Lavagna, Italia: le domande che dobbiamo farci

LLavagna, Italia. Lavagna, società italiana. Sono giorni che ci penso e ripenso. Arrivo tardi, lo so. Però, la posta mi sembra alta. Lavagna, dove una madre (Antonella Riccardi) ha chiamato la Guardia di finanza perché sbirciasse nella scuola del figlio (Giovanni). Lavagna, dove durante i controlli nella sua camera, con tutta la vita davanti quel figlio è saltato nel vuoto. Lavagna, dove quella madre ha detto ai funerali: «Là fuori c’è qualcuno che vuole soffocarvi facendovi credere che sia normale fumare una canna, normale farlo fino a sballarsi, normale andare sempre oltre. Diventate i veri protagonisti della vostra vita e cercate lo straordinario». Lavagna è un capolinea. Come lo è stato poche settimane fa Pontelangorino. E altri ce ne sono stati in passato. È come se vivessimo in una società eticamente e culturalmente terremotata senza rendercene conto. Una società dove restano solo macerie. Come in La strada di Cormac McCarthy? Un padre e un figlio camminano, soli, nelle macerie del mondo dopo una catastrofe che l’ha raso al suolo. Che cosa li fa resistere? Che cosa li fa andare avanti?

Viggo Mortensen e Kody Smith-McPhee in «La strada»

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A Lavagna ci sono una madre e un figlio adottivo che si sta perdendo. Soli anche loro. Non si hanno notizie della scuola, non c’è traccia della Chiesa o di psicologi in grado di accompagnare una famiglia adottiva. Non è bastato neanche lo sport. Macerie. E la Guardia di finanza. Perché la scuola non c’era? E perché non la Chiesa? Da Lavagna vien fuori ben più che lo sterile dibattito tra proibizionisti e anti. La scuola non c’è perché decenni di ministri inetti l’hanno svuotata di qualsiasi ambizione educativa. Perché un governo dopo l’altro ha ridotto gli insegnanti nella categoria professionale più depressa e demotivata del pianeta. La scuola è ininfluente perché è diventata una fabbrica del politicamente corretto, dove ogni accenno di rigore si scontra con il protezionismo fasullo dei genitori per i loro pargoli. La Chiesa non c’è perché, a differenza di trent’anni fa, quando era presente e visibile nelle situazioni più spericolate, si è chiusa dentro mura autoreferenziali. Si è ripiegata su se stessa, dividendosi anche lei in correnti e schieramenti. Non c’è più nemmeno il servizio militare o civile obbligatorio che segnava il passaggio dall’adolescenza alla gioventù, aiutando a resettare storture e devianze. E mentre sono scomparse le agenzie educative tradizionali è apparso l’eldorado della rivoluzione tecnologica che ha aumentato la distanza tra padri e figli. Ha allargato la forbice, ha instaurato intercapedini d’incomunicabilità. Questa è la società che abbiamo edificato. Nelle macerie attecchiscono miti falsi e modelli vuoti.

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Invece le domande di un ragazzo sono sempre le stesse. Vitali, esigenti, improrogabili. E noi siamo sempre meno capaci di accompagnarle, di stare accanto, di aiutare a resistere, d’incoraggiare allo straordinario, di esemplificare un barlume. Il mestiere di genitore, il più difficile perché nessuno lo insegna, oggi lo è ancora di più. Alla fine della sua orazione, rivolta al figlio quella madre ha detto: «Perdonami per non essere stata capace di colmare quel vuoto che ti portavi dentro da lontano». Noi siamo capaci? Questa è la domanda che dovremmo farci. Come genitori. Come educatori. Come politici. Come cristiani.