Treno 8017, il disastro dimenticato dalla storia
Lo chiamano il Titanic ferroviario. È il più grave disastro mondiale su rotaia. Ed è accaduto in Italia. A Balvano, un paesino della Basilicata sulla tratta Battipaglia-Potenza (parte della linea Napoli-Taranto). Era il 3 marzo 1944. I morti furono oltre 600, avvelenati dal monossido di carbonio nella Galleria delle Armi scavata per due chilometri nel monte omonimo. Una tragedia dimenticata. Rimossa. Sottaciuta. A causa dell’omertà che ha tentato di frenare la ricerca delle responsabilità. La motivazione di non voler affliggere la popolazione già martoriata dalla guerra non poteva valere per gli anni a venire. Invece, la tragedia di Balvano è rimasta senza colpevoli. Fino a pochi anni fa non c’era nemmeno una targa a ricordarla. Le vittime non erano politicizzabili. Una lapide commemorativa è spuntata solo nel 2017: «In memoria di coloro che persero la vita il 3 marzo 1944, a bordo del Treno 8017, l’Amministrazione comunale di Balvano ed i cittadini vollero porre termine all’oblio, affinché il ricordo perenne costituisca risarcimento morale per le sofferenze di tutti. Balvano, 3 marzo 2017». Pochi e frammentari gli articoli di giornale, usciti anni dopo, soprattutto sulla stampa inglese e americana. Ne scrisse anche l’Europeo che, nel marzo del 1956, strillava in copertina: «Il disastro dell’8017. Fu la più grave catastrofe ferroviaria del mondo. Pochi sanno che accadde in Italia dodici anni fa». Oggi, finalmente, possiamo saperne molto di più grazie al trentennale lavoro di ricerca di Gianluca Barneschi, avvocato, storico e divulgatore, che ha raccolto e incrociato con determinazione e meticolosità certosine, documenti, testimonianze e relazioni della magistratura civile e penale e, soprattutto, i segretissimi atti dell’inchiesta svolta dagli Alleati (spariti in Italia, ma desecretati presso gli archivi britannici), spesso in contraddizione tra loro, per pubblicare Il disastro dimenticato – Treno 8017 Balvano 1944 (Cantagalli editore, 424 pagine più 32 a colori, euro 25). Un saggio aggiornato dopo due precedenti edizioni, uscito a ottant’anni da quella tragica notte, che unisce il metodo storiografico alla competenza forense, la conoscenza del sistema ferroviario alla passione per la giustizia e la verità dei fatti.
Assalto al convoglio
L’8017 era un treno merci trainato da due locomotive a vapore, dove avvenne la più grave sciagura ferroviaria mondiale (il 26 dicembre 2004, nel villaggio di Peraliya, Sri Lanka, morirono 1.700 passeggeri, ma il fatto che il treno sia stato travolto dal maremoto dovrebbe iscrivere la tragedia fra le catastrofi ambientali ndr). Perché un «merci» era carico di uomini, donne e bambini, in totale 700 o 800 persone? Eravamo in piena guerra, l’esercito alleato stava risalendo la Penisola e, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, mentre governava Pietro Badoglio, il fronte si era spostato più a Nord. Gran parte della popolazione del nostro Meridione, dove il comando delle ferrovie era condiviso tra la Commissione alleata di controllo e il Regno del Sud, soffriva la miseria e la fame. Le tessere annonarie non bastavano più e, dalle città, padri e madri di famiglia si spostavano nelle campagne per approvvigionarsi di cibo e risorse indispensabili alla sopravvivenza. Spesso si ricorreva al baratto. I treni regolari erano sporadici e, quei pochi, resi inservibili dalla folla. Nelle prime settimane del 1944, in Puglia, Lucania e Campania il più grave problema di ordine pubblico era l’assalto ai «merci». Chi veniva respinto ci riprovava alla stazione successiva. Erano persone povere e disperate. Non certo «contrabbandieri» o «viaggiatori di frodo», come vennero sbrigativamente definite nel verbale del Consiglio dei ministri che seguì la tragedia.
Due locomotive
Nel pomeriggio del 2 marzo, dunque, il convoglio muove dalla stazione di Napoli. A Salerno cessa il tratto elettrificato e inizia la trazione a carbone. A Battipaglia, altri 24 carri vengono aggiunti ai 23 di partenza. Le locomotive sono due, una di fabbricazione italiana, guidata dall’esperto Espedito Senatore, e una di fabbricazione austriaca, macchinista Matteo Gigliano. Il particolare è importante perché quella italiana ha la guida a sinistra e quella austriaca a destra: nel momento dell’emergenza, questa circostanza impedirà la comunicazione tra i due macchinisti. La seconda negligenza è che, in caso di convogli particolarmente lunghi, la seconda locomotiva avrebbe dovuto esser posta in coda per evitare la concentrazione dei gas di scarico in un unico punto. Dunque, dopo un viaggio con varie soste, alle 00,50 del 3 marzo, la «bestia d’acciaio» composta da 45 vagoni, 480 metri di lunghezza per un peso di 630 tonnellate, lascia la stazione di Balvano diretta a Bella-Muro ed entra nella Galleria delle Armi con pendenza del 12 per 1000. Finora tutto è andato bene e i macchinisti sono tranquilli.
Precedenti ignorati
Poco prima, però, un altro treno è transitato nell’angusta galleria lasciandovi il proprio deposito di monossido di carbonio. Non ci sono sfiati verso l’esterno. La notte del 3 marzo è particolarmente umida e priva di ventilazione. I gas ristagnano. Nel volume sulla storia del 461° Gruppo bombardieri statunitense si legge che i viaggi di tre tradotte militari Napoli-Cerignola effettuati il 16, 17 e 18 febbraio 1944 si sono arrestati «per un’ora in un tunnel lungo un miglio nel quale più di 500 persone soffocarono pochi giorni dopo». Le salme rimarranno accatastate a lungo per permettere i riconoscimenti e consentire ai parenti delle vittime residenti nei paesi vicini di sottrarre i corpi alle fosse comuni. «È uno dei motivi per cui il bilancio delle vittime non è né sarà mai certo».
A disastro consumato, inizia il rimpallo delle responsabilità. Gli inquirenti italiani denunciano la scarsa qualità del carbone fornito dagli americani. Ma il carbone scadente avrebbe potuto ridurre la resa delle locomotive, non aumentare la produzione di monossido. Per contro, le autorità alleate sottolineano l’approssimazione dei controlli sui passeggeri che non dovevano salire sul treno. Si disquisisce sul peso eccessivo del convoglio. Ma fino alla galleria il viaggio si è svolto senza intoppi e la potenza delle due locomotive era sufficiente al traino. Infine, nessuno di questi elementi spiega perché, improvvisamente, l’8017 si ferma.
Nel buio del tunnel
Percorsi i primi 450 metri del tunnel, la bestia d’acciaio si blocca. La fiammella del lume a olio della garitta si spegne per l’assenza di ossigeno. È il segnale di massimo allarme. In quelle condizioni è impossibile percorrere il chilometro e mezzo che separa dall’uscita della galleria. Il macchinista aziona la retromarcia. Decisione corretta. Ma la difficoltà di comunicazione con il collega della seconda locomotiva complica l’operazione. A farla fallire definitivamente è l’intervento dei frenatori che operano in coda. Pensano che il treno indietreggi per cause accidentali, forse lo slittamento dovuto all’umidità e alla pendenza. Azionano il freno e bloccano il convoglio nel tunnel saturo di anidride. La situazione precipita. In condizioni normali il personale di macchina avrebbe potuto restare cosciente per pochi minuti. Con il treno immobilizzato nel buio tossico, peggio che in una miniera, i tempi di sopravvivenza si riducono drasticamente.
Scena finale
Il monossido di carbonio è un gas insapore, inodore e incolore. In piena notte, la reazione del personale è lenta e approssimativa. Il capostazione di turno di Balvano chiede di fare dei controlli e torna a dormire mentre l’incaricato s’incammina verso la galleria. Quando i soccorritori arrivano, parecchie ore dopo, i passeggeri sono cadaveri. Uno lo trovano con la sigaretta tra le dita, un altro nell’atto di succhiare un uovo. In un carro con una doppia cisterna, quattro uomini sono in piedi, due dei quali con la sigaretta in bocca. Molte le madri con i loro piccoli ancora in braccio. Un professore è seduto con una mano appoggiata alla tempia, in atteggiamento pensoso. Una scena irreale. Si sente solo qualche flebile gemito e il rumore lontano dei motori delle locomotive.
Annota Barneschi: «La morte è arrivata dopo una silenziosa agonia, durata ore, anche se generalmente priva di panico. La maggior parte delle persone perì senza avere percezione della morte incombente e non soffrì, come sarebbe accaduto nel caso di asfissia o esalazioni sulfuree». I passeggeri del Treno 8017 non morirono soffocati, ma avvelenati. Lo confermarono le tracce di sanguinamento dal naso o di saliva dalla bocca dei cadaveri. Fuori albeggiava.
Panorama, 20 marzo 2024