«Atlanta», un dramedy innovativo ma non troppo
Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne vedo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.
Atlanta non è una grande metropoli americana. È la città dove fu ambientato Via col vento ed è la città sede della Cnn. Atlanta è il titolo di una nuova serie prodotta da FX e trasmessa in Italia il giovedì sera da Fox. Una serie caricata di molte aspettative, solo in parte mantenute, sostiene Alberto. Per conto mio è una serie con una sua carica innovativa.
Al centro della storia c’è Earn (Donald Glover), un trentenne che si è preso un anno sabbatico, in realtà sono già tre, dopo aver frequentato l’università di Princeton, non si sa se con successo o meno. Tornato ad Atlanta, rifiutato dai suoi genitori che vivono in una più che dignitosa villa con giardino, Earn deve inventarsi qualcosa per meglio mantenere figlia e compagna perché il lavoro di promotore sconti all’aeroporto, oltre che noioso, non è sufficiente. Il cugino Alfred Miles, in arte Paper Boi (interpretato da Brian Tyree Henry), è un rapper emergente che sta sempre con Darius, compare di spaccio e fumo. Per svoltare, Earn si propone di fargli da manager, ma deve vincere le sue resistenze.
Atlanta è un dramedy che mescola argomenti drammatici a un impianto comedy. Anche la durata dei dieci episodi, venticinque minuti appena, sottolinea questa impostazione leggera. La trama è piuttosto vaga, si seguono questi tre personaggi mentre sfangano la giornata, cazzeggiano, studiano espedienti per uscire dalla monotonia periferica della città che, in realtà, rimane sullo sfondo perché la storia si sviluppa tutta all’interno della black community. Per questo, osserva Alberto, è facile che diverse cose sfuggano alla maggioranza del pubblico europeo. Per esempio, il dialogo tra Paper Boi, Earn e Darius che, alle 4.30 del pomeriggio, si ritengono «in ritardo» per la loro attività (in riferimento alle 4.20, l’orario in cui gli amanti della cannabis la fumano abitualmente). Oppure l’arresto di un personaggio minore solo per aver bevuto una birra nella veranda di casa con un amico che non vedeva da molto tempo (negli States non si può bere alcol per strada). Un altro elemento caratteristico della serie è come fotografa il mondo hip hop nelle sue contraddizioni. La prima riguarda la faccenda del manager. Il rap è nato come musica antisistema e di contestazione del mercato, ma il ricorso al manager è già un cedimento alle sue leggi. La seconda, continua Alberto, c’entra col rapporto tra musica e violenza. C’è un dialogo tra un fan nostalgico del rap anni ’90 che dice a Paper Boi di essere uno degli ultimi veri rapper perché ha sparato a uno che si era messo di mezzo. Poi c’è un agente di polizia, anche lui nero, che, appena Paper Boi viene rilasciato dopo il fermo per spaccio, gli chiede di farsi una foto con lui.
La discriminazione razziale, il rapporto tra musica e criminalità, l’ambiguità delle forze di polizia sono argomenti tosti. Ma senza una trama definita, senza storie esemplari o vittime di palesi ingiustizie, tutto è proposto con tono leggero, nello slang della comunità nera nel quale dominano l’ironia e l’umorismo tipico della satira praticata da Donald Glover in altri show (uno spettacolo stand-up su Comedy Central, la sitcom Community su Nbc). Qui sta il carattere più innovativo di Atlanta. Dove invece la serie manca di originalità è proprio nella scelta del microcosmo al centro della storia, nel suo carattere introverso, cioè tutto interno alla vita della comunità nera. Come in Empire, i neri sono sempre rapper poco raccomandabili, gente borderline, musicisti criminali. Quando va bene sono sportivi a caccia di riscatto sociale, come in Ballers. Forse sarebbe ora di mostrare anche storie di emancipazione dei neri. Perché, per esempio, non raccontare meglio chi è il padre di Earn che vive in quella bella villa? Capire se se l’è fatta lavorando sodo, magari facendo l’uomo d’affari in qualche azienda di Atlanta? Qualcuno, per spiegare la contemporaneità della serie, ha tirato in ballo il sogno incompiuto dell’uguaglianza razziale promessa da Obama. Ma sembra una via di fuga un tantino semplicistica.
Alla fine siamo d’accordo: innovativa nel linguaggio e nella formula, un po’ meno nella storia.
i caverzan