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«Bezos e gli altri? Geniali, ma senz’anima»

Un produttore di vino con la fissa dei giornali. È Giancarlo Aneri da Legnago (Verona), 74 anni portati alla grande, inventore del premio «È giornalismo». Uno che fa dire a tanti che lo vedono per la prima volta: «O è matto, oppure…». Successe al portinaio della Ferrari a Maranello, quando si presentò senza appuntamento per incontrare il mitico Enzo. E a Tony Mantuano, ristoratore di Chicago, al quale fece giurare che Barack Obama avrebbe fatto il primo brindisi da vincitore con il suo Prosecco. Insomma, un genio del marketing. Scienza appresa e applicata da direttore delle relazioni esterne delle Cantine Ferrari di Trento, il marchio del più celebre spumante italiano. Poi lasciato per fondare la sua Aneri Srl.

Cosa racconterebbe ai nipoti per sintetizzare la storia dell’azienda che porta il suo nome?

«Racconterei la prima bottiglia bevuta con i miei tre maestri di vita: Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Quel brindisi ha portato fortuna».

Perché lo fece con loro?

«I momenti importanti si festeggiano con le persone che si stimano di più».

Che vino era?

«Prosecco. Eravamo a casa di Bocca, 1997. Montanelli si complimentò, ma da toscano disse che adesso aspettava un buon rosso. Due anni dopo avrebbe assaggiato il primo Amarone».

I suoi sono vini per presidenti, star e grandi marchi?

«Siccome il mondo non è solo dei ricchi, se l’Amarone è l’eccezione, il Prosecco è la normalità. Penso di rappresentare una delle poche cantine al mondo che in 25 anni ha fatto bere i suoi vini a tutti i Capi di stato».

Come ha fatto?

«Ero da vent’anni alla Ferrari spumanti quando mio figlio mi disse: “Papà, io non lavorerò mai con te, perché voglio costruire qualcosa di mio”. Da quel momento ho iniziato a pensare a un’azienda di famiglia».

I presidenti e le star?

«Mia moglie dice che sono un po’ montato. Invece, ho avuto fortuna, non ho fatto il fighetto, ma il piazzista».

Un aneddoto da piazzista.

«Dopo aver visitato il Senato, ospite di Ted Kennedy, al momento della foto gli ho messo in mano la bottiglia: “Insomma, scrivono già che bevo troppo”, brontolò. Ma io ero così contento che non mi accorsi di fare qualcosa d’inopportuno».

A Ted Kennedy e al Senato americano bisogna arrivarci.

«Da sempre, quando vado in una città, m’informo sui migliori alberghi e ristoranti. Ted Kennedy me l’ha presentato un grande ristoratore italiano di Washington. Sono stato ospite con mia moglie di Ronald Reagan, ho visitato la Casa Bianca con una sua assistente. Non mi sono mai fatto troppi problemi. Sa chi mi ha insegnato a essere sicuro di me stesso?».

Dica.

«Enzo Ferrari. La prima volta che sono andato in America ho chiesto consiglio a lui che non aveva mai preso un aereo: “Se hai un prodotto che consideri buono ma vedi che non ti ascoltano, alzati e va’ via”».

Alla Ferrari auto si arriva passando dalla Ferrari spumanti?

«Vedevo che quando il Cavallino rampante vinceva i Gran premi brindava con lo champagne… Ma perché, se è il simbolo dell’Italia? Un giorno mi presentai a Maranello con sei bottiglie… “Sono Giancarlo Aneri, vorrei parlare con il commendator Ferrari”. Il portinaio era basito: “Ha un appuntamento?”. “No, però vorrei incontrarlo”. “Guardi che l’ingegnere ha l’agenda piena per i prossimi sei mesi”. “Io vengo da Legnago, in provincia di Verona, e ho portato un piccolo presente che vorrei consegnargli personalmente”. Allora spunta Valerio Stradi, il segretario personale: “Se mi dà il pacchetto glielo consegno io”. “No, guardi, posso aspettare anche tutta la giornata, mi metto qui…”. Stradi si allontana e ritorna: “L’ingegnere può dedicarle un minuto”. Rimasi con lui un’ora e mezza».

Diceva che la Aneri è nata per dare un futuro a figli e nipoti.

«Il Pinot bianco porta il nome di mia moglie Leda, l’Amarone di mia figlia Stella, il Pinot nero è intitolato a mio figlio Alessandro. I quattro prosecchi alle mie nipotine e al nipotino, Lucrezia, Ludovica, Giorgia e Leone. C’è una storia dietro e un futuro roseo davanti».

Com’è riuscito a portare i suoi vini sulle tavole del G20?

«Il merito è di Silvio Berlusconi, il primo premier che ha usato l’Amarone Aneri come biglietto da visita del made in Italy. Il giorno della firma della Costituzione europea nel 2004 ne ha regalato una bottiglia a ogni capo di governo con il loro nome inciso. Invece, il Prosecco è arrivato sulla tavola di Barack Obama».

Come?

«Sei mesi prima delle elezioni, lessi sul New York Times che, in caso di vittoria, Obama avrebbe festeggiato con Michelle alla Spiaggia, il suo ristorante preferito di Chicago. Presi un aereo e andai a trovare il ristoratore Tony Mantuano per farmi promettere che il primo brindisi sarebbe stato con il mio Prosecco. Mantuano mi guardava interdetto: “Questo qui è più sicuro di Obama”. Conservo la mail arrivata nella notte che dice che Obama e sua moglie hanno brindato con il Prosecco Aneri».

Tutto merito della sua fissa per l’informazione?

«Il vino si apprezza prima di tutto con il profumo, ma ha un suo profumo anche l’inchiostro dei quotidiani. Ne compro sei al giorno: Corriere della Sera, Sole 24 ore, Il Giornale, Libero, La Verità e L’Arena».

Qualche giorno fa su una pagina del Sole 24 ore un tale G. A. chiedeva al filantropo Jeff Bezos di annullare il licenziamento di 10.000 dipendenti pensando prima all’uomo che al pianeta. Ne sa qualcosa?

«Sì perché l’inserzione è mia. Bezos aveva annunciato l’intenzione di donare metà del suo patrimonio per salvaguardare il pianeta, ma quello stesso giorno il New York Times informava che Amazon licenziava 10.000 dipendenti. Mi sono detto: perché prima di salvaguardare il pianeta non difende subito 10.000 persone rinviandone il licenziamento di un paio d’anni?».

È l’ultimo di una serie di messaggi affidati ai giornali?

«I cinesi usavano i tazebao, io uso una pagina di giornale per lanciare un messaggio o dire grazie».

Altri tazebao?

«Quando Mario Draghi lasciò la Bce feci pubblicare un ringraziamento sul Sole 24 ore per il buon lavoro svolto. Era firmata “È giornalismo, Aneri”. Il giorno dopo i membri della giuria mi chiamarono per ringraziarmi. Poi al momento dell’incarico a Draghi ho fatto pubblicare sul Corriere una pagina anonima con “Grazie presidente Mattarella. Grazie presidente Draghi”».

Qualche tazebao rimasto anonimo?

«Quando in piena pandemia la tv francese Canal+ mostrò un pizzaiolo italiano che, cantando tossiva sulla pizza, ho fatto pubblicare una pagina sulla Verità che recitava “Viva la pizza. Abbasso lo champagne”, firmata con le iniziali di nipotine e nipotino».

Per l’incarico a Giorgia Meloni, niente tazebao?

«Sono felicissimo che una donna in gamba come lei abbia in mano le sorti dell’Italia per i prossimi anni. La guardo con gli occhi di chi vuole farsi un’idea più precisa nei prossimi sei mesi».

Cosa pensa dei big dell’economia digitale come Bezos, Bill Gates e Mark Zuckerberg?

«Sono dotati di grande genialità e hanno creato un modo di vivere e di comunicare più veloce ed efficiente. Ma non vedo l’anima. Mi sembra che le donazioni servano a promuovere la loro immagine. La persona che mi convince meno è il banchiere filantropo George Soros. Ha fatto guerra per anni alla sterlina e alla lira, complicando la vita a milioni di famiglie inglesi e italiane. Non basta finanziare il restauro di un monumento per compensare tante speculazioni».

Com’è nato il premio «È Giornalismo»?

«Avevo l’ambizione di avvicinare Montanelli, Biagi e Bocca che si stimavano molto, ma si frequentavano poco. Oggi la giuria è composta da Giulio Anselmi, Paolo Mieli, Gianni Riotta, Gian Antonio Stella e Mario Calabresi. Ma il premio è stato fondato dai tre giganti del giornalismo e da un loro amico sincero. Ne parlo al presente perché per me sono ancora vivi».

Un aneddoto su Montanelli.

«Qualche volta andavamo in vacanza insieme. Un anno m’incarica di scegliere un albergo sulla spiaggia di Punta Ala. Individuo l’Alleluia e ragguaglio la padrona su esigenze e orari dell’illustre ospite. Quando arriva il momento, scendo in un altro hotel due giorni dopo di lui e gli chiedo se vada tutto bene. “Insomma, sono tutti vecchi in questo albergo”. Immagino pullman d’inglesi novantenni… La sera m’invita a cena: il più vecchio avrà avuto 65 anni, lui ne aveva 84. Questo era Indro, come si fa a non volergli bene?»

Enzo Biagi?

«Le riunioni si facevano da Bocca, ma una volta lui arrivò in ritardo subendo i rimproveri del padrone di casa. “Sono andato a fare le analisi, oltretutto sono tutte sballate”, confidò Biagi. “Anch’io le avevo sballate”, replicò Giorgio. “E come hai fatto a guarire?”. “Ho smesso di farle”».

Il premio si sta aggiornando ai nuovi media?

«Nel 2013 abbiamo premiato Hal Varian, capo della sezione economica di Google, chiedendogli di aiutare i giornali con la pubblicità».

Intanto vi siete allargati ai volti televisivi.

«Sempre in rapporto all’informazione. Già nel 2003 avevamo premiato Antonio Ricci come capo del vero tg della televisione italiana. Nel 2015 è toccato a Fiorello per Edicola Fiore, un programma che aiuta il giornalismo come piace a me».

Altri premiati: Fabio Fazio, Massimo Gramellini, Mario Calabresi, vince il mainstream?

«Feltri ha ribattezzato “È giornalismo” come il “Premio Stalin”. Ma guardando l’elenco troviamo anche suo figlio Mattia, Milena Gabanelli, Natalia Aspesi, Sergio Romano. Io non interferisco sulle scelte della giuria perché sono contento di essere il patròn».

Forse bisogna cambiare la giuria?

«Qualche anno fa Natalia Aspesi chiese di farne parte, ma Montanelli suggerì di aspettare un po’ perché aveva appena vinto. Conservo la sua mail: “Caro Aneri, si ricordi che noi donne siamo più brave degli uomini ed è un peccato che in giuria non ce ne siano”. Forse ora i tempi sono maturi. Dopo un paio d’anni di sospensione, mi piacerebbe che il premio tornasse per festeggiare la ripresa di una vita serena come quella foto del bacio in Times Square dopo la Seconda guerra».

Oggi i giornali sono in crisi e le edicole chiudono: lei è l’ultimo romantico?

«Sicuramente sono uno dei pochi ottimisti rimasti. Prendo la lezione che viene dal mio mondo: c’è stato un momento in cui si parlava solo dei ristoranti stellati e si diceva che le trattorie stavano morendo. Oggi in Italia sono i locali in maggior espansione. Perciò, spero che si possa superare il momento difficile e, magari con un aiuto pubblico per le edicole, riportare i giovani a frequentarle».

 

La Verità, 3 dicembre 2022

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

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La Verità, 26 giugno 2021