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1994 e le storie degl’iscritti alla fiera delle vanità

Siamo dunque giunti all’ultima stagione della trilogia di Sky sul passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. E, come in ogni trilogia che si rispetti, il capitolo finale è compimento e apoteosi. Dopo quello della rivoluzione e quello del terrore, il 1994 è l’anno della restaurazione (regia di Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce, produzione Wildside di Fremantle, venerdì, ore 21,15, Sky Atlantic, Sky Cinema Uno e On demand). Nella terza stagione anche l’equilibrio narrativo si definisce, come se, aiutati dagli accadimenti reali più forti, sceneggiatori e registi avessero trovato la spinta giusta per consolidare i profili degli outsider, veri protagonisti della serie, con vicende ancora più drammatiche.

Dunque, ci sono la discesa in campo, il duello tv tra Silvio Berlusconi (Paolo Pierobon) e Achille Occhetto, il discorso dell’«Italia è il Paese che amo», il trionfo elettorale e lo sbarco a Roma di molte avvenenti onorevoli, la nomina di Irene Pivetti, presidente della Camera. C’è, soprattutto, lo scontro con Mani pulite con il decreto Biondi e il rifiuto di Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi) della poltrona di ministro dell’Interno. Poi il ruolo della Lega di Umberto Bossi, alleato infido, il vertice sulla criminalità di Napoli e l’invito a comparire al premier, con un cameo di Luca Zingaretti nei panni di Paolo Mieli, e la caduta del governo. In mezzo ecco snodarsi le storie di Leonardo Notte (Stefano Accorsi), l’uomo ombra del Cavaliere, Veronica Castello (Miriam Leone) che diventa miss Parlamento, e Pietro Bosco (Guido Caprino), il leghista rozzo e doppiogiochista. E sono proprio queste storie a dare ancor più sapore alla storia ufficiale, nota fin nei dettagli, compreso quello della spilla «incanta burini» sul bavero dell’abito di Berlusconi durante il duello tv (Enrico Deaglio scrisse accigliate pagine in Besame mucho). Le parabole di Notte, Castello e Bosco, con i loro punti di vista laterali, sono il backstage dell’ufficialità e della storia con la maiuscola. A ognuno di loro è intestato un episodio. Notte è l’uomo del lavoro sporco, frequentatore di corridoi, camere e camerini, latore di ambigui messaggi e ultimatum. Castello è la soubrette disposta a tutto per conquistare il suo posto al sole dove potrebbe scottarsi. Bosco è l’ingenuo animato da buone intenzioni che si dibatte in un gioco più grande di lui. In fondo, questo è il destino comune di tutti e tre i personaggi della finzione: iscritti alla fiera delle vanità e intrecciati a quelli che finiranno sui libri di storia, qui narrata come un thriller.

 

La Verità, 6 ottobre 2019

Veronesi, Haber… Eravamo quattro amici a Cinecittà

Il cinema va in tv. Meglio, il backstage del cinema. Il dietrolequinte, scritto in una parola, perché, con Maledetti amici miei, diventa un genere, un’affabulazione, un disvelamento (Rai2, giovedì, ore 21,30, share del 4.37%). Niente di epocale, beninteso. Aneddoti, raccontini, piccoli retroscena, qualcuno più divertente di altri. La compagnia è ben assortita: Giovanni Veronesi, regista e burattinaio del gruppo, Sergio Rubini, l’Al Pacino italiano anche se, ahinoi, più corretto, Rocco Papaleo, attore e musicante autoironico assai, Alessandro Haber, capro espiatorio e vittima designata. Ospiti fissi, Max Tortora e Margherita Buy, mentre Paolo Conte regala a tutte le puntate una sigla diversa tratta dal suo repertorio. L’alchimia è notevole, ognuno dei quattro ha una tempra e una tempera, perché si conoscono e si frequentano da decenni e il segreto è proprio questo: mettono in scena loro stessi, singolarmente e insieme, interagendo, come si dice. Prendendosi per i fondelli, stuzzicandosi, alzandosi la palla per la gag vincente.

In uno studio sui tetti di un’ipotetica periferia postindustriale i tre attori e il regista improvvisano episodi che animano la vita quotidiana dei set, attraversati da manie, fobie, paturnie personali. La premessa che fa da cornice all’operazione che è una grande citazione di Amici miei (e di Quelli della notte) con burle e goliardate annesse, passa dalle parole di Rubini: «Noi siamo l’avamposto della tv generalista, siamo gli ultimi televisivi, quelli che la tv non l’hanno mai fatta». Ma ora, con loro, Cinecittà arriva in tv. Attraverso questa scena tutta autoriferita: autobiografica, autoironica, autoreferenziale. Con un filo di malinconia-nostalgia di sessantenni alla ricerca del tempo perduto, narratori di litigi, di interpretazioni rocambolesche e di autisti stralunati. Una psicopatologia del cinema italiano svelata in prima persona. Nella quale la Buy, «maestra d’ansia» («mettere ansia ai figli fin da piccoli va bene perché così non vanno da nessuna parte e restano con voi»), potrebbe vincere l’oscar come protagonista femminile, e Carlo Verdone, con le sue turbe ipocondriache, quello da protagonista maschile. Non a caso si scopre che il loro romanticissimo bacio in Maledetto il giorno che ti ho incontrato è, in realtà, frutto di una prova di forza dello stesso Verdone al culmine di 37 esasperanti ciak. Godibile, spassoso, burlesco, ma perfetto per la seconda serata. Anche perché così si potrebbe eliminare il gioco del turpiloquio libero una volta scaduta l’ora della fascia protetta: una banalità.

 

La Verità, 5 ottobre 2019