Gender, terrorismo e attualità di «The Bridge»

The Bridge è bellissima. Alberto continuava a ripeterlo e io storcevo il naso. Finché mi sono fermato a guardare mezz’ora e ci sono caduto dentro con tutte le scarpe. Corsa a recuperare gli episodi precedenti e attesa ansiosa dei prossimi, ne mancano tre alla fine (ma resteranno on demand). Forse si possono vedere su Netflix, ma io preferisco aspettarli e gustarmeli uno alla volta, butta lì Alberto. No, su Netflix ci sono solo la stagione 1 e 2. Non resta che aspettare il venerdì sera su Sky Atlantic. La prima stagione è stupendatutta ambientata nel mondo dell’ecologia e delle emergenze ambientali. La seconda mi è piaciuta di meno. A questo punto sono portato a fidarmi.

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La terza invece ruota attorno ai conflitti sulla famiglia e sui sessi. Famiglia tradizionale contro unioni civili, matrimoni tra coppie dello stesso sesso, uteri in affitto, figli in affido di genitori anziani, pedofilia. Il contrasto ha un forte retrogusto ideologico. In ogni episodio c’è un colpo di scena, qualcosa che ti spiazza e nello stesso tempo ti tiene incollato. Tutto ruota intorno alla famiglia, ai suoi modelli che cambiano. A chi lavora per andare oltre la famiglia tradizionale e a chi, invece, lavora per difenderla. Una serie tendenziosa, schierata, conservatori da una parte politicamente corretto dall’altra. Molto attuale e in un certo senso disturbante.  Nel primo episodio viene trovata assassinata a Malmö (Svezia) una famosa studiosa, esperta di teorie gender, fondatrice a Copenaghen (con il ponte di mezzo) di un centro per la fecondazione assistita e del primo asilo per figli di coppie dello stesso sesso (lei stessa è sposata con una donna dopo un matrimonio con un uomo dal quale ha avuto un figlio, borderline e psicotico dopo una spedizione militare in Afghanistan). La messa in scena del ritrovamento è quanto di più simbolicamente inquietante. C’è una famiglia attorno al tavolo per la cena, marito moglie e due figli, tutti con il sorriso da emoticon tracciato con il rossetto: solo che mentre gli altri sono manichini, la moglie-madre è il cadavere in carne e ossa. Per giunta le è stato asportato il cuore. Anche i successivi omicidi vengono rappresentati con un rituale che, secondo il suggerimento di un impiegato di una galleria d’arte, citano le opere (uno spaventapasseri, un uomo su un’altalena) appartenenti a un importante uomo d’affari che, insieme alla moglie, è ricorso alla gestazione per altri pur di avere un erede. La seconda vittima è il primo sacerdote protestante a celebrare in chiesa matrimoni tra omosessuali e via così. Le indagini si concentrano sugli ambienti degli attivisti pro-life, tra i quali spicca una militante molto zelante, che nel suo vlog stigmatizza in modo tranchant costumi e comportamenti delle associazioni Lgbt. La luce sinistra che la avvolge e i toni ultimativi la propongono come l’ideologa, la cattiva maestra di questa catena di delitti farcita di citazioni che sembra sconfinare in una forma di neo-terrorismo.

 

Saga e il collega Henrik durante le indagini

Saga e il collega Henrik durante le indagini in «The Bridge» terza stagione

Col procedere degli episodi le trame s’infittiscono e s’intrecciano. La tensione è crescente, la storia si segue benissimo, attaccati alla logica stringente e alle vicende personali di Saga Noren e Henrik Sabroe, il nuovo collaboratore della polizia danese che ha preso il posto di Martin, fatto arrestare proprio da Saga nella seconda stagione. L’atmosfera rarefatta che pervade le storie è forse l’elemento più caratterizzante della serie, dove i sentimenti sono gelidi e piatti come certe pianure sterminate. The Bridge – La serie originale (Bron in svedese, Broen in danese, ne sono state tratte due versioni, una inglese e una americana) tratteggia una società all’apparenza perfetta, all’avanguardia e teoricamente esemplare. In realtà, anaffettiva e cupa, priva di relazioni e complicità reali che, alla fine, trasmette un senso di tristezza e solitudine, reso da un commento musicale desolato e da una fotografia algida e malinconica. Proprio questa atmosfera, dettata anche dall’ambientazione particolare, è la parte più affascinante della storia. Gli investigatori sono solitari, turbati, affetti da strane psicosi, frequentatori di club per single dove si cercano esplicitamente partner per «fare sesso» e stop. Saga Noren (Sofia Helin) è un personaggio al limite dell’autismo nello sforzo di tenere la vita privata ferreamente separata dalla professione. Ma il dramma tracima: la sorella si è suicidata e lei ritiene che i genitori ne siano la causa, soprattutto la madre affetta da sindrome di Münchausen per procura (i genitori fanno ammalare i figli per risultare indispensabili). Quando rispunta dopo vent’anni per convincere la figlia a visitare il padre in coma, ricevendone un netto rifiuto, Saga sostiene che è tutto a posto «perché le emozioni non interferiscono con il mio lavoro». Replica paterna del capo: «Anche se ne faresti volentieri a meno, credo che ti serva un bell’abbraccio». Abbraccio concesso per accontentare lui più che per averne conforto. Ormai però la separazione tra vita e professione sta cominciando a sgretolarsi, osserva Alberto.  Anche il collega Henrik Sabroe (Thure Lindhardt) ha il suo bel dramma intimo. Moglie e figlia sono sparite sei anni fa, ma lui continua a vederle in giro per casa. In compenso s’imbottisce di sonniferi di notte e di altre pasticche al mattino. I due ovviamente vanno saltuariamente a letto insieme, ma sempre, gelidamente, «per fare sesso». In tutto questo, il capo dell’Ufficio indagini, l’unica persona con la quale Saga abbia un rapporto simil umano, viene rapito dal serial killer. E, dopo l’arresto di Martin, il collega delle prime due stagioni, lei rimane senza più punti di riferimento.

Come poche altre serie, forse solo Gomorra e la prima stagione di True Detective, The Bridge ha qualcosa di strano e malato, tipico della letteratura nordica, che s’insinua nel telespettatore fino a creare l’attesa e la voglia di entrare in quel mondo altro. Lo sceneggiatore Hans Rosenfeldt ha annunciato l’accordo con la rete televisiva svedese Svt per una quarta stagione che dovrebbe prendere le mosse un anno dopo la conclusione delle indagini narrate nella terza. Alberto e io ce lo auguriamo.

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