Camon si tuffa nella realtà armato di poesia
Coraggiosa, temeraria, ardimentosa è la poesia. S’arrampica, s’avventura, s’inerpica dove la prosa non può. Quando la realtà è groviglio e le risposte latitano ci si appella alla poesia. Non però a una poesia rifugio, che ci ripiega su noi stessi e nella psiche com’è quella che allaga tanta produzione corrente. E nemmeno a quella poesia che chiamiamo impegnata o civile, talmente abituale da risultare ininfluente quando non respingente. Ma a una poesia che si potrebbe definire realista o sociale. Che guarda fuori e si confronta con l’attualità traversata dalla paura. Con gli «spuntoni» del quotidiano e le sue superfici più ruvide e sfuggenti. Non una poesia di risposte, ma una poesia problematica. Che contiene moti di ribellione: all’indifferenza, all’acquiescenza, alla rassegnazione.
Ferdinando Camon è uno scrittore appartato, uno degli ultimi grandi della sua generazione, estraneo ai circuiti festivalieri e della visibilità mainstream. Uno che ha scelto la periferia. Ma, da autore pasoliniano quale si dichiara – Pasolini gran cantore del sociale – non disdegna prender parte con la sua prosa asciutta, solida, terragna. Tuttavia, ci sono circostanze che non trovano quiete e di fronte alle quali il rovello riemerge. È a questo punto che, siccome per Camon «scrivere è più di vivere», conviene ricorrere al linguaggio più evocativo, più provato alle pareti scoscese.
Son tornate le volpi – Come muore la nostra civiltà (Apogeo editore) si compone di 46 liriche che sono altrettante istantanee dense di quesiti e suggestioni, di sussulti e reazioni trattenute, non certo di certezze. È la terza raccolta in versi dello scrittore padovano, dopo Liberare l’animale (Garzanti, 1973) e Dal silenzio delle campagne (Garzanti, 1998), nelle quali tratteggiava la scomparsa della civiltà contadina, per Charles Péguy «il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». A sua volta Camon si definisce «un narratore della crisi». Che significa «narrare il prezzo del progresso». Perché l’autore di Un altare per la madre e Una malattia chiamata uomo – la crisi di una civiltà e quella dell’io – non trova patria nelle risposte della politica e dei suoi schieramenti, uno o l’altro, nei «medicamenta» del welfare o nell’omeopatia del neoliberismo. Meno che mai nelle promesse edeniche del capitalismo digitale. Le quali, anzi, producono scarti, scorie, escrescenze. «Al computer leggevo questi miei componimenti e mi son chiesto perché non condividerli?», racconta Camon. «Sono le mie reazioni verso il mondo, separate una dall’altra, però insieme compongono un piccolo panorama. Tormentato sì; come si fa a non esserlo? Cambia tutto: il cristianesimo, il capitalismo, la società».
E allora, il prezzo del progresso sono i reietti che popolano gli androni delle stazioni ferroviarie. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta»; (I barboni).
Il prezzo del progresso è il cinismo anche di fronte alla morte più lacerante. «Quando muore una bambina italiana,/ sulla sua tomba, dopo una settimana,/ i famigliari incollano una fotografia,/ in attesa che la lapide sia pronta./ Ci vorrà qualche mese./ Ma il racket albanese/ gira di notte per i cimiteri e porta via/ le foto, da mettere sui passaporti/ delle loro minorenni prostitute…»; (Foto di bambine morte).
Il prezzo del progresso sono i lamenti che salgono dai selciati dei marciapiedi. In Spegnere la cicca sul calcagno un’immigrata che spera di cambiar vita preme un mozzicone sul piede di un bimbo quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca».
L’editore Apogeo, che di recente ha pubblicato la versione definitiva del travagliato Occidente, proporrà Son tornate le volpi alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Gli scritti di Camon sono pericolosi», suggerisce Emilio Manco nella prefazione. «Camon viene dalla civiltà contadina che è morta e si porta dentro questo lutto. Qualunque cosa giudichi… lui sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto. Che è anche un lutto religioso: il vecchio cattolicesimo è morto e Camon sente questa morte come un’ingiustizia». Che fa pagare a noi, suoi lettori. «Un po’ è vero», ammette lui. «Ma prima di tutti la pago io. Sono stato formato fin da piccolo per vivere tutta una vita dentro una verità, ma così non è. La metamorfosi del sacro la patisco molto».
Camon scandaglia i margini della globalizzazione. Ne incide le contraddizioni e le «catastrofi quotidiane». E ci mostra magrebini ricattatori, mafiosi albanesi che solcano il mare con supermotori da 6.000 di cilindrata, giovani perduti nel vizio che di notte abitano vagoni fermi sui binari morti, suore che assistono prostitute e sono accusate di legittimarne i traffici. Le letture sono molteplici e pure lui si dibatte tra pietà e accusa, tra accoglienza e rifiuto. Assecondare gli espedienti cinici, le derive passive, le ambiguità, le omertà e i soprusi per la sopravvivenza significa razionalizzarli, perpetrarli, moltiplicarli? Accettare la resa dei diseredati e la mancanza di soluzioni dei ricchi e potenti vuol dire rassegnarsi alla sconfitta?
Se scrivere – maggiormente in poesia – è più di vivere, allora può servire a circoscrivere la diffidenza che ci paralizza. Scrivere è circoscrivere: la paura dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Di trovarsi uno sconosciuto in camera al ritorno dal lavoro, come accade a un architetto che, davanti al coltello dell’intruso africano, fa dietrofront e si rituffa nella notte in cerca di un albergo («È accaduto qui, poco distante da dove vivo»). La paura delle cosche che chiedono il pizzo, dei clan che controllano il malaffare, dei tossici che rubano ovunque.
Altrove affiora la ribellione dell’intellettuale radicato, turbato da un arretramento della nostra civiltà che viene spacciato per accoglienza. L’integrazione vagheggiata rimane chimerica: «Avverrà nei fatti, sarà obbligata dal contatto, dalla convivenza», riflette. Ma non può avvenire a discapito della cultura e della tradizione di chi ospita: «Vengono in casa nostra e accampano nuovi costumi, nuovi diritti». Sono temi che Camon ha già toccato in La mia stirpe (Garzanti), romanzo del 2011 poco citato dalla critica. E che, irrisolti, ripropone in versi anche con maggior schiettezza: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo in ginocchio sul tappeto invoca il suo Allah rivolto alla Mecca. Invece il paziente cristiano si volge alla parete vuota per vedere più bianca la vernice dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto». A scuola, quando la maestra si accorge che l’allievo marocchino ha fatto troppi errori, esclama «Oh, Gesù!». Ma subito trasalisce perché si ricorda che da lui «Gesù non si usa,/ diventa viola/ e gli chiede scusa».
I conflitti sociali non si compongono. I contrasti interiori non trovano soluzione. Forse non resta che seguire le tracce di qualche testimonianza.
Panorama, 4 gennaio 2023