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«L’euroburocrazia ci trasforma in sonnambuli»

Novantuno anni e otto figli, Giuseppe De Rita è una delle menti più lucide del Paese. Fondatore e animatore del Censis, il Centro studi investimenti sociali che nell’ultimo rapporto ha tracciato il profilo di una società italiana «affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali», De Rita è l’uomo cui si ricorre quando ci si trova davanti a svolte difficili da decodificare come quella verificatasi all’ultima consultazione europea.
Professore, chi ha vinto davvero le elezioni?
«Nessuno. L’astensione è tale da far pensare che qualsiasi decisione venga presa sarà sempre tecnicamente di una minoranza. Avere il 28% di metà del Paese significa disporre concretamente del 14% dei consensi e quindi espressione di una forza largamente minoritaria. Questo stabilisce le condizioni in cui si lavora. Perciò è difficile dire che qualcuno abbia vinto. Anche se, numericamente, si può dirlo di Elly Schlein e Giorgia Meloni, mentre Giuseppe Conte ha perso».
L’astensionismo è stato forte anche in Europa, il fenomeno dei sonnambuli e degli sfiduciati è continentale?
«La crisi della partecipazione politica si registra in tutta Europa. Ma lei vuol dirmi quale sia l’appeal di Olaf Scholz o di Emmanuel Macron? Possiamo riconoscere che noi sonnambuli non esercitiamo una buona domanda, ma dobbiamo tralasciare la qualità dell’offerta. L’astensione sarà anche un peccato di omissione, vedendolo dal punto di vista del catechismo cattolico, ma è un peccato giustificato dal fatto che la qualità dell’offerta politica è bassissima. Se al mercato mi offrono un prodotto che non mi piace, tiro dritto».
Quindi la causa principale è il deficit di qualità del personale politico?
«Questa è sicuramente una delle cause. La seconda è che, tendenzialmente, il cittadino della società occidentale comincia a vivere trascurando le cose importanti. Non paga le tasse, non partecipa alla vita della scuola, non va a messa. La tendenza è a occuparci delle nostre cose e non di quelle collettive».
Prevale il disincanto nei confronti della globalizzazione o la distanza dalle istituzioni continentali?
«Credo che il problema vero sia una certa estraneità degli organismi di governo europei. Io stesso non vedo vicini i grandi palazzi di Bruxelles, forse perché sono abituato a palazzi più semplici e famigliari. L’Ue emana un’immagine fredda, tecnocratica e ricca. La lontananza degli uffici e la ricchezza degli stipendi. Delusi dalla globalizzazione? Non direi. Vorremmo una politica europea più forte e unitaria nella difesa e nella diplomazia. La globalizzazione è accettata, tutti parlano di piattaforme e di Amazon. Ormai si usa Amazon anche per mandare i biglietti di auguri. È questa la globalizzazione. È l’Europa che non entra nel nostro concetto di globalizzazione».
Questa disaffezione è anche causata dal fatto che i tratti che caratterizzano l’Europa, dai simboli religiosi nelle città al riconoscimento del ruolo delle donne fino alla nascita degli Stati nazionali, siano stati progressivamente messi tra parentesi?
«Invece dovremmo riconoscere che l’Europa ha fatto grande la storia dell’ultimo millennio. Purtroppo oggi è di moda di rinnegare la storia».
È la cultura della cancellazione.
«Si cancellano i grandi imperatori, i grandi navigatori… Nei social e nei media l’opinione prevalente è la distruzione della storia per concentrarsi sul futuro. Come se la cultura contemporanea avesse bisogno di mangiarsi il passato, di vivere fuori dalle piazze di una volta. C’è l’ambizione di costruire le autostrade per il futuro. Ma la mia impressione è che se non si sanno gestire bene le città di una volta non si possono manco abbozzare le autostrade del futuro».
Mentre scolora l’appartenenza a una comunità e a una storia cresce la percezione di un’Europa sempre più dirigista, fatta di regole e divieti?
«La situazione va vista da due angolazioni. La società contemporanea è così complessa e articolata che ha bisogno di essere governata. Questo può avvenire o concentrando il potere con la forza come fanno certe dittature, oppure dettando regole e gestendone gli effetti. Negli anni Cinquanta i padri fondatori decisero per questa seconda ipotesi, non per un’Europa che concentrasse il potere e imponesse decisioni dall’alto. Anche i titoli degli organismi avevano questo carattere, si parlava di “mercato comune”, di “patto di stabilità”, tutte formule e meccanismi regolatori. Oggi queste istituzioni sono afflitte dalla burocrazia e sono esposte a lobby sempre più invadenti».
Gli elettori sanno chi sono e che ruolo ricoprono Ursula von der Leyen, Roberta Metsola o Christine Lagarde?
«È normale che non lo sappiano. Immagino che mio padre e mia madre non sapessero chi erano Konrad Adenauer e Robert Schuman, sebbene fossero grandi statisti».
Per questo hanno fatto bene Giorgia Meloni ed Elly Schlein a personalizzare la campagna? Gli elettori cercano qualcuno in cui riconoscersi?
«È uno dei meccanismi di identificazione. Io sono contrario alla personalizzazione della politica, però capisco che in un momento di difficoltà, in cui agisce una marea di soggettività, qualcuno scelga di metterci la faccia. Poi ci sono le personalizzazioni che funzionano, come quelle di Schlein e Meloni, e quelle che non attecchiscono, come nel caso di Matteo Renzi e Carlo Calenda».
Come valuta il fatto che il governo Meloni sia l’unico in Europa che registra un consistente incremento di consensi?
«Essendo l’ultima arrivata la Meloni ha fatto scelte drastiche. Ha optato per una linea europeista e atlantica e d’intesa con gli Stati Uniti. Una scelta che ha pagato più di altre posizioni articolate. Poi ha fatto la sua scelta netta anche contro la politica dei bonus. E la gente ha capito».
Hanno fatto bene i vescovi italiani a suggerire un voto in favore dei partiti dichiaratamente europeisti?
«Non potevano fare altro. La scelta europeista è stata fatta anche dagli statisti cattolici del dopoguerra».
Perché a suo avviso sono stati poco ascoltati?
«Tutto sommato lo sono stati. Cosa potevano dire se non “votate per i partiti europeisti”? Forse pensavano di favorire i centristi. Alla fine, però, non ho visto prevalere il voto antieuropeo».
La dialettica pace-guerra è stata centrale in queste elezioni ed è giusto che lo sia?
«Assolutamente no, ed è giusto che non lo sia».
Perché?
«Perché si tratta di un meccanismo così delicato e criptico che montarci sopra una dimensione politica è sbagliato. Si entra in questioni complicatissime di cultura militare, di geopolitica e di economia internazionale che vanno trattate in modo serio e approfondito. Non basta dire di essere per la pace».
Da questo punto di vista, come giudica la candidatura di Marco Tarquinio nel Pd?
«Tarquinio ha fatto benissimo il direttore di Avvenire e poi ha scelto di impegnarsi, da pacifista oltranzista, in queste consultazioni, senza disturbare troppo il partito. Terra terra, è andato avanti».
Da ospite in un partito che va da un’altra parte?
«Se ha fatto questa scelta ne ha pagato in bene e in male i pro e contro. Non tocca e me valutarli».
Perché, sebbene nei sondaggi la maggioranza degli italiani si dichiari contraria all’invio di armi, i partiti pacifisti e antimilitaristi non hanno avuto i riconoscimenti attesi?
«Son cose troppo serie per farne comizi e orientamenti elettorali. Pensi quanto difficile è la valutazione su quali armi mandare in Ucraina. Non basta proclamarsi per la pace e sventolare la bandiera bianca. Anzi, è inutile e dannoso ridurre a un fatto di opinione una crisi internazionale così complessa».
Altra contraddizione: le proteste ambientali e gli annunci di apocalissi imminenti si sprecano mentre i Verdi perdono consensi.
«Anche in questo caso il problema ambientale è ridotto a fatto di opinione. Quando viene sottratto ai tecnici, agli esperti, ai programmi di intervento e gestione dell’ambiente sfuma in qualcos’altro e perde di interesse».
La bocciatura dell’asse franco-tedesco va attribuita al disagio sociale di Francia e Germania o al contrasto alla politica bellicista?
«La causa della sconfitta non è il contrasto alla linea bellicista di Parigi e Berlino. Chi conosce la realtà di questi Paesi capisce che la loro crisi non viene dallo schieramento anti russo. Nel caso della Francia, si origina nella dimensione identitaria, nel conflitto spaventoso fra ebrei e antisemitismo che investe le periferie e nel crollo della religione cattolica come elemento unitario di quella popolazione. L’asse con i tedeschi c’entra poco. In Germania, la crisi è generata dall’aumento delle diseguaglianze. La fine dell’era dei grandi traguardi economici crea tensioni e frustrazioni che si manifestano al voto e nelle città in modi meno cruenti di quelli francesi».
Se Paesi leader come Francia e Germania, ma pure Austria e Belgio registrano uno spostamento verso destra, è giusto che a Bruxelles si riproponga la maggioranza di prima?
«Non so dove si collocheranno i repubblicani francesi né se Meloni appoggerà la maggioranza Ursula. Mi astengo».
Che strada intravede per riformulare un’idea e una prassi europea più vicina alle esigenze dei cittadini?
«L’Europa sta gestendo la complessità di questi decenni con la cultura delle regole e delle normative. Questa politica era efficace negli anni Cinquanta. Ora risulta troppo fredda, in questi anni non basta gestire l’esistente. Serve una politica con più intenzionalità».
Intenzionalità significa progettualità, visione?
«Ogni momento di svolta della storia è stato determinato da una intenzionalità. L’uscita dal feudalesimo è stata favorita dal ruolo del clero e dal solidarismo dei Monti di pietà. La stessa ricostruzione italiana del dopoguerra aveva una intenzionalità. Oggi l’Europa gestisce l’esistente senza una progettualità».

 

La Verità, 15 giugno 2024

 

«Per difendere il Prosecco serve l’ecosostenibilità»

Vino, cibo, turismo, cultura, storia. C’è tutto questo nella parabola di Giancarlo Moretti Polegato, imprenditore atipico, radicato nel territorio tra Asolo, Conegliano e Valdobbiadene, colline del Prosecco. Un vignaiolo illuminato, autore di un importante recupero di archeologia industriale, finalizzato alla rinascita di una zona del paese. Quello della storica ex filanda – divenuta calzificio Si-Si e Golden lady, chiuso a fine anni Novanta per le delocalizzazioni – trasformata in una scuola professionale di ristorazione che, insieme ad altre attività circostanti, è tornata a essere il cuore di Valdobbiadene come un tempo. Fratello di Mario, mister Geox, Giancarlo avrebbe dovuto essere l’uomo dei conti della famiglia, una dinastia da sempre produttrice di vini di alta qualità. Sessantadue anni, sposato con Augusta Pavan, ex modella che ha calcato le passerelle in giro per il mondo, è padre di Diva Maddalena (il nonno si chiamava Divo) e Leonardo, anche loro impegnati nell’azienda di famiglia. Il suo quartier generale è Villa Sandi, dimora palladiana che risale al 1622, acquistata negli anni Ottanta, alle pendici del Montello, zona della Prima guerra mondiale. Nei sotterranei si trovarono lunghe gallerie, ora riciclate come cantine per la maturazione dei rossi pregiati. Ci incontriamo nella sede della scuola Dieffe, frequentata da 250 studenti. Dei quali Polegato ha scritto: «Vedere così tanti di voi passare dai timidi sorrisi e un po’ d’incertezza iniziale a via via maggiore sicurezza e più larghi sorrisi, impegnati e seri nel percorso di formazione intrapreso, è stata per me la più grande e bella delle gratificazioni».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono uno dei tanti imprenditori del Nordest che lavora con passione credendo nei propri collaboratori. Il primo patrimonio di un’azienda sono le sue risorse umane. Io m’impegno a essere la cabina di regia delle varie attività, razionalizzando investimenti, produzioni e acquisizioni nelle diverse tenute».

Attività che le stanno dando soddisfazioni, mi pare.

«Non mi lamento. Con 106 dipendenti e 26 milioni di bottiglie l’anno nei diversi marchi, Villa Sandi è una delle maggiori cantine italiane, prima per export della provincia di Treviso. Negli ultimi cinque anni abbiamo raddoppiato il fatturato, sfiorando i 100 milioni. Le nostre produzioni sono presenti in 104 paesi, il Cartizze “Vigna La Rivetta” ha conquistato i Tre bicchieri del Gambero rosso. Ma il riconoscimento cui tengo maggiormente è la fedeltà dei nostri clienti».

È figlio d’arte.

«Mio padre ha sempre avuto la passione del vino. Purtroppo è morto in un incidente stradale quando avevo vent’anni. Nelle sue intenzioni il vignaiolo doveva essere mio fratello, iscritto alla scuola enologica di Conegliano, mentre io ho studiato ragioneria e avrei dovuto occuparmi dell’amministrazione. Poi, quando mio fratello ha avuto l’idea della suola traspirante con la quale ha creato uno dei marchi calzaturieri più affermati nel mondo, la nostra storia è cambiata».

Siete cresciuti con vostra madre.

«È stata il nostro unico punto di riferimento. Veniva in azienda tutti i giorni anche negli ultimi tempi, prima di morire, un anno fa. È sempre stata partecipe delle nostre scelte e ci stimolava continuamente. Perciò abbiamo voluto aggiungere il suo cognome e chiamarci Moretti Polegato».

Avete deciso con lei di acquisire Villa Sandi?

«Era già un sogno di mio padre. Vivevamo lì vicino e guardandola facendo progetti. Dopo la sua morte, nel 1979, con la spinta di mia madre l’abbiamo acquistata da una famiglia romana, ma abbiamo preferito darle il nome dell’architetto costruttore. Era tradizione dei nobili veneziani edificare nell’entroterra. L’abbiamo restaurata, ristrutturata e aperta al pubblico, sicuri che anche dopo quattro secoli potesse esercitare il suo fascino. Coniugando mondo del vino e paesaggio, arte e storia, le abbiamo dato appeal turistico, creando un circuito di ospitalità con percorsi e due locande. Ogni anno arrivano 20.000 visitatori, anche americani e giapponesi, molti dei quali vengono anche qui alla scuola, curiosi di vedere i segreti dei prodotti locali. Anche i sotterranei, 1,5 chilometri di gallerie, usate durante la guerra sul Piave, rientrano nella visita».

Erano rifugi bellici e depositi di munizioni?

«E sono diventati suggestive cantine, ideali per la maturazione dello spumante classico e dei rossi che chiedono un invecchiamento fino a cinque o sette anni. La villa e le colline appartengono al comprensorio che nel luglio scorso è stato proclamato patrimonio dell’Unesco. Un riconoscimento che, oltre a darci visibilità internazionale, ci carica di responsabilità».

Il prosecco ha ottenuto riconoscimenti, ma anche critiche per l’invadenza sul territorio e l’uso di sostanze chimiche nocive. In che modo le vostre coltivazioni rispondono alle esigenze di sostenibilità ambientale?

«Vino uguale turismo come territorio uguale turismo. Il rispetto dell’ambiente è un fatto di cultura, una forma di riconoscenza verso una terra che ci ha dato tanta ricchezza e opportunità. Gran parte dei 160 ettari che possediamo tra Veneto e Friuli è certificata con il marchio “biodiversity friend”. Non usiamo diserbanti e pesticidi. I vigneti sono vicini alle case, immersi nei centri abitati: è giusto essere molto rigorosi. Questo è il fronte su cui siamo più impegnati. I commissari certificano periodicamente il rispetto dei parametri di agricoltura sostenibile, l’attenzione alle risorse idriche, l’utilizzo di energie rinnovabili, il mantenimento di aree a bosco e siepi per la salvaguardia dell’habitat adatto alle specie animali. C’è un dialogo continuo e serrato tra i consorzi di tutela ambientale e i coltivatori».

Tanto più ora che si insiste a parlare di green economy.

«Proprio perché quest’area ha avuto un grande sviluppo negli ultimi dieci anni è stata messa sotto il microscopio. Con 560 milioni di bottiglie all’anno nei vari segmenti Doc, Docg e Cartizze, il consorzio del Prosecco è il primo in Italia. Le nostre bollicine hanno conosciuto un grande boom nel mondo, il 70% viene distribuito all’estero, dal Sudamerica all’Australia. Ma Prosecco è il territorio che dà il nome al vino, come il Chianti o lo Champagne, mentre l’uva si chiama glera. Il territorio non si può espandere, si può solo difendere e tutelare. Sono sicuro che le giovani generazioni ci aiuteranno a essere più attenti alle esigenze della sostenibilità».

Lei sottolinea questo binomio tra produzione vinicola e paesaggio perché ritiene che insieme in futuro possano incrementare la loro attrattiva turistica?

«Ne sono convinto. L’obiettivo è creare un turismo che vada oltre il mordi e fuggi. In California gli americani sono riusciti a creare dei flussi di visitatori legati alle degustazioni. L’economia turistica alimentata dal vino è tutta da promuovere. Credo che anche la Regione Veneto abbia questo interesse. Tanto più che dispone di un pacchetto di offerte di grande appeal internazionale, da Venezia all’Arena di Verona, dalle Dolomiti al Lago di Garda. Nel febbraio 2021 a Cortina ci saranno i Campionati del mondo di sci, prova generale delle Olimpiadi del 2026. Ma bisogna rimboccarsi le maniche».

Come, per esempio?

«Io posso parlare per il nostro territorio. Credo che dobbiamo potenziare le infrastrutture dell’ospitalità. Forse non servono grandi interventi, ma possiamo migliorare la rete viaria, creare piste ciclabili, recuperare casali e rustici, rendere più moderni ristoranti, locande e agriturismi dotandoli di tutti i comfort».

Lei si è portato avanti con il recupero di questa vecchia fabbrica?

«L’ex filanda Piva è sempre stata il cuore vitale di tutto il paese dal quale tanti emigranti erano partiti per l’estero. Era l’unica grande fabbrica rimasta. Prima del boom del Prosecco, con 1200 operai alimentava l’economia di Valdobbiadene. Come altri calzifici, in seguito alle delocalizzazioni, è stata chiusa a fine anni Novanta. Noi l’abbiamo acquistata nel Duemila dai proprietari di Golden lady. C’erano ancora le lire, paragonate all’oggi, tra acquisto e restauro, abbiamo investito 5 o 6 miliardi per riqualificare tutta l’area, ristrutturando la viabilità con parcheggio, supermercato, locanda, sede della Confartigianato e questa magnifica scuola».

Un progetto molto ambizioso.

«Ci avevano proposto di fare un centro sportivo con palestre e scuola di ballo. Ci ho pensato: un imprenditore fa i suoi calcoli… non avrei avuto contributi per la scuola professionale… Ma, poco alla volta, anche confrontandomi con i ristoratori della zona e con il preside, Alberto Raffaelli, mi sono appassionato. Il successo di queste zone lo dobbiamo al vino: creare una sinergia con una scuola che formerà cuochi e ristoratori era la cosa giusta da fare. Forse, se non fossi stato un imprenditore del settore, non avrei capito».

Com’è stata accolta questa operazione dalla popolazione locale?

«Molto bene perché, come dicevo, abbiamo recuperato un’area industriale con la sua storia, finalizzandola a qualcosa di utile per tutta la zona. La scuola è valore aggiunto. Questi ragazzi saranno ambasciatori della nostra cucina legata alla terra e alle eccellenze locali là dove andranno a lavorare. E già cominciano a esserlo con i premi che vincono ai vari concorsi gastronomici».

Ha altri progetti in serbo?

«No. Abbiamo appena acquistato Borgo Conventi, un vigneto nel Collio, per produrre del vino fermo. È un’area paragonabile a questa, un colle nel goriziano, al confine con la Slovenia, dove nascono eccellenti vini, Malvasia, Picolit, Ribolla, Sauvignon, Cabernet, vari tipi di Pinot… È un investimento che completa la nostra offerta di bollicine. Anche lì incentiveremo le visite alla cantina, creeremo una locanda per l’ospitalità. C’è tanto da lavorare…».

 

La Verità, 1 dicembre 2019