Peaky Blinders, una gangs story che sa di rivolta

E intanto Steven Knight non sbaglia un colpo. Da qualche settimana è visibile su Netflix la terza stagione di Peaky Blinders, la serie creata dallo sceneggiatore e regista britannico (Locke, al cinema, e Taboo, di cui abbiamo parlato in questo blog), tratta dalla storia vera della banda capeggiata dal carismatico Tom Shelby, e Alberto, che è sempre molto più avanti di me, consiglia di recuperare le stagioni perdute.

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Nella Birmingham del 1920 tre fratelli reduci dalla guerra in Francia vogliono dominare il racket delle scommesse sui cavalli. Ci sono il primogenito Arthur (Paul Anderson), labile e violento, il più giovane, John, e Tom (un formidabile Cillian Murphy), il capo riconosciuto. A zia Polly, invece, hanno portato via i figli ancora piccoli. Per imporsi e non avere troppi fastidi bisogna sconfiggere gli altri clan e ridimensionare le ambizioni del nuovo capo della polizia, lo spietato Chester Campbell (Sam Neil) che si serve dell’intrigante spia, Grace. Birmingham, però, è solo la base di lancio per Londra, dove lo scontro con gli italiani e gli ebrei, capeggiati da uno strepitoso Tom Hardy, si fa duro. Sebbene siano molto attenti all’abbigliamento e alle maniere eleganti, quanto a violenza i Peaky Blinders non si fanno pregare. E i rasoi che nascondono nella visiera delle coppole tagliano la faccia di chi li ostacola senza troppe sfumature.

La cosa che più mi colpisce è l’orgoglio di famiglia dei fratelli, osserva Alberto. Il fatto di appartenere a una dinastia di zingari tinge di esoterismo un po’ tutto il racconto. Loro non si sentono mai a proprio agio e in tutti i posti dove stanno c’è sempre qualcuno che, in qualche modo, ricorda loro che appartengono a quel popolo.

È forse per questo che la violenza è sempre pronta a esplodere. È una violenza ribelle, che ha qualcosa di eversivo.

Io non la trovo una serie particolarmente violenta. Più che vedersi, la violenza s’intravede. Soprattutto nelle prime due stagioni. All’origine della loro frustrazione c’è anche la guerra, durante la quale hanno vissuto sottoterra per scavare delle gallerie, come ricorda Churchill in un dialogo con il capo della polizia.

Cillian Murphy nei panni di Tom Shelby

Cillian Murphy nei panni di Tom Shelby

Io penso che la qualità migliore della serie sia soprattutto nella sua cura formale. I personaggi, in fondo sono già visti: il gangster tormentato, il poliziotto corrotto, la spia che s’innamora del malavitoso. Vengono in mente Boardwalk Empire e Gangs of New York.

Comunque, sono ben raccontati. Sono molto credibili sia Tom che Arthur, interpretati da attori poco conosciuti. Il personaggio che mi piace meno è zia Polly, che causa tanti problemi. L’altra cosa che mi dispiace è la scarsità di location: tutto si svolge in tre o quattro ambienti, il pub, la fonderia, il bordello. Forse è una questione di budget.

Però la scenografia è ben curata. E qui torniamo all’estetica, ai costumi, ai dialoghi, alla scrittura, al sapiente dosaggio del ralenti. E soprattutto alla colonna sonora: fondamentale. Una storia d’inizio Novecento accompagnata dalla musica rock, a cominciare dalla sigla di Nick Cave per proseguire con Tom Waits, è un colpo di genio assoluto. Che dà a tutta la vicenda un sapore acre di rivolta.

 

Hardy in Taboo? Il primo supereroe no global

E se James Keziah Delaney fosse uno dei primi eroi no global? Che te ne pare, Alberto?

Sì, ci può stare.

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Ecco una breve lista di ragioni per le quali Taboo, protagonista il personaggio di Tom Hardy, era una serie molto attesa. È prodotta dalla Hardy Son & Baker, società di Tom e del padre Edward (Chips), commediografo. Tra i produttori c’è anche Ridley Scott. Lo sceneggiatore è Steven Knight, già autore e regista di Locke (oltre che di Peaky Blinders) interpretato da Hardy, il film che nel 2013 avrebbe dovuto vincere la Mostra di Venezia se non fosse stato trovato a selezione già chiusa. Il cast annovera Oona Chaplin, Jonathan Price e Michael Kelly tra gli altri. È trasmessa da Bbc One in Gran Bretagna, da FX in America e da Sky Atlantic in Italia. La società di Hardy ci ha investito 10,4 milioni di sterline (12,7 milioni di euro) ed è già prevista la seconda stagione.

Siamo nella Londra del 1814 dove,  per assistere al funerale del padre Horace, fa inaspettatamente ritorno James Keziah Delaney. La fama di girovago maledetto, conquistata in anni vissuti tra i selvaggi dell’Africa e del Sud America, non lo aiuta a integrarsi. E meno ancora lo aiuta l’eredità ricevuta della Baia di Nootka, una striscia di terra al confine tra Canada e Stati Uniti, strategica per i traffici della Compagnia delle Indie orientali, le mire espansionistiche dell’Impero britannico, il controllo del territorio dell’America. Da qui si dipana la trama di questa storia cupa, violenta e discretamente ambiziosa. Un dramma storico che punta sulla cura estetica, le ambientazioni e la presenza catalizzatrice di Hardy.

 

Jonahtan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Jonathan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Alcune critiche hanno sottolineato la troppa carne messa al fuoco, parte della quale potrebbe non arrivare a cottura. L’intrigo famigliare, il rapporto incestuoso con la sorella Zilpha (sarà questo il tabù?), l’esoterismo, i conflitti geopolitici ed economici, il razzismo. Tutto in un’atmosfera tenebrosa. Dopo quattro episodi proviamo a decifrarla.

Io credo che il filo conduttore sia chiaro, osserva Alberto. C’è un uomo solo contro tutti: la potente Compagnia delle Indie, la Corte inglese, l’America. Poi ci sono la passione per la sorella e il figlio abbandonato.

Sembra quasi una storia no global. In fondo, la Compagnia delle Indie è stato un grande progetto di Ordine mondiale. Un agente del capitalismo. Siamo a Londra, ma si parla di un pezzo di terra tra Canada e America che vediamo solo nel mappamondo.

Una striscia di terra importante come porta d’accesso per i commerci con la Cina. E lui ha vissuto in Africa e Sud America.

È un uomo spaventoso, che si difende da solo dai poteri forti.

Si difende per tenersi ciò che il padre gli ha lasciato.

A sorpresa. Perché tutti lo davano per morto.

Invece il tatuaggio che ha sulla schiena vuol dire: torna a prenderti ciò che è tuo.

Sembra quasi un supereroe, che usa la stregoneria, presente i pericoli, domina l’emotività della sorellastra per giocare la sua partita contro tutti. Uno sciamano violento, dal passato e dal cuore di tenebra. Questa è la parte che mi convince meno.

A me invece piace. C’è una dimensione magica ed esoterica. Delaney ha delle visioni oniriche che lo rimettono in contatto con la madre e col passato. È importante anche la sua origine mista, il padre inglese e la madre indiana.

Un supereroe dell’Ottocento, mezzosangue e no global. Non male come storia.

È così.

Bella l’ambientazione e i costumi, il cappottone e la tuba di Delaney. E scelti bene anche gli altri personaggi.

Sì, bella Londra. Anche se le location sono poche, la corte, la sede della Compagnia, il bordello, la sua casa. Ci sono alcune analogie con Frontiera (prodotta da Discovery Channel e Netflix), ambientata sul finire del 1700, tra Canada e America, in cui il protagonista, metà americano e metà irlandese, combatteva contro il monopolio della Compagnia della Baia di Hudson nel commercio delle pelli. Qui invece si parla di the e polvere da sparo.

 

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Gender, terrorismo e attualità di «The Bridge»

The Bridge è bellissima. Alberto continuava a ripeterlo e io storcevo il naso. Finché mi sono fermato a guardare mezz’ora e ci sono caduto dentro con tutte le scarpe. Corsa a recuperare gli episodi precedenti e attesa ansiosa dei prossimi, ne mancano tre alla fine (ma resteranno on demand). Forse si possono vedere su Netflix, ma io preferisco aspettarli e gustarmeli uno alla volta, butta lì Alberto. No, su Netflix ci sono solo la stagione 1 e 2. Non resta che aspettare il venerdì sera su Sky Atlantic. La prima stagione è stupendatutta ambientata nel mondo dell’ecologia e delle emergenze ambientali. La seconda mi è piaciuta di meno. A questo punto sono portato a fidarmi.

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La terza invece ruota attorno ai conflitti sulla famiglia e sui sessi. Famiglia tradizionale contro unioni civili, matrimoni tra coppie dello stesso sesso, uteri in affitto, figli in affido di genitori anziani, pedofilia. Il contrasto ha un forte retrogusto ideologico. In ogni episodio c’è un colpo di scena, qualcosa che ti spiazza e nello stesso tempo ti tiene incollato. Tutto ruota intorno alla famiglia, ai suoi modelli che cambiano. A chi lavora per andare oltre la famiglia tradizionale e a chi, invece, lavora per difenderla. Una serie tendenziosa, schierata, conservatori da una parte politicamente corretto dall’altra. Molto attuale e in un certo senso disturbante.  Nel primo episodio viene trovata assassinata a Malmö (Svezia) una famosa studiosa, esperta di teorie gender, fondatrice a Copenaghen (con il ponte di mezzo) di un centro per la fecondazione assistita e del primo asilo per figli di coppie dello stesso sesso (lei stessa è sposata con una donna dopo un matrimonio con un uomo dal quale ha avuto un figlio, borderline e psicotico dopo una spedizione militare in Afghanistan). La messa in scena del ritrovamento è quanto di più simbolicamente inquietante. C’è una famiglia attorno al tavolo per la cena, marito moglie e due figli, tutti con il sorriso da emoticon tracciato con il rossetto: solo che mentre gli altri sono manichini, la moglie-madre è il cadavere in carne e ossa. Per giunta le è stato asportato il cuore. Anche i successivi omicidi vengono rappresentati con un rituale che, secondo il suggerimento di un impiegato di una galleria d’arte, citano le opere (uno spaventapasseri, un uomo su un’altalena) appartenenti a un importante uomo d’affari che, insieme alla moglie, è ricorso alla gestazione per altri pur di avere un erede. La seconda vittima è il primo sacerdote protestante a celebrare in chiesa matrimoni tra omosessuali e via così. Le indagini si concentrano sugli ambienti degli attivisti pro-life, tra i quali spicca una militante molto zelante, che nel suo vlog stigmatizza in modo tranchant costumi e comportamenti delle associazioni Lgbt. La luce sinistra che la avvolge e i toni ultimativi la propongono come l’ideologa, la cattiva maestra di questa catena di delitti farcita di citazioni che sembra sconfinare in una forma di neo-terrorismo.

 

Saga e il collega Henrik durante le indagini

Saga e il collega Henrik durante le indagini in «The Bridge» terza stagione

Col procedere degli episodi le trame s’infittiscono e s’intrecciano. La tensione è crescente, la storia si segue benissimo, attaccati alla logica stringente e alle vicende personali di Saga Noren e Henrik Sabroe, il nuovo collaboratore della polizia danese che ha preso il posto di Martin, fatto arrestare proprio da Saga nella seconda stagione. L’atmosfera rarefatta che pervade le storie è forse l’elemento più caratterizzante della serie, dove i sentimenti sono gelidi e piatti come certe pianure sterminate. The Bridge – La serie originale (Bron in svedese, Broen in danese, ne sono state tratte due versioni, una inglese e una americana) tratteggia una società all’apparenza perfetta, all’avanguardia e teoricamente esemplare. In realtà, anaffettiva e cupa, priva di relazioni e complicità reali che, alla fine, trasmette un senso di tristezza e solitudine, reso da un commento musicale desolato e da una fotografia algida e malinconica. Proprio questa atmosfera, dettata anche dall’ambientazione particolare, è la parte più affascinante della storia. Gli investigatori sono solitari, turbati, affetti da strane psicosi, frequentatori di club per single dove si cercano esplicitamente partner per «fare sesso» e stop. Saga Noren (Sofia Helin) è un personaggio al limite dell’autismo nello sforzo di tenere la vita privata ferreamente separata dalla professione. Ma il dramma tracima: la sorella si è suicidata e lei ritiene che i genitori ne siano la causa, soprattutto la madre affetta da sindrome di Münchausen per procura (i genitori fanno ammalare i figli per risultare indispensabili). Quando rispunta dopo vent’anni per convincere la figlia a visitare il padre in coma, ricevendone un netto rifiuto, Saga sostiene che è tutto a posto «perché le emozioni non interferiscono con il mio lavoro». Replica paterna del capo: «Anche se ne faresti volentieri a meno, credo che ti serva un bell’abbraccio». Abbraccio concesso per accontentare lui più che per averne conforto. Ormai però la separazione tra vita e professione sta cominciando a sgretolarsi, osserva Alberto.  Anche il collega Henrik Sabroe (Thure Lindhardt) ha il suo bel dramma intimo. Moglie e figlia sono sparite sei anni fa, ma lui continua a vederle in giro per casa. In compenso s’imbottisce di sonniferi di notte e di altre pasticche al mattino. I due ovviamente vanno saltuariamente a letto insieme, ma sempre, gelidamente, «per fare sesso». In tutto questo, il capo dell’Ufficio indagini, l’unica persona con la quale Saga abbia un rapporto simil umano, viene rapito dal serial killer. E, dopo l’arresto di Martin, il collega delle prime due stagioni, lei rimane senza più punti di riferimento.

Come poche altre serie, forse solo Gomorra e la prima stagione di True Detective, The Bridge ha qualcosa di strano e malato, tipico della letteratura nordica, che s’insinua nel telespettatore fino a creare l’attesa e la voglia di entrare in quel mondo altro. Lo sceneggiatore Hans Rosenfeldt ha annunciato l’accordo con la rete televisiva svedese Svt per una quarta stagione che dovrebbe prendere le mosse un anno dopo la conclusione delle indagini narrate nella terza. Alberto e io ce lo auguriamo.

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Perché il mutante psicotico di «Legion» è già cult

Eccoci di nuovo insieme, io e Alberto.

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Dopo averne assaggiate altre, senza che ci sembrassero meritevoli (Animal Kingdom su Infinity e Santa Clarita Diet su Netflix), ci siamo fermati su Legion, la nuova serie di Fox (canale 112 di Sky) che ha molte carte per diventare di culto. Già l’episodio pilota è un’esperienza visiva notevole, niente a che vedere con l’estetica classica dei supereroi da fumetto. Dimenticate Volverine e Magneto. E dimenticate il solito nerd che, indossando una tutina, si trasforma nel salvatore del genere umano. Sì, il protagonista è un mutante, David Charles Haller, figlio di Charles Xavier – il professor X -, dotato di personalità multiple. E sì, siamo nel mondo Marvel e nella fantascienza più astrusa e seducente, anche se, in realtà, sarebbe più corretto parlare di retrofuturo. Siamo talmente nel mondo Marvel che Legion è un prodotto Marvel Television per il network FX, creato da Noah Hawley (autore di Fargo, qui produttore esecutivo e showrunner), lasciato libero di esprimere tutta la sua robusta carica visionaria. Siamo, dunque, nell’universo supereroico che funziona e tira sempre, osserva Alberto. Ma tutto ciò che riempie non solo visivamente i primi 70 minuti di «Realtà e illusione» è un’arguta e clamorosa smentita della figura classica del supereroe.

David Haller (Dan Stevens) è stato internato in manicomio in seguito a un tentativo di suicidio per impiccagione. Dopo aver diagnosticato la schizofrenia, sottoponendolo a continue sedute, psichiatri e analisti vari si rendono conto di trovarsi di fronte a un paziente particolare. Un supereroe psicotico che, lungi dal coltivare l’ambizione di risolvere i problemi del mondo, deve prima risolvere i suoi. Cioè deve imparare a gestire le sue varie personalità che, probabilmente, corrispondono ad altrettanti poteri che lui stesso non sa di avere o non riconosce come tali. Qui si apre uno dei primi interrogativi: in che epoca ci troviamo? David Haller, cioè Legion, era così prima di diventare X-Men, dopo o mentre lo è? Da quello che si capisce, gli autori non si pongono nemmeno il problema, liberi d’inventare un andirivieni temporale che dà corpo a quella dimensione di retrofuturo…

David Haller è affetto da personalità multiple

David Haller è affetto da personalità multiple

La storia si sviluppa attraverso continui salti avanti e indietro, ma anche dentro e fuori la psiche e il subconscio di David. Per questo, osserva Alberto, la trama può risultare confusa e di difficile comprensione. A volte non capiamo se il dialogo con un analista sta avvenendo nel presente, se il passaggio repentino a un altro psichiatra è un salto indietro o avanti. In più ci sono i sogni, i ricordi, le allucinazioni. Una massa di sollecitazioni e contenuti anche un po’ appesantita da certi eccessi musicali, come l’inutile e forzato balletto di David e Sydney. Solo alla fine la nebbia inizia a diradarsi e si comincia a orientarsi.

Forse possono essere d’aiuto la confezione e l’estetica narrativa scelte dagli autori. Innanzitutto, l’ambientazione british, l’abbigliamento e il look di David, vicino all’epoca degli Who e ai moods di Quadrophenia, ma anche ai fratelli Gallagher degli Oasis. Poi ci sono i riferimenti alla psichedelia dei Pink Floyd: a cominciare da Sydney Barrett (Rachel Keller), fiamma del protagonista e citazione di Syd Barrett, geniale quanto folle fondatore della band britannica, lentamente abbandonato dagli altri componenti, per proseguire con le esplosioni incontrollate dei superpoteri del protagonista che mandano in frantumi l’ambiente circostante. La visionarietà della storia è accentuata da altri riferimenti cinematografici e letterari, mondi vagamente orwelliani e citazioni di Arancia meccanica.

Visto così, Legion potrebbe essere un prequel delle successive vicende supereroiche, una serie di formazione durante la quale David impara a riconoscere le proprie potenzialità prima di diventare altruista. Oppure, potrebbe trattarsi di un mondo parallelo nel quale Hawley ha scelto di raccontare semplicemente un’altra storia. Lo capiremo nei prossimi episodi. Ma comunque, già ora, nel suo essere cervellotica e imprevedibile, Legion è una storia affascinante, in grado d’incuriosire e di catalizzare l’interesse di un pubblico diverso da quello dei fan abituali dei mutanti. Anche perché c’è un altro elemento problematico: la presenza del «diavolo dagli occhi gialli», quell’essere piccolo e disgustoso che compare, defilato, in tutte le allucinazioni di David.

David Haller non controlla i suoi superpoteri

David Haller non controlla i suoi superpoteri

Questo potrebbe essere il punto centrale della storia. Con un’altra citazione dell’episodio riferito dai vangeli di Luca, Matteo e Marco dove raccontano di Gesù che libera l’indemoniato di Geresani dallo spirito immondo. Il quale si presenta così: «Il mio nome è Legione, perché siamo in tanti». Questo spiegherebbe le personalità multiple del protagonista e il suo esserne soggiogato.

Mentre intraprendiamo un viaggio nella sua mente, assistiamo in realtà alla decostruzione del mutante, quasi un esorcismo nel tentativo di liberarlo dai suoi dèmoni e insegnargli a gestire i superpoteri. In un momento in cui i supereroi invincibili che compensano l’impotenza dell’uomo contemporaneo si mostrano vecchi e prevedibili, con Alberto concordiamo sul fatto che Legion rovescia la prospettiva e alza parecchio l’asticella sia narrativa che estetica. Entrando nel profondo dell’essere, eroe o no che sia, per mostrarne vulnerabilità e fragilità strutturali.

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Neanche «Roadies» dà un tetto tv al rock

Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne guardo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.

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La terza storia che abbiamo iniziato a seguire è quella di Roadies, racconto del backstage del tour di una band, (Premium Stories, Mediaset). Le premesse erano stimolanti, a cominciare dai crediti: J.J. Abrams produttore e Cameron Crowe ideatore e sceneggiatore. Una serie firmata, garantita da Showtime, cable tv produttrice di titoli cult come Homeland, Shameless The Affair, per la quale i due miti di Hollywood si sono messi al lavoro.

Protagonisti della vicenda sono i componenti dello staff della band, appunto i «roadies» che percorrono migliaia di chilometri preparando e attrezzando palchi, impianti, logistica, location e tutto il resto. Insomma, coloro che si occupano della macchina organizzativa di un tour, dal ghiaccio in camerino fino all’acustica degli stadi. Persone votate alla causa, senza vita privata. O che, se ce l’hanno, è totalmente subordinata a quella dei musicisti di cui si occupano. Chi rende possibile la realizzazione dei concerti e non appare mai poteva essere un soggetto interessante per una serie, osserva Alberto. Abitualmente di loro non si sa niente e si apprende che esistono solo quando sono vittime di incidenti, come avvenuto qualche anno fa a margine del tour di Jovanotti. Però, bisogna riconoscere che il grande pubblico è attratto dalla vita delle star, non dai lavoratori oscuri. 

Nel pilot si segue l’attrezzista Kelly Ann, decisa ad abbandonare la crew. La musica della The Staton House Band è diventata routine e il provino cinematografico che l’attende contiene più futuro. Non bastano gli aneddoti dell’autista (Luis Guzman) e i consigli del vecchio Phil (Ron White) a trattenerla. Il tour manager (Luke Wilson) e la direttrice di produzione (Carla Gugino) bisticciano di continuo e le regole del conto economico incombono. L’intreccio delle storie poteva, dunque, essere interessante se sorretto da scrittura e ritmo adeguati. Invece: delusione. Per raccontare il calcio parlando dei fisioterapisti dei giocatori o la storia della Apple partendo dai fattorini anziché da Steve Jobs serve una genialità e un’arguzia narrativa che in Roadies non si vedono. Fatta eccezione per Kelly Ann, ben interpretata da Imogen Poots, in tutti i personaggi spuntano eccessi che, invece di sottolinearne l’originalità, li rendono caricaturali. L’effetto collaterale è una demitizzazione del rock che difficilmente può soddisfare gli amanti della musica più eversiva del Novecento. Tanto più che, almeno nel primo episodio, non si sente una sola nota della band per cui tutti si sbattono.

Imogen Poots nei panni di Kelly Ann

Imogen Poots nei panni di Kelly Ann

Qui però non è il rock al centro, ma chi ci lavora dietro, sottolinea Alberto. Forse bisogna arrendersi al fatto che oggi il rock non è più attuale. Ma è una musica del passato, come si è visto in Vinyl, che era una serie in costume. Proprio dalla serie ideata da Mick Jagger e Martin Scorsese per Hbo, cancellata dopo la prima stagione, viene l’ulteriore conferma che non bastano le grandi firme a garantire qualità. Fuori dalla sua epoca d’oro, per sceneggiatori e registi è difficile trasmettere l’incandescenza di quella musica. Le aspettative sono alte e forse si pensa che il rock contenga una carica e una forza evocativa sufficienti a sfondare. Invece, così non è. Ma mentre per Alberto la causa dell’impaccio narrativo di Roadies deriva proprio dalla materia raccontata, troppo ingombrate e complessa, per me è prevalentemente una questione di scrittura. Comunque sia, alla fine, mentre il rap ha trovato la sua serie in Empire e il country in Nashville, il rock è ancora senzatetto (tv).

 

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«Atlanta», un dramedy innovativo ma non troppo

Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne vedo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.

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Atlanta non è una grande metropoli americana. È la città dove fu ambientato Via col vento ed è la città sede della Cnn. Atlanta è il titolo di una nuova serie prodotta da FX e trasmessa in Italia il giovedì sera da Fox. Una serie caricata di molte aspettative, solo in parte mantenute, sostiene Alberto. Per conto mio è una serie con una sua carica innovativa.

Al centro della storia c’è Earn (Donald Glover), un trentenne che si è preso un anno sabbatico, in realtà sono già tre, dopo aver frequentato l’università di Princeton, non si sa se con successo o meno. Tornato ad Atlanta, rifiutato dai suoi genitori che vivono in una più che dignitosa villa con giardino, Earn deve inventarsi qualcosa per meglio mantenere figlia e compagna perché il lavoro di promotore sconti all’aeroporto, oltre che noioso, non è sufficiente. Il cugino Alfred Miles, in arte Paper Boi (interpretato da Brian Tyree Henry), è un rapper emergente che sta sempre con Darius, compare di spaccio e fumo. Per svoltare, Earn si propone di fargli da manager, ma deve vincere le sue resistenze.

Atlanta è un dramedy che mescola argomenti drammatici a un impianto comedy. Anche la durata dei dieci episodi, venticinque minuti appena, sottolinea questa impostazione leggera. La trama è piuttosto vaga, si seguono questi tre personaggi mentre sfangano la giornata, cazzeggiano, studiano espedienti per uscire dalla monotonia periferica della città che, in realtà, rimane sullo sfondo perché la storia si sviluppa tutta all’interno della black community. Per questo, osserva Alberto, è facile che diverse cose sfuggano alla maggioranza del pubblico europeo. Per esempio, il dialogo tra Paper Boi, Earn e Darius che, alle 4.30 del pomeriggio, si ritengono «in ritardo» per la loro attività (in riferimento alle 4.20, l’orario in cui gli amanti della cannabis la fumano abitualmente). Oppure l’arresto di un personaggio minore solo per aver bevuto una birra nella veranda di casa con un amico che non vedeva da molto tempo (negli States non si può bere alcol per strada). Un altro elemento caratteristico della serie è come fotografa il mondo hip hop nelle sue contraddizioni. La prima riguarda la faccenda del manager. Il rap è nato come musica antisistema e di contestazione del mercato, ma il ricorso al manager è già un cedimento alle sue leggi. La seconda, continua Alberto, c’entra col rapporto tra musica e violenza. C’è un dialogo tra un fan nostalgico del rap anni ’90 che dice a Paper Boi di essere uno degli ultimi veri rapper perché ha sparato a uno che si era messo di mezzo. Poi c’è un agente di polizia, anche lui nero, che, appena Paper Boi viene rilasciato dopo il fermo per spaccio, gli chiede di farsi una foto con lui.

Earn e Paper Boi in «Atlanta»

Earn e Paper Boi in «Atlanta»

La discriminazione razziale, il rapporto tra musica e criminalità, l’ambiguità delle forze di polizia sono argomenti tosti. Ma senza una trama definita, senza storie esemplari o vittime di palesi ingiustizie, tutto è proposto con tono leggero, nello slang della comunità nera nel quale dominano l’ironia e l’umorismo tipico della satira praticata da Donald Glover in altri show (uno spettacolo stand-up su Comedy Central, la sitcom Community su Nbc). Qui sta il carattere più innovativo di Atlanta. Dove invece la serie manca di originalità è proprio nella scelta del microcosmo al centro della storia, nel suo carattere introverso, cioè tutto interno alla vita della comunità nera. Come in Empire, i neri sono sempre rapper poco raccomandabili, gente borderline, musicisti criminali. Quando va bene sono sportivi a caccia di riscatto sociale, come in Ballers. Forse sarebbe ora di mostrare anche storie di emancipazione dei neri. Perché, per esempio, non raccontare meglio chi è il padre di Earn che vive in quella bella villa? Capire se se l’è fatta lavorando sodo, magari facendo l’uomo d’affari in qualche azienda di Atlanta? Qualcuno, per spiegare la contemporaneità della serie, ha tirato in ballo il sogno incompiuto dell’uguaglianza razziale promessa da Obama. Ma sembra una via di fuga un tantino semplicistica.

Alla fine siamo d’accordo: innovativa nel linguaggio e nella formula, un po’ meno nella storia.

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Il caso «The OA», show spartiacque di Netflix

Mio figlio Alberto è un consumatore seriale di serie tv. Io ne vedo qualcuna meno. Perciò, eccoci qui.

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Il primo show con cui abbiamo pensato di inaugurare «Le serie viste con mio figlio» è The OA di Netflix. Una serie controversa, complicata, quasi inafferrabile a cominciare dal titolo che per qualcuno significa Original Angel, per altri rimanda a un’espressione di Cristo («Io sono l’alfa e l’omega»). Una serie spartiacque, sottolinea Alberto, che rompe con la logica dei generi perché ne contiene e contamina diversi. Anche per questo, e per la sua notevole ambizione narrativa, ha una trama poco comprensibile, che mescola elementi new age, yoga, sconfinamenti metafisici con un linguaggio fantasy e sci-fi. Certamente, si tratta di un prodotto indipendente e molto elitario assai diverso dal resto della proposta Netflix, in cui la spiccata ambizione intellettuale rischia di farla sconfinare nel ridicolo. Forse, azzardando un po’, si può dire che The OA porta la cinefilia festivaliera nella produzione seriale.

Disponibile sulla piattaforma streaming dal 16 dicembre scorso, è stata creata da Brit Marling e Zal Batmanglij, coppia di autori vecchia conoscenze dei circuiti indie, e consiste di otto episodi, di durata variabile. Tra i produttori esecutivi figura pure Brad Pitt, mentre Brit Marling interpreta anche la protagonista della storia, Nina Azarov, una bambina russa che, dopo un’esperienza pre-morte che l’ha resa cieca ed essere sparita per sette anni, durante i quali è stata rapita da uno strano scienziato che esegue degli esperimenti a fini terapeutici su di lei e su altri quattro reclusi, ricompare con il nome di Prairie Johnson, autodefinendosi «Primo angelo». È in questa veste che Prairie diviene la leader di un gruppetto di «eletti» ai quali partecipa la sua esperienza e trasmette la pratica liberatoria dei cinque movimenti. In mezzo a tutto questo ci sono sogni rivelatori e traumatici, un padre che scompare anche lui, nuovi e strani genitori adottivi, uno psicologo dell’Fbi che dovrebbe aiutarla a ritrovarsi.

Prairie Johnson (Brit Marling) suona il violino per richiamare l'attenzione del padre

Prairie Johnson suona il violino per richiamare l’attenzione del padre

La critica specializzata, a cominciare da quella americana, si è divisa tra entusiasti e detrattori, ma la maggior parte degli addetti ai lavori ha faticato a inquadrare la storia. Che parte come un thriller psicologico che si svolge in un desolato paesino dell’America profonda dove improvvisamente accade qualcosa di strano, ma poi vira nel metafisico. Per questo qualcuno l’ha avvicinata a Stranger Things, altri, per forza catalizzatrice, l’hanno associata a Westworld, altri ancora hanno trovato somiglianze con episodi di Black Mirror, qualcuno ha ravvisato citazioni cinematografiche di Alfred Hitchcock e David Fincher, o di Linea mortale, un horror con Julia Roberts e Kevin Bacon del 1990. Ma forse è a Les Revenants, la serie francese sceneggaiata anche da Emmanuel Carrère,  che attinge maggiormente. Al di là dei riferimenti più o meno cinephiles, la visione degli otto episodi ondeggia su un’altalena di sentimenti che vanno dalla curiosità di capire come va a finire – ma più ci si inoltra e più ci si perde – alla sensazione di stare perdendo del tempo. Detto tutto questo, non si riesce a staccarsi, osserva Alberto. La storia è inverosimile, perché la protagonista è una ragazza che perde la vista e poi la ritrova, muore e torna in vita, perde il padre e ne trova un altro, viene rapita da uno scienziato ma nessuno la va a cercare. Ma anche se tutto risulta inverosimile e non ricade nel reale, anche se non ci sono azione e conflitto, ma desolazione e claustrofobia, la storia può tenere inchiodato il pubblico come lei riesce a catalizzare gli ascoltatori della casa abbandonata al limitare del paesino. Alla fine, il dubbio che possa essere tutto un’impostura rimane, ma anche se lo fosse la protagonista riesce a trasmettere qualcosa di utile alla vita dei suoi ascoltatori. In sintesi, che cosa funziona e che cosa no in questa serie? Non funziona la storia, tirata e lacunosa. Mentre è curioso che senza azione, solo con racconti e dialoghi, riesca a creare una tensione misteriosa e coinvolgente.

Alla fine, concordiamo sul fatto che, proprio per la sua complessità e inafferrabilità, si continua a rimuginarla. Ci vorrà una seconda stagione per capirla meglio.

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