Un maoista che gioca a tennis. Un ex vicedirettore di Repubblica che se ne va per fondare un nuovo quotidiano, dal quale se ne va per diventare parlamentare dell’Ulivo, per poi tornare al giornalismo. Un autorevole editorialista politico del Corriere della Sera che scrive libri sulla paternità, l’ultimo, Riprendiamoci i nostri figli, appena uscito da Marsilio. Un frequentatore assiduo dei social network che vuole regolamentarne l’accesso. Lo incontro nel suo ufficio romano di vicedirettore del Corriere.
Giochi ancora a tennis?
«Non più, purtroppo. Ero bravino. Ma ebbi un grave infortunio a un polso e, quando ripresi, i miei amici mi battevano sempre. Smisi».
Non in tempo per evitare la cacciata dall’Unione comunisti italiani.
«Avevo 14 anni e pensavo che il socialismo fosse una grande idea umanitaria. Però alla sezione del Psi di Castellamare mi dissero che per iscriversi bisognava incasellarsi in una corrente. A Servire il popolo fui accolto con grandi onori. Da ex chierichetto leggevo bene, ma quando mi facevano declamare i testi di Mao Tse Tung mi sembrava di essere tornato in chiesa. In più, non volevano che andassi al circolo, che era solo un posto con un campo in terra rossa. Scelsi il tennis».
Ora scrivi libri sull’educazione. Dopo Contro i papà, Riprendiamoci i nostri figli.
«Ho avuto la prima figlia 23 anni fa e due gemelli 15 anni dopo. In mezzo molte cose sono cambiate, in peggio. Non l’ho ancora verificato solo perché gli ultimi due sono piccoli».
Non sono entrati nella fatidica adolescenza, quando si alza il muro d’incomunicabilità.
«Questo è il mio timore e la ragione del libro. Vedo che tutte le gerarchie di valori che contano in casa e che fino a una trentina d’anni fa erano condivise da professori, preti e anche in televisione, ora sono avversate. Un esempio: noi predichiamo studio e la scuola promuove gratis».
Cos’è accaduto?
«Ha stravinto la “cultura del narcisismo”, come la chiama il sociologo Christopher Lasch. La gioventù è lo stato ideale e il giovanilismo un dogma. Devi essere te stesso, spontaneo, non mediare. Il giovane di oggi è come il buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau, un soggetto che rifiuta storia e tradizione. Noi avevamo fretta di crescere per somigliare agli adulti, oggi gli adulti rincorrono i giovani, si vestono come loro. Per essere amici simpatici ai figli i papà rinfoderano i rimproveri. La severità è bandita».
Scrivi di genitori soli. La famiglia ha colpe?
«Qualcuna sì. La principale è l’eccesso protettivo e ansiogeno che, risolvendo i problemi in anticipo, evita ai ragazzi il confronto con le avversità. I genitori-elicotteri arrivano a sbrogliare le emergenze. I genitori-droni sorvegliano ogni sospiro. Tuttavia, credo che gran parte delle responsabilità sia del mondo esterno. Serve una guerra culturale, un’alleanza tra genitori, professori, preti, star dello sport e della musica che rimetta al centro l’educazione».
Quanto incide l’invadenza di internet e dello smartphone in tutto questo?
«Parecchio. Il cellulare di ultima generazione è il nuovo rito di passaggio all’età adulta. Un rito anticipato, se a 10 anni non ce l’hai sei uno sfigato. Mi fa riflettere quante persone chiedono di porre dei limiti. Ho letto che Bill Gates non concede lo smartphone ai suoi figli prima di 14 anni, non credo solo perché è della Apple. In campagna elettorale Macron ha ipotizzato un divieto legato all’età. Da noi la proposta del ministro Fedeli di usarlo in classe ha suscitato un acceso dibattito. In Colorado un papà ha raccolto le firme per indire un referendum: mandereste un ragazzo sotto i 13 anni a vedere un film horror o un porno? Con lo smartphone li hanno a portata di click».
Nel 2013 Apple, Facebook, Amazon e Google, favorevoli all’ideologia gender, hanno ottenuto da Obama l’abolizione del marriage act, la legge per la quale il matrimonio è tra uomo e donna. La famiglia tradizionale è un ostacolo al consumismo avanzato?
«Per essere più liberi di comprare, i nostri figli devono diventare meno liberi. Il marketing agisce già sull’infanzia. I bambini diventano influencer in grado di contestare le scelte degli adulti perché sul web sono bombardati da informazioni capillari e subliminali. Lo scopo è renderli impermeabili alla tradizione, che sa di vecchio. L’uomo secolarizzato si definisce per la sua libertà di scelta, cioè di consumare: non possiamo decidere sulla vita politica del nostro Paese, ma siamo liberi perché compriamo l’auto che vogliamo».
Perché ritieni che la ricerca dell’identità dei giovani sia un fatto negativo?
«Come si è visto nella serie americana Tredici, i teenager devono già avere un’identità definita. Chi si pone delle domande è considerato un perdente. Nel gigantesco talent show nel quale vivono, fatto di selfie e Instagram, l’identità coincide con l’immagine. Siamo nell’epoca dell’adorazione di sé stessi. La cura esasperata del corpo, l’importanza del fashion, i tatuaggi, il ricorso precoce alla chirurgia estetica sono questo. Devi essere bello e attraente. Non è mai stata facile per i brutti, ma oggi è una dannazione».
Un’altra mina è la cultura dello sballo. Dove sbagliano i liberalizzatori delle droghe leggere come Roberto Saviano?
«Se alcol e tabacco uccidono più della marijuana può voler dire che il divieto ha funzionato. Saviano e i liberalizzatori giurano che la cannabis è innocua, ma la vietano ai minorenni. Per i quali, a quel punto, esploderebbe il mercato nero. E poi, liberalizzando che messaggio daremmo ai nostri figli? Che va bene perdere il controllo. Dubito sia il modo giusto per combattere le depressioni. Che, come ha evidenziato la tragica vicenda del ragazzo e della madre di Lavagna, spesso sono la spia di un vuoto interiore».
È per questo che non ti fidi neanche degli psicologi?
«Hanno un approccio medico all’anima. Gli psicologi fanno coincidere la felicità con l’assenza di problemi, dimenticando che la domanda di senso a quell’età è radicale. Se un ragazzo è turbato è colpa dei genitori. Io mi chiedo: se mio figlio torna a casa tre volte la settimana alle 4 del mattino sfatto, dobbiamo fare la seduta insieme dallo psicologo, o impedire la vendita di alcolici ai minori? Poi c’è un altro aspetto…».
Prego.
«La psicologia azzera la responsabilità dei ragazzi. Dicendo: “Ciò che ti succede oggi è colpa di un antecedente biologico, di qualcosa avvenuto nella pancia della mamma o quando eri bambino. Non è colpa tua se la tua vita va a rotoli”. Bene: ci sarà il trauma, certo. Ma credo che dobbiamo dire ai nostri figli che sono responsabili della bellezza della loro vita».
Scrivi che il germe di questa svolta di civiltà lo dobbiamo a Immanuel Kant: acquisite le conquiste del cristianesimo, possiamo fare a meno di Dio e gestirle con la ragione.
«Su questo sono d’accordo con Julián Carrón, il successore di don Luigi Giussani alla guida di Comunione e liberazione. La solidarietà e l’uguaglianza sono nel vangelo: curare gli ammalati, dar da mangiare agli affamati… Kant riteneva che queste conquiste potessero reggere anche dopo la morte di Dio. Invece la modernità liquida ci dice che senza la fede cristiana non reggono. Oggi questo grido arriva dai laici. Roberto Calasso scrive nel suo ultimo libro che è necessario fondare un nuovo umanesimo. Per farlo servono i cristiani, perché sono mostrano l’origine dei valori della nostra società».
In un articolo che presentava il festival Il Tempo delle donne hai scritto che Mika «è il figlio maschio che mi piacerebbe avere»: perché?
«Ho seguito con mia figlia X Factor quando era uno dei giudici. L’ho trovato intelligente, realista, colto. È un cosmopolita interessante da ascoltare. Mi piaceva definire uomo una persona dichiaratamente omosessuale».
Nell’avatar del tuo profilo Twitter si legge Goodfather: è una convinzione, un auspicio o un traguardo?
«Bravo che hai notato la differenza con Godfather. È un traguardo».
Avevi dato per finito il ventennio berlusconiano, invece…
«Lo ammetto. Infatti, dedicherò il prossimo libro al ritorno di Berlusconi. Però, a mia discolpa, devo ricordare che il libro era sulla destra. Penso che Berlusconi abbia avuto la grande occasione per fondare una destra di governo che gli sopravvivesse, ma non ci è riuscito. Il fatto che ora stia ritrovando centralità non significa automaticamente che questa destra esista».
Quante responsabilità ha Renzi di questo ritorno? Ha dilapidato anche lui un patrimonio di consenso?
«Paragonato all’insuccesso storico di Berlusconi, la stagione renziana è stata un fuoco di paglia. Mentre Berlusconi ha sempre assecondato il Paese proponendosi come un leader che ti rende la vita più facile, il modo in cui Renzi ha tentato di cambiarlo ha finito per sputtanare ogni possibilità di riformismo. Oggi se la gente sente parlare di riforme mette mano alla pistola. Ora anche Renzi tenta di rassicurare: non so se gli basterà per risalire».
Hai detto di esser tentato di votare a destra ma di non esserci riuscito. Stavolta?
«Sto scoprendo che le mie idee sono sempre più da conservatore. Ma non ho ancora deciso per chi voterò. Deciderò in base ai candidati del mio collegio, con l’idea di promuovere un governo non populista, favorevole all’Unione europea. Vedremo».
Che cosa ti dà speranza oggi?
«È una domanda difficile perché riguardo alla nostra epoca sono pessimista. Invece non lo sono per il futuro. Ho fiducia nel progresso, nella tecnologia, nella possibilità di abitare la terra in modo intelligente e di darci una chance di cambiare. Per questo mi piace parlare di educazione. Perché mi proietta nel futuro e mi permette di porre le basi affinché questa speranza di vita adulta che sono i miei figli diventi realtà».
La Verità, 22 ottobre 2017