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«Perché molti ragazzi sono indifferenti a bene e male»

Neuropsichiatra e psicoterapeuta, esperta dei rapporti tra genitori e figli nell’età evolutiva, autrice di numerosi saggi sull’argomento, a Mariolina Ceriotti Migliaresi ricorrono spesso università e tribunali quando hanno bisogno di illuminazione in materia di devianze ed educazione di bambini e ragazzi.

Dottoressa Ceriotti Migliarese, che diagnosi fa della situazione dei giovani e degli adolescenti di oggi?

«Davanti a comportamenti “fuori norma”, credo sia importante distinguere tra le manifestazioni più o meno gravi di disagio psicologico e la vera patologia psichiatrica. Per esempio, se un ragazzo o una ragazza si tagliano, possiamo trovarci davanti a una vera patologia, oppure a un meno grave atto di emulazione. Non è la stessa cosa: ognuno ha una storia personale che va letta con attenzione. Oggi siamo di fronte a una generazione che appare particolarmente fragile, poco capace di far fronte al dolore psichico: i ragazzi non riescono a tollerare la frustrazione, il brutto voto, il rifiuto da parte di un amico, e non sanno tollerare i toni grigi della vita. Abbiamo abituato i nostri figli alla soddisfazione immediata di ogni loro esigenza, e si trovano perciò spesso impreparati alla fatica della crescita».

Quella di questi ultimi due anni è la situazione di massimo smarrimento dei ragazzi o ci sono stati in passato momenti di disorientamento altrettanto acuto?

«Pensiamo alle violenze e agli omicidi degli anni Settanta e Ottanta. La differenza sta nel fatto che in quel caso la distruttività non era fine a sé stessa, ma era spinta da un’idea: bisognava uccidere “il nemico” per dare spazio a un ideale di cambiamento. La violenza, pur nel suo orrore, era pensata come un male necessario in relazione a un progetto».

Come si spiega il fatto che viviamo un po’ tutti in condizioni di relativo benessere, eppure constatiamo negli adolescenti fenomeni che rivelano forti sofferenze?

«Ogni nuova generazione è fatta per scrivere una pagina nuova e andare oltre quella precedente. Oggi abbiamo chiuso il futuro ai nostri figli, diamo loro un’immagine del vivere lamentosa, triste e insoddisfatta. Vale la pena vivere? Il mondo che mostriamo non appassiona e fa paura. Le loro energie vitali, invece di fiorire ed espandersi, collassano. La risposta a questa mancanza di prospettive è che forse è meglio cercare rifugio in qualcosa di immediato, che può sedare l’ansia e/o dare piacere ed euforia per evitare il vuoto».

Negli ultimi mesi, a partire dalla strage di Paderno Dugnano in cui un diciassettenne ha ucciso a coltellate i genitori e il fratello, si sono intensificati atti di violenza immotivata. Che spiegazione possiamo darci?

«Il terribile caso di Paderno è tuttora misterioso, e non credo si possa escludere una frattura psicotica della personalità. Molti casi di violenza improvvisa e immotivata sono collegati all’uso di sostanze, che alterano la già precaria capacità di controllo dell’adolescente. Ma questo non è sufficiente per dare ragione del fenomeno. Esplosioni così violente fanno pensare anche che manchino in chi le attua presupposti essenziali: l’abitudine consolidata a riconoscere l’altro come persona e il progressivo allenamento al controllo. Sono competenze che vanno insegnate fin dalla prima infanzia, perché da solo il bambino non ne è capace: serve l’accompagnamento paziente dell’adulto perché impari a regolare le emozioni e controllare gli impulsi».

A quel fatto ne sono seguiti altri, come quello di una donna di 42 anni uccisa a Viadana da un diciassettenne che ha detto: volevo scoprire cosa si prova. Un altro ragazzo di 16 anni, a Cesano Maderno, ha colpito 19 volte con una mazza da baseball un uomo di 60 anni, dicendo: fosse stato un altro era la stessa cosa, non so perché l’ho fatto. Di questa violenza così efferata colpisce soprattutto la totale gratuità.

«Colpisce e lascia attoniti. Perché mostra che l’altro non è più percepito come persona, ma solo come un oggetto tra i tanti. Sembrano saltati i capisaldi più semplici e condivisi del nostro essere uomini. E sembra scomparsa la distinzione più elementare tra bene e male».

Per queste azioni restano valide le diagnosi che parlano di crisi di valori, di mancanza di comunicazione fra genitori e figli o di eccesso di protezione delle famiglie?

«Gli adolescenti non sono marziani, ma ragazzi che crescono e affrontano l’adolescenza in continuità con la loro esperienza infantile. Il bambino ha bisogno di un adulto che lo “vede”, si prende cura di lui, fissa i confini per la sua sicurezza e gli insegna le regole fondamentali del rispetto di sé e degli altri. Nell’infanzia si allenano le competenze necessarie per vivere con agli altri. Dovrebbe essere un tempo protetto ma non soffocante, che lascia anche lo spazio per mettersi alla prova. Oggi i bambini sono iper-controllati eppure soli, in un mondo che nell’esperienza concreta è molto chiuso – case piccole, pochi parenti e amici, scarsa libertà di movimento – ma nello stesso tempo è senza confini nell’esperienza virtuale, con un mondo esterno che invade senza protezione. Il nostro amore si esprime soprattutto attraverso gli oggetti, ma non diamo loro tempo e pazienza. Tempo per ascoltarli, ma anche pazienza per correggerli quando serve, aiutandoli a mettersi dal punto di vista degli altri».

Manca la minima consapevolezza di che cosa siano la vita e la morte?

«L’adolescente vuole allontanarsi dal passato e dalle relazioni infantili, ma fatica a immaginarsi il futuro. Il tema della morte come evento personale – io posso morire – si presenta proprio con l’adolescenza e introduce il senso di un limite difficile da accettare. La morte e la sua ineluttabilità non sono un tema patologico ma esistenziale, e per integrarlo nella vita serve una elaborazione culturale che gli dia senso. La nostra società fa spettacolo della morte “lontana”, ma nasconde e nega la realtà della morte concreta e vicina. La maggior parte dei ragazzi – e degli adulti – non ha mai assistito un morente, nemmeno una persona cara. La morte è diventata un evento privo di significato esistenziale, e non viene più elaborata sul piano culturale: questo lascia esposti, soprattutto i più giovani, a una immensa solitudine. A questo punto la morte può essere solo negata, sfidata o irrisa. Purtroppo, però, togliere significato alla morte toglie senso e valore anche alla vita».

Rispetto al disagio giovanile di cui si parla da decenni quali possono essere le cause di queste nuove forme di violenza?

«Nella violenza gratuita c’è il vuoto lasciato da una profondissima mancanza di speranza, che si riempie di contenuti distruttivi del sé o dell’altro. La mente umana non tollera il vuoto, e dunque, in mancanza di progettualità e di futuro, si aggrappa a tutto ciò che può saturarla; qualcosa che tiene lontane le domande e il dolore mentale: droghe, pornografia, alcool, atti aggressivi».

Colpisce anche l’età di questi ragazzi assassini, tutti minorenni. Tra le cause può esserci la pandemia, con le restrizioni che hanno impedito agli adolescenti in piena crescita di andare a scuola, avere relazioni, fare sport e hanno insegnato loro a diffidare dei propri simili?

«La pandemia e l’isolamento hanno tolto ai ragazzi uno dei motori fondamentali della crescita, ovvero agire nel mondo attraverso il corpo. Il senso di solitudine, isolamento e noia così comuni in adolescenza non hanno potuto trovare il loro antidoto naturale nell’uscire, aggregarsi, fare esperienza: tutto è diventato virtuale, accentuando così il valore dell’apparenza, dell’immagine, a scapito dell’autenticità dei rapporti reali».

Che ruolo hanno i social network e la vita online in questo scenario?

«Per chi è nato negli ultimi 20 anni una vita senza connessioni virtuali è assolutamente inimmaginabile. I nostri ragazzi sono immersi nel mondo virtuale, un mondo eccitante e pervasivo che sembra poter rispondere a ogni necessità e a ogni curiosità. Una confort zone che dà a ragazzi chiusi nella loro stanza l’illusione di avere molte relazioni, di poter avere scambi affettivi, di conoscere il mondo perché lo vedono da uno schermo. Per crescere, invece, è indispensabile misurarsi con la realtà».

Un’altra novità è la comparsa delle sex roulette, giochi di gruppo in cui i partecipanti hanno rapporti sessuali con volto coperto e senza protezione e perde la ragazza che rimane incinta. Questi ragazzi hanno provato tutto e cercano trasgressioni sempre più adrenaliniche?

«Temo sia così. Ma quello che qui più mi spaventa è il ruolo delle ragazze, che accettano un gioco così rischioso sulla loro pelle. Ragazze che hanno evidentemente del tutto perso il senso del proprio valore personale, e della preziosità del loro corpo, capace di generare la vita».

Il sentirsi annoiati da tutto si sposa con l’assenza del riconoscimento della vita come dono?

«Oggi parlare di “vita come dono” è qualcosa di molto lontano dalla sensibilità comune. Si pensa alla vita come a qualcosa di cui possiamo disporre a piacimento, e che ha come scopo l’auto-realizzazione. La vita invece è un regalo che ci è stato fatto perché siamo chiamati a un compito personale, che spetta solo e proprio a noi. Eppure, proprio sapersi speciali, chiamati alla vita per un compito personale è ciò che può dare un senso all’esistenza e che permette di non sperimentare mai la noia».

Cosa pensa del caso della ragazza di 22 anni di Traversetolo che dopo aver portato avanti due gravidanze, sembra da sola, ha seppellito i due neonati?

«Non voglio esprimere nessun giudizio su questa terribile situazione, che desta profondo sgomento e incredulità. Vorrei conoscere questa ragazza, ascoltarla, per poter almeno in parte comprendere come può essere arrivata a tanto».

In Cuore nero di Silvia Avallone, un ragazzino trascurato dai genitori appicca un incendio alla scuola e al maestro che gliene chiede conto risponde: «Non sapevo più dove mettere la rabbia». Potrebbe essere questo il motivo di tanta violenza gratuita degli adolescenti di oggi?

«Mi sembra un esempio molto calzante. Ricordiamoci però sempre che la rabbia, dal punto di vista psichico, è l’inverso della depressione… La rabbia permette di non sentire il dolore psichico perché lo allontana da sé e lo espelle attraverso l’atto distruttivo».

 

La Verità, 5 ottobre 2024

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022