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«Trovo intollerabile l’intolleranza dei buoni»

L’ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l’omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall’inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.

Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?

«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un’operaia tessile piemontese, figlia di un’operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».

Infanzia dura?

«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».

È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?

«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al ’97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».

Era partito piuttosto bene.

«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l’ho tuttora».

Formazione?

«Sono stato ventenne nel 1985, l’epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c’era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».

Amici, politica?

«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».

Che cosa le ha ispirato questo libro?

«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».

Che lei aveva tradotto.

«La censura di Twain scattata per l’uso della parola “negro” era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell’esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».

Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?

«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l’hanno reso ancora più attuale».

Che cos’è l’ipocrisia?

«C’entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».

È una maschera che riguarda anche il pensiero?

«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».

L’omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?

«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d’integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c’è un comitato antidegrado: “Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?”. Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».

Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.

«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all’utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».

Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.

«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell’Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».

Un altro capolavoro è stata l’idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?

«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l’ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».

Per l’omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?

«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicido. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c’è chi comincia a usare l’asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».

Per il sesso valgono mille sfumature.

«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile “she”, mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, “them”. Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova… Ma c’è una cosa che mi preme dire…».

Prego.

«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all’ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all’estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l’ha fatta il primo governo Prodi. L’Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent’anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».

Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?

«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s’inizia ad andare a scuola si entra in un’istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell’uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».

È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c’era più tolleranza di oggi?

«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l’ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C’era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».

Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper’s Magazine?

«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all’ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l’intolleranza di chi si professa tollerante».

Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?

«Di sicuro l’Italia, paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».

La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?

«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall’altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».

Com’è stata accolta dagli editori l’idea di questo dizionario?

«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un’occasione di arricchimento. Vale aldilà del mio libro».

Non sarà troppo ottimista?

«Forse sì, il mio è un auspicio».

 

La Verità, 26 luglio 2020

 

Così hanno boicottato il film sui radical chic

Quante doppie vite hanno gli intellettuali francesi, il demi-monde letterario e cinematografico in particolare. Tante, come quelle dei loro gemelli italiani, scrittori e artisti engagés (tutto il mondo è paese). E quanti diversi piani di lettura ha Double vies – Non fiction, film di Olivier Assayas presentato ed elogiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un film che avrebbe meritato sorte molto migliore di una programmazione silente e ultra residuale. Invece, di doppia vita, e di angolazione di ripresa, ne è stata colta solo una. Così, quest’opera sull’editoria, gli scrittori e la tv – in pratica, su un certo fazismo d’Oltralpe – scritta e diretta da un regista da festival nonché figlio d’arte, uno che dice che «fare cinema significa ascoltare le proprie budella», ecco, un’opera come questa è stata intitolata Il gioco delle coppie; proprio così. Finendo inevitabilmente nella disambiguazione di Wikipedia con lo storico programma televisivo, condotto negli anni da Marco Predolin e Corrado Tedeschi.

Se la furbata del titolo doveva servire ad attrarre il pubblico, il risultato è più che sconfortante. Poche decine di migliaia di euro sono l’incasso del primo weekend di programmazione. Così le domande vengono al pettine. Il titolo piatto e fuorviante è, infatti, solo la prima delle riduzioni cui è stato sottoposto Double vies. La seconda concerne la distribuzione (I Wonder cinema) in sole 12 sale (ora salite a 29, sempre poche) in tutto il territorio nazionale. Anzi, per la verità nel territorio del centro nord, essendo che da Roma in giù non se ne ha notizia. Infine, terzo e ultimo colpo di grazia sulla visibilità, l’uscita dilazionata in due tempi, una prima parte il 27 dicembre e una seconda il 3 gennaio 2019. Spiazzando giornali e tv con il risultato di poche recensioni e zero promozione. Non che le cose sarebbero cambiate granché. L’overdose di filmoni natalizi spinti dalle corazzate avrebbe comunque schiacciato un film d’essai. Ma perché programmarlo in questo periodo e non scegliere un tempo meno congestionato e più propizio? Perché acquistarlo se poi non lo si promuove adeguatamente? Sciatteria? Volontà di affossare una pellicola dissonante? Misteri del sistema cinematografico nostrano. A ben vedere, un mondo non molto diverso da quello raffinato e snob descritto in Double vies.

Le doppie vite sono tante, si diceva. Quelle dei protagonisti, innanzitutto. Editori, scrittori, attrici, ognuno con l’amante segreto o con qualche progetto più o meno confessabile. Poi quella dei libri, che con la rivoluzione digitale incombente si stanno sdoppiando in e-book e in audiolibri narrati da qualche star del cinema. È il tema centrale, la trama principale che alimenta i dialoghi nelle case, nei bistrot, nelle cene informali seduti in poltrona e non a tavola come si usa, tra il fascinoso editore Alain (Guillame Canet), lo scrittore narciso Léonard (Vincent Macaigne), l’attrice di serie tv e moglie dell’editore Selena (Juliette Binoche), e Valerie (Nora Hamzawi), la compagna dello scrittore nonché assistente di un politico emergente. Qui gli interrogativi sono elementari. Resisteranno i libri su carta o la letteratura e la saggistica saranno «dematerializzate» online? Fra l’editore geloso della tradizione e del feticismo libresco e la sviluppatrice digitale di vent’anni più giovane che crede nel futuro radioso della Rete il dibattito si accende appena usciti dalle lenzuola. Ma in fondo è quasi pretestuoso della cosa che sta davvero a cuore ad Assayas: l’ipocrisia che serpeggia tra gli intellettuali e nei salotti di cui sopra, intrisi di bon ton e frustrazioni. Ai quali il regista stesso appartiene, motivo per cui bisogna essergli ancor più grati per la riflessione con autodenuncia incorporata. È un’ipocrisia diffusa e radicata, che si mimetizza nell’autocommiserazione degli artisti incompresi (il mondo è ancora paese). Nel narcisismo delle presunte scelte antisistema e da splendido isolamento che poi splendido non è affatto. Nel sottoscala dei messaggi cancellati o spiati di whatsapp. Anche questa è doppia vita: quella vera è solo apparente e convenzionale e ci pensano le chat a smascherarla. Ecco perché Double vies è stato presentato come la risposta francese al molto più fortunato precursore Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, che però di tutti noi parlava.

Qui invece siamo nei circoli letterari e il vero protagonista è uno scrittore bambinone e opportunista che si vende come ribelle irriducibile, ma insegue la pubblicazione dall’editore potente (il mondo è sempre paese). E che nei libri camuffa appena le sue acrobazie erotico-sentimentali. Cosicché, con poco sforzo, amanti e compagne si riconoscono, e allora qui il gioco delle coppie ci sta alla grande. In fondo, è diverso «avere una storia» dallo «stare insieme». Come è diversa l’ipocrisia dall’«implicito», il sapere del tradimento ma conviverci senza smascherarlo o raccontarlo in giro. Distinzioni trasparenti che duplicano la stessa materia. Come quelle tra «romanzo» e «autobiografia romanzata», utili a puntellare la superiorità morale di un certo milieu. Assayas merita dunque gratitudine per la perfidia con cui racconta questi interpreti della gauche caviar in cammino verso il 2.0. I quali, se vanno anche loro a vedere Star Wars – Il risveglio della forza, preferiscono scrivere nei loro libri che era Il nastro bianco di Michael Haneke, che fa più chic.

Sembra un dettaglio. Invece c’è dentro tutta la storia. E chissà, forse anche il fatto che un film così sia rimasto ai margini. Per sciatteria e ottusità o per qualche altro curioso motivo?

 

La Verità, 3 gennaio 2019