se non avessi gli affetti in Italia sarei andato altrove. Non perché qui si stia male, ma per aumentare le mie conoscenze».

Keith Haring. Bertolucci ama l'arte contemporanea

Keith Haring. Bertolucci ha visitato la sua mostra a Milano

Legge?

«Quando giocavo portavo sempre in valigia un libro di Wilbur Smith. Anche la Settimana enigmistica non mancava mai nelle lunghe trasferte. Ora, confesso, leggo un po’ meno, ma appena posso vado a qualche mostra. A Palazzo Reale a Milano ho da poco visto quella di Keith Haring. Mi piacciono Basquiat, Anish Kapoor, andrò alla Biennale».

Perché i giocatori italiani sono raramente all’altezza del loro talento?

«È una questione di mentalità. Il tennis è uno sport globalizzato, per 40 settimane all’anno i giocatori girano il mondo. Servono impegno, determinazione, volontà. Noi italiani abbiamo ancora un approccio tra il provinciale e l’artigianale».

È soprattutto carenza di determinazione?

«Certi ventenni stranieri sembrano più maturi dei nostri trentenni. Anche nel calcio ci sono i Cassano e i Balotelli».

Quando un nostro giocatore tornerà nella top ten come ai tempi di Nicola Pietrangeli e Panatta?

«Ci vogliono tempo, maestri e il circolo virtuoso giusti».

E quando un italiano scriverà un libro come Open di Agassi?

«Beh, anche lui è stato molto aiutato dal premio Pulitzer J. R. Moehringer».

Chi è il più grande di sempre?

«Roger Federer, senza dubbio. Lo dicono tutti i giocatori del presente e del passato. Ma tutto il tennis continua a emozionarmi. Resto ammaliato quando vedo certi colpi perché conosco le difficoltà che comportano. Pochi giorni fa ho intervistato Nadal a Montecarlo: ero come un bambino a Disneyland».

Con Miracolo a Leicester, RaiSport cambia passo

Qualcosa si muove dalle parti di Viale Mazzini. E qualche piccola novità cominciamo a vederla anche noi telespettatori. Senza aspettare i palinsesti d’autunno e le procedure ingessate della tv pubblica. Ieri sera, senza preavviso, Raitre ha trasmesso Miracolo a Leicester, uno speciale di RaiSport sulla conquista della Premier League ad opera della squadra allenata da Claudio Ranieri. Erano le 20 e qualcosa e, a un certo punto, dopo i primi servizi dei tg, lo zapping si è fermato sulla faccia del nuovo idolo degli amanti del gioco più bello del mondo che intervistava Vardy, il suo centravanti.

La città in festa per la prima conquista della Premier League

La città in festa per la prima conquista della Premier League

Il trionfo dell’outsider, la rivincita della normalità (in alternativa alla “specialità” di Mourinho, nemico storico), il riscatto dei perdenti: le formule si sprecano a proposito della sorprendente vittoria del Leicester e del suo condottiero. Donatella Scarnati e Gianni Rizzo hanno scelto di parafrasare il titolo di un film di Vittorio De Sica, nel quale “buongiorno vuol dire davvero buongiorno”, per raccontare la “favola del Leicester”, altro gettonatissimo titolo di questi giorni. Sì, l’intervista a Ranieri era stata realizzata prima del pareggio tra Chelsea e Tottenham che ha consegnato matematicamente la Premier alla sua squadra. Però, poco importa. Anzi, proprio questo ha consentito a RaiSport di bruciare la concorrenza. Solo stasera Sky Sport, che avendo l’esclusiva del campionato inglese ha trasmesso l’intera cavalcata del Leicester, trasmetterà un’intervista esclusiva certamente più completa al nuovo mago del calcio mondiale. Ma per certi avvenimenti dal forte contenuto emotivo il tempo conta più della completezza. Il web che brucia la carta stampata insegna.

Lo speciale di RaiSport ha raccontato il clima della città, lo stato di grazia di un ambiente galvanizzato dall’arrivo dell’allenatore-papà capace di trasformare in campioni giocatori dal passato anonimo, il ruolo del presidente thailandese che per il suo compleanno offre birra e ciambelle ai tifosi, la festa dei giocatori dopo l’ufficialità della vittoria, il risalto dell’impresa nei media internazionali…

Dopo lo scoop della famosa intervista del Tg1 a Francesco Totti che aveva irritato i vertici Sky, sotto la guida del nuovo direttore Gabriele Romagnoli, chiamato da Campo Dall’Orto con il compito di rinnovare il racconto degli avvenimenti sportivi, Donatella Scarnati ha messo a segno un altro colpo. Qualcosa si muove dalle parti di Saxa Rubra. E ancor più si muoverà se andrà in porto la trattativa con Totti e Ilary Blasi per accompagnare con la loro partecipazione i prossimi Europei di calcio, dal 10 giugno in onda su Raidue.