«M» cita Trump e sostiene che il fascismo è tra noi

Avendo visto tutti gli 8 episodi, ripubblico l’articolo, scritto in occasione dell’anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, su M – Il figlio del secolo, la serie di cui da venerdì 10 gennaio sono visibili su Sky i primi due capitoli. 

Fumettistico. Eccessivo. Esagerato. Questo M – Il figlio del secolo, regia di Joe Wright, prodotto da Sky Studios e Lorenzo Mieli per The Apartment (gruppo Fremantle), presentato fuori concorso in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è, a sua volta, figlio di un’ossessione, di un terrore che fa vedere il fascismo tuttora presente, risorgente, magmatico fiume carsico della politica e del suo fondo nero, paludoso e reincarnantesi ovunque negli autocrati, nei dittatori, nei leader sovranisti contemporanei (come paventa 2073, documentario dell’inglese Asif Kapadia, che annovera Putin, Berlusconi, Milei, Modi, Meloni e Bolsonaro tra i responsabili della prossima apocalisse planetaria). «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi», chiede ora il Duce rivolgendosi ai posteri dalla tomba al termine del prologo del primo episodio della serie: «A cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». È la ragione sociale, si potrebbe dire militante, di questo lavoro in otto capitoli tratti dalla biografia firmata da Antonio Scurati, un nome una garanzia, che arriveranno in esclusiva su Sky e Now all’inizio del 2025: dire che il fascismo è eterno e che i fascismi ramificano tra noi, in tutto l’Occidente. Qui e ora.

Sebbene il capo degli sceneggiatori, Stefano Bises, neghi l’esistenza di una ragione sociale, poi fa riferimento a «un dato di fatto. Dovunque, nel mondo, si assiste al riemergere di questa realtà rimasta sommersa e che ora rispunta anche sotto forma di rifiuto dell’oppressione. Del resto, il fascismo è il brand più duraturo mai creato dall’Italia». All’incontro con i giornalisti compare anche l’ispiratore. «Credo che lo spettro del fascismo si aggiri ancora per l’Europa. Ma non sono io a evocarlo, sono altre forze a richiamarlo in vita», scandisce di sua sponte Scurati. Il riferimento suona ampio e generico. Oppure potrebbe riguardare il recente voto in Turingia e Sassonia. Chissà, nell’incertezza scoppiano gli applausi perché la chiamata all’antifascismo galvanizza sempre. Ne fa professione di fede anche Luca Marinelli che impersona il Duce abbondando in cantilena romagnola e difettando in alterigia. «Per approcciarmi al personaggio ho sospeso il giudizio nei suoi confronti per sette mesi, il tempo della lavorazione. Ma per me, che sono antifascista e vengo da una famiglia antifascista, è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita».
Tuttavia, il suo Mussolini, figlio di un’ossessione, risulta inevitabilmente troppo. Tracimante, tracotante, chiacchierone, al limite del macchiettistico, soprattutto nei primi episodi che dal 1919 ci conducono alla Marcia su Roma e al contemporaneo incarico di governo affidatogli da Vittorio Emanuele III (Vincenzo Nemolato) dopo la rapida caduta di Luigi Facta. «Questo è un progetto partito sei anni fa», rivela Lorenzo Mieli, «quando Scurati ce l’ha sottoposto e noi abbiamo subito raccolto l’idea, scoprendo che al cinema e in televisione c’erano prodotti riguardanti gli ultimi anni del fascismo, ma quasi niente sulla genesi e la formazione di questa rivoluzione preoccupante e pericolosa». Così, vediamo un giovane Mussolini direttore del Giornale del popolo percorrere affannosamente cunicoli scuri, quasi inseguisse i fatti. Sempre eccitato, consuma amplessi a ritmo sfrenato. Sdraiato su un tavolo, fissa allucinato una bomba a mano che rotea all’infinito, mentre le camicie nere compiono le loro barbarie spaccaossa. Patisce il complesso di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon) e si fa guidare da Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli) che rischiara la via con minimi ritocchi. «Noi vogliamo» al posto di «Noi chiediamo», in un editoriale del Giornale del popolo. E il Vate non è «un padre», ma «una spina nel fianco: da togliere», mettendo fine all’impresa di Fiume.
«Io sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo», annuncia lui rivolto alla camera come Kevin Spacey in House of cards. Ma non è né una sottolineatura delle sue doti affabulatorie né un tentativo di psicanalizzarlo. «È il modo in cui parla direttamente allo spettatore, svelando i pensieri che ha sempre cambiato, ingannando famigliari, collaboratori, compagni», spiega Wright.
La nuova versione è: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene e questo non è ancora il mio». Ma arriverà il momento degli uomini forti e delle idee semplici. «La storia si fa con gli ultimi. Mettendogli in mano le bombe, le rivoltelle e, se occorre, le matite elettorali». Entrato finalmente in Parlamento, ecco la versione definitiva: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene, e non importa come, ma il mio tempo è arrivato. E pazienza se sono diventato l’uomo che odiavo da ragazzo. Io sono una bestia coerente, ho sempre tradito tutti, tradisco anche me stesso».
M – il figlio del secolo, «il più importante progetto realizzato da Sky», assicura Nils Hartman di Sky studios, è una serie contemporanea e pop, con la colonna sonora dei Chemical Brothers, notturna e cupa, splatter con le camicie nere, dalle tinte bellocchiane non solo quando compare  Ida Dalser, prima moglie che diede un figlio al Duce che la fa internare in manicomio (sul caso Marco Bellocchio diresse Vincere ndr). Così, il capopopolo dei prodromi si trasforma in «stratega», «prestigiatore», «trasformista», come avverte, anticipando le mosse allo spettatore. «Make Italy Great Again», dice a un certo punto un Mussolini trumpiano. Ma conservare il potere è più difficile che fare la rivoluzione. Ancora di più controllare la bestialità delle squadracce di Italo Balbo (Lorenzo Zurzolo). Affiorano i dissidi, si addensano i fantasmi, lo assediano le donne. A chi gli chiede come sia riuscito a raccontare insieme sia il Mussolini uomo che il Mussolini politico, il regista risponde: «Non è stato difficile perché sono inscindibili. Il fascismo è la politicizzazione della mascolinità tossica». E il cerchio si chiude.

 

La Verità, 6 settembre 2024

L’ex iena Mammucari è una belva senza autoironia

Su una cosa, a proposito di Teo Mammucari, Francesca Fagnani ha perfettamente ragione, ed è quando sottolinea una certa schizofrenia dello showman: «Lei è molto ironico, non è autoironico». È una patologia ricorrente tra le star dello spettacolo. Trovare tra i big della televisione, del cinema e della musica qualcuno che resti con i piedi per terra è piuttosto raro. Nel mio piccolo, me ne accorsi alcuni anni fa quando volli intervistare una iena, in qualche modo un collega del nostro caro Teo. Una iena spietata, cinica e irriverente con tutti, e mi furono poste una serie di condizioni. Rimasi stupito: ma come, voi tendete agguati per strada a chiunque per poi lavorare molto di montaggio, e adesso volete rileggere domande e risposte prima della pubblicazione? «Se uno attacca tutti e non sostiene un’intervista…», ha osservato ancora Fagnani durante l’attesa puntata di Belve, smascherando la doppia misura dell’ospite (Rai 2, ore 21,30, 10,6% di share, 1,8 milioni di telespettatori). Il suo stile potrà piacere o no, ma se si accetta di entrare in quello studio, a maggior ragione se ci si autopropone, si sa in anticipo che bisogna stare al gioco, accettare la graticola, qualche punzecchiatura, il ritorno alla luce di vicende rimosse, disporsi a rispondere in tempo reale sul filo dell’autoironia. Invece Teo ha mostrato di non essere a suo agio fin dall’inizio («Quando dici buonasera e benvenuto vuol dire “statte zitto”…»). Come i telespettatori hanno avuto modo di apprezzare in tutti i suoi programmi, non ultimo quel piccolo gioiello che è stato Lo spaesato, nel quale si vestiva da incantatore della brava gente di provincia, Mammucari è un’enciclopedia di sfumature dell’ironia, da quella bonaria a quella piaciona, da quella cinica a quella caustica. Al contrario, ospite di Belve, si è dimostrato un analfabeta dell’autoironia smarrendo subito il suo aplomb perché l’intervistatrice ha iniziato a dargli del lei, a differenza di quanto accadeva dietro le quinte e nei messaggi privati. Ci sta un cambio di registro di fronte a qualche milione di telespettatori. Teo doveva saperlo se, come le buone regole suggeriscono, avesse visto in precedenza il programma. Ma forse le buone regole valgono solo per gli altri.

Post scriptum L’intervista citata da Fagnani che il nostro caro Teo non ricorda è uscita sulla Verità il 21 ottobre 2018 e l’avevamo fatta un paio di giorni prima nel suo prestigioso appartamento all’undicesimo piano di un grattacielo in zona Porta Nuova a Milano, una casa arredata con eleganza e opere d’arte di valore. Ah, ho una testimone molto affidabile…

 

La Verità, 12 dicembre 2024

Altro che «vecchio», il Tg1 batte tutti sui social

Mica male la notizia. Il Tg1 è più social del Tg La7. E anche di una lunga sfilza di programmi della rete di proprietà di Urbano Cairo. Oltre che di Report di Rai 3 che, piazzandosi al secondo posto nella speciale classifica delle «interazioni», risulta la testata rivelazione. È il risultato sorprendente della Top 15 del mese di ottobre elaborata da Sensemakers per Primaonline.it. L’istituto monitora mese per mese le prestazioni di testate giornalistiche, talk show e programmi giornalistici sui diversi social network, testando in due specifiche classifiche il numero di interazioni (reazioni, commenti, condivisioni e like sulle cinque principali piattaforme) e quello di visualizzazioni dei contenuti video (sulle stesse piattaforme tranne TikTok). Ebbene, il tg diretto da Gian Marco Chiocci conquista nettamente la vetta in entrambi le graduatorie. Nella prima, puntando soprattutto su TikTok, totalizza 780.000 interazioni (a settembre erano state la metà) davanti aReport che si ferma a 738.000. Mentre il tg di Enrico Mentana, pur registrando un incremento del 18%rispetto a settembre, si assesta al terzo posto con 710.000 interazioni. Segue, in questa specifica classifica, una serie di programmi di La7, interrotta al nono posto dal Tg3 (193.000 interazioni) e, al dodicesimo, da Fuori dal coro di Mario Giordano (138.000).
Nella graduatoria delle «video views» il Tg1 raggiunge 26,8visualizzazioni distaccando notevolmente il Tg La7 che si aggiudica la seconda piazza con 17,4 milioni. Al terzo posto, In altre parole di Massimo Gramellini (12,6 milioni) che precede Pomeriggio 5 di Myrta Merlino (7,4). La performance del telegiornale della prima rete Rai è, dunque, completa e sorprendente, perché smentisce il luogo comune che lo dipinge come una testata rivolta a un pubblico anziano e passivo. In realtà, appurato che in ottobre partono tutti i programmi della stagione tv e che le varie testate elevano almassimo regime il funzionamento dell’attività destinata ai social media, va riconosciuta anche l’attenzione riservata dal tg di Chiocci agli spettacoli, al costume e allo sport, tutti contenuti destinati a una seconda vita social.

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Lunedì sera intervista al premier Giorgia Meloni ha consentito a Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4 di superare il 6% di share (media di 900.000 telespettatori), distaccando sia La torre di Babele di Corrado Augias (La7: 4,6%, 818.000), sia Lo stato delle cose di Massimo Giletti (Rai 3: 4,2%, 700.000) nella sempre più affollata serata d’inizio settimana.

 

La Verità, 5 dicembre 2024

Intrighi, spie e terroristi: riecco l’action movie

Durante un evento all’ambasciata britannica a Parigi, ospite d’onore il ministro della Difesa francese (Nathan Willcocks), un gruppo di terroristi fa scattare la vendetta dell’ex capo della Legione straniera Jason Pearce (Sean Harris). È la prima scena di Attacco al potere – Paris has fallen, spin off seriale della saga cinematografica con Gerard Butler (in preparazione un quarto film), prodotto da Studiocanal e diffuso da Canal+ con ottimi ascolti (lunedì sera su Italia 1 i primi due episodi hanno ottenuto il 6,2% di share con 1,2 milioni di telespettatori). Senza tanti preamboli, ci si trova nel vortice di uno spettacolare action movie adatto a un pubblico adulto, che intreccia agenti segreti dalla doppia vita, terrorismo e politici mediamente corrotti.

Per i sei anni in cui è stato nelle carceri dei talebani, lo spietato Pearce ha pensato solo a cosa avrebbe fatto, una volta uscito, a quelli che l’hanno abbandonato nelle mani dei torturatori: «E ora sono uscito», annuncia minaccioso. L’intervento di Vincent Taleb (Tewfik Jallab), guardia del corpo del ministro, e di Zara Taylor, (Ritu Arya), agente dell’Mi6 sotto copertura, riesce a sventare il blitz e a mettere in salvo il politico. Solo momentaneamente, però, perché la rappresaglia del nucleo terroristico attua un piano alternativo ancora più cinico, rapendo la figlia e imponendo un ultimatum definitivo. Parigi è sotto assedio e i cecchini mettono nel mirino altri politici e ambigui affaristi, costringendo il presidente della Repubblica Juliette Levesque (Emmanuelle Becort), che ha una relazione nascosta con Taleb, a diramare un appello alla nazione. Anche Zara Taylor ha nella liaison con la tossicodipendente Théa (Camille Rutherford) una non trascurabile complicazione privata. Alla guardia del corpo francese e all’agente segreta inglese non resta che allearsi, anche contro l’insidia di una talpa annidata nella squadra.

Realizzata con robusto impegno di budget, sebbene per il genere action risulti più adatta la visione sequenziale, la serie in otto episodi appare ben ritagliata sul pubblico maschile e mediamente giovane di Italia 1.

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Sarà stato l’eccesso di familiarità a consigliare a Fabio Fazio di non chiedere a Jovanotti, nell’ultimo Che tempo che fa, che cosa pensi dell’elezione di Donald Trump, della fuga di alcuni suoi colleghi da X e persino della Chiesa ai tempi di papa Francesco? Chissà. Tutti argomenti su cui nell’intervista al Corriere della Sera il cantautore ha espresso vedute, come dire, poco mainstream. A volte, anche gli amici hanno opinioni divergenti.

 

La Verità, 4 dicembre 2024

Verdone nel vortice dei folli senza centro di gravità

La terza stagione di Vita da Carlo, da qualche giorno disponibile su Paramount+, radicalizza le scelte migliori delle due precedenti. Stavolta, dopo aver rinunciato a fare il sindaco di Roma e a dirigere finalmente un film d’autore, Carlo Verdone accetta di dirigere e condurre il Festival di Sanremo. Idea che paga lo scotto alla prevedibilità e all’overdose di promozione dell’evento reale cosicché ci vogliono un paio di episodi per superare l’iniziale scetticismo. I tentativi di Roberto D’Agostino e del super manager Thomas (Giovanni Esposito) di dissuadere Carlo dall’accettare una sfida tanto impervia s’infrangono con la sua voglia di mettersi in gioco e soprattuto con la sua incapacità a dire di no. Anche in famiglia sono perplessi, ma sebbene tutti gli vogliano bene, un po’ se n’approfittano, come si dice. E allora il nostro eroe antieroe, il motore immobile della giostra, il centro del frullatore, assediato da improbabili richieste, precipita nel vortice delle fissazioni della varia umanità che lo circonda.

La genialità della sitcom è mettere in scena le perversioni quotidiane del nostro tempo, la ludopatia, il complottismo, la mercificazione del sesso, la militanza ambientalista, il politicamente corretto: circostanze che assolutizzano un particolare dimenticando il tutto, rappresentate da un campionario di sciroccati privo di centro di gravità nel quale c’è posto anche per la presa in giro degli autori e dei giornalisti tv. Ma lo fa con mano leggera e sguardo privo di moralismi, volto a evidenziare la vera vittima della situazione, quel buon senso che, a fatica e senza risparmiare in generosità, Carlo tenta di ripristinare, non sempre riuscendoci. Perché, alla fine, insieme al buon senso, la vera vittima è lui stesso, prigioniero della sua bonarietà. La trama è così ben definita che, nei dieci episodi di venti minuti l’uno, c’è spazio anche per il racconto per sole immagini o per dialoghi efficaci grazie alla scrittura e alle molte partecipazioni di star nel ruolo di loro stessi, da Maccio Capatonda a Ema Stokholma, da Gianna Nannini a Gianni Morandi a Zucchero. In fondo, «la vita, per buona parte, è tutta una commedia».

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Sarà pure uno spot di due ore, un santino o una grande operazione di marketing cinematografico, ma intanto domenica scorsa Ennio Doris – C’è anche domani tratto dall’autobiografia del banchiere fondatore di Mediolanum che nel 2011 rimborsò di tasca propria 11.000 risparmiatori che avevano investito in titoli Lehman Brothers, ha conquistato il 14% di share con 2,4 milioni di telespettatori vincendo la gara degli ascolti.

 

La Verità, 29 novembre 2024

Amadeus, Insinna e quelle integrazioni difficili

Il primo verdetto è arrivato: più che elevare lui il Nove a tv generalista è la rete ad aver normalizzato Amadeus. Almeno, stando alla sospensione anticipata di Chissà chi è il prossimo 21 dicembre. Onore al realismo dell’ex direttore artistico di Sanremo: inutile incaponirsi, aveva ammesso un mese fa intervistato da Rtl 102,5. Come si era ipotizzato, il format dei Soliti ignoti si è appiattito sui livelli di Cash or trash che, infatti, lo rimpiazzerà con le sue repliche. Si è assestata, invece, tra il 6 e il 7% (attorno al milione di telespettatori), La Corrida, nella serata affollata del mercoledì. Per la primavera Amadeus prepara uno show e un programma per l’access primetime. Che riflessione trarre dalla battuta d’arresto del suo primo tentativo? «Non sono un pifferaio magico», aveva concesso lui sempre in quell’intervista, e l’ ammissione illumina altre situazioni. Perché, tranne poche eccezioni, nessun conduttore lo è. Le eccezioni, come già detto, sono Maurizio Crozza e Fabio Fazio, conduttori orientati, che si rivolgono a una community consolidata che si identifica nella loro tv. Per il resto, i diversi pubblici, o target, vanno rispettati. Cambiare rete per un conduttore è un po’ come cambiare testata per un giornalista: assai improbabile che chi ti leggeva su un quotidiano continui a farlo in un altro, tanto più se di orientamento diverso. A conferma ci sono i dati modestissimi di Famiglie d’Italia, il preserale di Flavio Insinna su La7. Doveva fare da traino al tg, invece è lui quello da rivitalizzare. Il pubblico del canale di proprietà di Urbano Cairo, una rete all talk show schierati, come può recepire il più mammone dei conduttori di varietà? Altre controprove: la fatica ad avvicinare il 5% di share di Massimo Giletti su Rai 3. E, riavvolgendo un po’ il nastro, la difficile tenuta di Bianca Berlinguer su Rete 4. Pochi cambi di rete riescono col buco. Perché, anche in tv, certe integrazioni forzate stentano. E fanno pensare ai rimpatri.

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Scintille tra Marco e Lilli. Gustoso scambio di battute a Otto e mezzo tra Marco Travaglio e Dietlinde Gruber sul patriarcato: «Anche tu sei nella lista con Cacciari e Bocchino», lo ha stigmatizzato la padrona di casa. «In quale lista mi avete messo stavolta? Mi pare che si fa una certa confusione tra paternalismo, patriarcato e maschilismo», ha replicato Travaglio. Lilli: «La differenza è molto chiara». Marco: «Comunque, saremo ancora liberi di dire quello che pensiamo, siamo invitati qua per questo». Lilli: «Perché, vi sembra di non essere liberi?». Marco: «Ho sentito parlare di liste…».

 

La Verità, 22 novembre 2024

I fantasmi che ballano alla Corrida di Amadeus

La Corrida di Amadeus in onda in diretta sul Nove (mercoledì, ore 21,30, share del 6%, 1,1 milioni di telespettatori) è un people show con due fantasmi sullo sfondo. Il primo è quello della Rai, ovviamente. Perché, sintonizzandosi sulla rete di Discovery si è portati inevitabilmente a chiedersi perché un programma così debba andare in onda nella cornice un po’ stretta di un canale al tasto 9, appunto, del digitale terrestre (e 149 della piattaforma Sky). Il secondo fantasma è quello di Corrado Mantoni, indimenticato inventore, addirittura in radio, dell’antenato dei talent show quando il sottotitolo, ripetutamente citato da Amadeus, era «dilettanti allo sbaraglio». La sagoma sorniona di Corrado, infatti, affiora alla mente dei non più giovanissimi ogni qualvolta la telecamera inquadra lo stupore, la perplessità, la compassione e la benevolenza del conduttore durante le esibizioni. La maggioranza delle quali è vocata alle sonore stroncature della platea ribollente. Se ne salvano giusto tre o quattro che approdano allo spareggio per decretare il vincitore, promosso alla puntatona finale del 25 dicembre. È proprio la somma di incoscienza e sfrontatezza dei concorrenti a dissolvere per un po’ quei due fantasmi, in realtà difficili da tenere a bada. Collaborano allo scopo il maestro Leonardo De Amicis, disposto a ogni improvvisazione per tenere in carreggiata gli ospiti, e «il capopolo», l’altra sera un vivace Frank Matano, chiamato a recuperare i concorrenti stroncati dal pubblico. Un people show è per definizione nazionalpopolare, ma la facciatosta è indispensabile e quasi tutti i dilettanti sono di origine meridionale. La siciliana Maria Carmela Luisa Pappalardo, per esempio, non sa cantare, ma si prende la scena ballando sfrenata e dedicando i suoi strani libri al cast. Per di più incorre nella gaffe di citare una Corrida cui ha partecipato condotta da Carlo Conti in Rai, rianimandone il fantasma. Che rispunta con un concorrente di professione claquer in un’azienda «che tu conosci molto bene, ci hai lavorato per anni», ammicca il sosia di Piero Pelù prima di concludere: «Qui di soldi non ne scuciono». Chissà se nella testa di Amadeus cresce il dubbio di aver sbagliato a lasciare la Rai per passare in una rete con un palinsesto bipolare, diviso tra i programmi-community di Fabio Fazio e Maurizio Crozza e l’intrattenimento pop.

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Giletti risale Invitando Imane Khelif, la pugile iperandrogina che ha gareggiato nel torneo femminile di boxe a Parigi, e indagando sui patronati della Cgil all’estero, lunedì scorso Lo stato delle cose di Massimo Giletti è arrivato al 4,7% di share con 762.000 spettatori.

 

La Verità, 16 novembre 2024

Stucky rinfresca il telefilm con indagini analogiche

Canali, acque, portici, calli, mercati, osterie, magioni e palazzi: c’è da scommettere che un flusso turistico premierà presto Treviso, città nascosta alla televisione e ora quinta suggestiva delle indagini del nuovo commissario Stucky che dà il nome alla serie in sei episodi in onda su Rai 2 (mercoledì sera, ascolti tra il 7 e l’8%), tratta dai racconti di Fulvio Ervas, prodotta da Rai Fiction, Rosamont e Rai Com, e diretta da Valerio Attanasio. Come si dice, la location è essa stessa un personaggio del racconto. Personaggio adorabile è soprattutto l’ispettore capo cui dà corpo, molto dimagrito da come lo si ricordava, Giuseppe Battiston. Barba, sigaro, trench stazzonato, si aggira a piedi tra i vicoli e le piazze, con aria finto ingenua, grattandosi la crapa. Un Tenente Colombo del Nordest 2.0 si potrebbe dire, se non fosse che Stucky, nato a Tabriz da madre persiana e da padre di origini svizzere trasferitosi in Veneto, è allergico alla tecnologia. Niente cellulare, niente computer e se una collaboratrice gli parla del risultato di una ricerca su Google con la parola chiave le chiede di andare al sodo. Lui prende appunti su un taccuino e, una volta giunto all’osteria dell’amico Secondo (Diego Ribon), in attesa di un calice di prosecco, distende sul tavolo i foglietti con le note essenziali. È la sua «parete dell’inchiesta», quella che siamo abituati a vedere in decine di polizieschi, composta di foto segnaletiche, frecce, ritagli di giornale eccetera. Come nel Tenente Colombo, anche qui il telespettatore conosce dall’inizio l’identità del colpevole e la curiosità consiste nel seguire i metodi dell’ispettore per incastrarlo, sempre con modi gentili, facendo ricorso a molta psicologia («se ti vuoi suicidare, il giorno prima ti iscrivi in piscina?») e ai pochi indizi forniti dal medico legale (Barbora Bobulova), organizzati in una sintesi finale che precede l’arresto. In Stucky tutto è a misura d’uomo: dalla città ai dialoghi che alternano il dialetto (non sempre precisissimo), dal cibo tradizionale, sebbene spuntino troppi calici di bianco, agli stranieri che risultano ben integrati. La durata, un’ora impaginata con grafica e musica scanzonate, facilita la visione, ridà lustro al vecchio telefilm e risulta rassicurante per il telespettatore stressato da password e aggiornamenti digitali.

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Mercoledì sera all’esordio con La Corrida sul Nove Amadeus ha fatto registrare nella prima parte il 5,5% di share (982.000 spettatori) e nella seconda, dopo le 23, chiamata Il Vincitore, il 6,6% (667.000).

 

La Verità, 8 novembre 2024

L’autunno dei flop Rai nato con la riforma Fuortes

L’autunno dei flop. Verrà ricordata così questa stagione dalle parti della tv pubblica, sulle sorti della quale, sotto l’altisonante intestazione «Stati generali della Rai», oggi e domani esperti e analisti si eserciteranno alla ricerca della formula magica per liberarla dal controllo della politica (non sbellicatevi). Alcuni programmi sono già malinconicamente caduti al suolo per inesistenza di pubblico. L’altra Italia di Antonino Monteleone (Rai 2) ha chiuso, mentre di Se mi lasci non vale di Luca Barbareschi (Rai 2) ieri sera è andata in onda l’ultima puntata. Altri, come Lo stato delle cose di Massimo Giletti (Rai 3) e La confessione di Peter Gomez (Rai 3) penzolano dai rami come foglie esposte al vento. Probabilmente sopravviveranno, malgrado l’esiguità delle platee affezionate, raramente sopra il 4% di share. Attenzione, non si sta parlando della débâcle di fuoriclasse della televisione italiana. Non hanno clamorosamente floppato Michele Santoro o Giovanni Minoli, guardando al passato, Enrico Mentana e Bruno Vespa, per stare al presente. No, in fondo, con l’eccezione di Giletti, si tratta di figure non ancora consacrate che registrano una battuta d’arresto nel loro percorso.
Chi soffre maggiormente l’autunno freddo del pubblico è la Rai stessa, nel suo complesso. Dalla sua cattedra, Aldo Grasso ha prospettato tre ipotesi fra le cause dei tonfi. La difficoltà a fare programmi di successo in un contesto mediale in evoluzione, l’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra di governo e, tra il qui lo dico e qui lo nego, la mediocrità dei conduttori citati. Inutile dire che giornaloni e siti antigovernativi hanno sposato la tesi più facile: tutta colpa di TeleMeloni. Che, in fondo, è un modo più brutale di attribuire i flop all’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra. Probabilmente, qualcosa c’è, e ci arrivo tra un po’. Ma forse si tratta solo di un concorso di colpa a una causa strutturale che viene da lontano. Mi riferisco alla famigerata riforma per generi della Rai. Quella ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini e concretamente attuata dal suo successore Carlo Fuortes in pieno governo Draghi. Perché anche nella tv pubblica vigono le formule e le tempistiche valide per politica. Palazzo Chigi e Viale Mazzini ereditano quello che lasciano i governi e le governance precedenti. Se i dirigenti apicali, dall’amministratore delegato Giampaolo Rossi al direttore generale Roberto Sergio, i direttori delle testate e delle strutture produttive sono stati definiti – non tutti, eh! – da questa maggioranza politica, l’attuale assetto produttivo della Rai è nato con la riforma dei generi. Una riforma che sta palesando tutti i suoi limiti, mentre i pregi rimangono molto presunti o impliciti. Con la creazione delle strutture produttive orizzontali che forniscono intrattenimento, fiction, cinema, approfondimenti, documentari, sport e cultura sono state abolite le reti e la suddivisione verticale che comportavano.

In un intervento pubblicato dal Fatto quotidiano nel novembre 2021 significativamente intitolato «Fine delle trasmissioni» Carlo Freccero si chiedeva che cosa avrebbe prodotto il nuovo piano editoriale? «La fine della televisione generalista e l’affermazione della logica delle piattaforme, grandi “magazzini” indifferenziati di prodotti omologati», si rispondeva nella sua proverbiale visione apocalittica l’ex direttore di Rai 2. Con la creazione delle aree produttive per genere sarebbero sparite «le strutture che differenziano la tv tradizionale dagli altri media e da altri contenitori». Da «primo editoriale delle reti» e «scansione della vita sociale», il palinsesto sarebbe diventato «l’esposizione del magazzino», un serbatoio «di materiali interscambiabili e, come tali, privi di una specifica destinazione».

È esattamente ciò che sta accadendo. L’abolizione delle reti ha estinto le rispettive linee editoriali corrispondenti alle diverse identità culturali delle reti stesse, in favore di una proposta di televisione liquida, indistinta, da pensiero debole. Non esistendo più il direttore di rete, viene a mancare il confronto quotidiano tra i conduttori e il responsabile del palinsesto. Mancano gli aggiustamenti, le correzioni, il work in progress. Per fare un esempio, un direttore di Rai 2 che negli anni, al giovedì sera che fu di Michele Santoro, ha visto stentare o chiudere in anticipo Virus di Nicola Porro, Nemo di Enrico Lucci, Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea di Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo di Ilaria D’Amico avrebbe bruciato in quella serata già presidiata da Diritto e rovescio su Rete 4 e Piazzapulita su La7 l’ex Iena che fino ad allora non aveva mai condotto un programma in proprio? O magari l’avrebbe fatto crescere in altri giorni o in altre fasce orarie? E, in fondo, questo non è un errore simile a quello commesso un anno fa con Nunzia De Girolamo, catapultata senza esperienza giornalistica e familiarità con il pubblico di Rai 3 al timone di Avanti popolo in una serata già satura di approfondimenti come il martedì? E sempre parlando di consuetudine con i telespettatori, che dire della prevedibile fatica di Giletti su Rai 3 con Lo stato delle cose? A differenza delle piattaforme, con la loro fruizione in streaming, cui il consumatore attinge come agli scaffali del supermercato prelevando i prodotti a sua scelta, la tv generalista implica un rapporto più caldo e propositivo tra editore e telespettatore.

Ora tornare indietro non è facile. Però, forse, è il caso di cominciare a riflettere. Non si costruiscono successi a dispetto dei target. Come i giornalisti non possono essere trattati da tassisti usandoli per dire ciò che preme ai dirigenti senza accettare il confronto, così i programmi e i palinsesti non sono interscambiabili. E i conduttori non sono figurine da spostare a piacimento. Per quanto possa sembrare paradossale e romantico, pubblico, conduttori e reti hanno un’anima, una storia e un’identità che vanno rispettate e valorizzate. Per costruire un coro a più voci che soddisfi le diverse platee. L’alternativa è una televisione anonima e impersonale prossima alla resa allo strapotere delle piattaforme globali.

 

La Verità, 6 novembre 2024

La serie su Avetrana specchio delle morbosità

È la piaga della morbosità quella da cui ramificano le aberrazioni narrate nella serie su Avetrana (anche se non si può dire). La morbosità nelle sue varie sfaccettature e declinazioni. Le più abiette, le più sottili e le più ipocrite. Non ci sono due linguaggi nella trama costruita dal regista (Pippo Mezzapesa) e dagli sceneggiatori (Antonella Gaeta, Carmine Gazzanni, Flavia Piccinni e Davide Serino) di Qui non è Hollywood, prodotta da Disney e Groenlandia di Matteo Rovere e visibile su Disney+. La miserrima gente del posto e i giornalisti e i turisti che vengono da fuori, e si presumono più distaccati, sono trattati con lo stesso metro. La morbosità tormenta gli autori della ferocia su Sarah Scazzi e serpeggia nei tinelli fatiscenti del paesino. Ma istiga anche gli operatori della comunicazione che ne assediano le viuzze scalcinate, e alimenta il voyeurismo dei turisti dell’orrore che, a frotte, visitano i luoghi del degrado quando ancora s’ignorano le sorti della vittima. Un senso di potente desolazione, di oscenità, di scandalo della meschinità fa da cornice a un delitto riproposto nella sua inenarrabilità e inespiabilità. Mezzapesa suddivide la storia in quattro episodi, uno per ogni protagonista, mettendo al centro la voglia d’amore di Sarah (Federica Pala), la gelosia cieca di Sabrina (Giulia Perulli), la fragilità del finto mostro Michele (Paolo De Vita) e il cinismo mammone e limaccioso di Cosima (Vanessa Scalera). Altrettanto solide sono le figure del maresciallo Persichella (Antonio Gerardi), del Pm Giove (Geno Diana) e della madre di Sarah (Imma Villa). No, non siamo a Hollywood. Ma quanto a interpretazione, forse in un posto migliore se gli attori sono così credibili da sembrare presi dalla strada, dando alla fiction, che tale resta, l’ambizione e la profondità del documento. La descrizione della piaga purulenta che genera l’atrocità e il racconto dell’ignoranza e della superstizione che gli fanno da cornice, al punto che i Testimoni di Geova della mamma di Sarah sembrano i più razionali, procedono in equilibrio, contrappuntati dagli zoom sul brulicare di enormi formiche nella terra secca.

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La serie Hanno ucciso l’uomo ragno di Sky Atlantic è la rivelazione della stagione oltre che per gli ascolti anche per la freschezza, dovuta dall’assenza d’infarinature ideologiche, e per la nostalgia degli anni Novanta, ultimo decennio senza Web, social e ansia relativa. Peccato solo per il ritratto ingeneroso di Claudio Cecchetto.

 

La Verità, 3 novembre 2024