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«TeleMeloni? Come TeleRenzi o TeleConte»

Pochi numeri per il curriculum della vittima di questa settimana. Età: 56 anni. Mogli: una, dal 2006. Anni di assunzione alla Rai: 21. Cause per demansionamento vinte contro la Rai: 4. Share di Ore 14, il programma che conduce su Rai 2: 8,5%. Paparazzate subite da magazine e riviste: 0.
Milo Infante, come si sta a TeleMeloni?
«Ah ah ah… Esattamente come a TeleConte, a TeleRenzi e prima a TeleProdi. Ma poi: cos’è TeleMeloni?».
La Rai dove non si muove foglia che il premier non voglia, o no?
«Se devo rispondere da telespettatore, dico di no. Invece, da conduttore di Ore 14 lo dico due volte».
Però.
«Nella cosiddetta TeleMeloni, come prima a TeleConte, nessuno mi ha mai detto cosa posso dire o non dire».
Negli spostamenti e nelle promozioni sarà cambiato qualcosa…
«Da TeleConte a TeleMeloni sono passato da vicedirettore a vicedirettore ad personam, perdendo deleghe e  potere».
Essendo in quota Lega ci si aspetta il contrario.
«Detto che non è vero, ogni tanto qualcuno lo scrive. Ma a me sfuggono tuttora gli eventuali vantaggi. Se TeleMeloni esistesse dovrebbe spingere i suoi centurioni, ma io promozioni non ne ho avute e miglioramenti economici nemmeno. L’azienda mi ha chiesto un impegno e io lo porto avanti. Con questa leggenda si è indotti a credere che in Rai si faccia carriera in base all’appartenenza politica presunta. Garantisco che nel mio caso non è così».
TeleMeloni dovrebbe lasciare il segno con qualche programma o progetto magari non condivisibile, ma degno di nota. Invece…
«Io non dispero. Quello da poco nominato con Giampaolo Rossi, Antonio Marano, Roberto Natale e Simona Agnes è un Cda di persone che conoscono bene il prodotto. Penso abbia le potenzialità per favorire un salto di qualità. La Rai è sempre presa di mira. Ricordo un titolo di Repubblica al podcast di Massimo Giannini quando è andato via Amadeus: “Amadeus saluta TeleMeloni. E la destra mantiene la promessa: fuori i migliori, restano solo i servi”. Non ho mai visto un atteggiamento così violento nei confronti della prima azienda culturale italiana».
Come sta andando la stagione di Ore 14?
«Abbiamo consolidato l’8,5% di share, un punto e mezzo in più rispetto all’anno scorso, con una media di 931.000 spettatori al giorno. Un risultato straordinario per Rai 2».
Perché un programma di cronaca nera dopo pranzo fa questi ascolti?
«Perché racconta quello che accade in Italia senza pregiudizi o falsificazioni. Non spettacolarizziamo la notizia, non enfatizziamo il negativo e scappiamo dal morboso. Siamo un programma di cronaca, non abbiamo balletti, non ospitiamo vip, modelle e influencer, per dedicarci al racconto del reale».
La tua squadra – la criminologa Vittoria Bruzzone, Piero Colaprico, Candida Morvillo – com’è accolta dalla critica?
«Bene perché i nostri esperti parlano di cose che conoscono in base al loro vissuto e alle loro competenze. Non chiamiamo ospiti a gettone che esprimono opinioni».
Niente vita mondana, sei un conduttore tv atipico?
«Rifuggo qualsiasi personalismo e cerco di trasmettere la mia passione facendo trasparire ciò che penso. Non ho problemi a mostrare i miei sentimenti. Finito di lavorare sto con mia moglie e mio figlio».
Eviti salotti e non ammicchi al gossip patinato.
«Sì. Rispetto i colleghi che lo fanno, ma non è nel mio stile. È una scelta di vita, anche se forse non aiuta il mestiere. La riservatezza è una filosofia professionale. L’albero che cade fa più rumore della foresta che cresce».
Come va con i vertici aziendali? Hai detto che il tuo programma era il più inosservato dalla Rai.
«Fino all’anno scorso lo era, mai un comunicato, una citazione. Da quest’anno con Giampaolo Rossi amministratore delegato e grazie a Paolo Corsini, capo degli Approfondimenti, per la prima volta ci sentiamo sostenuti. La nostra forza è essere sulla notizia in tempo reale come i tg. E questo anche grazie alla considerazione dei colleghi perché, fin dal primo giorno, le nostre richieste alla Pianificazione mezzi e produzione vengono soddisfatte».
In passato non è stato così, visto che hai fatto causa alla Rai per demansionamento.
«Di cause ne ho fatte e vinte quattro. La Rai è una grande realtà dove, a volte, le cose sbagliate sono opera di piccoli uomini che poi scompaiono, cancellati dall’azienda. Non ho mai trovato la benché minima ostilità dalla Rai durante quelle vertenze, anzi. Il giorno in cui ho ripreso a condurre i colleghi mi hanno detto “ben tornato al tuo posto”».
Si parla di alcune prime serate: quando andranno in onda e come saranno?
«Io e Corsini concordiamo sul fatto che non si possono fare programmi spot, ma serve un progetto forte, continuativo nel tempo, in sinergia con la striscia quotidiana. Lo dico da tempo, ma lo vedo realizzato da altri editori».
Non sulla cronaca nera, però.
«Meno male, così possiamo farlo noi. Però Paolo Del Debbio è bravo a partire dalla cronaca per arrivare alla politica. Da vent’anni propongo una prima serata, adesso c’è Quarto grado, e Chi l’ha visto?, che è un grande format, parte dagli scomparsi e si allarga ad altri casi».
Perché questa espansione della cronaca nera?
«Perché interessa alla gente. E poi c’è qualcuno che pensa di sfruttarla per fare ascolti, ma non va distante».
Però è innegabile che faccia audience.
«Il pubblico premia chi sa trattare certi casi, ma non ci s’improvvisa. Non c’è automatismo fra cronaca nera e grandi ascolti».
Femminicidi, persone scomparse, apparizioni religiose, baby gang, stupri: che Italia è quella di Ore 14?
«È una parte di Paese senza cuore. Per fortuna una realtà limitata, gli italiani non sono così».
Rispetto a qualche anno fa vedi un peggioramento?
«Soprattutto tra i più giovani. Anche ai miei tempi eravamo spregiudicati, ma non così crudeli. Vedo fatti spaventosi. Per esempio, il compiacimento di chi assiste alla mortificazione di una vittima come a uno spettacolo. Parlando dei casi più noti, cosa possiamo dire di Alessandro Impagnatiello che accoltella la compagna con un bambino di 7 mesi in pancia, se non che il male nella sua accezione più diabolica è tra noi?».
Da Paderno Dugnano in poi molti minorenni commettono delitti senza movente o per futili motivi.
«Esiste un disagio psichico nelle scuole e nelle comunità di ragazzi problematici che sfugge a ogni controllo. Gli adolescenti che compiono atti violenti vengono trattati come poveri bambini da proteggere. Questo crea un senso di impunità. Quando una minaccia di morte a un proprio simile per un banale litigio di strada o certe risse non producono conseguenze o sanzioni, trasmettiamo ancora un’abitudine all’impunità. Di fronte a certi atti violenti, carabinieri e poliziotti si sentono dire: tanto non ci potete fare niente perché siamo minorenni».
Come sono cambiate le bande giovanili rispetto a quando te ne occupavi a inizio carriera?
«Oggi i ragazzi insultano le forze dell’ordine nei post, nei social, nelle loro canzoni perché sono convinti di poter fare qualsiasi cosa e purtroppo la legge glielo consente».
Anche dal tuo osservatorio hai conferma di una relazione diretta tra omicidi, risse, violenze sessuali e immigrazione irregolare come documentato dal ministero dell’Interno?
«Non c’è dubbio. Innanzitutto, c’è un numero spaventoso di ragazzi extracomunitari non accompagnati. Premesso che fatichiamo a darla ai nostri figli, a più di 20.000 minori extracomunitari non riusciamo a dare alcuna educazione. Sono ragazzi che vivono senza genitori, affidati alle comunità, dove basta la presenza di una mela marcia per trasmettere le peggiori abitudini. Accanto a questi ragazzi ci sono i clandestini che vivono fuori dalla legalità. Che cosa può fare chi è senza una casa e un lavoro se non commettere reati? È un problema oggettivo, che non si può negare».
Tornando a parlare di Rai, qualche giorno fa Antonio Marano, presidente pro tempore, ha ipotizzato una direttiva che impedisca ai dirigenti di condurre programmi. Se fosse approvata, oltre a te dovrebbero lasciare il video Sigfrido Ranucci, Monica Maggioni, Francesco Giorgino e Alberto Matano.
«Marano si è dimenticato di Matano (ride). Battute a parte, io, Ranucci e Matano siamo dirigenti ad personam, senza poteri se non sui contenuti dei nostri programmi. Non possiamo comprare neanche una biro. Ci sta che un direttore non possa condurre se non espressamente autorizzato».
Se dovessi scegliere tra la vicedirezione e la conduzione
di Ore 14 per cosa opteresti?
«Sceglierei tutta la vita Ore 14. Un vicedirettore ad personam è un generale senza esercito. Non credo che quella di Marano sia una mossa contro Ranucci, muoiano Sigfrido e tutti gli altri vice ad personam. Report è un valore per l’azienda. Credo che Marano abbia sollevato la questione in riferimento a una norma già esistente».
Vita dura a TeleMeloni anche se si è considerati in quota Lega?
«Questa quota è davvero ridicola. L’ultima volta che ho parlato di Rai con Matteo Salvini era il 2003. Uscivo da corso Sempione e lui, consigliere comunale, manifestava contro il canone con un gruppo di militanti».
Già allora.
«È una battaglia storica della Lega».
E tu che cosa ne pensi?
«Che il canone deve esserci e deve essere di stimolo per fare un prodotto sempre migliore. Sarebbe bello produrre tutto gratis, ma a quel punto le risorse dovrebbero essere attinte altrove. Se pescassimo di più dalla pubblicità creeremmo seri problemi agli altri editori. Ricordiamoci che la Rai assolve a funzioni che non possono competere alle tv commerciali, come l’informazione regionale e dalle sedi estere. Detto questo, se mi consenti, voglio farti io una domanda».
Prego.
«Se uno è in quota a un partito resta senza lavoro e fa causa alla Rai? La verità è che sono sempre stato lontano dalla politica».
Però hai sposato Miss Padania…
«E lo farei ancora. Se la mia appartenenza dipende dal fatto che ho sposato una ragazza che a 18 anni ha vinto un concorso di bellezza, vabbé. Allora, se Sara avesse vinto anche Miss Italia invece di arrivare solo in finale, avrei la targa di Forza Italia?».
O di Fratelli d’Italia.
«Quello no; all’epoca non c’era».

 

La Verità, 21 dicembre 2024

«Il patriarcato? Resiste nelle comunità islamiche»

Ex maestra di tennis, ex deputata Pd, femminista, in prima linea sui diritti civili e sui temi dell’educazione con Didacta Italia, pochi giorni fa Anna Paola Concia ha firmato con Simone Lenzi e Ivano Scalfarotto un decalogo su «Destra, sinistra e l’alternativa che vorremmo». Dal 5 agosto 2011 è unita civilmente con la psicologa Ricarda Trautmann che ha assunto il suo  cognome. Vive a Francoforte.
In occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne ha postato su X: «Mi scuserete se non partecipo alla saga delle banalità che oggi si ripetono urbi et orbi». Reazioni?
«Alcune donne si sono offese, molte hanno capito e concordato, gli odiatori che insultano non li considero. Alle donne che si sono offese ho spiegato che, siccome per me la violenza di genere è una cosa seria, rifuggo gli appuntamenti di circostanza perché, sempre secondo me, servono atti legislativi e processi culturali graduali e profondi».
Ci si aspettava che partecipasse alla manifestazione del 25 novembre che avveniva a ridosso dell’anniversario dell’uccisione di Giulia Cecchettin e dell’intervento del ministro Giuseppe Valditara?
«A parte il fatto che vivo in Germania, penso che bruciare la fotografia di un ministro com’è stato fatto non sia il modo migliore per rispondere alla violenza che si voleva condannare con quella manifestazione».
Il cui slogan era «Disarmiamo il patriarcato»: bersaglio corretto?
«Su questa parola c’è la solita polarizzazione. Chi lo nomina è di sinistra, chi non lo nomina è di destra. Trovo che il manicheismo non aiuti a capire. In 40 anni di lotte, noi femministe al patriarcato abbiamo dato una bella botta. Ora è tramortito, rimangono gli strascichi di una cultura che ancora non si rassegna. Femminicidi e violenza di genere sono azioni di uomini che non accettano la libertà femminile».
Come definisce il patriarcato?
«Le società patriarcali erano quelle in cui l’uomo era padre padrone».
Ovvero il patriarca: in quali ambienti c’è ancora?
«Nelle società occidentali grazie alle battaglie femministe è tramortito. Ma la cultura patriarcale si esprime soprattutto nelle relazioni affettive. Sono state fatte delle leggi, si son fatti passi avanti sul piano culturale. Oggi noi donne oggettivamente non viviamo più con il patriarca sopra la testa, sebbene resistano disuguaglianze tra uomini e donne, come il gender gap. Il patriarca sopravvive nei Paesi dell’integralismo islamico. E in quelle comunità insediate nei Paesi occidentali che non si sono integrate».
L’integrazione è una sfida possibile?
«Io vivo in un Paese dove gli immigrati sono il 20%. Sebbene la Germania investa molto sull’integrazione, in alcune aree non è compiuta. Non volerlo vedere è un errore madornale».
Qualche giorno fa sul sito FeministPost Marina Terragni ci ha ricordato il Capodanno 2016 a Colonia quando decine di donne furono violentate da arabi e nordafricani.
«Fu una pagina molto buia che aprì gli occhi sulla necessità di maggior integrazione di uomini e ragazzi provenienti dai Paesi musulmani. Ci furono denunce e accuse di razzismo, ma i fatti erano inequivocabili».
Che cosa disapprova del neofemminismo?
«Il suo integralismo e la sua matrice profondamente anti occidentale. È una frangia coccolata dai media che tende a cancellare la differenza sessuale».
È anche incline al vittimismo?
«Purtroppo sì. L’identificazione tra l’essere donna e l’essere vittima è una trappola mortale che rischia di consolidare il patriarcato».
Appurato che giuristi e sociologi affermano che non c’è più, che cosa sopravvive del patriarcato?
«Il machismo e il maschilismo. Per sconfiggerli non bastano le leggi, serve un processo culturale che ci impegni tutti».
Intervistata dalla Verità Giorgia Meloni ha detto che le violenze e gli stupri sono favoriti dall’immigrazione irregolare: è razzista o fattuale?
«Nella marginalità c’è prevaricazione e quindi anche violenza sessuale. È un elemento di disagio sociale che vale sia per gli immigrati irregolari sia per i cittadini italiani».
Intanto i dati dicono che l’incidenza sui reati di violenza e stupro è superiore alla percentuale di immigrati nel nostro Paese.
«Questo problema non può essere affrontato dicendo se sono peggio gli immigrati o gli italiani. Sappiamo tutti che se la violenza è esercitata da un amico le donne tendono a denunciare meno. L’Istat ci dice che esiste una violenza sommersa che deve essere indagata e contrastata».
I femminicidi perpetrati sono espressione di mascolinità tossica o sintomo di debolezza?
«Un uomo che risponde con l’assassinio di una donna che gli ha detto no è sicuramente espressione di mascolinità tossica».
L’incapacità di accettare un abbandono è sintomo di debolezza?
«Certo che lo è. Purtroppo, stiamo educando generazioni incapaci di accettare le sconfitte. Che, invece, nella vita esistono. Siamo cresciuti anche attraverso le sconfitte, accettandole ci siamo rinforzati. Bisogna imparare a farci i conti».
Chi erano i suoi genitori?
«Due dirigenti dell’Azione cattolica. Mio padre è stato formatore di Gianni Letta, erano entrambi di Avezzano».
Era un padre autoritario o amico?
«Era un padre severo. Un democristiano puro. Si è confrontato con quattro figli impegnativi, io sono l’ultima. Negli anni delle contestazioni a casa mia c’era tutto l’arco parlamentare. Mia sorella era del Pdup, mio fratello radicale, un altro del Msi, io comunista. Facevamo discussioni feroci, ma i miei genitori erano democratici e noi abbiamo vissuto ognuno la propria vita».
Perché oggi tanti cosiddetti maschi bianchi non accettano l’abbandono di una donna?
«Qui ci vorrebbe una psicologa… Se vuole giro la domanda a mia moglie che lo è».
Prego.
Risponde Ricarda Concia, criminologa: «La causa è la mancanza di autostima. Oggi si è creato uno squilibrio, gli uomini non sono cresciuti quanto le donne e hanno perso il privilegio del capo. Inoltre, se le cose vanno bene, l’uomo medio attribuisce il merito a sé stesso, se vanno male dà la colpa agli altri, nel caso specifico alla donna».
Perché secondo lei in questi anni si è parlato di mamme elicottero e mamme spazzaneve e mai di padri?
«Infatti, i padri non esistono e non hanno mai responsabilità… Mi sembra una follia».
Le mamme delle chat di Whatsapp fanno di tutto perché i figli non trovino ostacoli?
«Tutto questo sindacalismo protettivo dei figli non li aiuta a crescere. Quando andavo a scuola l’insegnante aveva sempre ragione. Andavo malissimo in matematica, avevo un professore complicato, ma nonostante questo i miei genitori non mettevano mai in discussione l’autorità dell’insegnante. Lo scardinamento dell’autorevolezza dell’insegnante rende più fragile il percorso educativo. Non si può ricorrere al Tar perché tuo figlio ha preso sette anziché otto. Tu sei un genitore e fai il genitore, l’insegnante fa l’insegnante».
Deriva da questi atteggiamenti l’incapacità di metabolizzare un’opposizione femminile?
«Filippo Turetta è l’esempio eclatante di questo».
Mamme spazzaneve e padri amici educano figli fragili?
«Io non sono una tradizionalista. Con i miei genitori era difficile parlare, oggi si parla di più e questo per me è un fatto positivo. Farsi raccontare, parlare e confrontarsi non vuol dire essere genitori amici».
Può essere la scomparsa del padre la malattia della società contemporanea?
«No. Sono d’accordo che c’è la morte del padre, ma è un fatto storico. Oggi dobbiamo costruire insieme un tempo nuovo, ma non a colpi di machete».
Il gender può essere un’espressione perversa del patriarcato?
«Oggi la fluidità sessuale è un dato di realtà. Penso che tutti debbano avere diritto di cittadinanza. Acquisita questa fluidità, rifiuto la cancellazione delle donne. Sono per riconoscere gli uomini, le donne, le persone fluide, le persone transgender e chi più ne ha più ne metta, ma senza cancellare nessuno».
Il ricorso alla maternità surrogata e alla Gpa è una forma di sfruttamento del corpo della donna?
«Sì. Durante la manifestazione dell’altro giorno un cartello recitava: “Non siamo macchine per la riproduzione, ma donne pronte alla rivoluzione”. Apprendo con piacere che anche le donne di Non una di meno sono contro la Gpa».
L’ammissione di persone trans o iper-androgine alle competizioni femminili come alle ultime Olimpiadi può essere espressione di una cultura patriarcale?
«Sono una donna di sport e sono una che non esclude ma allo stesso tempo non impone: penso che se oggi molte persone trans atlete vogliono gareggiare è arrivato il momento di creare una terza categoria».
Mah…
«Lo sport deve avere condizioni paritarie di partenza: tra una persona trans e una donna non lo sono. È un dato scientifico. Chiediamoci perché le donne trans che diventano uomini non chiedono mai di competere nelle gare maschili. La biologia esiste e ha la sua incidenza».
Lo sfruttamento commerciale del corpo femminile nelle piattaforme, nei social, nella promozione pubblicitaria è un’espressione del maschilismo o del patriarcato?
«Del maschilismo, del racconto maschile sul corpo delle donne».
Le neofemministe vorrebbero legalizzare la prostituzione.
«Sono favorevoli al sex worker, io sono contraria. La prostituzione femminile risponde a una domanda di sesso a pagamento di uomini. Il 90% di questa risposta comporta la tratta delle donne. E sono donne giovani. Poi c’è un 10% di donne che decidono di vendere il proprio corpo. In Italia, grazie alla legge Merlin, se una donna vuole prostituirsi può farlo, ma promuoverlo a emblema della libertà femminile è imbarazzante. Il 90% sono donne sfruttate».
Le piaceva lo spot per la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne che recitava: «Se io non voglio, tu non puoi»?
«Francesca Capelli, una giornalista che vive in Argentina, ha suggerito che era meglio scrivere: “Se io non voglio, tu non devi” anziché tu non puoi. Perché potere, può eccome, purtroppo».
Che cosa pensa del fatto che l’8 marzo scorso Non una di meno ha impedito la partecipazione alle manifestazioni di donne che volevano ricordare le vittime del massacro del 7 ottobre?
«La fobia antioccidentalista di Non una di meno è così forte da negare gli stupri del 7 ottobre. Questo è contro il femminismo. Per quanto mi riguarda, loro possono chiamarsi come vogliono, ma non sono un movimento femminista».
È favorevole alla creazione di un’associazione Saman Abbas come proposto dal professor Ricolfi?
«Totalmente. Anzi, sono disponibile a dare una mano. Bisogna occuparsi anche di queste ragazze che sono più esposte al patriarcato».

 

La Verità, 30 novembre 2024

«Perché molti ragazzi sono indifferenti a bene e male»

Neuropsichiatra e psicoterapeuta, esperta dei rapporti tra genitori e figli nell’età evolutiva, autrice di numerosi saggi sull’argomento, a Mariolina Ceriotti Migliaresi ricorrono spesso università e tribunali quando hanno bisogno di illuminazione in materia di devianze ed educazione di bambini e ragazzi.

Dottoressa Ceriotti Migliarese, che diagnosi fa della situazione dei giovani e degli adolescenti di oggi?

«Davanti a comportamenti “fuori norma”, credo sia importante distinguere tra le manifestazioni più o meno gravi di disagio psicologico e la vera patologia psichiatrica. Per esempio, se un ragazzo o una ragazza si tagliano, possiamo trovarci davanti a una vera patologia, oppure a un meno grave atto di emulazione. Non è la stessa cosa: ognuno ha una storia personale che va letta con attenzione. Oggi siamo di fronte a una generazione che appare particolarmente fragile, poco capace di far fronte al dolore psichico: i ragazzi non riescono a tollerare la frustrazione, il brutto voto, il rifiuto da parte di un amico, e non sanno tollerare i toni grigi della vita. Abbiamo abituato i nostri figli alla soddisfazione immediata di ogni loro esigenza, e si trovano perciò spesso impreparati alla fatica della crescita».

Quella di questi ultimi due anni è la situazione di massimo smarrimento dei ragazzi o ci sono stati in passato momenti di disorientamento altrettanto acuto?

«Pensiamo alle violenze e agli omicidi degli anni Settanta e Ottanta. La differenza sta nel fatto che in quel caso la distruttività non era fine a sé stessa, ma era spinta da un’idea: bisognava uccidere “il nemico” per dare spazio a un ideale di cambiamento. La violenza, pur nel suo orrore, era pensata come un male necessario in relazione a un progetto».

Come si spiega il fatto che viviamo un po’ tutti in condizioni di relativo benessere, eppure constatiamo negli adolescenti fenomeni che rivelano forti sofferenze?

«Ogni nuova generazione è fatta per scrivere una pagina nuova e andare oltre quella precedente. Oggi abbiamo chiuso il futuro ai nostri figli, diamo loro un’immagine del vivere lamentosa, triste e insoddisfatta. Vale la pena vivere? Il mondo che mostriamo non appassiona e fa paura. Le loro energie vitali, invece di fiorire ed espandersi, collassano. La risposta a questa mancanza di prospettive è che forse è meglio cercare rifugio in qualcosa di immediato, che può sedare l’ansia e/o dare piacere ed euforia per evitare il vuoto».

Negli ultimi mesi, a partire dalla strage di Paderno Dugnano in cui un diciassettenne ha ucciso a coltellate i genitori e il fratello, si sono intensificati atti di violenza immotivata. Che spiegazione possiamo darci?

«Il terribile caso di Paderno è tuttora misterioso, e non credo si possa escludere una frattura psicotica della personalità. Molti casi di violenza improvvisa e immotivata sono collegati all’uso di sostanze, che alterano la già precaria capacità di controllo dell’adolescente. Ma questo non è sufficiente per dare ragione del fenomeno. Esplosioni così violente fanno pensare anche che manchino in chi le attua presupposti essenziali: l’abitudine consolidata a riconoscere l’altro come persona e il progressivo allenamento al controllo. Sono competenze che vanno insegnate fin dalla prima infanzia, perché da solo il bambino non ne è capace: serve l’accompagnamento paziente dell’adulto perché impari a regolare le emozioni e controllare gli impulsi».

A quel fatto ne sono seguiti altri, come quello di una donna di 42 anni uccisa a Viadana da un diciassettenne che ha detto: volevo scoprire cosa si prova. Un altro ragazzo di 16 anni, a Cesano Maderno, ha colpito 19 volte con una mazza da baseball un uomo di 60 anni, dicendo: fosse stato un altro era la stessa cosa, non so perché l’ho fatto. Di questa violenza così efferata colpisce soprattutto la totale gratuità.

«Colpisce e lascia attoniti. Perché mostra che l’altro non è più percepito come persona, ma solo come un oggetto tra i tanti. Sembrano saltati i capisaldi più semplici e condivisi del nostro essere uomini. E sembra scomparsa la distinzione più elementare tra bene e male».

Per queste azioni restano valide le diagnosi che parlano di crisi di valori, di mancanza di comunicazione fra genitori e figli o di eccesso di protezione delle famiglie?

«Gli adolescenti non sono marziani, ma ragazzi che crescono e affrontano l’adolescenza in continuità con la loro esperienza infantile. Il bambino ha bisogno di un adulto che lo “vede”, si prende cura di lui, fissa i confini per la sua sicurezza e gli insegna le regole fondamentali del rispetto di sé e degli altri. Nell’infanzia si allenano le competenze necessarie per vivere con agli altri. Dovrebbe essere un tempo protetto ma non soffocante, che lascia anche lo spazio per mettersi alla prova. Oggi i bambini sono iper-controllati eppure soli, in un mondo che nell’esperienza concreta è molto chiuso – case piccole, pochi parenti e amici, scarsa libertà di movimento – ma nello stesso tempo è senza confini nell’esperienza virtuale, con un mondo esterno che invade senza protezione. Il nostro amore si esprime soprattutto attraverso gli oggetti, ma non diamo loro tempo e pazienza. Tempo per ascoltarli, ma anche pazienza per correggerli quando serve, aiutandoli a mettersi dal punto di vista degli altri».

Manca la minima consapevolezza di che cosa siano la vita e la morte?

«L’adolescente vuole allontanarsi dal passato e dalle relazioni infantili, ma fatica a immaginarsi il futuro. Il tema della morte come evento personale – io posso morire – si presenta proprio con l’adolescenza e introduce il senso di un limite difficile da accettare. La morte e la sua ineluttabilità non sono un tema patologico ma esistenziale, e per integrarlo nella vita serve una elaborazione culturale che gli dia senso. La nostra società fa spettacolo della morte “lontana”, ma nasconde e nega la realtà della morte concreta e vicina. La maggior parte dei ragazzi – e degli adulti – non ha mai assistito un morente, nemmeno una persona cara. La morte è diventata un evento privo di significato esistenziale, e non viene più elaborata sul piano culturale: questo lascia esposti, soprattutto i più giovani, a una immensa solitudine. A questo punto la morte può essere solo negata, sfidata o irrisa. Purtroppo, però, togliere significato alla morte toglie senso e valore anche alla vita».

Rispetto al disagio giovanile di cui si parla da decenni quali possono essere le cause di queste nuove forme di violenza?

«Nella violenza gratuita c’è il vuoto lasciato da una profondissima mancanza di speranza, che si riempie di contenuti distruttivi del sé o dell’altro. La mente umana non tollera il vuoto, e dunque, in mancanza di progettualità e di futuro, si aggrappa a tutto ciò che può saturarla; qualcosa che tiene lontane le domande e il dolore mentale: droghe, pornografia, alcool, atti aggressivi».

Colpisce anche l’età di questi ragazzi assassini, tutti minorenni. Tra le cause può esserci la pandemia, con le restrizioni che hanno impedito agli adolescenti in piena crescita di andare a scuola, avere relazioni, fare sport e hanno insegnato loro a diffidare dei propri simili?

«La pandemia e l’isolamento hanno tolto ai ragazzi uno dei motori fondamentali della crescita, ovvero agire nel mondo attraverso il corpo. Il senso di solitudine, isolamento e noia così comuni in adolescenza non hanno potuto trovare il loro antidoto naturale nell’uscire, aggregarsi, fare esperienza: tutto è diventato virtuale, accentuando così il valore dell’apparenza, dell’immagine, a scapito dell’autenticità dei rapporti reali».

Che ruolo hanno i social network e la vita online in questo scenario?

«Per chi è nato negli ultimi 20 anni una vita senza connessioni virtuali è assolutamente inimmaginabile. I nostri ragazzi sono immersi nel mondo virtuale, un mondo eccitante e pervasivo che sembra poter rispondere a ogni necessità e a ogni curiosità. Una confort zone che dà a ragazzi chiusi nella loro stanza l’illusione di avere molte relazioni, di poter avere scambi affettivi, di conoscere il mondo perché lo vedono da uno schermo. Per crescere, invece, è indispensabile misurarsi con la realtà».

Un’altra novità è la comparsa delle sex roulette, giochi di gruppo in cui i partecipanti hanno rapporti sessuali con volto coperto e senza protezione e perde la ragazza che rimane incinta. Questi ragazzi hanno provato tutto e cercano trasgressioni sempre più adrenaliniche?

«Temo sia così. Ma quello che qui più mi spaventa è il ruolo delle ragazze, che accettano un gioco così rischioso sulla loro pelle. Ragazze che hanno evidentemente del tutto perso il senso del proprio valore personale, e della preziosità del loro corpo, capace di generare la vita».

Il sentirsi annoiati da tutto si sposa con l’assenza del riconoscimento della vita come dono?

«Oggi parlare di “vita come dono” è qualcosa di molto lontano dalla sensibilità comune. Si pensa alla vita come a qualcosa di cui possiamo disporre a piacimento, e che ha come scopo l’auto-realizzazione. La vita invece è un regalo che ci è stato fatto perché siamo chiamati a un compito personale, che spetta solo e proprio a noi. Eppure, proprio sapersi speciali, chiamati alla vita per un compito personale è ciò che può dare un senso all’esistenza e che permette di non sperimentare mai la noia».

Cosa pensa del caso della ragazza di 22 anni di Traversetolo che dopo aver portato avanti due gravidanze, sembra da sola, ha seppellito i due neonati?

«Non voglio esprimere nessun giudizio su questa terribile situazione, che desta profondo sgomento e incredulità. Vorrei conoscere questa ragazza, ascoltarla, per poter almeno in parte comprendere come può essere arrivata a tanto».

In Cuore nero di Silvia Avallone, un ragazzino trascurato dai genitori appicca un incendio alla scuola e al maestro che gliene chiede conto risponde: «Non sapevo più dove mettere la rabbia». Potrebbe essere questo il motivo di tanta violenza gratuita degli adolescenti di oggi?

«Mi sembra un esempio molto calzante. Ricordiamoci però sempre che la rabbia, dal punto di vista psichico, è l’inverso della depressione… La rabbia permette di non sentire il dolore psichico perché lo allontana da sé e lo espelle attraverso l’atto distruttivo».

 

La Verità, 5 ottobre 2024

Gli esperti: macché patriarcato. Inascoltati

Stavolta il mantra «ce lo dice la scienza» non vale. Sembrava un dogma, tassativo e inconfutabile, avendoci accompagnato nelle ultime campagne comportamentali, nelle recenti ubriacature collettive, dalla pandemia al riscaldamento globale. Del resto, la scienza, medica o ecologica che sia, ha il compito di «supportare» il magistero del momento, si tratti della vaccinazione e delle restrizioni planetarie, dell’invasione buona delle auto elettriche o di «efficientare» le abitazioni. E invece no. Per la violenza contro le donne e i femminicidi il dogma si è sgretolato. Eppure, c’era da abbattere il patriarcato e con esso la famiglia tradizionale, composta da un padre e da una madre. Retaggi medievali incrollabili. Totem delle destre di tutte le latitudini. E dunque l’arsenale andava schierato al completo. Invece, tocca registrare la defezione dei competenti, gli esperti della materia, non solo restii ad allinearsi, ma fautori di un’interpretazione alternativa: le ragioni della violenza di genere risiedono nella solitudine, nel disagio giovanile, o adulto che sia, spesso intriso di narcisismo patologico. Torre di controllo, abbiamo un problema: che si fa? Niente; se psicanalisti, psicologi e psicoterapeuti smentiscono la narrazione preordinata, si fa finta di niente e si avanza imperterriti.

Da quando si scandagliano i fondali socio-psicologici dell’atroce assassinio della povera Giulia Cecchettin, i competenti della materia si esprimono a una sola voce: «Il patriarcato non c’entra». Proprio questo era il titolo dell’intervento di Massimo Ammaniti, uno dei maggiori psicoanalisti italiani, ospitato venerdì con qualche imbarazzo da Repubblica. Le violenze e le sopraffazioni maschili «non nascono oggi dal potere patriarcale, che le usava per legittimare la sua supremazia», scrive nascosto nelle pagine interne Ammaniti, «originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con rabbia e odio». Stessa sorte capita due giorni dopo al più cool degli psicanalisti, Massimo Recalcati che alla giornalista di Repubblica che gli chiede se il crimine di Filippo Turetta sia «retaggio del patriarcato» o se sia più corretto parlare di «ferita narcisistica», risponde: «Il mito del nostro tempo è quello del successo individuale. Si tratta di un nuovo imperativo che rende impossibile l’esperienza del fallimento. Subire il rifiuto di una ragazza significa riconoscere i propri limiti (…) Per questo a volte il ricorso alla violenza sostituisce la dolorosa constatazione della propria insufficienza». Concetti chiari, quelli espressi da «uno dei più lucidi e autorevoli indagatori dell’animo umano», come recita la presentazione della collana di opere che il quotidiano sta testé pubblicando, ma che forse avrebbero cromaticamente stonato sotto l’«Onda fucsia», il titolo d’apertura del giornale che illustrava la manifestazione anti-patriarcato di sabato. Bel paradosso per un luminare, la scarsa visibilità. Non l’unico, nelle interpretazioni che si dibattono su questa tragica vicenda. Basta citare quello «nordico», così chiamato dal rapporto dell’Onu che non si capacita di come «nonostante siano leader mondiali in termini di uguaglianza di genere», i Paesi del Nord Europa presentano «tassi di violenza da partner intimo contro le donne sostanzialmente più alti della media Ue». Impossibile rassegnarsi, per le vestali turbofemministe di casa nostra. Impossibile accettare anche lo scenario prospettato dal filosofo Massimo Cacciari sulla Stampa: «La famiglia patriarcale è già defunta con la famiglia borghese, dove proprio la “patriarcalità” si sfascia in mille forme di incomunicabilità».

Tornando nell’alveo della psicologia, la materia che aiuta a riconoscere il pericolo di far coincidere il vivere con un rapporto amoroso, intervistato dal Corriere della Sera, il terapeuta dell’età giovanile Gustavo Pietropolli Charmet osserva che questo sortilegio trasforma il compagno in uno stalker. Quando si concretizza l’abbandono, «viene fuori non solo rabbia o malinconia, ma la disperazione di chi si sente definitivamente perduto. E, ai suoi occhi, la responsabile di ciò è la persona che aveva fatto il sortilegio e poi l’ha rotto». Pietropolli Charmet è solo l’ultima delle voci che contesta il ritornello sul patriarcato. Al Sussidiario.net Paolo Crepet, autore di Prendetevi la luna (Mondadori), aveva detto: «La teoria per cui non c’è da fidarsi perché noi maschi, siamo dei precursori delle violenze, se non degli assassini, mi sembra una teoria nazista: i nazisti ragionavano così, ovvero secondo genetica». Ancora più definitivo, lo psicanalista Claudio Risé sul nostro giornale: «Come si fa a vedere il patriarcato in un poveretto che fa un delitto confuso e pieno di errori, e finisce in un’autostrada senza benzina? Lui è un povero assassino, ma le autorità e i comunicatori che lo scambiano per un esempio di patriarcato non sanno di cosa parlano».

Già, le autorità e i comunicatori. Può succedere che, a volte, l’ideologia li renda sordi ai contributi della scienza. A volte.

«Il vero rivoluzionario fu il generale Dalla Chiesa»

A differenza di altre opere sugli anni di piombo viste di recente, compresa I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, trasmessa ieri sera da Rai 3, Il nostro generale è «un film», come preferisce chiamarlo Sergio Castellitto, che ti rimane appiccicato addosso. Merito del regista Lucio Pellegrini (e Andrea Jublin), degli sceneggiatori e di tutto il cast nel quale, oltre al protagonista che incarna Carlo Alberto dalla Chiesa, spiccano Teresa Saponangelo (la moglie) e Antonio Folletto (il carabiniere dei Nuclei speciali antiterrorismo). Gli ultimi quattro episodi andranno in onda su Rai 1 lunedì e martedì, ma sono già disponibili su Raiplay.

Sergio Castellitto, quanto conosceva Carlo Alberto dalla Chiesa prima d’interpretarlo?

«Lo conoscevo bene, da cittadino di quegli anni terribili. Ero un attore giovane, allievo dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, e nutrivo ammirazione per lui. Perciò, ora, trovandomi a interpretarlo, non ho avuto problemi di conflitto. Nutro ammirazione anche ora per i suoi figli, per il modo in cui hanno difeso, testimoniato e protetto la figura del padre fino a oggi, e per il pudore con cui non hanno mai ceduto al vittimismo che avrebbe potuto prenderli».

Come definirebbe il generale Dalla Chiesa?

«Una persona di stampo quasi ottocentesco, ma che ha saputo essere contemporanea al suo secolo. Trovo significativo il successo che il film ha avuto finora, perché per la prima volta una serie tv racconta che il piombo era quello delle P38, ma anche la pesantezza che avevamo nell’anima».

Perché trova significativa la risposta del pubblico?

«Ho avuto la sensazione di una collettività interessata a ritrovarsi attorno a questo grumo di memoria, quasi un’emotività nazionale, non dico patriottica, oggi parola rischiosa. Nell’approfondire la memoria di quel decennio può esserci la ricerca di un’identità. Forse l’abbiamo rimosso, ma abbiamo vissuto un clima da guerra civile. Ricordo che una mattina, nel breve tragitto per l’Accademia la polizia mi fermò per tre volte, chiedendomi i documenti».

Forse abbiamo rimosso quel clima e anche Dalla Chiesa lo ricordiamo solo per due o tre cose, l’iscrizione alla P2, il secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro e l’agguato della mafia?

«Questa è la narrazione prevalente, non la mia. La vicenda della P2 è stata banalizzata, dimenticando il contesto in cui gli proposero l’iscrizione, quando s’ignorava ciò che sarebbe diventata. In quel momento, Dalla Chiesa era solo e isolato anche nell’Arma dei carabinieri perché i suoi successi ingelosivano. Quanto al fatto di essersi risposato, dopo aver sempre amato teneramente la prima moglie e aver incontrato un altro amore in un momento ancora di solitudine, questo me lo rende ancora più umano e vicino. A proposito della morte tragica, lo ricordo come il generale, non come il prefetto di Palermo. Con il cappello, l’uniforme e un linguaggio che può sembrare retorico quando parla del dovere di difendere la democrazia».

Può essere retorico pensare che un ufficiale dei carabinieri sia un grande servitore dello Stato?

«Non ne sono convinto. Quando un poliziotto, un finanziere o anche un politico sbaglia lo si definisce corrotto. Quando sbaglia un carabiniere si usa la parola infedele. Questa è la differenza. Nell’Arma la fedeltà non è alle regole, ma ai principi che stanno sopra le regole e che lo guidano nei momenti di svolta».

Quando gli chiedono di tornare a Palermo per combattere la mafia?

«Tutti i nuovi incarichi li accetta per senso del dovere, perché non poteva non farlo, per continuare a guardare in faccia i figli. Ricordiamoci che ha vissuto e fatto vivere la sua famiglia in una sorta di reclusione, nelle caserme. La figlia Simona si è sposata in un garage, il funerale della moglie si celebrò in un hangar. Quando va a trovare Patrizio Peci, in carcere, gli dice: “Ho vissuto tutta la mia vita in guerra”».

Guerra è la parola più pronunciata.

«Perché lo è stata. Una guerra che ha segnato non solo gli schieramenti politici di quei giovani, ma i tragitti esistenziali fatti di rimorsi, di pentimenti, di ferite non rimarginabili. Una generazione di italiani è diventata orfana».

Il racconto si snoda nella contrapposizione speculare tra due gruppi di giovani, «i monaci della rivoluzione» e «i monaci di Dalla Chiesa».

«Certo. Teniamo presente che l’idea d’insurrezione armata può essere molto seducente per una generazione che pensava di avere ragione. La lotta contro l’ingiustizia sociale può esprimersi con metodi pacifisti o con la violenza, come avvenne. Anche Dalla Chiesa è stato a sua volta un innovatore. Ha inventato un metodo investigativo, ha capito che serviva una specializzazione professionale, ha dato la giusta importanza alla psicologia, ha riconosciuto dignità all’avversario».

A Peci che gli chiede perché ha fatto il carabiniere, il napoletano Trucido risponde: «Per gli stessi motivi per cui tu volevi fare la rivoluzione, un mondo più giusto dove la gente non deve avere paura dei prepotenti».

«Sono due giovani che si confrontano su un tema che li investe in modo totalizzante. Però, si deve scegliere da che parte stare».

Quando Peci gli dice: «Sei un proletario che ha sbagliato divisa», viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia che vedeva i proletari tra i poliziotti mentre i rivoltosi erano figli di papà?

«Solo uno illuminato come lui poteva accorgersi lucidamente di chi fossero quei giovani, cogliendone le storie esistenziali, oltre l’ideologia e la sociologia. A questo riguardo bisogna ripetere che proprio il generale si è dimostrato un rivoluzionario».

In che senso?

«Facendo il proprio dovere ha pescato i ragazzi del Nucleo speciale secondo i suoi criteri fino a creare con loro una seconda famiglia. Era il loro capo, il capo dell’Antiterrorismo, ma in un certo senso anche un loro padre. E spesso i livelli di coinvolgimento si mischiavano».

Risponde a questa impostazione anche raccontare la storia con gli occhi di un uomo dei Nuclei speciali?

«Direi di sì. È un  punto di vista diverso dal solito. Ci sono i terroristi, le vittime e i sopravvissuti che portano la memoria del dolore che, altrimenti, rischia di essere archiviato. È importante dopo quasi mezzo secolo parlare di quei fatti con distacco, ma senza perdere l’odore delle ferite. Questa storia ricade inconsciamente anche sul carattere dei miei figli perché hanno un padre che ha vissuto quegli anni. I nostri libri di storia si fermano alla Seconda guerra mondiale mentre i decenni successivi restano ancora prigionieri delle polemiche. Soprattutto il decennio dei Settanta, che sono stati anni ciechi; appunto, di piombo».

Nella docu-serie su Lotta continua trasmessa da Rai 3 Erri De Luca dice che i loro, che pure portarono all’assassinio del commissario Luigi Calabresi, erano «anni di rame».

«Il rame si ossida e diventa scuro, assumendo presto il colore del piombo».

Cosa vuol dire che anche in una guerra come quella bisognava avere rispetto dell’avversario?

«Dalla Chiesa parla di rispetto perché dice che i terroristi si comportano anche loro come dei soldati. Anche in termini strategici, rispettare l’avversario vuol dire capirlo meglio e avere così più possibilità di batterlo».

Pur condannando violenza e terrorismo resta la possibilità di una redenzione per chi li ha praticati?

«Alcuni di quei brigatisti hanno fatto un percorso oltre il pentimento. Una volta mi colpì molto Franco Bonisoli, un membro della direzione delle Br che, intervistato da Sergio Zavoli, manifestò tutta la sofferenza e il tragico rammarico per gli atti compiuti, testimoniando la possibilità reale di un cambiamento».

Dopo Giovanni Boccaccio nel Dante di Pupi Avati e Dalla Chiesa cosa dobbiamo aspettarci?

«In questo periodo sono a teatro con Zorro, un monologo scritto vent’anni fa da Margaret Mazzantini, ma attualissimo. È la storia di un uomo che perde tutto e diventa un clochard: la dignità ce la dà la regola della società civile o un atteggiamento interiore? Personalmente, a volte trovo umilissimi contadini pieni di una dignità invidiabile al confronto di grandi intellettuali con i quali non dividerei un pasto».

Dalla Chiesa appare una persona che ha saputo stare in prima linea in un momento tragico ed essere ottimo padre e marito. Oggi è più difficile combinare dimensione pubblica e privata?

«Penso sia più difficile a causa della disintegrazione procurata dalla virtualità apparentemente democratica che ci fa costruire o demolire tutto in un cinguettio di poche battute. Credo che quel nucleo che si chiama famiglia, quell’aggregato di affetti, amore, sangue e anche conflitti sia una necessità fondante. Per me è così. Essendo artisti abbiamo l’opportunità di accedere a codici e strumenti come la fantasia e l’immaginazione, e questo ci aiuta. Lo dico senza fare nessun parallelo con Rita, Simona e Nando che hanno saputo rimanere sentinelle della memoria del padre».

L’ultima volta che ci siamo parlati era critico sulla gestione delle norme per la pandemia. Oggi lo è di meno?

«Spero non si ricominci a chiudere tutto. Paradossalmente, potrebbe aiutarci a evitarlo il meccanismo dei media secondo il quale, appena c’è qualcosa di più importante, come oggi sono le accise e il caro bollette, anche i problemi di salute passano in secondo piano».

Vorrebbe una revisione critica maggiore degli anni che abbiamo vissuto?

«Più onesta e più critica. Io sono iper-vaccinato, ma non approvo l’atteggiamento punitivo al quale ho assistito verso chi non voleva sottoporsi ai protocolli. Uno Stato che punisce chi non sta dentro una regola sanitaria non mi appartiene. Sì, vorrei una revisione maggiore. Una delle notizie che mi ha stupito di recente è che lo Stato paga un milione di euro al mese a chi deve mantenere nei magazzini le mascherine rivelatesi fuori norma. Siamo precipitati dentro un girone kafkiano».

Che cosa le piace e che cosa no dell’Italia di oggi?

«Mi piace il fatto che, alla fine, gli italiani trovano sempre da qualche parte risorse per avere fiducia nel futuro».

 

La Verità, 14 gennaio 2023

Nel doc Rai Lotta continua rimane la meglio gioventù

Nostalgia della rivolta. Epica e sentimenti rivoluzionari. Orgoglio dell’appartenenza. Elogio della solidarietà ribellistica. Ci sono tutti questi elementi in Lotta continua – I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, la docu-serie già visibile su Raiplay –  e il 13 gennaio su Rai 3 – tratta da un libro dell’instancabile Aldo Cazzullo. «In quegli anni ho fatto la cosa giusta insieme alla maggioranza della mia generazione», scandisce Erri De Luca nell’incipit della storia. Ma dal suo volto rugoso non traspaiono accenni autocritici. Al contrario, lo scrittore napoletano rivendica «piena lealtà nei confronti delle ragioni che ci misero insieme e che ci hanno fatto partecipare di quel movimento rivoluzionario». Posta all’inizio dei quattro episodi, la riflessione dell’ex dirigente del servizio d’ordine di Lotta continua fornisce la chiave di lettura del documentario diretto da Tony Saccucci. Gli otto anni del movimento di cui fu leader Adriano Sofri sono raccontati da ex militanti, con la sola eccezione di Giampiero Mughini che, prima di allontanarsi da quel mondo, prestò la firma di giornalista professionista per rendere possibile la pubblicazione del quotidiano. È lui l’unico testimone critico della stagione che va dalle manifestazioni alla Fiat di Mirafiori del 1968 allo scioglimento del movimento al congresso di Rimini del 1976.

Il regista afferma di aver voluto fare un film «per i nostri figli». Tuttavia, se si prefiggeva non solo di celebrare, ma anche di tramandare la conoscenza di quegli accadimenti a chi non li ha vissuti, ricorrendo quasi esclusivamente a voci di dentro, esistenzialmente coinvolte e inevitabilmente indulgenti, bisogna dire che ha mancato il bersaglio.

«Per me fu l’incontro con la felicità. C’era l’idea che il mondo non sarebbe stato più lo stesso», dice la sociologa Donatella Barazzetti. «Volevamo mettere al centro del mondo l’uomo. Non il profitto, le macchine, il commercio», testimonia Vincenzo De Girolamo, ristoratore. Nella maggior parte dei ricordi non c’è, né può esserci, la giusta distanza emotiva per dare ai fatti una prospettiva storica. Così, nonostante l’impegno di Mughini, manca chi dica che le parole di De Luca, il più consultato insieme a Marco Boato, sono inesatte e presuntuose. È lontano dal vero che i giovani che militarono in Lotta continua e nei gruppi extraparlamentari fossero «la maggioranza» di quella generazione. Anche durante i formidabili anni c’erano ragazzi che non ambivano a «fare la rivoluzione». Che semplicemente studiavano e facevano sport. Che frequentavano gli oratori e i movimenti cattolici. O militavano in formazioni diversamente orientate. La presunzione per cui chi partecipò alle formazioni di estrema sinistra stava facendo «la cosa giusta» è invece un vizio tuttora in auge se, solo il primo agosto scorso, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Sofri, Gad Lerner ne ha pubblicamente rimarcato la vita vissuta «dalla parte giusta». Nei ricordi, del leader di Lc qualcuno rimarca «la prosopopea» e la sfrontatezza con la quale, nell’affollata aula magna della Normale di Pisa, chiese a Palmiro Togliatti «perché non avete fatto la rivoluzione?».

Testimonianza dopo testimonianza si coagula la storia della parte buona del movimento. «Loro erano i più vivi e vitali, altro che le litanie del Libretto rosso di Mao», ammette Mughini. Davanti ai cancelli di Mirafiori le proteste degli operai si saldano con quelle degli studenti. Ma poco alla volta l’utopia cede il passo alla necessità di «alzare il livello dello scontro». Nel dicembre del 1969, dopo la strage di Piazza Fontana e la morte Luigi Pinelli, la situazione precipita. Nasce il servizio d’ordine, una  struttura parallela illegale. Si fa strada l’idea di ricorrere alla violenza. Nonostante De Luca parli di «anni di rame» prima dell’avvento degli anni di piombo, il 17 maggio 1972, a seguito di una lunga campagna denigratoria, viene ucciso il commissario Luigi Calabresi, assassinio che inaugura la stagione del terrorismo.

«Noi rifiutiamo l’idea che Lotta continua sia equiparabile a un’organizzazione terroristica», si difende Lerner. «Da Lotta continua nacque Prima linea. La violenza politica era il pane quotidiano di quegli anni e di quella gente», ribatte Mughini. Non sarà però il contrasto tra utopisti e fautori della lotta armata a portare alla fine di Lc. «È stato il femminismo a sciogliere Lotta continua. È il titolo voluto da Sofri», riconosce Paolo Liguori. «Sempre meglio dell’altro: Lotta continua si divide tra chi vuole la lotta armata e chi no». Dopo, gli ex militanti sono diventati una lobby? «L’ideologo è finito in galera, il leader carismatico, Mauro Rostagno, è stato ucciso dalla mafia, il capo dell’ala ecologista, Alex Langer, si è impiccato a un albicocco in Toscana», replica Boato. Prima di ammettere che, tra qualche decina di migliaia di militanti, alcuni di loro hanno conquistato ruoli di primo piano nel giornalismo, nella politica, nella cultura.

I ragazzi che volevano fare la rivoluzione è stato proiettato al Torino film festival suscitando, come ha rivelato Dagospia, non poche polemiche. Steve Della Casa, direttore artistico della manifestazione, fu l’organizzatore del corteo di Lc che portò al rogo del bar Angelo azzurro nel quale morì Roberto Crescenzio, uno studente-lavoratore di 22 anni. Per quei fatti Della Casa fu condannato a due anni con la condizionale. Ma se Torino, oltre a essere la città dove nacque e si sviluppò Lotta continua, è anche sede del Film festival, maggior cura si poteva chiedere alla Rai prima di proporre, dopo Esterno notte di Marco Bellocchio, un’altra opera contenente una visione parziale degli anni di piombo.

 

La Verità, 7 dicembre 2022

«Violenza da condannare, non uso “femminicidio”»

Cominciamo?

«Cominciamo. Però vorrei fare una premessa».

Prego.

«Siccome trattiamo argomenti sui quali le strumentalizzazioni e le mistificazioni si sprecano, voglio dire che parlo da donna occidentale, cresciuta in una famiglia in cui non c’è mai stata alcuna differenza tra uomini e donne. Una famiglia che mi ha inculcato l’idea che lo studio era la strada per l’autonomia. Sono una persona fortunata. Non ho mai sofferto mancanze di libertà o forme di violenza. In collegio dalle suore ho appreso una disciplina positiva. Sono arrivata in Italia a 24 anni con un contratto con l’università di Palermo, imparando presto cosa vuol dire muoversi da sola nel mondo».

L’accento franco-spagnolo, che le deriva dalle origini pirenaiche, spezia di sensualità la voce di Carmen Llera Moravia, scrittrice, autrice, giornalista, vedova di Alberto Moravia, conosciuto a Sabaudia, in occasione di un’intervista su Luis Buñuel. Il loro legame è durato un decennio, dal 1986 fino alla morte di lui, avvenuta nel settembre 1990, sono stati sposati. Nel maggio scorso, Bompiani ha ripubblicato Diario dell’assenza, il libro più intimo di Carmen Llera. Qualche giorno fa, invece, lei ha scritto a Dagospia una lettera di solidarietà a Barbara Palombelli: «Dire che ha giustificato con le sue parole i femminicidi è falso». Per questa intervista non ha posto condizioni, non ha chiesto riletture, non ha fatto le bizze.

Pur di difendere Barbara Palombelli è uscita dal suo guscio?

«Non sto in un guscio, chi vive a Roma m’incontra di continuo, anche se non faccio vita mondana. Non frequento i social, non vado in televisione, Barbara è un’amica. Non avevo visto Forum, guardo appena un tg al giorno, anzi due, uno italiano e uno internazionale. Ma avevo letto gli articoli di Michela Murgia e Selvaggia Lucarelli… Ho scritto, senza dirglielo, perché ho trovato ingiusto che l’abbiano accusata d’indulgenza verso i femminicidi. La sua vita dimostra quanto sia sensibile nei confronti delle persone che subiscono violenze».

Come sono le sue giornate?

«Fin da piccola ho imparato una certa disciplina. Vado a letto alle 21, non esco a cena, se m’invitano ci vediamo a colazione. Mi alzo alle 5 ed esco alle 6 e mezza. Cammino molto, compro i giornali, leggo, mi occupo della Fondazione Moravia, i miei libri sono l’ultimo pensiero. Ogni pomeriggio, vedo un film rigorosamente al cinema».

Ha detto che conduce una vita frugale come i monaci: dobbiamo crederle?

«Diciamo che sono una persona disciplinata. Ho una casa minimalista, con le poche cose che piacciono a me, e tanti spazi liberi perché sono claustrofobica. Forse posso risultare frugale agli occhi degli altri. Detesto i tavolini all’aperto, con persone che mangiano, bevono e urlano a tutte le ore. Roma non ha più un centimetro libero».

Ha detto che la ricerca dei piaceri della carne la annoia: dobbiamo credere anche a questo?

«Non ho mai cercato i piaceri della carne. Se succede, succede. Disapprovo le dipendenze, sia dalle persone che dagli oggetti. Non bevo, non fumo, non mi sono mai drogata. Sono un po’ rigida nei confronti di chi ha delle dipendenze. Le mie sono dai libri, dal cinema e dall’aria aperta. Poi ho molti amici scrittori, registi, persone comuni».

Che frequenta in salotti diurni.

«M’invitano specialmente a colazione. Con Enrico Mentana e Luca Barbareschi facciamo lunghe chiacchierate…».

Cinema, letteratura e niente tv?

«Mi annoia. I talk show non li ho mai guardati, non per questo sono fuori dall’informazione».

Le serie, parenti strette del cinema?

«Non fanno per me perché sono impaziente. Meglio una storia che inizia e finisce in due ore. Amo il rito del cinema, la sala, il grande schermo, le bustine di Haribo, le caramelle gommose. Per questo i bambini vengono volentieri con me. La tv non mi diverte e preferisco dedicarmi a ciò che lo fa».

Per esempio?

«Viaggiare, anche se da un anno e mezzo non mi muovo. Prima della pandemia vivevo tra Roma e Parigi, ora no. M’impegna molto e anche mi gratifica la fondazione. Domenica saranno 31 anni che è mancato Alberto: non è facile gestire i diritti e le traduzioni delle sue opere».

Una persona di buon senso come può immaginare che la Palombelli volesse giustificare i femminicidi?

«Sembra che sui social, che conosco poco, alcune persone vivano in attesa di cogliere qualcuno in fallo, per scagliarsi contro di loro. Poi c’è il conformismo di quelli che si mettono sempre dalla parte giusta».

Se l’argomento è sensibile bisogna usare parole molto controllate?

«Non c’è comportamento esasperante che giustifichi la morte di qualcuno».

Come giudica il fatto che gli attacchi più feroci siano arrivati da donne?

«Ringraziamo la solidarietà femminile. Personalmente, non divido il mondo in uomini e donne né in categorie sessuali».

Si trova in splendida solitudine?

«Per me esistono persone più o meno sensibili e più o meno intelligenti. Moravia diceva: “Mia moglie è molto dura, non è sentimentale”. Sì, in Italia vedo molto sentimentalismo. Ma non sono dura, uso la ragione per interpretare la vita. Non mi sono mai trovata in un mondo nel quale essere donna è un handicap. Anche in Sicilia, a Palermo, dove ha avuto inizio la mia vita da adulta, ho trovato gentilezza e dolcezza».

Dopo la riprovazione della Lucarelli e della Murgia è arrivata quella di Lilli Gruber.

«È vero, ci sono i carnefici e le vittime, come dice lei. Ci sono anche le situazioni tragiche delle donne afghane, del Medio oriente, dello Yemen… Ma una donna occidentale ha gli strumenti per difendersi prima di diventare vittima. Nelle coppie, in famiglia. Se sto con una persona che mi tira i capelli, dopo mezz’ora me ne vado. Si può trovare aiuto in sé stessi e anche da fuori».

Servono più donne in politica?

«Ho declinato più volte l’invito a candidarmi al Parlamento europeo. È un problema mio perché non ho predisposizione per i compromessi e in politica sono necessari. Non è questione di destra o sinistra, voglio essere libera di esprimere quello che penso in ogni momento. Per questo non ho mai preso tessere di partito. Anche le quote rosa… Quel segretario non ha messo donne in lista… Luoghi comuni. Suggerirei di scegliere persone competenti, prescindendo dal genere».

Appena si affacciano, Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni sono maltrattate.

«Vengono massacrate per l’abbigliamento o perché hanno un chilo di troppo».

Come giudica il fatto che non ci sia ancora la parità nelle professioni?

«Forse non sono la persona più adatta per parlare di questi temi perché sono molto fortunata. Però mi risulta che ci siano anche donne, non solo uomini, che esercitano violenze su altre donne, nelle università, nel mondo dello spettacolo…».

Nella narrazione corrente le donne appaiono immacolate?

«In Francia si dice intouchables. Io non uso nemmeno la parola femminicidio. Certo, le donne sono più fragili. Ma la violenza è tutta da condannare, anche quella sugli uomini o sulle vittime della pedofilia, di cui si parla meno».

Lei che rapporto ha con le donne?

«Molto complice. La bambina del mio portiere viene al cinema con me. Sono felice amica di Lia Levi che presto compirà 90 anni. Non sono competitiva. Con Dacia Maraini mantengo un eccellente rapporto. Lei è una femminista io no, ma per tutto ciò che riguarda Alberto andiamo totalmente d’accordo».

Come ha vissuto la stagione del metoo?

«Perché, è finita? Continuo a sentire persone che raccontano di esser state violentate 30 o 40 anni fa. Forse sono una delle poche a cui non è capitato. Non dico molestata: c’è differenza. Alcuni anni fa, tra le rovine di Palmira, scappai da un pastore che m’insidiava. Quella sarebbe stata violenza. Non lo è quando qualcuno che m’invita nella sua stanza d’albergo mi apre la porta in accappatoio. Se entri conosci rischi e pericoli. Sbaglierò, ma le rivelazioni 20 o 30 anni dopo mi convincono poco. Nei rapporti tra adulti, con il regista o il produttore, credo ci sia sempre la possibilità di difendersi e negarsi».

Per il pensiero mainstream anche il principe azzurro che bacia Biancaneve è un molestatore.

«Stupidaggini».

Come cambierà la letteratura quando si dovrà sostituire il genere maschile e femminile con l’asterisco?

«La prego, è una forma di conformismo che mi preoccupa molto».

Dovremo cambiare le tastiere per introdurre i caratteri schwa?

«Io non cambio niente».

Il femminismo…

«Che io non ho vissuto».

… con la festa delle donne e il tempo delle donne si è trasformato in donnismo?

«Forse ho un animo maschile, ma detesto le mimose e non festeggio l’8 marzo».

Che cosa pensa dell’ideologia gender?

«Non ho certezze. Se avessi un figlio fluido non so come reagirei».

Fosse in Parlamento voterebbe in favore del ddl Zan?

«Forse sì, ma vorrei documentarmi meglio».

Ultimo libro letto?

«Blu cobalto di Céline Menghi, una psicanalista lacaniana».

Ultimo film amato?

«Supernova con Stanley Tucci e Colin Firth, due attori giganteschi che affrontano temi importanti come l’Alzheimer e l’eutanasia, una soluzione che, da persona razionale, mi trova favorevole. Anche Qui rido io di Mario Martone mi è piaciuto».

Il suo rifiuto di social e televisione è critica della contemporaneità?

«Non è una critica, ma disinteresse. Intrattengo rapporti con persone che scelgo io e sono molte, anche all’estero. Non posso avere rapporti veri con il mondo intero».

Che cosa le ha lasciato il collegio di suore dove ha trascorso l’adolescenza?

«Un senso di ordine che mi è servito a vivere da sola. Penso che la famiglia italiana sia troppo protettiva e non sia un bene rimanere a lungo in casa con i genitori. Ho visto La mala educacion di Pedro Almodóvar e so che esistono perversioni e pedofilia. A me non è capitato, per questo dico che sono stata fortunata. Uno dei miei ricordi del collegio è che quando ci passava davanti il Tour de France uscivo in strada a tifare Poulidor, il mio eroe».

Che cosa le manca di più di Alberto Moravia?

«La sua intelligenza, il suo non conformismo e la complicità che c’era tra noi».

Cosa direbbe del politicamente corretto?

«Non parlo per altri».

C’è qualcosa o qualcuno che le trasmette speranza?

«Sono totalmente fatalista. Il futuro non so cosa sia. Vivo il presente, senza speranza».

Ma non si sta bene.

«È così. Ho vissuto e vivo intensamente, ma l’umanità generalizzata e la globalizzazione non mi piacciono. Che devo farci?».

 

La Verità, 25 settembre 2021