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«Dopo Renzi pubblicherei il libro di Salvini»

«Io e mio padre eravamo molto diversi. Lui un’intellettuale con tratti geniali, io un manager con interessi di economia. Lui sempre vissuto in Italia, io molto all’estero. Lui sedentario, io sportivo. Concordavamo su cosa fare, non su come farlo. Ci confrontavamo animatamente». 52 anni, un passato da dirigente in Lehman Brothers, figlio del primo matrimonio di Cesare De Michelis, gran giocatore di bridge e praticante di triathlon, fatica pura, da un decennio Luca De Michelis è amministratore delegato di Marsilio editori. Dal padre ha preso la lungimiranza operativa, la facilità nei rapporti e la predisposizione a lavorare in squadra. Marsilio ha chiuso il 2018 registrando 8 milioni di fatturato, ma grazie all’accordo con Feltrinelli voluto da Luca, il bilancio 2019 migliorerà notevolmente. Da un anno l’editrice è nella nuova sede, più moderna e ariosa, all’imbocco del Canale della Giudecca, dove sfilano yacht e vaporetti. Cesare De Michelis è morto il 10 agosto scorso a Cortina d’Ampezzo.

Che cosa le manca di più di suo padre?

«Forse la generosità, la più sottaciuta tra le sue tante doti. Quando discutevamo su come fare una cosa, spesso io concludevo: “Se vuoi farlo così, fallo tu”. Allora lui concludeva: “No, fallo tu”. Si tirava da parte, mostrando generosità verso Marsilio e la sua storia, oltre che verso di me. Mi mancano questo confronto, le sue intuizioni geniali, certi guizzi irreplicabili. Dopo aver a lungo ascoltato, quando ho capito che volevo fare l’editore, ho anche capito che non potevo farlo come lui, intellettuale e fondatore che incarna il marchio. Insieme a Cesare abbiamo immaginato come sarebbe stata Marsilio senza di lui».

Con più gioco di squadra?

«In un certo senso sì, anche se qualche volta decido da solo. Il rapporto con Emanuela (Bassetti, seconda moglie di Cesare De Michelis ndr) e il suo aiuto quotidiano sono fondamentali. Eravamo preparati a questa perdita e oggi seguiamo un percorso tracciato e condiviso».

Nel quale l’insegnamento di suo padre – «un editore non fa i libri che si vendono, ma vende i libri che si fanno» – è la stella polare?

«È un mantra che continua a guidare il nostro lavoro».

Vuol dire che non si parte dal mercato, ma lo si determina?

«Noi crediamo che la domanda di cultura sia sostanzialmente una domanda di identità. Un’identità che si crea sia per somma che per differenza. Chi siamo e a cosa apparteniamo ci diversifica da altre persone e da altre comunità».

Concretamente, parlando di libri?

«In Italia si legge poco, ma i festival sono pieni. Le mostre sono affollate, ma le stesse opere sparse non destano analoga curiosità. Questo significa che sono gli eventi a creare appartenenza. Credo che un editore moderno debba saper trasmettere questo senso di comunità. Per farlo, prima di tutto un’identità deve averla».

E Marsilio…

«Prova a essere uno specchio intelligente del tempo presente. Prova a costruire la casa un mattone alla volta, attraverso il dialogo tra gli autori, aprendo spazi di discussione. Più che inseguire i bestsellers c’interessa che ogni autore si esprima al massimo delle sue potenzialità».

In che cosa il mercato del libro deve cambiare?

«Migliaia di case editrici producono decine di migliaia di libri. Questa ricchezza è sintomo di vitalità, ma genera un intasamento in cui è difficile distinguere le cose buone da quelle meno buone. Da economista penso che l’eccessiva frammentazione non faccia bene. Qualche anno fa c’erano 8000 case editrici, oggi sono meno, ma temo sempre troppe».

Suo padre diceva che «se i piccoli restano piccoli è perché sono malati».

«L’orgoglio del “piccolo è bello” non gli piaceva. Premesso che l’identità è fondamentale, non sempre la microidentità è un valore. Anche le imprese culturali non sfuggono alla regola per la quale, per guidare il cambiamento, serve una dimensione minima. Credo che una selezione darwiniana sarà inevitabile. Si perderà una certa pluralità ma, da liberale, sono convinto che il mercato sia il sistema più affidabile e democratico».

Bisogna crescere per non morire?

«Nel Novecento il mercato era determinato dalle aree geografiche. Editoria e media erano un sistema integrato, chi pubblicava libri stampava anche giornali e viceversa. Oggi l’accesso al pubblico è definito dal canale prescelto. Con l’avvento di Internet, l’editore è diventato un’infrastruttura, come la telefonia e le autostrade. Basta guardare a ciò che sta avvenendo nel sistema audiovisivo con Netflix o al declino della carta stampata. Nell’editoria il processo è più lento perché il libro è una tecnologia con applicazioni diversificate. Ma anche qui il processo è avviato».

Dov’è più visibile?

«Pensi alle enciclopedie e ai dizionari, il cosiddetto reference. Da quando c’è Wikipedia nessuno è più disposto a pagare per conoscere il significato di un vocabolo. L’Enciclopedia britannica ha chiuso».

Perché gli italiani leggono meno di altri popoli?

«Abbiamo una diversa cultura del commuting (pendolarismo ndr) rispetto, per esempio, al mondo anglosassone. Preferiamo raggiungere il posto di lavoro in auto, in Gran Bretagna si usano più treni e metropolitane. Non so quanto, ma credo che questo incida. La seconda motivazione è storico-culturale. Fino a 60 anni fa in Italia il tasso di analfabetismo era elevato; quando è arrivata l’alfabetizzazione è arrivata anche la televisione. Infine, il sistema scolastico ha le sue responsabilità».

A che cosa si deve il vostro incremento di vendite del 65% nei primi mesi del 2019?

«In gran parte all’ottima resa dell’accordo stipulato un anno e mezzo fa con Feltrinelli. Dopo la perdita di Cesare, con l’aiuto di Emanuela Bassetti abbiamo definito le linee dei singoli settori grazie agli innesti di Ottavio Di Brizzi per la saggistica e di Chiara Valerio per la narrativa italiana, e al lavoro di Francesca Varotto per la letteratura straniera, di Rossella Martignoni per l’editoria d’arte e di Jacopo De Michelis per i gialli. La piattaforma di Feltrinelli ha permesso che questa squadra rendesse al meglio».

È sbagliato dire che avete respinto Mondadori per finire in braccio a Feltrinelli?

«Mondadori ha scelto di cedere Marsilio e Bompiani dopo un provvedimento dell’Antitrust. A quel punto abbiamo riacquisito Marsilio e abbiamo trovato un altro partner che ci consente di perseguire il nostro progetto; progetto sul quale, questo partner, ha ritenuto a sua volta d’investire».

Nel 2020 scenderete al 40% delle azioni e Feltrinelli salirà al 55: timori?

«No, perché c’è grande complementarità. L’identità di Marsilio è un valore per noi e per loro. Non vedo pericoli di omologazione, siamo stati 16 anni in Rcs rafforzando la nostra identità».

Quanto incide il fatto di essere una casa editrice con sede a Venezia?

«Venezia offre opportunità che altri luoghi non consentono. Basta pensare a quello che succede qui nel mondo dell’arte. O alla presenza della Biennale e di tutti gli enti pubblici e privati, dall’università al museo Peggy Guggenheim, promotori di eventi di risonanza mondiale. Tutto questo fermento crea le condizioni per lo sviluppo di un polo editoriale eccentrico rispetto a quello milanese. Venezia, capitale di cultura internazionale è un patrimonio da coltivare con sempre maggior convinzione».

Un grande editore è più un manager attento al marketing, un uomo di rapporti, un talent scout o un organizzatore visionario?

«Io m’impegno come caposquadra per dare coerenza al gruppo di intelligenze e di talenti che lavora con me. Costruendo e consolidando il patrimonio di relazioni e il rapporto con il territorio. La funzione del manager è principalmente risolvere i problemi quando si presentano. Anche se ai miei collaboratori non piace tantissimo quando dico che non esistono problemi, ma solo opportunità».

Che idea si è fatto del caso Altaforte-Salone del libro?

«Penso che sia stata una polemica sciocca. E che una volta di più avrebbe dovuto valere la famosa massima di Voltaire. Credo che la libertà di espressione sia irrinunciabile soprattutto per un Salone del libro. Detto questo, la polemica è stata uno spot pubblicitario, senza con questo intendere che sia stata cercata».

Oggi ripubblicherebbe Il sesso in confessionale, il primo saggio che nel 1973 superò le 100.000 copie e vi diede notorietà internazionale?

«Oggi sarebbe datato. Tendenzialmente sono favorevole alle pubblicazioni che rompano la cultura del politically correct invisa al grande pubblico. Ma mi sembra che quel tipo di editoria provocatoria che allora era un valore, abbia perso un po’ di mordente».

C’è un libro che avrebbe voluto pubblicare e non ci è riuscito?

«Non stravedo per la figura dell’editore predatorio. Al contrario sono molto felice quando pubblico un libro di cui non condivido nulla. Credo che il lavoro di editore sia anche dare voce a posizioni che meritano di essere rappresentate anche se non ti appartengono».

Quindi, dopo il libro di Matteo Renzi, pubblicherebbe anche un libro di o con Matteo Salvini?

«Certo, lo pubblicherei a patto che non fosse un testo di propaganda e di slogan, come sono spesso quelli firmati da esponenti politici. Un libro nel quale Salvini illustrasse in modo compiuto la sua visione politica lo pubblicherei senza puzza sotto il naso. Aiuterebbe a capire di più il nostro tempo».

Altri libri che vorrebbe avere in catalogo?

«Mi sarebbe piaciuto essere l’editore della saga di Harry Potter, più per divertimento che per altro. Mentre non sarei stato interessato a quella delle varie sfumature colorate. Trovare il bestseller è anche fortuna, ma la si può aiutare, com’è accaduto con i gialli di Stieg Larsson».

A differenza di suo padre che ha giurato a Stefano Lorenzetto di non averla, lei ce l’ha la psiche?

«Probabilmente sì, quello di mio padre era un paradosso. Ce l’aveva anche lui, la psiche. Come dimostra la sua predilezione per certi autori, che non rivelerò».

 

La Verità, 16 giugno 2019

«La decrescita è felice per chi sta già bene»

Un imprenditore prestato alla politica. Anzi, all’amministrazione della città più complicata del pianeta. Una sfida impossibile, una parete verticale a mani nude. A Luigi Brugnaro, proprietario dell’Umana holding, azienda che ha affidato a un blind trust amministrato da uno studio legale dello Stato di New York, le imprese difficili provocano un sano prurito alle mani. Figlio di una maestra elementare e di un operaio e leader sindacale di Porto Marghera, ex presidente della Confindustria veneziana, 58 anni e cinque figli, regolarmente sul podio delle classifiche dei sindaci più apprezzati d’Italia, Brugnaro riempie con le sue visioni e il suo eloquio torrenziale il grande ufficio di Ca’ Farsetti affacciato sul Canal Grande.

Tra poco festeggerà 4 anni da sindaco…

«Festeggerò?».

Ancora uno e poi basta?

«Lo diranno i cittadini».

Quindi si ricandiderà?

«Sì. Il lavoro va finito per rispetto di chi si attende il rilancio della città».

Il suo bilancio è positivo?

«Anche questo devono dirlo i cittadini. Io mi sono messo a disposizione per risolvere i problemi pendenti: la falla dei conti e la ristrutturazione della macchina comunale».

La falla dei conti.

«Un buco di 800 milioni di euro. Appena nominato, luglio 2015, dicevano che non avrei mangiato il panettone. Invece, al 31 dicembre 2018 il debito era di 740 milioni, 60 in meno».

La riforma della macchina comunale?

«Siamo scesi da 3177 a 3002 dipendenti, pur facendo nuove assunzioni».

Da imprenditore di successo si è mai chiesto chi gliel’ha fatto fare?

«No, sapevo a cosa andavo incontro. Prima di candidarmi avevo partecipato a un’assemblea in cui il commissario straordinario Vittorio Zappalorto aveva illustrato pubblicamente la situazione. Ci ho pensato, ho chiesto scusa in anticipo a moglie, figli e amici e mi sono messo in gioco».

È vero che il comune le paga solo il caffè?

«Vero. Vengo in ufficio con la mia auto e la mia barca. Il mio emolumento finanzia un bando pubblico per la realizzazione di progetti di natura etico sociale verificati da un’apposita commissione».

Qual è la dote indispensabile al sindaco di Venezia?

«L’equilibrio, che non sarebbe proprio il mio forte perché sono una persona passionale. Chi viene eletto deve governare anche per chi non l’ha votato. Le mie stelle polari sono il lavoro e l’attenzione alle giovani generazioni».

Perché si è buttato nel basket? Ha trascorsi da sportivo?

«Se si eccettuano le partite a calcio da bambino con furto dell’uva del contadino alla fine, no. Quando sponsorizzavo una piccola squadra di pallavolo, il sindaco Paolo Costa mi ha proposto di patrocinare quella cittadina di basket. Ho accettato, creando la Reyer Venezia Mestre sia maschile che femminile, e nel 2017 abbiamo vinto lo scudetto. Oggi abbiamo 5000 atleti e 25 società affiliate in tutta Italia. Punto sui giovani perché qualcuno potrà diventare campione, ma tutti, grazie allo sport, diventeranno bravi cittadini».

Quanti sono i progetti per la soluzione del problema delle grandi navi a Venezia?

«Sento numeri fantasiosi, ma la competenza è del ministero dei Trasporti. Il progetto che abbiamo presentato noi prevede che le navi non attraversino più il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca, ma passino dal Canale Vittorio Emanuele».

Perché non si decide?

«Lo chieda al ministro Danilo Toninelli. Con il suo predecessore, Domenico Del Rio, il Comitatone (comune, città metropolitana, regione, e autorità portuali) aveva deliberato: bisognava fare i carotaggi per scavare il canale, ma tutto si è fermato. Di 200 navi all’anno già così ne potrebbero passare 60. A Porto Marghera c’è una banchina lunga 2 chilometri: come partono, le navi possono anche arrivare».

Oltre a Toninelli sovrintendono il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, e quello ai Beni culturali, Alberto Bonisoli, tutti grillini. Sono figli di un’ideologia che causa immobilismo?

«È una cultura che lascia spazio a una deriva estremista, per la quale bisognerebbe togliere le navi anche da Marghera. Qui non è in discussione la difesa dell’ambiente e della città di Venezia. Quando sento dire che qualsiasi decisione sarà sottoposta alla volontà popolare mi spavento. Votando, gli elettori hanno già espresso le loro preferenze. L’assemblearismo è pericoloso: se invece che sulle navi dovessimo decidere sulla Tav, sull’Oleodotto in Puglia, sulle alleanze internazionali, sulle rappresentanze sindacali e su quello che vuole, faremmo altrettanti referendum?».

I suoi principali avversari sono gli ambientalisti fondamentalisti?

«La decrescita è frutto di uno stato di benessere, non della cultura del lavoro. Io credo che dobbiamo ascoltare di più chi lavora dalla mattina alla sera. È giusto essere pignoli e discutere, poi però bisogna arrivare a una sintesi. Già negli anni Cinquanta si diceva che Venezia stava morendo. Ora per il fotografo Gianni Berengo Gardin è un grande Luna park».

È vero che ha impedito la sua rassegna sui «Mostri in laguna»?

«L’avevano organizzata i suoi amici che governavano prima di me. Io sono stato eletto per rendere compatibili le navi. Venezia è da sempre un trampolino per farsi pubblicità, ma le problematiche sono più complesse… Quest’anno, con l’acqua alta a 156 centimetri, piazza San Marco era a un passo dalla distruzione e lì c’ero io, non quelli che parlano. Il Mose non è ancora finito».

Quando lo sarà?

«La domanda giusta è come verrà gestito. A Venezia il porto è dentro la città d’arte, non fuori dal contesto urbano come a Trieste o altrove. Quando il Mose sarà pronto dobbiamo sapere come usarlo, ma bisogna decidere adesso».

Ci sono stime di trenta milioni di turisti all’anno, altre parlano di 73,8 al giorno per ogni cittadino residente: come vengono calcolate?

«Un tanto al chilo, gli stessi turisti vengono conteggiati più volte. Noi pensiamo che siano di meno. Il nostro obiettivo è arrivare alla prenotazione della visita per garantire servizi e sicurezza adeguati e all’estero quest’idea è molto apprezzata. Il turismo mordi e fuggi comporta costi elevati per una fruizione superficiale. L’impatto degli affitti brevi su una città dagli equilibri fragili può essere pesante».

Lo scrittore Tiziano Scarpa dice che Venezia è «un temporary shop per temporary citizens».

«Venezia è un fiore che attira le api. Una città speciale ha bisogno di norme e poteri speciali, spero che prima o poi ce li concedano».

Proprio la particolarità di Venezia autorizza alcuni suoi visitatori a comportamenti trasgressivi: il decoro è più difficile che altrove?

«Fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce. A chi ha fatto pipì in un luogo consacrato abbiamo dato 3.000 euro di multa. C’è anche molta gente che si comporta bene. Venezia anticipa i fenomeni e la comunità internazionale ci osserva. Di un incidente su un canale si parla in tutto il mondo. Ma stabilendo regole condivise e punendo le trasgressioni si può gestire tutto».

Mi faccia qualche esempio di problema risolto.

«C’era l’immondizia nelle calli e i gabbiani che mangiavano dai sacchetti. Con gli operatori che la ritirano porta a porta ora la città è sempre pulita. C’erano lunghe code alle fermate dei vaporetti: separando il flusso dei residenti che lavorano da quello dei turisti le abbiamo molto ridotte».

Che fine ha fatto il ticket all’ingresso?

«Si chiama contributo all’accesso. Non è ancora in funzione, la legge dice che devono essere le varie aziende di trasporto a riscuoterlo. Chi viene in giornata paga questo contributo per partecipare ai costi per informare sugli usi e costumi della città».

Come le è venuta l’idea dei vaporetti elettrici?

«Nella nautica siamo ancora al motore euro zero, noi vogliamo introdurre quello ibrido. Lo presenteremo al Salone nautico dal 18 al 23 giugno. Se la sperimentazione funziona la applicheremo prima alle imbarcazioni pubbliche poi a quelle private».

I residenti diminuiscono perché non sopportano i turisti o per altri motivi?

«Dovunque i centri storici sono vecchi. Il nostro bilancio tra emigrati e immigrati è in parità, anzi, lievemente in attivo. Diventa passivo perché la gente muore e non si registrano nascite sufficienti, ma questo non è un problema del sindaco».

Quali prospettive di riconversione e sviluppo per Marghera e Mestre?

«La Serenissima è sempre stata uno Stato de mar e de tera. Guardi la bandiera: il leone di San Marco poggia due zampe sull’acqua e due sulla terra. Il centro storico è il Parioli, Marghera è la nostra grande sfida. L’industria chimica si è insediata qui perché l’acqua serviva a raffreddare gli impianti. Abbiamo pagato un prezzo altissimo in termini di vite e di disagio sociale. Oggi siamo avanti nel cammino di riconversione per rilanciare il porto con nuovi interventi sulla logistica, creando industrie di raffinerie green, promuovendo la filiera della trasformazione dei rifiuti».

Perché il Veneto ha bisogno dell’autonomia?

«È l’Italia che ha bisogno di dare autonomia ai territori. Il Veneto, che è la nostra Baviera, dovrebbe essere un modello esportabile e contaminante. L’autonomia serve per essere più veloci nelle decisioni, per il bene dell’Italia e dei giovani».

Venezia è la città dell’arte e della bellezza, ma pochi giorni fa avete cacciato Banksy.

«Il problema è che Banksy non si sa chi sia. Quel signore era senza permessi e quell’episodio è la riprova che la città è amministrata. Abbiamo le squadre che puliscono i graffiti sui muri. Quando ne ho visto uno in Rio Novo che raffigura un bambino che regge un fumogeno rosa, ho chiamato i vigili e li ho avvertiti di non cancellarlo perché mi piaceva. Solo dopo ho scoperto che era di Banksy. Così, anche se non è stato invitato alla Biennale, abbiamo un’opera sua».

Qual è la vocazione di Venezia?

«Essere una città del mondo, capitale di cultura e di dialogo. È un posto che 7 miliardi di persone al mondo, almeno una volta nella vita vogliono vedere. Una bella responsabilità, non crede?».

 

La Verità, 9 giugno 2019

«Tutto questo rap rovina la nostra melodia»

 L’incanto di Venezia, la poesia della musica e la magia del cinema. Siamo in uno studio sul Canal Grande, a un campiello di distanza dal museo Peggy Guggenheim. La prima volta di Pino Donaggio a Sanremo fu nel 1961: «Come sinfonia avrebbe dovuto cantarla Mina. Ma finito il Festival la incise davvero e adesso Pedro Almodóvar l’ha ripescata per il suo Dolor y gloria, che uscirà il 22 marzo. È anche nel trailer, venga che glielo faccio vedere».

Che giudizio dà di questo Festival?

«Positivo. Claudio Baglioni è un grande musicista, che ci capisce quando c’è da scegliere le canzoni. Poi si è rivelato anche uomo di spettacolo, dimenticandosi di essere cantante».

Mica tanto.

«Sì, è vero, canta parecchio. Però partecipa agli sketch, se la cava bene».

Giovedì sera ha cantato Io che non vivo con Alessandra Amoroso.

«Non mi aveva detto nulla. Ho capito quando hanno parlato di una canzone del 1965 che aveva venduto milioni di dischi».

Una sorpresa.

«Molto gradita, poi Alessandra Amoroso mi è sempre piaciuta. Si è anche commossa».

L’anno scorso era presidente della giuria di esperti.

«Quest’anno c’è Mauro Pagani, un altro amico. Al festival di Mike Bongiorno e Piero Chiambretti ho fatto anche il direttore artistico con Giorgio Moroder e Carla Vistarini».

Nel 2015 le consegnarono un premio alla carriera.

«In realtà, era un premio per Io che non vivo. È un evergreen, come Quando quando quando. La cantano a X Factor inglese, australiano, nei film americani. Carlo Conti è stato bravo a ricordarsi dei 50 anni della canzone».

Fu fatta conoscere da Dusty Springfield, una concorrente che partecipava con un altro brano: furba?

«La intitolò You don’t have to say you love me. Ha venduto più di 80 milioni di copie, tra tutti gli interpreti che l’hanno cantata, Elvis compreso».

Dusty Springfield?

«La rividi vent’anni dopo a New York. Non so se si può dire che è stata furba. Al festival di allora c’era la doppia interpretazione con un inglese o uno spagnolo che spalancava i mercati esteri. Lei era stata eliminata, ma la sera dopo in platea si commosse con la mia canzone. La mattina, prima di ripartire, trovò il disco in un negozio. Una fortuna che la Emi l’avesse già distribuito».

Quando scoprì tutta la storia?

«Quando era prima in classifica in Gran Bretagna da 3 settimane e aveva già venduto un milione di copie, come riportava Billboard che mi mostrò il mio editore Curci».

Il festival di quest’anno è uguale a quello dell’anno scorso?

«Non si cambia una cosa che funziona, si ritocca cambiando i partner. Sperimentare è difficile».

Il suo giudizio sulle canzoni?

«Tecnicamente buono. Si sono un po’ allontanate dallo stile italiano, ma è un processo iniziato da tempo. Invece che sulla melodia si punta sui testi perché tante sono quasi parlate. Così, quando arrivano Andrea Bocelli, Marco Mengoni o Giorgia si respira».

Le sue preferite?

«Quelle di Daniele Silvestri e di Simone Cristicchi. E quella di Loredana Bertè, più classica. Cristicchi la sua può cantarla solo lui, non certo gli americani. In generale, c’è troppo rap».

Serve per darsi una patina di modernità?

«È un genere arrivato dall’America. Le parole prevalgono sulla musica, tendenza iniziata con i cantautori. Tiziano Ferro ha cambiato ancora, non propone più strofa ritornello strofa. Adesso invece si alterna la strofa melodica a quella rap».

Tanto rap poca possibilità di esportare?

«Non lo possiamo certo vendere in America dove ce l’hanno già. La nostra forza è la melodia, veniamo dal melodramma, dalla canzone napoletana. Guardi Andrea Bocelli e Il Volo. Ma appena c’è qualcosa di melodico lo attaccano, per spingere il rap che non è roba nostra. Fossi stato nei ragazzi del Volo non sarei andato in gara».

Cosa pensa della polemica sul conflitto d’interessi di Baglioni?

«Non ne so molto. Se la Rai ha accettato questo sistema vuol dire che le va bene. Ma dovrebbe controllarlo».

Può sbagliare anche la Rai?

«Certo. Come in tutti i posti, ci sono persone oneste e disoneste».

Suo padre la voleva violinista classico?

«Diventare solista per suonare nei grandi teatri era anche il mio sogno. Con il violino ero bravo. A 12 anni facevo già concerti di classica col mio gruppo. Ho tradito il mio strumento».

Richiedeva troppo sacrificio o fu sorpreso dal successo?

«Il successo fu imprevisto. Ero cresciuto sentendo mio padre che suonava con la sua orchestra in un locale. Il cantante era Sergio Endrigo che di giorno faceva il lift all’hotel Danieli. Mio padre invece lavorava all’Enel».

Viveva immerso nella musica.

«In vacanza ad Auronzo di Cadore facevamo le gare di rock and roll. Un’estate, avevo 16 anni, cantai Dayana di Paul Anka e capii che piacevo. Una volta tornati a casa, chiesi a mio padre di cantare con lui, visto che Endrigo non c’era più. Anche lì fui applaudito, lui diceva perché ero suo figlio».

Il violino era già dimenticato?

«No. Dai Solisti Veneti ero passato al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ricordo che sul treno Milano-Venezia abbozzavo delle melodie. Una volta a tempo perso andai alla Curci, in Galleria del Corso. C’era il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Che disse: “Canta come un selvaggio, ma la musica la conosce e scrive bene”. A quel punto mio padre si convinse anche perché firmò lui il contratto non ero ancora maggiorenne».

Quando sbarcò a Sanremo?

«Nell’estate del 1960 scrissi Come sinfonia e alla Curci dissero subito che bisognava mandarla al festival. Mina era già in ballo con altri due brani, ma insistette con Ezio Radaelli perché la cantassi io. Lui mi ascoltò e diede il suo assenso. Qualche giorno dopo la si sentiva già per strada».

Era un cantautore di successo.

«A Sanremo vinse Betty Curtis con Al di là, secondo Adriano Celentano con 24mila baci, poi Milva e Mina con le due canzoni. Io arrivai sesto, ma passata l’onda di Celentano andai primo in classifica».

Difficile tornare al conservatorio.

«Avevo detto al mio insegnante che sarei tornato dopo una settimana. Quando mi presentai dopo un mese non mi volle. Lasciai anche I Solisti veneti perché la mia notorietà era diventata un problema».

Dalla canzone alle colonne sonore fu come saltare da un vaporetto a una nave da crociera?

«Anche quella fu un’occasione imprevista. Non ero pronto a scrivere per il cinema».

Invece?

«Una mattina all’alba che tornavo da una serata mi vide Ugo Mariotti, giovane produttore di A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg. Lui era sulla riva del Canal Grande e io l’unico passeggero del vaporetto che gli sfilava davanti. Era un film di parapsicologia… e Mariotti vide in quell’immagine una premonizione. Qualche ora più tardi mi telefonò spiegandomi l’idea. Pensavo: possibile che chiamino me per un film con Julie Christie?».

Convergenze astrali.

«Incontrai il regista che non sapevo una parola d’inglese. Mi spiegò la musica che voleva e dopo una settimana gli feci ascoltare i temi. Ma al produttore esecutivo inglese non piacquero: “Si sente che non ha mai lavorato per il cinema”. Invece quello americano che metteva i soldi disse: “Se la musica è questa che problemi abbiamo?”. Vinsi il premio come miglior colonna sonora dell’anno in Gran Bretagna. Secondo si classificò George Martin, produttore dei Beatles, per 007 – Vivi e lascia morire con la canzone di Paul McCartney».

Si aprì un’autostrada.

«Composi per alcuni registi giovani, poi mi contattò Brian De Palma. Disse che aveva visto A Venezia… un dicembre rosso shocking a occhi chiusi. Bernard Hermann, il suo musicista di fiducia, era morto da poco».

Ha composto per molti film di De Palma.

«Domino che uscirà tra qualche mese sarà l’ottavo».

Com’è nata questa sintonia?

«Il mio modo di scrivere si adatta alla sua sensibilità. Ci incontriamo, prendiamo nota dei punti dove mettere la musica, torno in Italia, scrivo, torno a New York. Per Carrie, lo sguardo di Satana partirono gli applausi: “Questa scena l’ho vista davvero per la prima volta con la tua musica”, disse».

Strano che i suoi studi classici l’abbiano portata a comporre colonne sonore per thriller e horror.

«Ho cominciato con quei generi e continuano a chiamarmi per quelli. Ma ho fatto anche commedie come Non ci resta che piangere, film di Carlo Vanzina, di Liliana Cavani e i film politici di Giuseppe Ferrara».

Terence Hill e Tinto Brass sono veneziani.

«Terence Hill mi ha cercato per Don Camillo, poi ho scritto anche per le sue serie. Brass è un amico, ma non mi mostra le scene: “Mi fai un reggae che devo girare la scena di un massaggio?”. Quando ho visto il film, altro che massaggio. Ne ho fatti tre con lui, poi mi sono fermato. Vuole musiche firmate, le ha chieste anche a Ennio Morricone e Riz Ortolani».

Quanto c’entra Venezia nel suo lavoro?

«Moltissimo. Ho scritto anche a Milano e in America, ma qui è un’altra cosa. Se non ti viene l’ispirazione esci di notte e sei già dentro un thriller. Oppure vado al Guggenheim, la mia passione è la pittura, a Punta della Dogana, a Ca’ Rezzonico. E quando torno mi metto a scrivere. Su quella parete ho messo un grande specchio perché così posso vedere l’acqua mentre sono al pianoforte».

Com’è nata la collaborazione con Massimo Ranieri?

«Mi ha chiesto una canzone, per un nuovo album di inediti, tra i quali ci saranno un brano di Bruno Lauzi e uno di Domenico Modugno trovati da lui».

Altri progetti?

«Finalmente si è sbloccato il film sulla vita di Enzo Ferrari che sarà interpretato da Robert De Niro e diretto da Barry Levinson, il regista di Rain man. Poi sono molto contento di aver scritto un disco per I Solisti Veneti, l’avevo promesso a Claudio Scimone. È la chiusura di un cerchio».

È pentito di aver tradito il violino?

«No, visto come sono andate le cose. Il mio sogno era il violino, la mia forza è la composizione. Non ho rimpianti, il violino lo faccio suonare agli altri».

 

La Verità, 10 febbraio 2019

«Premi letterari? Truccati come certi talent»

Questione di «aspettative irrealistiche». Nell’ultimo romanzo Una di Luna (La nave di Teseo), Andrea De Carlo dice tutto in due parole. Pensiamoci un secondo, la faccenda è tutta qui. Quando riponiamo attese eccessive su qualcosa o qualcuno; quando ci aspettiamo soluzioni magiche, risposte gratificanti, corrispondenza totale ai nostri desideri. Quando crediamo finalmente di svoltare se si verifica un determinato evento. Le «aspettative irrealistiche» confinano con l’illusione e sono il contrario della speranza. Che è aperta, non pretenziosa, pronta a raccogliere quello che viene. Musicista, fotografo e giramondo, ma soprattutto scrittore, De Carlo – 66 anni, capelli nerissimi come la camicia con colletto coreano – è allergico alle giurie, ai premi letterari e ai talent show sebbene vi abbia partecipato, anzi, proprio per avervi partecipato. Si definisce uno «scrittore scrittore» per distinguersi dagli «scrittori letterati». Appare poco e vive tra Camogli e Milano.

Margherita, la protagonista del suo romanzo, è apprensiva per un padre che l’ha «tiranneggiata tutta la vita»: una rarità. Oggi i figli ci mandano a quel paese molto prima, o no?

«È così, i ragazzi di oggi non hanno la pazienza della mia protagonista. Lei è apprensiva verso il padre perché sa che, in fondo, dietro la scorza dura, è un uomo fragile, perennemente sull’orlo di un crollo, di uno schianto».

La figlia è la voce narrante, come ha fatto a immedesimarsi nella psicologia femminile?

«In passato avevo già scritto romanzi con una parte maschile e una femminile. Ho sempre ascoltato molto le donne, sono una fonte inesauribile, un universo che continua a incuriosirmi e che cerco di capire. Mi aiutano l’osservazione e la conversazione. Scriverne è un modo di entrare ancora di più in questa comprensione».

Il padre del romanzo è un uomo anziano, un fascista scontroso, un cuoco inflessibile per il quale finisce per simpatizzare anche lei?

«Volevo presentarlo come un uomo insopportabile, antipatico e in guerra con il mondo. Però poi, strada facendo, ha rivelato dei tratti che suscitano simpatia. Per esempio, quando si ribella agli autori del talent show che vogliono piegarlo al loro gioco non si può non parteggiare per lui. La sua intransigenza anche nella preparazione di una ricetta suscita simpatia. È una sorta di guerriero, un uomo di principi, nostalgico di un mondo ordinato e un po’ utopistico».

Quando s’incontrano la fatuità della tv e il rigore di un vecchietto tutto d’un pezzo esplode il conflitto generazionale, di culture e antropologie.

«Ho immaginato certi autori televisivi alla ricerca di tipi umani come fossero ingredienti, pezzi di verdura da infilare nel minestrone. Achille resiste a questa guerra cinica sperando nella grande occasione di riscatto. Ma è un sogno che va in frantumi e la sua partecipazione viene tragicamente manipolata».

È un racconto che deriva dall’esperienza di giurato nel talent letterario Masterpiece?

«Avevo accettato di far parte della giuria nella speranza di parlare di letteratura, di riflettere su come si scrive un romanzo e di partecipare a una piccola comunità letteraria. Era un’aspettativa irrealistica perché un talent è solo un gioco tra diversi concorrenti. Spesso ciò che noi giurati ritenevamo interessante veniva tagliato al montaggio perché tutto era finalizzato alla gara. È stata un’esperienza frustrante. Probabilmente in un programma dal vivo è diverso».

Mai più?

«Certo, mai più. Avevo esitato, ma alla fine mi ero convinto perché, ragionavo, se non si prova non si può valutare. La produzione puntava a due/tre milioni di telespettatori. Invece ci assestammo sul mezzo milione, più o meno l’audience di tutti i programmi di libri. Comunque, anche quell’esperienza è tornata utile».

Nel libro il talent s’intitola Chef Test: come la prenderanno a Sky?

«Non credo possano contestare. Quello che racconto riguarda il meccanismo di quei programmi, non tanto uno specifico».

Perché li chiama chefstar?

«Sono i nuovi maître à penser. Gli chef fanno di tutto, sono ovunque. Dispensano ricette di comportamento anche lontano dalle cucine».

Che sono diventate glamour.

«Una volta erano un posto infernale. Quando a vent’anni ho fatto il cameriere a Los Angeles, in cucina si sentiva urlare continuamente, c’era puzza d’olio bruciato, era sporco. Adesso è tutto patinato».

E si scopre che gli chef sono persone insoddisfatte se non infelici, sull’orlo dell’autodistruzione come rockstar.

«Il cuoco era un lavoro umile, quasi da nascondere: un uomo che lavora in cucina? Oggi i grandi chef sono quasi tutti uomini. Forse perché sono più maniacali. O più bravi a promuoversi, a gestire i meccanismi delle critiche e delle stelle».

Nel backstage del talent si assiste al conflitto tra due filosofie: quella dell’artigiano e quella globalizzata della tv.

«È anche un fatto logistico. Lo studio televisivo è in un capannone, un non luogo dell’hinterland milanese. Mentre il vecchio cuoco arriva da Venezia, un luogo stratificato da mille vicende, pieno di storia».

Che lei conosce bene…

«Ci ho vissuto da bambino, mio padre insegnava lì. Poi ci sono tornato parecchie volte».

Tornando al confronto generazionale, i nostri padri avevano solidità e uno spessore che noi ci sogniamo?

«Erano molto più solidi. La loro è stata una generazione forgiata da difficoltà enormi, compresa la guerra. La cultura dell’epoca imponeva ruoli definiti e inscalfibili. L’uomo era la roccia della famiglia, non piangeva mai, a volte era un tiranno. La comunicazione affettiva con i figli era quasi inesistente. Oggi siamo caduti nell’estremo opposto: padri bamboccioni, che piangono alla minima difficoltà e fanno gli amiconi».

Le aspettative irrealistiche sono la causa principale delle nostre depressioni?

«Sì, per le delusioni che provocano. Le aspettative irrealistiche diventano surrettiziamente una pretesa. Tendiamo a configurare troppo ciò che attendiamo. Per esempio, vai in un ristorante stellato e sei sicuro di uscirne un uomo trasformato. Invece, magari esci solo più povero e ancora affamato. Il vecchio cuoco del romanzo pretende il suo risarcimento pubblico dall’ospitata a un talent. Margherita spera che a 87 anni un padre super egocentrico diventi chissà perché attento ai suoi sentimenti. Quello che attendiamo con troppa precisione non è mai come ce lo immaginiamo».

Non dobbiamo illuderci. Perché l’unico uomo che corrisponde alle attese di Margherita è un illusionista?

«Perché c’è differenza tra illusione e speranza. La speranza è aperta, non prestabilisce come deve andare. L’uomo che corrisponde alle aspettative di Margherita è un illusionista disincantato».

Anche lui un artigiano, come i cuochi di una volta?

«E come lo scrittore. Ispirazione a parte, la ricerca quotidiana delle parole è un’umile attività artigianale».

Che differenza c’è tra gli scrittori letterati e gli scrittori scrittori?

«Lo scrittore letterato è colui che si sente testimone della società e interviene sui temi più disparati nei salotti televisivi. Gli scrittori scrittori sono quelli che si limitano a raccontare le storie che sentono e vedono intorno a loro stessi. Io appartengo a questa seconda categoria. Recitare la parte dello scrittore non m’interessa per niente. Scrivere, invece, molto».

Facciamo qualche esempio delle due categorie?

«Meglio di no, guardandosi intorno si riconoscono. Comunque, oggi il ruolo sociale dello scrittore è ridimensionato».

Sicuro? Quest’estate c’erano quelli che volevano salire sulle navi dei migranti.

«Vero, ma ormai si ha la percezione che gli scrittori militanti finiscono per svilire la loro arte. Fanno i maître à penser, come i cuochi filosofi. Ciò detto, anch’io esprimo la mia visione del mondo, ma lo faccio nei romanzi».

Perché non partecipa ai premi letterari?

«Sono stato diversi anni nella giuria del Premio Strega e ho assistito ai traffici degli editori per far vincere questo o quello. Ho visto i meccanismi della manipolazione che assomigliano a quelli del montaggio dei talent show. Alla fine mi sono dimesso e ora sarebbe incoerente concorrere ai premi. Per di più non sono convinto che una giuria possa decidere se un libro è meglio di un altro».

E dei festival cosa pensa?

«Qualche volta ci vado. Si incontrano i lettori… Sono stato a Mantova, a Pordenone. Ma non lo faccio in modo seriale. Anche lo scrittore da festival che allestisce il suo show non mi convince».

A proposito di aspettative irrealistiche, che rapporto ha con la politica?

«Non mi sono mai identificato in nessuna ideologia e tanto meno in qualche partito. Ho un atteggiamento critico verso chiunque sia al potere. E adesso anche con chi è all’opposizione. Sono un anarchico insofferente».

Ha mai votato?

«Una volta sola. Mi sembra di esser costretto a scegliere tra cose che non mi piacciono».

Ha cambiato tante città, è stato in America e in Australia. Vivere a Camogli è una scelta estetica?

«La Liguria mi è piaciuta fin da bambino. Camogli è un luogo di luce e colori che mi corrisponde».

Come si divide tra le attività di musicista, fotografo e scrittore?

«La fotografia è il gusto della curiosità, niente più che un hobby. Amo la musica e suono tutti i giorni. Ma la mia attività vera è la scrittura, dove so di riuscire a fare quello che voglio. Gli altri linguaggi possono arricchirla».

Che cosa le dà speranza?

«Soprattutto le piccole cose quotidiane. Suonare con gli amici. Stare con qualcuno che non vedevo da tanto tempo…».

 

La Verità, 16 settembre 2018

Il «tutto» di Concita è solo un birignao elitario

L’ambizione che sconfina nella presunzione fa capolino già nel titolo: Da Venezia è tutto (Rai 3, tutti i giorni, ore 20.15, share attorno al 4%). Certo, c’è il doppio senso della formula di congedo degli inviati… ma se per caso qualcuno volesse dire la sua sulla Mostra del cinema di Venezia con un altro programma, un’altra rubrica, una semplice opinione? «That’s all» era il timbro finale alle riunioni di redazione di Miranda Priestly (Meryl Streep nella reincarnazione di Anna Wintour), mitica direttrice della prestigiosa Runway in Il diavolo veste Prada, e la coincidenza svela la pretesa definitiva della conduttrice Concita De Gregorio. Che non sia tutto della mostra veneziana ciò che ci propone, ma solo il suo personalissimo punto di vista, lo si capisce in fretta. L’entusiasmo per Human Flow, per dire, ambiziosa opera sui migranti del dissidente cinese Ai Weiwei, non è per nulla condiviso dalla critica più influente. Però De Gregorio-Priestly-Wintour lo presenta come «un film mondo» che ambisce a generare conversioni al bene e all’amore per i poveri e i disperati. Prima l’etica dell’estetica, insomma. Ma, prima ancora, i tic e il birignao dell’ambiente propalati senza lesinare. Contare, per credere, il diluvio di «è un attore straordinario», oppure di «è un film che ho molto amato». In fondo, parliamo tra noi che capiamo di cinema, e se il telespettatore vuole proprio capirci qualcosa anche lui, si acculturi. Qui discutiamo dei destini di Roma, degli immigrati e dell’umanità. L’élite culturale trionfa. Una certa degnazione nell’accogliere e congedare attori e critici, graziati dall’ospitata, lo conferma. Ripetere i titoli dei film in questione è uno spreco di tempo perché tutti capiscono tutto dai cognomi dei registi: «Oggi hai visto Schrader e anche Del Toro…». Fortuna che Fabio Ferzetti, critico di lungo corso, s’incarica di spiegare chi sono e quali film hanno diretto a beneficio del pubblico che non è solo quello delle terrazze romane. Purtroppo nei servizi girati dalla conduttrice e autrice il soccorso divulgativo è assente e i tic rimangono in tutta la loro supponenza: «Hai finito Opzetek, stai facendo Genovese… e poi farai Cucchi…», ammicca ad Alessandro Borghi incontrato sul litorale ostiense sul futuro ruolo di «madrino (pronunciato alzando gli occhi al cielo, ndr) o padrino della Mostra». Via De Gregorio il boldrinismo è sbarcato anche al Lido. Se Da Venezia è tutto si prefigge di allontanare il grande pubblico dal cinema l’obiettivo è raggiunto.

La Verità, 3 settembre 2017

Viaggio nell’isola dove la messa è finita

«Se ne vada. La diffido da scattarmi anche una sola fotografia. Non vede che sta intralciando il mio lavoro. Se ne vada o chiamo i carabinieri». Don Mario Sgorlon è esasperato dal clamore sulla storia della messa «su prenotazione» di cui hanno parlato i media nei giorni scorsi. Una storia che avrebbe incuriosito Thomas Stearns Eliot: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?», scrisse nei Cori da «La Rocca» il drammaturgo americano Premio Nobel per la letteratura nel 1948 centrando la questione del secolo.

L’isola di Vignole dista da Venezia 18 minuti di vaporetto. Ma ne passa uno ogni ora e arrivarci è un mezzo viaggio. Anche perché, una volta a destinazione, la sorpresa è doppia. Intanto, perché si scopre che il famoso cartello davanti alla chiesa che annunciava la celebrazione della messa a gentile richiesta non c’è. E poi perché il prete non abita qui. La cappella di Santa Maria Assunta e Santa Eurosia, dove si arriva percorrendo un sentiero, è una chiesetta edificata attorno al 1500, contenente un dipinto dell’Assunzione della Vergine che motiva qualche visita. Per effettuare la quale, bisogna telefonare a un numero fisso, come avverte una targa metallica affissa sul portale. La stessa targa annuncia che la messa domenicale si celebra alle 9.20. Compongo il numero, ma don Sgorlon è un muro. «Basta, non voglio più parlare con giornalisti. Sono stufo». Non riesco nemmeno a dirgli che sono sul posto. Ben disposto. Troppo casino su quel cartello che, nelle intenzioni, voleva solo correggere l’orario della targa. E che, in realtà, è diventato l’annuncio che La messa è finita. Perché suonava troppo male: «La messa è sospesa per mancanza di fedeli. Don Mario è disponibile su richiesta». Sembrava un atto d’accusa alla comunità. L’espressione di un prete offeso: se volete la messa, chiamatemi.

Il cartello affisso sul portale della chiesa che ha creato il caso

Il cartello affisso sul portale della chiesa che ha creato il caso

Ma se il cartello di don Mario suonava male, anche tutta la vicenda è stata raccontata male. Parlando con le persone dell’isola capisco che sono in quella sbagliata e il parroco abita a Sant’Erasmo, altri venti minuti di vaporetto, al prossimo giro. La chiesa dove celebra tutti i giorni è lì. Insomma, altra isola, altra chiesa, altra storia. Qui ci veniva, ci viene, per non far mancare il rito domenicale. Ma poi i fedeli hanno cominciato a ridursi: «Per evitare di restare da solo sull’altare ho messo l’avviso», ha provato a giustificarsi parlando con i giornali.

«Macché ruggine col parroco», borbotta una signora sulla settantina. «I miei figli vanno a fare le pulizie nella chiesa. È successo che una delle donne che andavano di più a messa è rimasta in sedia a rotelle per un infortunio. Così, adesso ci mettiamo d’accordo: quando la vogliamo chiamiamo don Mario», chiude affrettandosi verso la bicicletta. Sarà: basta l’incidente di una donna e non si celebra più la domenica cristiana?

I dubbi sulla «messa on demand» restano. E non li fuga nemmeno Roberto Succoli, un signore sulla cinquantina che abita vicino all’imbarcadero. Il suo argomento è logistico: «È come se questa fosse la chiesa di un paesino di montagna. Per andare a messa ci si deve inerpicare. Magari d’inverno, soprattutto se si è anziani, si fa fatica ad andarci. Sono laico, laicissimo, e non frequento. Mia moglie invece sì. Però non butto la croce addosso al parroco. I fedeli praticanti si avvisano telefonicamente se la messa viene celebrata o no. Del resto, se uno vuole può andare a Murano, 9 minuti di vaporetto. In città, per esempio, chi non ha la chiesa sotto casa, cioè quasi tutti, prende l’auto e si sposta…». Già. Potrebbe essere solo una questione di distanze e di mezzi di trasporto, magari più complessi in laguna. Ma c’è quel cartello che denunciava la «mancanza di fedeli».

Se la sparuta popolazione di Vignole è composta in buona parte di anziani e contadini, ci si potrebbe aspettare una partecipazione più vivace. Invece, l’eclissi del sacro va oltre la civiltà industriale e contagia pure quella contadina-lagunare. E non si ferma nemmeno davanti alle persone di una certa età che sentono avvicinarsi l’ora del destino. La banalità della secolarizzazione si traveste di pigrizia e s’insinua anche in questo lembo di laguna, appartato e silenzioso, dove il progresso e la tecnologia lasciano il campo alla pace e alla tranquillità. Uno specchio di mare più in là, i Frati minori hanno eletto San Francesco del Deserto come posto dell’anima. A Sant’Erasmo, invece, l’attività principale è la produzione dei prelibati carciofi color viola. Ma non si sente il bisogno dell’amaro che ne deriva per contrastare «il logorio della vita moderna». Le poche strade sono percorse da minuscoli Apecar o da scooter guidati da donne e ragazzi serenamente sprovvisti di casco. «Don Mario era qui poco fa», ammette una donna che sta passando con la lucidatrice il pavimento della chiesa. «Provi in canonica».

Don Mario Sgorlon, parroco di Sant'Erasmo e dell'isola dii Vignole

Don Mario Sgorlon, parroco di Sant’Erasmo e dell’isola dii Vignole

Eccoci finalmente, di persona don Mario non può sottrarsi. «È parente dello scrittore Carlo Sgorlon?», la prendo alla larga, provando a metterlo a suo agio. «No, lui era friulano, io sono di San Donà di Piave. Sono parroco qui da 19 anni». «Abbiamo la stessa età e siamo veneti», insisto. Ma alla richiesta di cinque minuti di dialogo, me ne concede tre: «Stanno arrivando i bambini per il catechismo. Comunque, guardi, su questa storia è stato montato un gran polverone. Il cartello è stato affisso quest’inverno, col freddo. La gente faticava a venire. Io ho già le liturgie qui. L’abbiamo appeso d’accordo con i fedeli di Vignole. Quando vogliono la messa, mi chiamano e io vado». Avrei voluto chiedergli se questa tiepidezza di fede lo amareggia. O piuttosto lo fa riflettere. E che cosa pensa della secolarizzazione che ha contagiato anche le campagne della laguna. Ma «i tre minuti sono scaduti». Esco, nell’attesa di veder arrivare i bambini del catechismo. Non vedendoli, dopo un po’ rientro, per scattare una foto col cellulare…

«È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?».

Non si va in pace.

La Verità, 22 aprile 2017

Marghera, Venezia e le periferie esistenziali di Raffaelli

Chissà se per la riqualificazione dell’area di Marghera Renzo Piano assumerebbe Il maestro vetraio, l’intraprendente e fantasioso artigiano che dà il titolo al secondo romanzo di Alberto Raffaelli, appena pubblicato da Itaca (il primo era L’Osteria senza oste, anche quello intrecciato agli eventi della cronaca). Il protagonista è figlio dell’ultimo artista del vetro di Murano che riceve l’incarico di restaurare la chiesetta della Madonna del mare all’imbocco della Laguna, ornandola con un’opera che sia visibile a chi attraversa il Ponte della Libertà, diretto a Venezia. Il mandato passa dalla curia, commissionato dal vice-sindaco che vuole fare di quel restauro il punto di forza della campagna elettorale per eliminare dal biglietto da visita quel prefisso che sa d’incompiuto. Così Benedetto Zaccaria, dotato di spirito tenace oltre che di buona mano alla fornace, si accinge all’opera in dodici quadri, sorta di scomodo Giudizio universale del presente, ispirato da quello della Basilica di Torcello. Mentre attorno al suo lavoro si muove un’umanità ripiegata sui propri giochi, più o meno sporchi, il progetto incontra diffidenze e ostruzionismi. A complicare ulteriormente la situazione c’è anche l’omicidio di una donna, proprio dalle parti della chiesetta, tra i capannoni e una tabaccheria, meta di camionisti che pendolano con l’est europeo. Le indagini sono affidate al vice-ispettore Giovanni Zanca, trasferito a Venezia dopo l’ultima complicata vicenda dell’Osteria senza oste. Sembrano roba da poco rispetto alla vera bomba che di lì a poco esplode tra calli e stampa locale, coinvolgendo il vice-sindaco e la sua segretaria, per una storia di appalti e mazzette che ricorda lo scandalo del Mose. Così, il buon Zanca è costretto alla spola tra Marghera e l’ufficio dell’ambiguo magistrato che lo controlla da distante.

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

La spina dorsale della storia è, dunque, un giallo con tutti gli ingredienti del genere: ritmo, colpi di scena, intercettazioni telefoniche e doppiezze varie. Ma in realtà, Il maestro vetraio è molto di più. Perché attorno alle inchieste di Zanca e alla vetrata di Benedetto, Raffaelli tratteggia le storie di un’umanità dimessa, prostitute dell’est, il trovatello Nick, ospitato dal prete, il Barba, padrone della tabaccheria, Orges, “che lavora nella burocrazia”. E poi i protagonisti di tanti quadri solo apparentemente estemporanei, come i barboni Martino e Franco, o il padre che mendica il perdono dell’unica figlia e le suona tutte le sere il campanello… Anche le parabole del vice-ispettore, del vice-sindaco e del figlio del vetraio, tutti un gradino sotto qualcuno, sono significative. Pare quasi che Raffaelli voglia parlare di una generazione non definitivamente affermata, fatta di outsider che si devono sbattere e compromettere per togliere le castagne dal fuoco, mentre i numeri uno rimangono coperti, dietro le quinte. Così, Il maestro vetraio si propone come un romanzo del margine. Bergogliano, verrebbe da dire. Un viaggio intriso di domande e conti in sospeso, alla ricerca di un’umanità autentica e da rivalutare, al contrario dei vertici della politica, della Chiesa e della magistratura, avviluppati nell’ambiguità e nell’ipocrisia del potere. La grandezza di Venezia è osservata da Marghera. San Marco, Rialto e i campielli, che l’autore mostra di conoscere come le sue tasche, son visti con gli occhi dei mendicanti, di un geniale handicappato, di una prostituta, di certi malavitosi insoddisfatti. Nella tela di Raffaelli domina una “visione periferica”. Anzi, proprio la periferia, urbanistica ed esistenziale, è il cuore di tutta la storia, più che mai bergogliana. E chissà, forse ancor più interessante per Renzo Piano, l’archistar deciso al recupero delle periferie.

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

Rimangono, certo, alcune ingenuità nella scrittura, qualche eccesso o approssimazione che un editor attento avrebbe potuto sfrondare (“Anche a Marghera, al primo chiarore dell’alba, il buio stava svanendo”; “Un misto di angoscia e di speranza si accavallavano dentro di lui”), suggerendo una prosa più asciutta e rarefatta. Ma ci sono anche guizzi felici e buone intuizioni (“Il resto del pomeriggio lo aveva speso per rimettere a posto le carte e i pensieri”). E tuttavia, al netto di quelle ingenuità, Raffaelli ci regala alcune perle. Come quella del prete che prova a sedare l’irrequietezza di Benedetto, quando la donna che l’ha colpito, all’improvviso svanisce: “Vedi, c’è una paura cattiva che nasce da un piccolo errore di partenza – premette don Giuseppe – come quando ci alziamo al mattino e ci illudiamo che le cose siano nostre: la vita, la salute, la carriera, i capelli, il naso, le mani… Si può costruire una vita, un intero mondo, su questa illusione. Fino a quando, a un tratto, per qualche caso della vita, ci accorgiamo che la verità è un’altra…”.