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«Se il Pd ignora i doveri i diritti restano un’illusione»

Luciano Violante è un uomo delle istituzioni, uno studioso, un ex magistrato capace di ascolto e di confronto. Esemplare raro nello scenario politico contemporaneo. In La democrazia non è gratis – I costi per restare liberi (Marsilio) l’ex presidente della Camera si chiede se «con tutto il suo carico di storia, di cultura, di innovazione per il benessere dell’umanità, l’Occidente deve rassegnarsi alla sconfitta o alla marginalità?».

Presidente Luciano Violante, nel suo libro esprime preoccupazione per le sorti della democrazia a livello mondiale: che cosa la mette in pericolo in modo particolare?

«Il fatto che non ce ne stiamo curando. La democrazia non è un bene che si trova in natura. È sempre costata lotte, guerre, morti e lutti. Va costruita e difesa giorno per giorno, altrimenti deperisce. Oggi in Occidente non lo stiamo facendo».

La democrazia è lo stato perfetto, l’Eden della convivenza politica?

«È un processo continuo basato sul rispetto tra le persone, tra le persone e le istituzioni, tra le persone e le cose. Mira alla non discriminazione, riconoscendo i bisogni e i meriti».

La democrazia ha anche dei limiti, per esempio la lentezza delle decisioni?

«Certamente, perché prevede il confronto e il confronto rallenta, ma consente di giungere a decisioni utili alla comunità. Senza confronto si decide prima, ma molto spesso peggio. È necessario cambiare le vecchie procedure, e farlo rapidamente. Le soluzioni esistono».

Quando si parla di democrazia non è il caso di aggiungere l’aggettivo reale come si faceva per il socialismo?

«Parlerei  di democrazia effettiva più che reale. La democrazia effettiva è un bilanciamento tra rappresentanza e decisione. Anni fa fui criticato quando parlai di democrazia decidente, ma trovo che sia l’espressione giusta perché indica una democrazia capace di decidere e che non si limita a rappresentare».

T. S. Eliot diceva che spesso gli uomini «sognano sistemi così perfetti da non aver più bisogno di essere buoni». È un’espressione che somiglia a quella da lei citata del presidente americano James Madison: «Pensare che una forma di governo garantisca la libertà o la felicità senza alcuna virtù nella popolazione, è una chimera».

«Innanzitutto, la democrazia si considera imperfetta, mentre  le tirannie si  presumono perfette. Detto questo, la democrazia è un processo di continuo movimento, un andare avanti… anche se a volte si va indietro. Tornando a Madison, essa ha bisogno non solo di classi dirigenti democratiche, ma pure di cittadini democratici, che rispettino i propri doveri».

A proposito delle tirannie elettive lei segnala i pericoli di quelle capeggiate da Vladimir Putin, Viktor Orbán e Recep Tayyp Erdogan, non sarebbe corretto parlare al plurale anche delle democrazie, così diverse in Germania, in Francia o in Gran Bretagna?

«Infatti. Le tirannie sono tutte uguali, le democrazie sono tutte diverse».

La democrazia decidente è un compromesso tra le tirannie elettive e le democrazie solo rappresentative?

«Non è un compromesso, ma è la vera democrazia. È un sistema  che ascolta al fine di decidere; non è un sistema che ascolta al fine di ascoltare».

L’obiettivo è governare.

«E quindi decidere. Che vuol dire scegliere, ovvero sacrificare alcuni interessi e favorirne altri».

Il presidenzialismo o un forte cancellierato potrebbero essere la soluzione?

«Il presidenzialismo, nelle sue varie forme, era un buon sistema fino a vent’anni fa, quando le società erano pacificate e non avevano bisogno di arbitri. Questo perché il presidenzialismo è un sistema duro: chi vince governa, chi perde va a casa. Oggi probabilmente non è più adeguato. Pensi al sistema americano dove alle camere si dovrebbe realizzare il bilanciamento dei poteri rispetto al Presidente. Invece  al Senato si istruisce il processo a Donald Trump mentre alla Camera la maggioranza repubblicana vuole processare Joe Biden o suo figlio. In Francia il presidente Emmanuel Macron ha tutta la società contro. In Brasile abbiamo avuto il caso di Jair Bolsonaro, un tipico esempio di presidenzialismo populista. Trovo che il cancellierato su modello tedesco sarebbe il sistema migliore anche per l’Italia».

In Germania c’è una legge elettorale proporzionale, dovremmo recuperarla anche noi?

«Si può anche fare, non c’è un sistema migliore degli altri. Il proporzionale favorisce il rapporto tra i partiti e la società e nella nostra attuale situazione potrebbe essere utile. Con partiti forti è più efficace il maggioritario, con partiti deboli quello proporzionale».

Lei indica l’assalto dei trumpiani a Capitol Hill e la rivolta dei seguaci di Bolsonaro come esempi di azioni antidemocratiche. Sono episodi estemporanei o vere minacce per la democrazia?

«Sono manifestazioni proprie delle  società non pacificate».

Quindi episodi contingenti?

«Bisogna attendere. Non sappiamo che effetti avrà sulla società americana il processo a Trump. Non sappiamo quali conseguenze avrà la ribellione a Macron, il cui governo ha superato la mozione di sfiducia per soli nove voti».

I vari populismi e l’affermarsi di partiti e movimenti sovranisti sono una reazione alla presunzione di superiorità delle élites?

«Distinguerei tra sovranismo e populismo. Il populismo individua problemi giusti offrendo soluzioni sbagliate. Mentre il sovranismo è la tendenza a rendere prioritari fattori nazionalisti. Così facendo degenera spesso nell’autoritarismo».

Le élites hanno responsabilità in queste evoluzioni?

«Le élites sono necessarie. L’importante è che non siano elitiste, cioè che vivano il loro essere élites come una responsabilità e non come un privilegio».

Non c’è un po’ di ingenuità in questa fiducia? Parafrasando Giulio Andreotti, chi ha il potere se lo tiene stretto.

«Le élite ci sono dappertutto, nella politica, nel giornalismo, nella ricerca scientifica… Non necessariamente esercitano un hard power. Spesso si tratta di soft power, di capacità d’indirizzo e di orientamento. L’importante è che le élites non si sentano tali e quindi non si mettano al vertice di una scala gerarchica. A quel punto sono solo oligarchie».

Resto scettico guardando a ciò che accade nel nostro Paese.

«Dovremmo saper distinguere tra élites e oligarchie».

Quanto è sottile la linea di separazione?

«Trovo che ci sia un confine solido: l’élite persuade, l’oligarchia comanda».

Sempre in linea teorica.

«La teoria è indispensabile per la pratica».

Le spinte populiste sono state prima un segnale e ora una reazione all’illusione della globalizzazione a guida occidentale?

«L’assalto alla Camera dei militanti trumpiani e l’invito dei “bolsonari” all’insurrezione delle forze armate in Brasile sono la conseguenza della mancata cura della democrazia. Di diversa natura è il tema della presunzione dell’Occidente di guidare la globalizzazione. È in corso la sostituzione della globalizzazione tradizionale, fondata sui mercati, con una nuova globalizzazione fondata sull’alta tecnologia».

La chiama «reintermediazione». Quanto è temibile per la democrazia il potere degli algoritmi e dei grandi marchi digitali come Apple, Microsoft, Amazon?

«Le regole europee cercano di regolare  questi oligopoli».

Per l’esercizio della democrazia è da considerare più subdolo il capitalismo o il totalitarismo della sorveglianza?

«La sorveglianza è di per sé un rischio. Ma l’esperienza ci dice che c’è più libertà nei paesi  con economie di carattere capitalistico, che in Cina o in Russia».

Nei sistemi occidentali la qualità della democrazia andrebbe correlata anche con la composizione del potere che controlla i media?

«La libertà dei mezzi di comunicazione è essenziale per il funzionamento della democrazia. Non a caso i primi poteri che i sistemi autoritari attaccano sono quello dei media e della magistratura, ovvero i poteri di controllo».

Come giudica il fatto che il rapporto di Worlds of Journalism Study (Columbia University Press, 2019) ha evidenziato che l’Italia ha i giornalisti più orientati a sinistra di tutta Europa?

«Segno che  la sinistra ha fatto un buon lavoro».

Lei cita l’instabilità dei governi italiani come fattore di debolezza democratica. Cosa si può dire del fatto che per un decennio, salvo l’anno del Conte 1, il Partito democratico ha sempre governato pur avendo perso le elezioni?

«Evidentemente è un partito capace di costruire le alleanze. Non dico che governare senza vincere le elezioni sia un fatto positivo, ma nelle democrazie parlamentari può accadere».

In questo caso élite e gruppo di potere coincidono?

«A volte coincidono, ma non sempre; le élites tendono a persuadere, non a prevaricare».

La persuasione si riscontra nel voto.

«Per governare, oltre al voto, serve la capacità di costruire alleanze».

Qual è il suo pensiero sui primi passi della neo segretaria Elly Schlein?

«È ancora presto per giudicare. Sta revisionando la macchina, non ha ancora cominciato a guidarla».

Però la segreteria l’ha composta.

«Quella è la macchina».

 E com’è?

«Le macchine si giudicano quando corrono, non quando stanno ferme».

Con Elly Schlein la trasformazione del vecchio Pci in partito radicale di massa profetizzata da Augusto Del Noce sarà più rapida?

«Non ho mai condiviso quella definizione anche perché a volte il Pd è stato un partito moderato di massa».

Con Matteo Renzi, per esempio, ma poi ha ripreso la direzione dei diritti civili: ora potrebbe accelerare?

«Un grande partito deve parlare anche di doveri senza i quali non c’è comunità. Se non bilanciati dai doveri, i diritti diventano un’illusione».

Identificare i desideri con i diritti può essere una minaccia alla corretta gestione del bene comune?

«I desideri interessano i singoli; i diritti investono la comunità e le sue istituzioni. Perciò i desideri non possono diventare automaticamente diritti».

Che sorte avranno a suo avviso i cattolici in questo Pd?

«Non sono cattolico, ma penso che  la cultura cattolica democratica è essenziale perché ci sia il Pd; altrimenti ci sarà un partito diverso».

La priorità che Elly Schlein sta dando ai diritti civili è la strada giusta per «riconnettersi con chi non ce la fa» come auspicò Enrico Letta subito dopo lo spoglio elettorale?

«In alcuni casi, come le madri che devono crescere i figli in carcere, la risposta è positiva. Ma le comunità che chiedono diritti sociali sono più ampie e più profonde rispetto a quelle che chiedono più diritti individuali. Io penso alla centralità della formazione delle giovani generazioni per una politica capace di rispondere ai bisogni e valorizzare i meriti».

 

 La Verità, 14 aprile 2023 

 

 

«Con il ddl Zan cattolici a rischio discriminazione»

Massimo Introvigne è uno studioso di profilo internazionale non fosse altro per la specializzazione in sociologia delle religioni. È autore di una settantina di volumi sul pluralismo religioso e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur). Nel 2011 è stato rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Dal 2016 vive e lavora in Toscana. È la persona giusta a cui chiedere un giudizio sul dibattito a proposito dei cattolici che, amando un dio bambino, rifiuterebbero la complessità.

Professor Introvigne, cosa pensa dell’articolo di Michela Murgia sull’infantilismo dei cattolici?

«Scrivo anch’io sui quotidiani e so che la titolazione di solito non è opera degli autori. In questo caso mi sembra si sia scelto un tono impropriamente aggressivo per provocare, devo dire con successo, un dibattito sugli altri giornali, il Web e i social. Ma Il titolo non corrisponde all’articolo, che contiene alcune argomentazioni condivisibili, altre in parte condivisibili e altre ancora decisamente problematiche».

Tra queste ultime c’è che l’accusa d’infantilismo dovrebbe riguardare tutti i cristiani e non solo i cattolici?

«Diversi elementi fanno ritenere che l’autrice non sia esattamente una specialista di religioni comparate. Gliene dico tre, per me clamorosi. Il primo è quando la Murgia scrive che nel cristianesimo non cattolico non ci sono bambini Gesù se non in una chiesa di Praga».

È un passaggio un po’ ambiguo.

«Come leggo io il testo sembra che quel Bambino sia un’immagine protestante mentre, non solo è cattolica, ma fu introdotta in Boemia proprio in funzione anti-protestante».

Il secondo elemento errato?

«È là dove dice che nel mondo protestante non c’è un’iconografia sulla nascita di Gesù. In realtà, nel protestantesimo c’è pochissima iconografia in generale perché è una confessione tendenzialmente iconoclasta. Tra i protestanti conta di più la parola, si segue più l’arte letteraria di quella figurativa. Nella loro letteratura si trovano molti riferimenti al Bambino, come per esempio in Notte santa, una famosa poesia di Elizabeth Barrett Browning colma di tenerezza verso il piccolo Gesù».

Qual è il terzo errore della Murgia?

«Sembra non parlare soltanto di confessioni non cristiane quando afferma che solo tra i cattolici c’è la devozione a un dio bambino. Un sociologo e specialista di religioni comparate come me salta sulla sedia perché fuori dal cristianesimo le divinità bambine abbondano, a cominciare dal Krishna induista, spesso raffigurato come un bambino».

Sul fatto che i cattolici costruiscano attorno alla nascita di Dio «una retorica di tenerezza zuccherosa» invece ha ragione?

«È una delle affermazioni parzialmente condivisibili. Esiste il rischio di censurare il fatto che la nascita di Dio sia un susseguirsi di avvenimenti tragici. A tutti sono simpatici i Re Magi, ma la loro storia è inseparabile dalle trame di Erode e dalla strage di innocenti, cioè bambini ammazzati con le sciabole e strade che si riempiono di sangue. A tutti è simpatico l’asinello della fuga in Egitto, ma c’è perché altrimenti Gesù sarebbe anche lui sgozzato. Naturalmente tutto questo si perde quando i Re Magi vengono venduti in sagome di cioccolato o di marzapane».

Quindi la Murgia ha ragione?

«Sì, ma la sua osservazione ha due limiti. Il primo è che tutti i simboli patiscono un’inevitabile banalizzazione. Per esempio, Ernesto Che Guevara è un personaggio che ha fatto una brutta fine, l’agonia notturna, la perdita di sangue, il colpo di grazia… Ma per un’ampia massa di persone è solo un’effigie su una maglietta o un asciugamano. Molti di coloro che indossano quella maglietta sanno solo vagamente chi era e quanto tragica sia stata la sua morte».

Anche l’uso di vezzeggiativi come «bambinello» e «pastorelli» sono una banalizzazione.

«Questo è il secondo limite del discorso della Murgia. Le religioni si presentano ai popoli attraverso narrative che si rivolgono anche al cuore, e al bambino che è in noi, non solo alla mente. Per esempio, poche religioni sono caratterizzate dalla complessità come il buddismo…».

Eppure…

«Basterebbe entrare in un ristorante cinese per vedere immagini del Budda che sembrano giocattoli prodotti nelle fabbriche della Repubblica popolare cinese, ufficialmente atea. Altre complessità banalizzate le troviamo in India nei fumetti, spesso ma non sempre di buona qualità, che illustrano l’induismo».

Una nascita in una capanna riscaldata dal fiato di animali, a quanto sappiamo senza donne che accudiscano la puerpera e con il neonato steso nella mangiatoia non è abbastanza complessa?

«Ha ragione. Ma tutte le narrative scritte e ancor più quelle figurative sono polisemantiche, cioè aperte a una pluralità d’interpretazioni. Di fronte ai Re Magi il biblista vede la storia tragica di Erode, un sociologo coglie un adombramento del rapporto fra religioni orientali e occidentali, un bambino di certe regioni della Germania, dove i regali li portano i tre Re, vede una specie di Babbo Natale».

Con tutto il rispetto per la polisemanticità, la complessità della situazione non è oggettiva?

«Forse la Murgia obietterebbe che, per esempio, non lo è per chi guarda un presepio napoletano del Settecento dove tutti sorridono e i pastori giocano con le caprette».

Ma questo è il contorno…

«Però ha una sua importanza. Tutte le religioni, tranne alcune forme di protestantesimo liberale, usano narrazioni diverse di cui hanno bisogno anche gli adulti, non solo i bambini. Benedetto XVI, al quale in questo momento va un pensiero affettuoso, ha rivelato che la storia del Natale non è idilliaca, ma molto complessa. Però ci sono momenti in cui anche l’adulto si commuove di fronte al presepe o al canto di Tu scendi dalle stelle che, al di là delle banalizzazioni, rimane un canto commovente. Se teniamo solo la complessità e togliamo le rappresentazioni rivolte al cuore ci avviciniamo a quel protestantesimo razionalista e freddo che rischia di sparire proprio perché l’uomo non è pura razionalità. Parlando di queste narrazioni, il filosofo marxista Ernst Bloch diceva che evocano “la patria che a tutti brilla nell’infanzia e in cui nessuno ancora fu”. Bloch non era credente, ma con questa espressione cercava di spiegare perché i credenti ci sono».

Pur con questi svarioni dell’autrice, il più grave forse è nel titolo: «I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità».

«Di solito le intestazioni sono opera dei titolisti. Non so se qui la Murgia ci abbia messo mano. È un titolo ingiustamente provocatorio nei confronti dei cattolici e contiene una solenne sciocchezza: da San Tommaso a Benedetto XVI abbondano i teologi che hanno spaccato il capello in undici teorizzando la complessità del Natale».

È un titolo che asfalta il mistero dell’incarnazione, una delle caratteristiche pregnanti del cristianesimo?

«La cui unicità tuttavia non va esagerata. Tra le tante religioni, quella del cristianesimo non è l’unica con un’incarnazione divina. Quando il Dalai Lama sta per morire, i monaci tibetani iniziano a cercare la nuova incarnazione in un bambino. Abbiamo citato l’esempio del Krishna induista raffigurato come un bambino, per altro piuttosto vivace. Anche dei fondatori di nuove religioni cinesi o coreane, a loro volta incarnazioni di divinità supreme, si racconta che facevano miracoli già da bambini».

Qual è lo scopo di un articolo di questo tenore?

«Il bersaglio è la Chiesa cattolica perché, nella visione dell’autrice, è abbarbicata a una visione conservatrice e patriarcale che si contrappone al femminismo e ribadisce che i sessi sono due e non tre o di più. Sono convinzioni che vagheggiano una modernità illuminata secondo la quale, per venire al mondo, i bambini non hanno bisogno solo di una mamma e un papà, ma magari anche di due mamme o due papà, oppure di una comune dove si pratica il poliamore, l’incontro amoroso tra più uomini e/o più donne. Tutto questo sarebbe in sé stesso più bello perché più complesso».

È corretto dire che la Sacra Famiglia è una famiglia di migranti?

«Quando va in Egitto è una famiglia di rifugiati, quando sta in Palestina è una famiglia reale. Guardando alla genealogia si vede che Giuseppe e Maria appartengono a una sorta di nobiltà decaduta, ma di stirpe reale. Anche in questo caso mi pare che la Murgia sbagli obiettivo perché non c’è una realtà, un’agenzia internazionale, che difenda gli immigrati più della Chiesa di papa Francesco. Forse può prendersela con Matteo Salvini che, però, non è la Chiesa cattolica».

Sbaglia bersaglio, tuttavia l’accusa peggiore è il rifiuto della complessità.

«Per chi le conosce, tutte le visioni del mondo sono complesse, mentre chi le ignora o le conosce da ritagli di giornale può ridurle a caricatura. Sono disponibile a riconoscere che la visione queer cara alla Murgia, dove la sessualità è diversificata in decine di sessi, può essere banalizzata da chi non la conosce. Non basta limitarsi a qualche slogan o a dire che chi la propugna vuole distruggere la famiglia tradizionale. Ma questo vale anche per il cattolicesimo, per l’induismo o, che so, la chiesa di Scientology. È insufficiente ridurle allo stereotipo di difensori di valori retrogradi e della società patriarcale».

In molti Paesi del mondo i cristiani continuano a subire persecuzioni. In Italia e in Europa si vanno espandendo forme d’intolleranza e di razzismo culturale nei confronti del cristianesimo?

«Quando ero rappresentante dell’Osce ho proposto di distinguere tra intolleranza, discriminazione e persecuzione riguardo al cristianesimo. Quest’ultima esiste in alcuni regimi totalitari come il Nicaragua, denunciato di recente anche dalla Santa sede. In Europa e in Italia ci troviamo nella fattispecie dell’intolleranza. Essa deriva dal fatto che nei media e negli enti produttori di cultura c’è una maggioranza di persone ostili o critiche verso il cristianesimo che può favorire un clima di antipatia. Rodney Stark, importante sociologo protestante americano, ha dedicato anni di studi a questo fenomeno. La discriminazione è un concetto giuridico che si attua con leggi e regolamenti che penalizzano i membri di una certa religione. È presente in Cina e in Russia, in Europa è rara. In Italia è stata sfiorata a causa del ddl Zan, disegno di legge su cui conviene vigilare perché può ridurre la libertà di espressione dei cristiani in materia di famiglia e sessualità».

 

La Verità, 31 dicembre 2022