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«Gli chef in tv uccidono la cucina tradizionale»

Bettoliere. Si definisce così, Arrigo Cipriani, con quel grado di attenuazione che è proprio dei grandi. Nonostante le 87 primavere vanta una forma invidiabile: lucidità, schiettezza, carisma. Messaggia su WhatsApp, prende voli intercontinentali, guida sportivamente una Mercedes Amg. Eppure ha già deciso la frase per la lapide: «Sto da Dio». L’ultimo libro, il tredicesimo, scritto con Edoardo Pittalis del Gazzettino e il figlio, Gian Nicola, intitolato Tutti gli chef sono in tv… e noi andiamo in trattoria (Biblioteca dei Leoni) è un programma di vita. L’appuntamento è all’Harry’s Bar, la famosa «stanza» 4 metri e mezzo per nove, in Calle Vallaresso, San Marco (Venezia): «Se prende la linea uno, ferma proprio davanti».

In cravatta e doppiopetto, mi guida a uno dei tavoli rotondi circondati da poltroncine in legno e cuoio. «Nel 2001 questo locale è stato promosso monumento nazionale dal ministero dei Beni culturali come testimonianza del Novecento italiano. L’ha fondato mio padre Giuseppe nel 1931, io sono nato l’anno dopo e lo dirigo da 65 anni. Nel 1960 abbiamo aperto una sala al primo piano, ora abbiamo 80 dipendenti, di cui 15 cuochi». Quand’era barman all’hotel Europa, papà Cipriani prestò diecimila lire a un giovane cliente americano perché potesse pagare il conto e tornare a casa. Due anni dopo, quel cliente ritornò in Italia per restituire il dovuto e, con l’aggiunta di 30.000 lire, aprire un bar in società. Si chiamava Harry Pickering e quella stanza era un magazzino di cordami. Nacque così l’impero odierno: 27 attività in diversi continenti, tremila dipendenti, 300 milioni di fatturato, cinque ristoranti a New York, altri a Los Angeles, Miami, Città del Messico, Montecarlo, Ibiza, Londra, Hong Kong, Dubai, più la coltivazione intensiva del carciofo violetto all’isola di Torcello… «Vede gli arredi? Le proporzioni tra la persona seduta e il soffitto, il legno e il marmo, le luci e l’acustica: è tutto studiato. Zero imposizioni: lo scopo è la semplicità».

Una semplicità complessa.

«Nei miei libri la chiamo proprio così».

Merito di qualche architetto?

«Non ho molta stima degli architetti. È il nostro stile, qui il cliente deve stare meglio che a casa».

Perché non le piace il fatto che gli chef vadano in televisione?

«Perché mettono in scena qualcosa che va contro la libertà. Sono dei narcisi che impongono uno spettacolo al quale il cliente deve assistere come un devoto. Invece, dev’essere il principe: se non c’è lui possiamo andare tutti a spasso».

Senza i clienti si chiude.

«Il lusso sono le persone. Questi chef non seguono la cucina italiana. Siamo un Paese ricco di tradizioni nella letteratura, nell’arte, nell’architettura. La cucina nasce da qui. L’anima dell’uomo si trasmette attraverso la cultura. La cucina è cultura. Se va alla Pinacoteca di Brera, sotto i quadri di Giovanni Bellini e di Vittore Carpaccio trova la storia del nostro cocktail e del nostro piatto di carne affettata ispirati alla loro pittura. Ma non l’ho voluto io».

Che cos’è il narcisismo degli chef?

«Il ristorante si identifica con loro, invece per me è un insieme di componenti. Lo chef conta, ma se diventa il tutto finisce per imporre il suo ego. Qualche giorno fa mi è capitato di assistere a una scena in un importante ristorante. Un cliente voleva del formaggio; “No, l’ho già messo io”, ha replicato lo chef. “Mi scusi, vorrei del formaggio”, ha ribadito il cliente. Alla fine, quello l’ha fatto aggiungere manifestando tutto il suo disprezzo. Il cliente dev’essere un allievo obbediente».

Nei menu le descrizioni dei piatti devono essere decodificate.

«Vede? Il cliente è un allievo a scuola».

Come sintetizzerebbe le qualità dell’Harry’s Bar?

«Assenza di imposizioni. Accoglienza nella cucina e nel servizio. Per questo preferisco le trattorie, che sono il posto dove si conservano le tradizioni e l’accoglienza dell’oste. Vede i nostri bicchieri? Noi non abbiamo calici. Per bere si compie un gesto semplice, non si fa ginnastica».

Uno dei suoi ultimi libri s’intitola Elogio dell’accoglienza. Cosa pensa del «tortellino dell’accoglienza» inventato dall’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi, che ha proposto di sostituire il ripieno di maiale con quello di pollo per facilitare la devozione dei musulmani a San Petronio, patrono cittadino?

«Mi sembra una grande stupidaggine, un segno lampante di quanto poco i cattolici, specialmente certe gerarchie, capiscano le altre fedi monoteistiche. Mi sembra anche una manifestazione supponente. Non è la diversa visione gastronomica che concorre a dividere i fedeli. Qualche giorno fa, ho visitato il nostro ristorante di Ryiad dove mi piacerebbe invitare monsignor Zuppi perché possa capire che l’accoglienza è un valore immateriale, difficile da comprendere solo da chi pensa che le differenze religiose abbiano motivazioni… suine».

Gli chef sono tutti uomini, ma le ricette le hanno inventate le nonne e le hanno tramandate le mamme. La cucina della tradizione è femminista?

«Gli chef sono uomini perché è un lavoro pesante, bisogna sollevare le pentole, ci sono 50 gradi… La cucina della tradizione è nata prima dell’invenzione del frigorifero, quando i cibi venivano affumicati, salati e conservati nelle cantine. In cucina comandavano le donne e si mangiavano la trippa, il fegato alla veneziana, il baccalà, lo spezzatino. Era un modo di mangiare legato ai bisogni primari del dopoguerra».

Invece la nouvelle cuisine viene dalla cultura dell’immagine?

«Dalla rivoluzione del Sessantotto che ha fatto morire la tradizione. In America quella rivoluzione è finita subito, qui l’abbiamo ancora in casa».

Nel libro scrive che «dalle cucine degli anni Settanta sono usciti molti pittori e scultori, ma pochissimi cuochi».

«Se guarda con attenzione un piatto della nouvelle cuisine si accorgerà che la forma è talmente curata da sembrare un piatto morto. Non a caso si parla di impiattamento: pietanze che sembrano sculture. Infatti, non propongono mai un piatto caldo perché è difficile da comporre e può creare problemi estetici».

I critici gastronomici sbagliano a penalizzare la cucina tradizionale o la ricerca fa crescere l’industria del cibo?

«La maggior parte dei critici gastronomici segue la moda. Chi propone una vera cucina tradizionale non è interessato a stare sui giornali, ma ad avere clienti che tornino per la qualità del menu».

L’innovazione non serve?

«L’innovazione è far bene la tradizione. Ci sono talmente tanti dettagli che il gusto è sempre migliorabile, perfezionabile. Adesso tutti adoperano la curcuma e le spezie e non si capisce che cosa c’entrino con noi».

Cosa favorisce l’invasione della telecucina?

«L’audience e il mercato. Tutto è cambiato con Masterchef, un programma che viene registrato in una settimana, inventato da Gordon Ramsay, uno chef che ha visto fallire molti suoi ristoranti».

Perché ce l’ha con i francesi e chiama «guida dei copertoni francesi» la Guida Michelin?

«Qualche anno fa, un mio cliente, il ministro della Cultura francese Rennaud Donnedieu de Vabres mi invitò a una cena al ministero, c’erano 200 persone. A un certo punto si alzò: “Questa cena è in onore di Arrigo Cipriani”. I francesi sono grandi intenditori di cibo e di vini, non ce l’ho con loro. Ma mi chiedo perché noi italiani dobbiamo copiarne la cucina. E anche perché dobbiamo copiare gli americani nella robotizzazione del servizio».

Robotizzazione del servizio?

«Se telefona all’Excelsior si sente rispondere: “Grazie per aver chiamato l’Excelsior, sono Francesco, in che cosa posso esserle utile?”. Un robot, un disco. Le persone dicono: “Buongiorno, come sta?”».

Perché ce l’ha con le guide?

«Perché vogliono teleguidare i clienti. Lei va in un locale perché lo dice la guida o perché glielo consiglia un amico?».

Perché i suoi locali non sono stellati?

«Perché non voglio entrare in una classifica lontana dalla cucina italiana. La stessa cosa vale per quella dell’Espresso o del Gambero rosso. L’unica classifica che mi interessa è quella stilata dai miei clienti».

Non è un po’ drastico dire «se volete mangiare bene spegnete la tv»?

«Trovo che molti di questi programmi siano fatti da dilettanti che s’improvvisano cuochi. Io sono qui da 65 anni, i piatti della nostra cucina li so fare, ma li lascio cucinare ai nostri cuochi che sono più bravi».

Negli anni Cinquanta e Sessanta la tv ha insegnato a mangiare.

«C’era uno come Mario Soldati, con la sua cultura e la sua genuinità».

Chi potrebbe essere il Soldati di oggi?

«Forse uno come Philippe Daverio, un critico d’arte, non gastronomico».

È merito della tv il boom degli istituti alberghieri?

«Certo, ma è un’ondata che sta rallentando, tanti ragazzi si cancellano. Ogni anno paghiamo tre borse di studio perché altrettanti studenti possano fare degli stage nei nostri ristoranti. C’è stato un boom enorme d’iscrizioni, poi è iniziata la ritirata. Si comincia a capire che è una vita faticosa e che spesso si ha un’idea romanzata della vita dei cuochi».

È anche per questo che molti tra i più famosi cadono in depressione e si suicidano?

«Anche. Molti hanno successo, ma non hanno cultura e mancano dei fondamenti. Qualcuno si accorge che è tutta una grande finzione».

Parlando di cultura, Ernest Hemingway frequentava la vostra locanda di Torcello e l’Harry’s Bar, meta di scrittori e artisti non solo durante la Mostra del cinema. Mi regala un aneddoto?

«L’altro giorno c’era Jeff Bezos, è un continuo via vai. Montale era una persona straordinaria che mangiava malissimo. A un certo punto si era affezionato, ma voleva un tavolo nascosto. Un altro così è Woody Allen, mangia incurvato, da solo. Una sera si è alzato e si è diretto verso la signora di un tavolo vicino: “Per cortesia, signora, può smetterla di fissarmi?”. Poi è tornato a sedersi».

 

 La Verità, 6 ottobre, 2019

 

«Senza borghesia, la letteratura è piatta»

Dall’ottavo piano della sua casa in Piazza Loreto a Milano, Ferruccio Parazzoli scruta il paesaggio della letteratura contemporanea. «Un panorama piatto, omologato, che esprime una narrativa dai tetti in giù, per citare Honoré de Balzac». Ci ha scritto una serie di interventi sulla rivista Vita e pensiero che, raccolti ora in Apologia del rischio dell’omonima editrice, sono andati a comporre una riflessione sistematica sullo stato delle cose. 83 anni, occhi e pensiero guizzanti, grazie alla sua esperienza di scrittore e direttore editoriale, Parazzoli è la memoria storica della letteratura non solo italiana. Ha diretto gli Oscar Mondadori, è stato consulente del Saggiatore e di altri marchi. È entrato nella cinquina del Premio Strega (l’anno in cui vinse Primo Levi) e del Campiello. Autore innervato nella metropoli, ha sempre rifiutato l’etichetta di scrittore cattolico, seguendo solo il corso dell’ispirazione. Ha frequentato i grandi della seconda metà del Novecento, da Mario Soldati a Pier Paolo Pasolini, da Guido Piovene a Giovanni Testori, fino al cardinale Carlo Maria Martini.

Si attende una sua densa autobiografia.

«Qualche nota l’ho già stesa, ma credo interessi nessuno. Scrivo per me stesso».

La sua esperienza arricchirebbe lettori, scrittori, editori; non pubblicarla sarebbe un’omissione.

«Ci penserò».

Tanto più che i suoi libri non si trovano.

«Bisogna andare in biblioteca o su Amazon. Ogni settimana in libreria arriva un’ondata che sommerge quella precedente. I libri stanno un po’ sul banco delle novità, si spostano negli scaffali, spariscono».

A eccezione di quelli di successo.

«Quelli dei giornalisti che fanno gli scrittori».

Pier Paolo Pasolini. Per Parazzoli aveva capito che un fallimento vale più di tante mezze figure

Pier Paolo Pasolini. Per Parazzoli aveva capito che un fallimento vale più di tante piccole glorie

Di cui lei è stanco. Libri intrisi di minimalismo e di «inquietudini da tinello», scrive.

«Sono stanco della quotidianità povera di sentimenti e di ricerca. È una chiacchiera continua. Sociale, sentimentale. L’amante che se n’è andato… Qualche volta spunta una scheggia di drammaticità, ma sempre legata alla cronaca».

Come Pier Paolo Pasolini che scrive ad Alberto Moravia, anche lei non ha più voglia di giocare?

«Vorrei che il gioco fosse serio come una roulette russa. Senza appello, senza risparmio, e che si fosse disposti al rischio. La roulette russa accetta la sfida per arrivare al proiettile d’argento, quello che una volta si chiamava capolavoro. Finora la pistola ha fatto clic. Pasolini l’aveva capito: cercare il capolavoro significa avere la forza di affrontare il fallimento. Che può valere più di mille piccole glorie».

Anche la roulette russa è un gioco, come la scopa o la canasta in cui si attardano i nostri scrittori.

«Però è vera, non è un gioco di società. Come il Monopoli in cui si finge di conquistare il mondo».

La nostra letteratura non ha urgenze vere?

«Sembra non averne. Dominano certi rimpianti ombelicali, mal di pancia passeggeri. Ma non è colpa degli scrittori. La colpa, semmai, è adeguarsi alla società in cui viviamo».

Per rompere questa routine lei invita a fare la prova del metro: me la spiega?

«Quando scrissi Mm rossa ebbe un certo successo. Avevo visto sventrare la città per costruire la linea 1 del metro. Il metro è diverso dal tram o dall’autobus perché sei nel sottosuolo e fuori c’è il buio. Allora non sei distratto dagli alberi e i negozi. E nei volti del tuo prossimo puoi vedere la serenità, la stanchezza, il sonno, la preoccupazione… Se poi, per un guasto il treno si ferma, cadono le maschere e affiorano le domande profonde. Queste facce sono mille storie, mille personaggi».

Una delle cause dell’appiattimento della nostra letteratura è che la cronaca ha sostituito la tragedia?

«Nella tragedia si chiede che Dio faccia giustizia. Fin dagli dei greci è così. Oggi la cronaca è imperante: cronaca politica, nera, di costume, sociale, sindacale».

Perché è un fatto negativo?

«La cronaca è la defecazione della società, ciò che la società espelle. È l’oggi che non dura niente. Domani i giornali raccontano già un’altra storia. Viviamo in una società che scavalca continuamente sé stessa. Come diceva Rossella O’ Hara di Via col vento, domani è un altro giorno».

Quanta responsabilità ha la televisione?

«Tanta. Capisco quei poveracci che devono coprire 24 ore al giorno… Le conseguenze si vedono principalmente nell’impoverimento del linguaggio. Se tu sei uno come quelli dei talk show, un vip o un mezzo vip, parli come loro. Il linguaggio medio influenza quello della letteratura, che invece è tutta un’altra cosa. Da Lilli Gruber c’è sempre uno scrittore. Gran parte dei libri di successo sono di giornalisti e opinionisti. Siccome dicono cose che sappiamo già, ci sentiamo intelligenti. Invece, il vero scrittore è colui che mette in crisi il lettore, gli pone delle domande».

Che cos’è la narrativa unidimensionale?

«La narrativa senza verticalità. Che non è solo ricerca del trascendente, ma anche capacità di calarsi nel profondo. Come facevano Fëdor Dostoevskij o Arthur Rimbaud».

Scrive che «nel nichilismo esistenziale c’è l’estrema ricerca del senso della vita».

«Si risale quando si tocca il fondo. Dostoevskij è sceso nel sottosuolo come giocatore, malato, adultero. Poi è nato l’autore dei Fratelli Karamazov e dei Demoni. Se non si accetta il rischio, che può essere scandalo e fallimento, tutto è artificiale».

Invece il nichilismo debole?

«È diverso da quello esistenziale e da quello forte di Nietzsche. È il nichilismo di massa di quest’epoca rassegnata, sprofondata, convinta che non ci sia più nulla per cui lottare, in cui credere e sperare».

Qual è la causa?

«Una è la distruzione delle classi sociali. Sarò criticato per questo. La classe operaia è andata in paradiso, ma anche la borghesia è scomparsa. La borghesia dettava e manteneva vivo il pensiero della società. Oggi c’è attenzione solo per i poveri e i ricchi».

Ci sono anche i «ceti medi riflessivi»…

«I ceti medi riflessivi non sono la borghesia. Sono un’espressione sociale. La borghesia aveva un’identità culturale, fatta di contenuti etici e anche ideologici, perché no, che esprimevano un modo di essere e di vivere».

La narrativa piatta può essere anche una questione generazionale? La sua generazione ha vissuto la guerra, quella dopo ha vissuto le ideologie. Gli scrittori che vanno in classifica oggi sono figli della televisione e della tecnologia.

«Non abbiamo più né la guerra né le ideologie. Certo, in Siria c’è la guerra. Ma per noi, qui, è una notizia del telegiornale, una rappresentazione cui, fortunatamente assistiamo mentre continuiamo a mangiare la minestra. La guerra del Novecento era un rullo che ti scuoteva nel profondo. Finita la guerra uscirono i più grandi romanzi».

Adesso sono morte anche le ideologie.

«Continuano a ripeterlo, ballando sui cadaveri. Ma se ogni passione è spenta la politica si riduce a tecnica del compromesso. Sono vissuto in un tempo in cui chi credeva in Dio non poteva barattarlo con niente. E i marxisti non indietreggiavano. Era quello che Camus chiama il “qualcosa per cui vale la pena di…”».

La letteratura che funzione aveva?

«Gli scrittori erano opinion leader, non i conduttori dei talk show. Soldati, Piovene, Testori, Pasolini, Parise, Moravia scrivevano sulla grande stampa. Tracciavano la rotta. Quando uscivano i loro libri non ci si chiedeva se avrebbero venduto o no. E vendevano. Un borghese mediamente colto non poteva ignorare Le furie, Ragazzi di vita… La società liquida è indifferente e gli scrittori sono voci lontane».

Giovanni testori. Negli anni Settanta sulla grande stampa scrivevano intellettuali come lui

Giovanni Testori. Negli anni ’70 sui quotidiani scriveva gente come lui, non conduttori tv

Niente eccezioni: Aldo Busi, Walter Siti, qualcun altro?

«Magari ci sono, non posso escluderlo. Aldo Busi è stato uno scrittore di rivolta quando pubblicò Seminario sulla gioventù. Ci ha provato, poi ha continuato a rappresentare sé stesso. Anche Walter Siti mi pare omologato. Temo che lo siano tutti, in modo più o meno sciatto».

Dobbiamo sperare nei cosiddetti scrittori cattolici?

«Per fortuna non esistono. Come non esistono gli scrittori marxisti. La letteratura cattolica ci fu in Francia con Peguy, Bernanos, Claudel. In Italia c’è stato un brutto adeguamento. Chi sono i nostri scrittori cattolici? Pomilio? Testori? Mah. Non si può fare propaganda della propria religione».

La Chiesa ha qualche responsabilità se la letteratura è a una dimensione?

«La Chiesa ha sempre privilegiato l’arte figurativa alla letteratura. L’influenza degli scrittori sulla società turbava le gerarchie perché non erano controllabili. Lo si è visto con il modernismo. Così si è creato un muro tra Chiesa e pensiero laico che in pochi, tra cui il cardinal Martini, hanno provato a sgretolare».

Il suo La nudità e la spada fu uno dei primi, ora c’è la moda dei romanzi ucronici sulle sorti del cristianesimo: di che cosa è indice?

«Esiste ancora un limitato campo di pensiero cristiano nella società laica. Questo pensiero è inquieto riguardo al futuro della Chiesa. Alcuni ritengono che sia troppo istituzionale, troppo basata sulle gerarchie. Personalmente credo il contrario: che la Chiesa si sia retta proprio su questa solidità istituzionale».

Il sociologo Sabino Acquaviva diceva che la Chiesa ha perso il senso del mistero: concorda?

«L’idea del mistero si è persa, vogliamo capire e possedere tutto. Si dice che deve andare incontro, ma se per andar incontro perde tutti i suoi bagagli rischia di arrivare nuda. Tranne il Papa, nessuno parla più della dottrina cristiana».

Ma quello di Francesco non è un magistero troppo orizzontale?

«Non voglio giudicare. Forse abbiamo perso l’idea del Papa come vicario di Cristo in terra. A volte Bergoglio trasmette più la sua umanità che il suo ruolo. Ho capito che Cristo era uomo. Però diceva chiaro chi era lui. Tanto che l’hanno messo in croce».

La Verità, 1 aprile 2018